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Newsletter aprile 2014 - Forche Caudine - Il sito dei romani …forchecaudine.com/documenti/Newsletter_aprile_2014.pdf · media le banche italiane hanno una leva di 14 e quelle europee

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FORCHE CAUDINE Associazione dei Romani

d’origine molisana

Notiziario dell’associazione edito dal 1989

Giampiero Castellotti

presidente

Donato Iannone vicepresidente

Gabriele Di Nucci segretario

Gianluigi Ciamarra

Giovanni Scacciavillani presidenti onorari

Fabio Scacciavillani

presidente com. scientifico

-----------------------------------

Supplemento al sito www.forchecaudine.com

testata giornalistica registrata il 30 maggio 2008 (n. 221) presso il Tribunale di Roma (già registrato il 9/1/90, n. 5 come periodico cartaceo).

Direttore: Giampiero Castellotti

WWW.FORCHECAUDINE.IT [email protected]

-------------------------------------

La Newsletter di Forche Caudine raggiunge 5.928 persone (30% Roma, 30% Molise,

20% resto d’Italia, 20% estero).

Inoltre numerose associazioni la inoltrano ai propri soci.

Per cancellazioni, anche in riferimento

alla legge sulla privacy: [email protected].

La collaborazione è gratuita.

“Forche Caudine” è realizzato per passione e senza fini di lucro.

Per le foto si ringrazia Tiziano Primerano

EDITORIALE

Non ci può essere sviluppo senza attenzione al territorio

In questo numero di

“Forche Caudine” parliamo innnanzitutto di montagna.

Perché spesso la politica, impegnata negli equilibrismi delle casacche e nell’assegnazione degli incarichi, perde il contatto con la realtà concreta delle cose. E il territorio montano è la caratteristica principale del Molise, con tutto quello che ne deriva.

Dopo la Val d’Aosta, il Molise è la regione più montuosa d’Italia. Per tanti aspetti ciò costituisce uno svantaggio, specie per le infrastrutture. Ma è necessario prendere atto di ciò per esaltare quei vantaggi che potrebbero derivare dalla morfologia del territorio. Come fanno, ad esempio, in Alto Adige.

E’ quindi inutile inseguire quei fattori di sviluppo – talvolta effimero - che caratterizzano la pianura e tentare di importarli sulle alture. Si pensi ad esempio alla motorizzazione spinta rispetto alle reti telematiche, o ai grandi complessi alberghieri al posto della ricettività diffusa, all’agricoltura intensiva a fronte delle tipicità o agli investimenti per il traffico privato a svantaggio di quello pubblico. Insomma, i modelli eolico selvaggio o manze della Granarolo. Il fallimento di tali politiche è nella rarefazione dei servizi territoriali.

Le buone pratiche parlano invece di proficui interventi incentrati - anche attraverso rigidi strumenti di programmazione - sullo sviluppo equilibrato, su condizioni ambientali competitive, su sostenibilità e green economy, su efficaci politiche urbanistiche impostate sulla conservazione ambientale, sulla salvaguardia della biodiversità, sulla promozione della qualità della produzione agricola, sulla valorizzazione del ruolo zootecnico dell’agricoltura montana, sullo sviluppo delle energie alternative non impattanti, sulla mobilità sostenibile, il tutto connesso alle risorse strategiche offerte dalla montagna e correlato alla sovranità dei territori.

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ARCHIBUGIO

Renzismo, atto primo

di GIAMPIERO CASTELLOTTI giornalista

Sulle freddure non ci sovrasta nessuno. E, nel

vuoto delle analisi autorevoli, supportate perlomeno da qualche numero attendibile, rimane soltanto l’inflazione di parodie in rete. Teatro dei poveri. Alimentate persino da politici guasconi a corto di altri argomenti. Così Matteo Renzi “resuscita” Giorgio Mastrota, leggendario televenditore di pentole e materassi. Le 150 auto blu all'asta su eBay forniscono il più efficace assist. Mentre il pesciolino rosso delle slide si presta al paragone con chi apre bocca senza dire nulla.

Eppure, al di là dell’indubbia grinta del premier che divide l’opinione pubblica e dei titoli di giornali compiacenti che utilizzano senza economia l’assioma “cura choc” (il cui secondo termine, però, a seconda del lettore non sempre ha un significato positivo), l’elenco dei primi provvedimenti governativi appare più un complicato e discutibile travaso di risorse tra provette che altro. Da una parte un adeguamento “europeo” della tassazione sulle rendite finanziarie (26 per cento), con gettito abbastanza aleatorio (si parla di 2,6 miliardi), e dall’altra l’auspicato taglio di Irpef e Irap, nella flebile speranza che non sia controbilanciato da subdoli balzelli.

Non è chiaro come tali interventi possano “allentare la morsa dell’austerità, creare lavoro e ridurre il debito pubblico”, come annunciato da molti esponenti politici, compreso il compagno di partito del premier, l’onnipresente Fassina.

L’idea che emerge da tale manovra è piuttosto quella di una confusa “monta a neve” dove annunci, cifre, settori e tempi vengono accomunati in una profonda indeterminatezza. Non a caso i promotori rimandano ai soliti decreti attuativi per i “dettagli”. Cioè per maggiore chiarezza.

Esemplare il caso di una voce non proprio trascurabile, quella della spending review, la revisione della spesa pubblica, su cui sta lavorando da tempo il commissario Carlo Cottarelli. Qui si parla di “una cifra compresa tra i tre e i sette miliardi di euro”, forbice non proprio trascurabile che fa venire il sospetto di una certa genericità degli obiettivi.

▲ Matteo Renzi

Sull’abolizione delle province, del Cnel, del Senato e sulla riduzione delle sedi regionali Rai (con sindacati già insorti) siamo agli annunci. Mentre si è solerti a far partire l’ennesima authority, quella contro la corruzione, presieduta dallo stesso factotum Renzi o a “cantierare” il piano-casa che finirà anche per accontentare i soliti palazzinari: riqualificare il tanto già esistente e inutilizzato, no?

Eppure dovrebbe essere proprio questo - gli sprechi nell’apparato pubblico - il terreno privilegiato per raccogliere risorse: tra il 1990 e il 2012 – dati Istat – le uscite correnti primarie della pubblica amministrazione sono cresciute del 151 per cento. Rispetto all’attività economica reale lievitata di appena il 21,82 per cento. L’andamento è analogamente in salita per le amministrazioni centrali (più 56 per cento), per le amministrazioni locali (più 157 per cento, con Sanità e Province che fanno la parte del leone per crescita, quindi Comuni e Regioni) e soprattutto per gli enti previdenziali. Qui si registra un più 243 per cento nel periodo considerato, pari, in termini reali, ad oltre sei volte e mezzo il Pil. Il problema è che nessuno pone la demografia al centro della discussione politica in un Paese in cui il numero di anziani continua a lievitare. Ma è noto che nell’intoccabile spesa pubblica si radichi il consenso.

Si tratta ovviamente di tagliare la “spesa cattiva”, quel tanto di inutile e di dannoso che alligna nell’amministrazione pubblica, salvaguardando e anzi incrementando i servizi essenziali. Viceversa, per le risorse non si toccano i privilegi, ma si beneficia di congiunture “casualmente” favorevoli. Ad esempio si ricorre ai margini per arrivare alla soglia del 3 per cento del rapporto deficit/Pil, che secondo Renzi oggi sarebbe al 2,6 per cento (6,4 miliardi disponibili). O si beneficia dello spread ai minimi. Dimenticando che altra musica suonerà dal prossimo anno con “l’obbligatoria” riduzione del debito, un salasso da non meno di 40 miliardi l’anno per vent’anni. Profumi e controprofumi da vigilia elettorale.

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GENS

L’ago che sgonfierà la bolla finanziaria

di FABIO SCACCIAVILLANI economista

Cosa succederà quando le Banche centrali

dovranno invertire le misure eccezionali messe in piedi per tamponare la Grande Crisi? I banchieri centrali professano fiducia nelle proprie taumaturgiche capacità di gestire la transizione come tanti Von Karajan, con i tassi e direttive al posto della bacchetta, a cui risponderà con brio l’orchestra di banche, investitori, consumatori, imprenditori e persino ministri. E se invece dei Berliner Philharmoniker si scoprissero alle prese con gli orchestrali disfunzionali immortalati da Fellini in Prova d’Orchestra? Le Banche centrali sembrano affidarsi (come la cavalleria polacca contro i panzer) a strategie e strumenti adeguati per il secolo scorso, nonostante i meccanismi di trasmissione della politica monetaria siano sfuggiti da tempo al controllo delle autorità monetarie. Mentre una volta la creazione di liquidità era determinata dalla riserva obbligatoria sui depositi e dalle operazioni tra banche commerciali e banca centrale, oggi essa si alimenta in modi eclettici, endogeni al sistema finanziario. In primis nel mercato dei prestiti collateralizzati (i repurchase agreements, in gergo “repo”) con scadenza da un giorno a qualche mese dove operano oltre a banche private, fondi monetari, hedge fund, e altri intermediari atipici. Il detentore di un titolo può darlo in pegno per un prestito e lo stesso titolo può essere dato in pegno più volte (re-ipotecazione). Si determina un effetto a catena che, per ogni dollaro di titoli arriva a generarne fino a tre di prestiti (in teoria garantiti), e su cui la banca centrale influisce poco. Conta l’haircut, cioè la frazione del valore di mercato del titolo chiesta in garanzia e il tasso di interesse repo, entrambi stabiliti da accordi tra i contraenti. Questa liquidità poi si diffonde attraverso ulteriori meandri dello shadow banking, il sistema bancario ombra. Per esempio con tassi asfittici sulle obbligazioni AAA, i fondi pensione privati per assicurare un vitalizio decente ai membri si lanciano in investimenti “alternativi ” tipo i fondi di private equity. Un fondo di private equity che riceva un euro di capitale riesce ad ottenere un prestito addizionale di tre euro.

◄ Fabio Scacciavillani

Se questi tre euro sono impiegati per un aumento di capitale in un’azienda, questa a sua volta potrebbe indebitarsi di almeno un altro euro. Quindi da un euro si arrivano a generare quattro euro di debiti. In questa girandola il settore bancario è coinvolto fino al collo, oggi come prima del 2008. La Banca d’Italia conferma che in media le banche italiane hanno una leva di 14 e quelle europee di 20. Significa che per dieci euro di capitale le banche europee hanno (in media) attivi per 200 euro. Il nodo cruciale è l’effetto che la massa di crediti ha sull’economia reale. Se la tecnologia e la produttività rimangono inalterate, cioè se questo credito non stimola la crescita reale di lungo periodo, è semplicemente aumentato il rischio complessivo: se un investimento va male l’effetto contagio deflagra in modo più dirompente perché il contagio è più rapido. Insomma se il credito viene usato per comprare azioni o contratti futures su materie prime nell’aspettativa (avulsa da fondamenti concreti) di corsi in aumento, si gonfia quella che comunemente si definisce bolla speculativa. Mantenendo i tassi di interesse a zero e – soprattutto – imbottendo il propri bilanci di debiti sovrani e titoli di dubbia qualità, la banca gonfia i prezzi e garantisce implicitamente asset che poi vengono scontati allegramente nelle repo oppure per imbellettare i bilanci. Cosa succede quando la Banca centrale aumenta i tassi di interesse? Il valore delle obbligazioni scende e quindi la creazione di liquidità endogena si attenua. Ma se la politica monetaria ha innescato principalmente una girandola nei mercati finanziari, la stretta ha effetti drastici perché tutti capiscono che la catena di Sant’Antonio sta per spezzarsi. Quindi le repo si prosciugano, chi ha una leva alta subisce perdite devastanti, i debitori più esposti diventano insolventi, la fiducia evapora e il ritornello cantato a Madama la Marchesa si strozza in gola. Gli effetti della politica monetaria e del quantitative easing, cioè l’espansione del bilancio delle banche centrali, sono fortemente asimmetrici, specie quando alimentano aspettative pompate da analisti che confondono i fogli Excel con la realtà, dalla prospettiva di bonus milionari e dall’idea che l’economia reale si stimoli con operazioni di finanza creativa tra governo e banche centrali.

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RAGIONANDO

Il fine delle imposte

di UMBERTO BERARDO professore

Nel corso della storia i cittadini delle comunità più

evolute hanno compreso che per garantire a tutti i servizi essenziali occorreva associarsi e sostenerne insieme i costi. Sono nate così le imposte, il cui fine è appunto quello di fornire alla collettività i servizi pubblici a sostegno di un'esistenza dignitosa per tutti. L'articolo 53 della Costituzione è di una chiarezza incontrovertibile: "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Come tanti altri, anche tale articolo non viene applicato secondo criteri di giustizia, non solo perché l'imposizione della tassazione non segue la progressività della ricchezza, ma anche e soprattutto per la ragione che le spese pubbliche non sono destinate prioritariamente ai servizi fondamentali per migliorare la qualità della vita di tutti, ma spesso disperse irrazionalmente nel pagamento di un'elefantiaca pubblica amministrazione o, peggio ancora, in retribuzioni privilegiate e scandalose di manager ed amministratori e perfino nella corruzione che ingoia denaro pubblico senza più alcuno scrupolo di natura etica. Chi paga onestamente le imposte non solo ha il diritto di chiedere che vengano perseguiti i reati di evasione fiscale, ma anche che il fine primario delle entrate dello Stato sia quello di fornire a tutti, senza distinzione alcuna, servizi di buona qualità per la vita quotidiana. Purtroppo dobbiamo costatare che tali esigenze dei cittadini vengono sistematicamente disattese. Le aliquote d'imposta di un lavoratore dipendente sono molto più alte di quelle relative, ad esempio, ai dividendi finanziari; l'evasione e l'elusione fiscale aumentano; i servizi sul territorio presentano differenziazioni qualitative spaventose. In talune regioni la rete stradale è efficientissima, mentre in altre ci sono comunità isolate letteralmente da frane. Paradossalmente gli evasori ed i privilegiati dal sistema fiscale vivono agiatamente, mentre chi paga onestamente le tasse non solo si sta impoverendo, ma, se vive in certe aree del Paese, rischia di vedersi escluso da taluni servizi essenziali. Chi come noi ha scelto di risiedere a Duronia è privo di una medicina territoriale decente, ha un ordine pubblico che fa fatica a tutelare la sicurezza, usufruisce di una rete stradale che non è solo disastrata, ma sta diventando un pericolo per l'incolumità di chi viaggia in auto, fa riferimento ad un sistema scolastico sempre più dequalificato, sta assistendo ad un degrado ambientale e paesaggistico indescrivibile, vede un ridimensionamento del servizio postale e l'assoluta inefficienza del trasporto pubblico, si sente ancora profondamente isolato per una rete telematica priva ancora della banda larga pure promessa da anni dai pubblici amministratori, è profondamente preoccupato per una mancanza di lavoro che sta spingendo nuovamente i giovani verso l'emigrazione.

▲ Umberto Berardo a Duronia (Campobasso)

Come è tollerabile che chi si muove da una piccola comunità come la nostra debba percorrere verso Campobasso una strada provinciale piena di buche, dossi ed avvallamenti pericolosissimi ed impiegare circa quarantacinque minuti, mentre potrebbe ridurre notevolmente i tempi di percorrenza se solo si aprissero nuove fondo valli già esistenti o almeno si rendessero accettabili le arterie esistenti? Dove sono gli amministratori pubblici rispetto al degrado delle rete stradale ed a tali ridicoli interventi? Le esemplificazioni sono solo indicative, ma potrebbero essere allargate a tante altre realtà del Molise. Chi paga le tasse e si muove già verso i centri più popolati della regione o verso altre realtà territoriali nota con immediatezza che i servizi per i quali anche lui è contribuente altrove sono non diciamo ottimali, ma sicuramente enormemente più efficienti. Per rivendicare tali diritti nella nostra regione dobbiamo ancora dare credito ad una classe dirigente e ad amministratori che non riescono da anni a darci un piano sanitario accettabile, non sono in grado di presentare un progetto di sviluppo per il Molise, pensano alle autostrade piuttosto che migliorare la viabilità ordinaria interna ed aprire strade già realizzate, lottano per i propri feudi elettorali e, sola eccezione in Italia, non sono in grado neppure di dimensionare razionalmente la rete scolastica sul territorio? Questa illusione l'abbiamo abbandonata da anni. Non essendo figli di un dio minore, dovremmo comunque rifiutare l'inefficienza di una classe dirigente che pone talune aree territoriali ed i relativi cittadini in un vero e proprio stato di abbandono. Pensiamo allora che i sistemi per la realizzazione di servizi pubblici fondamentali sul territorio debbano necessariamente passare attraverso un'organizzazione dei cittadini a rete per condurre una lotta contro il degrado della vita nella regione ed ottenere quello che ci è dovuto come contribuenti. Le rivendicazioni saranno ovviamente non violente, ma dovranno trovare strategie in grado di muovere decisioni tempestive. Un'idea immediata? Forum sul territorio per segnalare disservizi, trovare rimedi e rivendicare una degna qualità di vita. Per quel che ci riguarda ci stiamo già lavorando ed approfondiremo a breve le iniziative.

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PRIMO PIANO

di TONY PALLADINO

Il Molise è soprattutto montagna. La sua storia, la sua cultura, le sue produzioni hanno nel dna il territorio montuoso nella sua incomparabile bellezza e nella sua “eccezionalità”, cioè nella “non ordinarietà”. Si tratta di luoghi, per fortuna, ancora per lo più selvaggi e quasi totalmente incontaminati. Ambienti affascinanti e per molti versi ostili. La loro forza identitaria è ancora rilevante, così come il loro valore simbolico. Purtroppo è però diffuso il (pre)concetto che il territorio montano sia costituito da aree marginali. Un’idea che si traduce, nella vita pratica, in norme che penalizzano le comunità d’altura. Eppure l'Italia è costituita da montagna e collina per il 74 per cento del territorio nazionale, caratteristica che la classifica come secondo Stato montano in Europa, preceduta soltanto dalla Svizzera che è totalmente montana. La maggior parte dei Comuni italiani è classificata montana, il 52 per cento degli 8.101 totali (anche se vi risiede solo il 18,3 per cento della popolazione). Soltanto tali percentuali basterebbero a dare un'idea di come sia necessario uscire dall’immagine di territorio marginale, dando atto che la montagna necessiti di leggi specifiche e non di deroghe.

Penalizzare la montagna significa non solo concorrere al suo spopolamento, ma equivale a favorire lo sfruttamento indiscriminato di risorse, ad alimentare il malaffare, esponendo tutto il territorio nazionale alle continue catastrofi e al dissesto idrogeologico. Quindi ogni alterazione dell’habitat montano, compreso lo svuotamento dei borghi, rischia di sopprimere culture e tradizioni millenarie dove l’uomo, nella sua naturalezza, è assoluto protagonista. Ogni lembo salvaguardato è sottrazione allo sviluppo sconsiderato, a catastrofici modelli contemporanei di comportamento in netta antitesi con quel senso della misura tipico delle comunità d’alta quota. La montagna rappresenta, infatti, uno dei simboli della fragilità e della potenzialità inespressa del Molise. Un patrimonio da salvaguardare, da promuovere e da far crescere secondo un nuovo modello di sviluppo attraverso sforzi congiunti di tutte le istituzioni che si occupano dei nostri territori. Occorre investire a monte per non intervenire in emergenza a valle e interrogarsi sui motivi che provocano lo spopolamento. Tutto ciò mentre il fascino della montagna, anche con le sue implicazioni spirituali, rischia oggi infelici mutazioni.

Il predominio della cultura urbana, la commercializzazione spinta dalla supremazia dei mercati, le logiche del marketing, i cicli dei prodotti e della concorrenza, la banalizzazione imposta dai culti estetici alimentano approcci di consumo estemporaneo e di usura. Le distese verdi diventano così, negli ultimi tempi, piste per i fuoristrada o i quad, parchi da riempire con “attrazioni” artificiali, mete di gite mediocri al pari della trasferta in gelateria, aree simili a palestre per performances sportive o a spiagge per prendere il sole. Tutto ciò annulla quei codici nobili, per quanto spesso inconsapevoli, che hanno caratterizzato la millenaria cultura pastorale, riducendo sempre più spesso un semplice spazio. Viceversa la montagna può appagare la crescente esigenza di libertà, anche in relazione al sempre più forte logorio che caratterizza la vita quotidiana nelle grandi città e nelle zone metropolitane. Lo sviluppo della montagna come risorsa deve tener conto non solo della domanda crescente di svago (anche culturale), ma soprattutto della logica di sviluppo sostenibile che eviti di trasformare questo eccezionale patrimonio in distese di inutile cemento sempre meno densamente abitate. ■

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PRIMOPIANO / LA MONTAGNA

Una risorsa d’inestimabile valore

Il Molise è territorio montano al 78%. Primato nazionale dopo la Val d’Aosta.

E’ questa la prima risorsa regionale

di GIOVANNI SCACCIAVILLANI

La “questione della montagna” è aperta da tempo in tutti i paesi sviluppati e soprattutto in Italia, dove i territori montani rappresentano una quota rilevante del territorio nazionale. Esempio di habitat decentrato, le zone di montagna costituiscono anche l’alternativa alla concentrazione urbana. La loro grande estensione e la densità di occupazione delle zone di pianura e delle aree di maggiore sviluppo economico, in qualche misura fanno auspicare il mantenimento di tali zone come habitat e spazio economico. Un’economia diversificata e dinamica, le strutture sociali moderne e la conservazione e difesa delle identità culturali, sono condizioni indispensabili per un popolamento decentrato. Il paesaggio culturale delle zone di montagna è caratterizzato dalle attività agricole e silvicole. L'utilizzo del suolo significa anche mantenimento di aree di riposo, sicurezza di vie di transito in montagna e protezione di installazioni per la produzione di energia. Inoltre, l'agricoltura e la silvicultura producono beni per il mercato e contribuiscono anche alla conservazione di specie animali e di varietà di essenze locali. Ma l'equilibrio delle zone di montagna è precario. E' per questo che tutte le attività umane devono rispondere al fondamentale criterio del rispetto dell'equilibrio naturale. In tale prospettiva, priorità deve essere riservata alla protezione da piene, inondazioni, valanghe, ecc., così come al corretto utilizzo dei potenziali naturali. Non dobbiamo dimenticare che le zone di montagna non sono solo uno spazio di vita per gli uomini, ma anche per le molte specie animali e vegetali. Il crescente interesse degli abitanti dei centri urbani verso la montagna è dovuto al fatto che essi trovano nelle zone montane un ambiente che permette il tempo libero e il riposo.

▲ La Chiesa di Sant’Egidio sulla montagna di Frosolone (Is)

▲ Lo splendido centro storico di Pietracupa (Campobasso)

poco più di 200 residenti a 700 metri d’altitudine -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Tutto ciò in contrapposizione ad una città sempre più caotica e per molti aspetti sempre meno “umana”. Ma anche come zona di riposo la nostra montagna necessita di infrastrutture e servizi adeguati (trasporti, alloggi, eliminazione di rifiuti, ecc.). Come dimostrano gli ultimi dati economici, il turismo è un mercato entro il quale la domanda è in crescita e le zone montane possono sviluppare la domanda turistica solo se il paesaggio culturale e l'ambiente naturale sono saggiamente ed organicamente conservati e se i montanari stessi ne curano l'organizzazione. La montagna molisana inoltre offre risorse energetiche rinnovabili, come il legname ed il potenziale idrico, che sono un utile complemento ad altre risorse energetiche limitate come il petrolio. Il mantenimento e lo sfruttamento di tali risorse esigono quindi investimenti importanti per il mantenimento a lungo termine di questo potenziale. Ma la foresta ha, oltre alla funzione di produzione anche quella di protezione e di prosperità per le vallate e i loro abitanti, di protezione del suolo, di riserva d'acqua, di filtro dell'aria e di biotopo per la fauna e la flora. Altre risorse di energia, quali quelle solari ed eoliche potranno avere una grande importanza per il futuro. In conclusione, non possiamo che auspicare una maggiore e migliore valorizzazione delle zone montane, anche perché ogni intervento pubblico in montagna significa anche la “restituzione” alla montagna dei benefici che essa genera per tutto il paese. ■

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PRIMOPIANO / LA MONTAGNA

Scuola d’altitudine

Gli istituti di montagna legano la comunità locale

con l'habitat naturale, aspetto precluso alle scuole di città.

Ma i problemi sono tanti…

di MICHELA DE REMIGIS

“La scuola di montagna non può essere pensata come semplice trasposizione del modello impoverito delle scuole di città. La dimensione incide sulla scuola non come fattore astratto: il ruolo della scuola per i bambini e per gli adulti è profondamente diverso in montagna e nei centri urbani. La scuola di montagna è diversa perché è diversa la vita in montagna: le modalità delle relazioni sociali, del sistema produttivo e della vita culturale sono profondamente diverse e la loro ricaduta sulle modalità con cui si possono ottenere alti risultati nel processo di istruzione è significativa. La scuola in montagna lega fortemente la comunità locale con l'habitat naturale, aspetto che purtroppo è precluso alle scuole di città e periferie urbane. Questo permette lo sviluppo del senso di identità collettivo, in un ambiente ecologicamente privilegiato, e pone le basi per la tutela della cultura, della storia e delle tradizioni locali”. E’ quanto si legge in un’intelligente proposta di documento in tema di scuola presentato alla prima conferenza programmatica Anci della montagna. Si fa notare come l’ambiente circostante, in montagna, funga da “aula aperta”. Quindi i ragazzi sviluppano un rapporto stretto e positivo con l'ambiente naturale perché hanno la possibilità di svolgere attività di movimento e di fruizione del territorio naturale, quindi conoscenza dello stesso. Si legge ancora nel documento: “La scuola in montagna non è l'edificio ‘separato’ dall'esterno: gli alunni e spesso anche gli insegnanti che sono costretti a dei lunghi viaggi per raggiungere il posto di lavoro, accolgono altri ‘maestri’ come gli anziani, gli agricoltori, gli artigiani a far lezione agli alunni e a se stessi. I ragazzi hanno autonomia negli spostamenti e gestione del tempo libero. La scuola diventa fattore di sviluppo culturale complessivo e agente principale della individuazione delle risorse locali, fungendo da centro di educazione per gli adulti per la formazione continua, inclusa la formazione professionale”. E’ noto come anche in Molise, il Comune e la scuola, soprattutto in montagna, sono le istituzioni più vicine ai cittadini e ne determinano l'aggiornamento e la crescita in termini politici e culturali. Sono i presidi socio-culturali di un territorio, attenti ai mutamenti e capaci di interagire nell'immediato con le persone. Rappresentano un binomio inscindibile, come sottolinea il documento Anci.

La presenza dell'uno senza l'altro rende il territorio profondamente penalizzato: un Comune è valorizzato ed economicamente più stabile se c'è una scuola; una comunità è più viva e ricca culturalmente se c'è una scuola. Su questi temi – ricorda il documento - il confronto in Italia è molto vivo, anche alla luce dell'articolo 16 della legge 148/11; basti pensare al Convegno di Sestino “Ripensare l'Appennino”, al Seminario nazionale di Montegabbione “Le scuole montane come presidi educativi di eccellenza” o ai progetti attivati nella zona dell'Alto Casertano-Matesino. I Comuni montani sono disponibili ad una programmazione territoriale consorziando funzioni, ma riconoscono alla scuola il ruolo di presidio culturale sul territorio (a volte l'unico presente) al quale non sono disposti a rinunciare. La specificità delle scuole nei comuni montani, dal punto di vista legislativo permane sia nel Piano Programmatico (relativo all'articolo 64 della legge 133/08) che nel Dpr 81/09. Il cambiamento importante che si registra rispetto alla normativa precedente – evidenzia il documento Anci - è l'innalzamento del parametro del numero di alunni necessari per l'attivazione della classe: per la scuola dell'infanzia si passa da 15 a 18 alunni per la possibile richiesta della sezione; per la scuola primaria da sei si passa a dieci per la costituzione della classe. ►►

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PRIMOPIANO / LA MONTAGNA

►► Inoltre l'attivazione della pluriclasse non prevede una regola speciale per le zone più fragili, ma viene assoggettate alla regola generale e quindi, anche nelle zone montane, la pluriclasse può essere istituita contenendo fino a 18 alunni. Questo significa, laddove i numeri sono esigui, caratteristica peculiare delle zone montane, una proliferazione di pluriclassi uniche e un impoverimento nella qualità della didattica e difficoltà nell'insegnamento, determinando situazioni di difficile gestione in quanto a numeri, dinamiche e problematiche.

Quindi le specificità delle zone montane sono passate in secondo piano, a fronte delle rilevanti problematiche che si trovano a gestire gli Uffici Scolastici Regionali con l'aumento di pluriclassi anche in territori non montani e classi sovraffollate nelle città, a causa dell'innalzamento dei limiti massimi della formazione delle classi. L'art. 19 della legge 111/11 impone alle Regioni il dimensionamento degli istituti. Il fatto particolare è che si hanno tre parametri: uno per i precedenti Comprensivi (minimo 300 per la montagna), uno per le Superiori (minimo 500) e uno per i nuovi Comprensivi (minimo 500). Quale sia la logica di tale differenziazione non si capisce. Inoltre nel Ddl di stabilità 2012, i parametri per l’assegnazione di dirigenti e Dsga alle scuole autonome salgono da 300 a 400 per le scuole di montagna e piccole isole. Una babele di numeri e parametri. Il documento prova invece a definire questa ottimale dimensione, sapendo che i parametri possono variare in rapporto a varie tipologie e a vari indicatori. Così se si guarda dal punto di vista dell’organizzazione – si fa giustamente notare - occorre prevedere che i servizi amministrativi non possono scendere al di sotto di una certa soglia: una segreteria funzionale ha bisogno di almeno cinque-sei impiegati (oggi si va da un minimo di due fino a quindici nei grandi istituti). Ma la complessità di una scuola non dipende dal numero di alunni, anche se questa incide certamente, non tale però da giustificare tale forbice. Dal punto di vista di quella che si può definire la “comunità professionale” (il numero dei docenti) è evidente che con un numero di insegnanti ridotto al minimo non c’è scambio, confronto adeguato e soprattutto non c’è ricerca, ma con comunità professionali troppo ampie (fino a 300 docenti) si finisce perfino per non conoscersi e i Collegi docenti divengono dei mini-parlamento, dove possono intervenire poche persone (i “capigruppo”). E allora anche qui occorrerebbe fissare una soglia.

Se si guarda dal punto di vista della dirigenza, occorre definire quali sono le “funzioni da presidiare”: quella amministrativo-gestionale, quella dei rapporti con il territorio o quella educativo-didattica. Non si può escludere nessuna, ma la dimensione dell’istituto va riferita alle concrete possibilità di presidiarle tutte e tre. E allora entrano in gioco non solo i parametri numerici ma anche quelli geografici: una piccola Scuola non consente un rapporto “forte” con il territorio, ma un megaistituto difficilmente consentirà al dirigente di occuparsi della qualità dell’offerta formativa, specie in presenza di molti plessi e di un territorio vasto (come in montagna).

Ultimo e non meno importante elemento che vale soprattutto per le scuole di base è il rapporto con il territorio: gli istituti comprensivi ad esempio devono riferirsi a un territorio omogeneo e non vanno costituiti accorpando realtà troppo diversificate . E quale parametro si considera quando si procede nell'accorpamento in istituti comprensivi laddove le scuole ricadono in Comuni con differente classificazione (totalmente montano, parzialmente montano, non montano)? Il documento si sofferma infine sulla “pluriclasse”, modalità didattica che presenta vantaggi e svantaggi. Esistono per essa diverse correnti di pensiero, ma solitamente viene data un'accezione negativa. “L’alternativa non può essere difendere l’esistente o chiudere la scuola; inoltre è noto come le pluriclassi, a determinate condizioni, possano essere considerate un ‘laboratorio didattico’ – si legge nel documento. “Un ambiente che può favorire l’apprendimento cooperativo, l’autonomia, la responsabilità, l’iniziativa, doti di cui c’è un gran bisogno per affrontare le complesse sfide cognitive e sociali del presente e del futuro. Partiamo dal presupposto che la classe di per sé è già una pluriclasse considerati i diversi livelli di apprendimento degli alunni. Inoltre visto l'innalzamento dei limiti numerici nella formazione delle classi, che può arrivare nella primaria fino a 29 bambini, dobbiamo interrogarci circa l'efficacia dell'azione educativa e sulla costruzione di conoscenza: è preferibile una classe numerosa in città o una pluriclasse in zona montana con il giusto rapporto alunni/insegnanti (interrogativo che preferiremmo non porci, ma che le condizioni date ci obbligano a formulare e a trovare risposta)? La scuola di montagna, grazie al fatto che da anni si trova a sperimentare le pluriclassi, è in questo momento un'esperienza avanzata e un laboratorio di esperienze e buone pratiche per tutte le scuole d'Italia. A causa dell'innalzamento dei limiti di alunni per classe, tuttavia le difficoltà sono aumentate sia in termini di apprendimento che di insegnamento e pertanto varie sono le condizioni da mettere come prioritarie perché la pluriclasse non assuma caratteristiche fortemente negative, e non sia percepita da alunni, docenti e genitori come una modalità di fare scuola di serie B. Per contrastare l'isolamento reale o percepito dalle comunità locali gli enti locali devono prevedere nell'ambito dei loro piani programmatici, iniziative sui territori che includano anche l'extra scuola, da realizzare di concerto con le associazioni e la società civile”. ■

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PRIMOPIANO / LA MONTAGNA

Scuola in Molise, il prossimo anno

307 alunni in meno

Il ministero ha consegnato alle organizzazioni sindacali i dati inerenti la previsione degli alunni nell’anno scolastico 2013-14. Mentre a livello nazionale si registra un aumento di quasi 34mila alunni grazie soprattutto ai cittadini stranieri, concentrato tra scuola primaria e secondaria di secondo grado (9.216 studenti in più alle elementari, un calo di 785 nella media ed un incremento di 25.546 studenti alle superiori), nel Molise invece continua il calo del numero di alunni, addirittura, in percentuale, la più consistente di tutto il Mezzogiorno e dell’intero Paese. Il territorio molisano si sta gradualmente desertificando e le scuole confermano il dato.

▲ Anni Venti. Gita di professori

al lago di Civitanova del Sannio (Isernia)

Il Molise dei centenari: cibo sano d’alta quota

di GABRIELE DI NUCCI

In Molise ci sono 120 centenari. Un’ottantina in provincia di Campobasso, la metà in quella d’Isernia. Per ogni uomo ci sono tre donne. Non male per una popolazione complessiva di poco più di 300mila residenti. Quelli che hanno più di 90 anni sono ben quattromila. Vita semplice, aria buona, cibo sano, per richiamare un po’ di luoghi comuni sulle cause di questo elisir di lunga vita associato soprattutto alle zone montane. Non è facile essere aggiornati su un calcolo così difficile e, talvolta, precario. Comunque fino a poco tempo fa a Capracotta, il borgo più alto del Molise, su 950 abitanti c’erano ben quattro centenari e venticinque ultranovantenni. Fratello e sorella. Amerigo e Raffaella Di Sozio. Lui 102 anni e lei cento. Insieme nella residenza per anziani di Santa Maria di Loreto. Poi don Costantino Carnevale, 101 anni, gran parte trascorsi a Sulmona. Infine la coetanea Leonilde Di Tella.

Ad Agnone Luigi Iarusso di candeline ne ha soffiate ben 105. Il coetaneo Nicandro Di Meo, altro recordman, nato a Filignano. Angelo Di Vincenzo, centenario di Rionero Sannitico, frazione Montalto. Carmelina Mainella, centenaria di Frosolone, frazione Acquevive. In provincia di Isernia il numero di centenari continua ad aumentare in maniera sensibile. Nell’intero Molise, dati del censimento Istat, dal 2001 al 2011 il numero degli ultracentenari è aumentato del 140,9 per cento. Non c’è da stupirsi di ciò perché anche tra i molisani a Roma i centenari non mancano. Con un primato: quello di Rita Marino, nata a Castropignano, residente nel quartiere San Giovanni: è morta qualche anno fa dopo essere giunta sulla soglia dei 110 anni. Perfettamente in salute e lucidissima. Il suo segreto: una tazza di scattone ogni sera.

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PRIMOPIANO / LA MONTAGNA

Un manifesto per lo sviluppo

Lo spazio rurale può davvero costituire fattore di crescita futura

per il nostro Paese? Le proposte dell’Unione dei Comuni montani…

a cura dell’UNCEM

Pubblichiamo il Manifesto per lo sviluppo della montagna redatto da Ugo Baldini, Enrico Borghi, Giancarlo Corò, Tommaso Dal Bosco e Paolo Gurisatti.

LE NUOVE FRONTIERE DELL’ECONOMIA GLOBALE - Il mondo è entrato in una fase di grandi cambiamenti. La geografia dello sviluppo è oggi segnata dall’irrompere di nuovi protagonisti – come Cina, India e Brasile – destinati a svolgere un ruolo sempre più importante nell’economia globale. Questo processo di allargamento dello sviluppo contiene molti aspetti positivi, in particolare la riduzione delle condizioni di indigenza e povertà assoluta in vaste aree della popolazione mondiale, ma pone anche inediti problemi di equilibrio tra domanda aggiuntiva di beni, e risorse disponibili. In questa prospettiva, risulta insostenibile l’idea di estendere il modello di sviluppo energivoro, del le grandi concentrazioni industriali, urbane e di servizio, che ha accompagnato la crescita economica dei paesi avanzati per gran parte del secolo scorso. Mentre non è difficile prevedere che le questioni energetiche, ambientali e della produzione alimentare saranno destinate ad assumere un peso crescente per lo sviluppo futuro. L’Italia, come tutti gli altri paesi, è chiamata a dare il proprio contributo di fronte a questi problemi. Il nostro Paese soffre da tempo di problemi di crescita e di competitività. Resiste nel gruppo G8 grazie al contributo di alcune componenti dinamiche del proprio sistema produttivo (le medie imprese industriali) e alla specializzazione internazionale in alcuni settori a media tecnologia ma in forte crescita nella domanda mondiale (servizi turistici, design e qualità manifatturiera, automazione). Ma non sta ancora realizzando i processi di innovazione che potrebbero rendere più sostenibile il posizionamento nella nuova concorrenza internazionale. Soprattutto, non ha ancora intrapreso il suo percorso di sviluppo dentro la green economy, che a seguito delle decisioni assunte dalla comunità internazionale (Kyoto e Europa 2020), ma anche di una nuova sensibilità etica dei consumatori, è destinata a diventare uno dei grandi driver dello sviluppo futuro.

▲ Campitello Matese (Campobasso)

MODELLI DI SVILUPPO E AGENDA POLITICA - I vincoli di Kyoto, i temi dell’ambiente e del risparmio energetico possono essere vissuti in diversi modi. Da un lato, come un “costo” a carico delle imprese e dei consumatori e, dunque, come una perdita di competitività; oppure, dall’altro, come strategia di innovazione per entrare in un nuovo e più “sostenibile” modello di crescita e di consumo. Efficienza energetica, produzione di energia da fonti rinnovabili, tecnologie green, turismo sostenibile, stanno già oggi diventando nuove frontiere dell’economia in diversi paesi. Molte imprese italiane potrebbero inserirsi produttivamente in questo nuovo modello di sviluppo, potendo in più contare su un vantaggio competitivo derivante dalla naturale ospitalità turistica del nostro territorio, dalla qualità del paesaggio rurale e delle città d’arte, dall’esistenza di sistemi ambientali – montagna, collina, litorali – di straordinario valore naturalistico e culturale. I tempi sono oggi maturi per inserire nell’agenda politica italiana progetti di sviluppo imprenditoriale e infrastrutturale finalizzati a trasformare il territorio in senso green. L’esempio dell’edilizia sostenibile, che si è diffusa in alcune aree del Paese, dimostra che il risparmio energetico è compatibile con una migliore qualità della residenza e, allo stesso tempo, con la valorizzazione economica del patrimonio immobiliare. MONTAGNA E SPAZIO RURALE COME FATTORI DI UN NUOVO SVILUPPO DELL’ITALIA - Negli ultimi 50 anni si sono manifestati in Italia rilevanti fenomeni di espansione delle aree urbane e metropolitane, a cui è corrisposto il progressivo abbandono della montagna e dei territori rurali meno accessibili. Questa polarizzazione territoriale dello sviluppo ha raggiunto limiti difficilmente superabili, se non a costi economici, ambientali e sociali insostenibili per tutto il Paese. ►►

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PRIMOPIANO / LA MONTAGNA

►► E’ arrivato il momento di invertire questo processo, facendo della montagna e dello spazio rurale i fattori di un nuovo sviluppo dell’Italia. La strategia di riequlibrio territoriale dello sviluppo non deve, tuttavia, essere confusa con le tradizionali logiche di sostegno ai territori in difficoltà. Al contrario, si tratta di guardare alla montagna e allo spazio rurale come straordinarie risorse per il rilancio di processi di crescita nazionale basati sulle filiere più innovative e promettenti anche dal punto di vista economico. Basti pensare alla produzione di energia da fonti rinnovabili (idroelettrico, solare, bio-masse, eolico, eccetera), alla riduzione di emissioni di CO2, alle produzioni alimentari tipiche e biologiche, al turismo culturale e naturalistico, alla bio-edilizia, ai sistemi di trasporto sostenibile, allo sviluppo intensivo di servizi alle persone e alle imprese basati sulle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Queste attività produttive possono trovare nella montagna e nello spazio rurale i territori ideali per crescere, contribuendo in questo modo a rilanciare l’Italia sulle frontiere più avanzate dell’innovazione e dello sviluppo sostenibile. Questo significa, perciò, un cambiamento di prospettiva nel guardare al ruolo della montagna e dello spazio rurale. Da aree marginali, a località centrali di un nuovo modello di sviluppo. Da luoghi di abbandono, a nuovi spazi di opportunità economica e sociale. Da condizioni di arretratezza che chiedono compensazioni economiche, a fattori di modernizzazione in grado di produrre servizi di mercato a domanda pagante. Da modelli insediativi in concorrenza con i sistemi urbani e metropolitani, alle complementarità ambientali, energetiche, sociali. Le aree montane e rurali possono, infatti, svolgere funzioni “produttive” paragonabili a quelle dei grandi parchi urbani, solitamente la parte più qualificata degli insediamenti metropolitani, e componente sempre più centrale per i bisogni e gli stili di consumo moderni. In questa parte del territorio può prendere forma un “programma di sviluppo” per l’Italia, che ha imprenditori capaci, prospettive di crescita promettenti, flussi di domanda crescente sia a livello locale come a scala globale. PER UN INSIEME DI COMUNITÀ SOSTENIBILI E SICURE - Ciò che si intende promuovere con questo manifesto non è solo un programma di sviluppo economico, ma anche di “rinascimento” civile e urbanistico del nostro Paese. La modifica dei flussi demografici e dei fenomeni migratori, stanno trasformando il nostro territorio anche dal punto di vista “urbanistico” e sociale. E’ fin troppo evidente osservare che, laddove prevale il modello spersonalizzante della grande concentrazione anonima, condominio, ghetto, ecc... anche le tensioni sociali sono più alte. Dove invece prevale il modello della “Comunità sostenibile e sicura” si assiste, sia pure con alcune inevitabili tensioni sociali e culturali, alla nascita di una “nuova modernità” basata sulla cittadinanza produttiva, l’integrazione sociale e una maggiore responsabilità verso i problemi energetici e ambientali. TRASFORMAZIONE DEI CONSUMI E DEI COMPORTAMENTI INDIVIDUALI - Stile di vita globale e funzioni imprenditoriali moderne, in linea con le nuove filiere del valore non sono in contrasto con strutture organizzative “decentrate”.

▲ Limosano (Campobasso)

Piccoli comuni dotati di servizi moderni e di qualità, villaggi turistici di montagna, alberghi diffusi, outlet commerciali, strade del gusto, parchi dello sport, fabbriche abbandonate e trasformate in centri culturali, città dell’innovazione... sono tutti luoghi nei quali si stanno sperimentando nuovi modelli di vita e di consumo, che integrano attività di terziario avanzato e residenza, produzioni agricole con servizi e tecnologie innovative applicate al turismo, allo sport, alla ristorazione, alla cultura e wellness. Non si tratta, perciò, di ostacolare i flussi migratori dalla città alla campagna, ma anche progetti “green” di ristrutturazione degli spazi urbani. In queste aree è presente una domanda qualificata e nuove infrastrutture di comunicazione, tecnologie abitative, sistemi di trasporto e servizi di ma nutazione sia pubblici che privati. Servizi e manutenzione-disegno del territorio come strumento di mobilitazione della società. DEMOCRAZIA E NUOVE ISTITUZIONI PER LA GOVERNANCE DEL TERRITORIO - L’Italia sta affrontando le trasformazione che abbiamo descritto sopra anche attraverso la riforma delle proprie istituzioni. Il “federalismo” fiscale e nuovi livelli di “sussidiarietà” tra regioni e territori sono oggi tema centrale nell’agenda di governo. La discussione è aperta, non solo in relazione agli aspetti di ordine amministrativo (che riguardano la struttura dei livelli decisionali, i gradi di autonomia e i contenuti della decisione politica), ma anche e soprattutto in relazione ai grandi temi della “produttività” del settore pubblico e dell’equilibrio tra pubblico e privato. Non c’è contraddizione tra modernità, sviluppo di funzioni urbane e cura del territorio “montano e rurale”. Anzi, proprio per il valore strategico di questa componente rilevante del Paese, proprio per la centralità futura del modello di “Comunità Sostenibile e Sicura”, i piccoli comuni e gli altri enti rappresentativi lanciano una propria specifica proposta per il federalismo italiano: trasformare le istituzioni oggi esistenti, da enti locali di distribuzione (centro di costo dello stato nazionale) a istituzioni di progetto (centri di profitto), agenzie di sviluppo, capaci di elaborare programmi di investimento autonomi. E’ tempo di cambiare non solo modello economico e sociale, ma anche il centro della politica italiana: dai soggetti della fabbrica e della città ai nuovi soggetti emergenti nei territori “green”. ■

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PRIMOPIANO / LA MONTAGNA

Spiritualità dell’altitudine, da Sant’Agostino a Evola

Il misticismo d’alta quota è presente in tutti i credo religiosi. La montagna è sede dell’incontro

tra il divino e l’umano, tra il terreno e il celeste

di TONY PALLADINO

La montagna come profonda metafora dell’esistenza, come ascensione dell’essere umano verso le altezze dello spirito, come luogo di eremitaggio. Tanti autori si sono cimentati su questi delicati temi, che affascinano schiere di appassionati delle altezze vissute non come semplice elemento turistico, sportivo o naturale, ma come vera e propria occasione di misticismo. In fondo in ogni religione, si pensi all’Islam, ma anche in molte culture laiche la montagna nella sua verticalità è cosa sacra. E’ sede dell’incontro tra il divino e l’umano, tra il terreno e il celeste. Sant’Agostino, uno dei più importanti teologi della Chiesa cattolica, nella spiegazione delle beatitudini collega il simbolismo evangelico del monte - sfondo di eventi centrali nella Bibbia (Golgota, Monte delle Beatitudini, Sinai, Tabor) - ai precetti dell’onestà: “Se qualcuno esaminerà con fede e serietà il discorso che nostro Signore Gesù Cristo ha proferito sulla montagna, come lo leggiamo nel Vangelo di Matteo, penso che vi riscontrerà la norma definitiva della vita cristiana per quanto attiene a un’ottima moralità – scrive il santo nato in Algeria. La scelta della montagna, emblema dell’elevazione, simbolo del trascendente, non è quindi casuale. Chiarisce il cardinale Gianfranco Ravasi: “La montagna è lo staccarsi dalla banalità, dalla superficialità, dalla quotidianità per cercare di interrogarsi sulle questioni fondamentali dell’esistenza. Per il cristianesimo è un elemento più radicale, perché è la scoperta, attraverso il silenzio, attraverso la contemplazione della natura, di una parola e di una presenza che ci supera: è la parola e la presenza di Dio. La montagna è quasi il luogo ideale per poterla percepire. E’ come una sorta di monastero dello Spirito in cui si entra rompendo l’itinerario che abbiamo vissuto durante il resto dell’anno nella città. Tutti i grandi eventi di rivelazione, le grandi ‘epifanie’ della Bibbia sono state su una montagna. Dio ci parla dal monte, ma il monte non è soltanto una questione orografica. E’ invece un atteggiamento dello spirito”. Francesco Petrarca il 26 aprile 1335 salì in cima al Monte Ventoso in Provenza e qui, dopo aver letto un passo delle Confessioni di Sant’Agostino, pone in dubbio la sua prova d’interpretare la scalata del monte come forma d’ascesa dell’anima alla vita beata.

▲ Il discorso della montagna, celebre dipinto

del pittore danese Heinrich Bloch ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Friedrich Nietzsche, nel prologo di “E così parlò Zarathustra”, la sua più celebre opera, rinnova la tradizione plurimillenaria che lega montagna alle rivelazioni salvifiche per l’uomo: Vi si legge: “Giunto a trent’anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago del suo paese, e andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della solitudine, né per dieci anni se ne stancò. Alla fine si trasformò il suo cuore e un mattino egli si alzò insieme all’aurora, si fece al cospetto del sole e così gli parlò”. Un altro autore che s’è a lungo soffermato sulla spiritualità della montagna, dedicandovi un saggio, è il barone Julius Evola, filosofo romano caro alla destra più estrema. Tuttavia precisa, sin dalla premessa del suo lavoro, che si è propensi ad introdurre con troppa facilità lo “spirito” un po’ dappertutto, “quasi come una specie di salsa destinata a condire compiacentemente ogni sorta di ingredienti”. E aggiunge: “cosa che, peraltro, sta in singolare contrasto con un fatto assai positivo, cioè con la constatazione, che se vi è un'epoca pressoché priva di visuali e di principi veramente trascendenti, essa è proprio l'epoca contemporanea”. ►►

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PRIMOPIANO / LA MONTAGNA

►► Cosa dice in sostanza Evola? Che la spiritualità della montagna corrisponde a ciò che, nel senso più alto, severo e universale, può chiamarsi una tradizione. “Dai tempi più remoti – scrive il filosofo - in quasi tutte le civiltà, la montagna valse uniformemente come simbolo di stati interiori trascendenti e come sede allegorica di nature divine, di eroi, in genere di esseri trasfigurati e portati di là dalla condizione umana: tanto che l’ascendere le vette o l’essere rapito nelle vette nei miti più varii dell'umanità tradizionale figura secondo il valore di un misterioso processo di superamento, di integrazione spirituale, di partecipazione alla ‘super vita’ olimpica e all'immortalità”.

Evola va più nel dettaglio, focalizzando e in un certo senso smontando le interpretazioni più correnti della spiritualità della montagna, circoscrivendone la portata per subordinare via via i punti di vista condizionati ad un punto di vista assoluto. Così analizza l’assunzione “lirica”, quella adottata dal mondo della retorica letteraria e della “poesia in senso cattivo”, cioè sentimentalismo borghese e idealismo convenzionale e stereotipo. E’ la montagna-panorama vista da lontano “con tutti gli aggeggi del ‘pittoresco’ più di dubbio gusto”. Estetica vuota, residuo del romanticismo ottocentesco, secondo il filosofo romano. Poi analizza la spiritualità della montagna concepita in termini di naturismo, concezione soprattutto tedesca e opposta alla precedente. Qui la natura è anticittà, una sorta di “misticismo primitivista della natura e della vita sportiva in natura”. Come terzo punto si sofferma sull’alpinismo, ma potrebbe essere esteso ad altre attività fisiche: la montagna è “disciplina dei nervi e del corpo, ardimento lucido, spirito di conquista e insomma impulso all'azione pura in un ambiente di pure forze”.

Evola riconosce in ciò un alto valore educativo, tuttavia ritiene che si possa andare oltre una mera sensazione frutto dell’esasperazione di una percezione puramente fisica. L’elemento emotivo deve costituire – secondo il filosofo – un elemento di partenza e non di arrivo, un mezzo e non un fine. Qui Evola arriva al “possente messaggio interiore” direttamente evidente in tutto quel che la natura alpina “ha di più non-umano, quasi di distruttivo e di sgomentante nella sua grandezza, nella sua solitudine, nella sua inaccessibilità, nel suo immane silenzio, nella primordialità scatenata delle sue tempeste, nella sua immutabilità attraverso il monotono susseguirsi delle stagioni e il vano alternarsi delle caligini e dei liberi cieli solari: vicenda infondente il senso più immediato di quel che è caduco e che come tale si eclissa di fronte ad un presentimento dell'eterno”. La montagna agisce come “simbolo” e come tale, si augura il filosofo, potrebbe avviare ad una realizzazione interiore corrispondente. Insomma l’uomo deve oltrepassare il puro aspetto emotivo, che ha il carattere più di un turbamento che non quello di una conquista, di una conoscenza, di una subcoscienza: si troverebbe così inserito in una realtà più vasta e da essa riceverebbe non solo trasfigurazione in senso di calma, sufficienza, semplicità, purezza, ma anche un afflusso quasi sovranormale di energie, “insuscettibile ad essere spiegato con i fallaci determinismi della fisiologia”, un’indomabile volontà di procedere ancora, di sfidare nuove altezze, nuovi abissi, poiché appunto in ciò si traduce l’inadeguatezza dell’azione materiale rispetto al significato che ormai l’anima, la trascendenza dell’impulso spirituale rispetto alle condizioni esterne, alle imprese, alle visioni, alle audacie. In sostanza la trasformazione dell'esperienza della montagna diventa un modo d'essere. ■

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MOLISE DA VISITARE

Frosolone, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie

Un gioiello cinquecentesco con uno splendido altare ligneo

di scuola napoletana

di SILVIO PREZIOSO

Si può pensare che le Chiese e i Conventi chiuse per legge di soppressione siano rimasti in uno stato di abbandono, mentre si deve constatare, che dopo la partenza dei Cappuccini si è fatto di tutto da parte dei fedeli per conservare le Chiese nello stato in cui furono lasciate, senza distruggerne la forma primitiva. Come pure per i Conventi, benchè adibiti ad usi vari, hanno sempre conservata la struttura cappuccina. Questo si può dire in modo particolare per la Chiesetta ed il Convento di Frosolone. Si trovano a valle della cittadina, nella parte orientale. La Chiesa è ancora oggi dedicata alla Madonna delle Grazie. Il convento è a sud-est, mentre la Chiesa è esposta a nord-est. Sull’architrave del tempio vi è la scritta: 1533. Di questo complesso religioso così scrive il Masciotta: “Era un antico oratorio innanzi al 1533, quando fu oggetto di ampliamenti ed interne decorazioni. Dista meno di 200 metri dall’abitato, ed è pregevole in esso per venustà e vetustà di magistero l’altare maggiore di legno riccamente intagliato e intarsiato, il quale occupa la parete di sfondo dell’edificio in tutta la sua ampiezza. Nel 1580, e secondo la più comune tradizione nel 1530 (ma ciò non risponde a verità, poiché in tale data i Cappuccini per un fatto casuale fondarono il primo Convento a Castelluccio Acquaborrana) venne costruito contiguo alla cappella di Santa Maria delle Grazie il Convento che da essa prese il nome, ed accolse i Padri Cappuccini, i quali ne esularono nel 1799, al tempo della Repubblica. Il convento di Santa Maria delle Grazie, soppresso nel 1809, fu riaperto nel 1812 per ospitare i Padri Mannarini, i quali erano andati via da Frosolone nel 1805, dopo la caduta del Convento di Sant’Angelo, che era la loro dimora. Il provvedimento speciale si ebbe per il grazioso intervento della Regina, la quale perorò la causa dei padri anzidetti pel motivo che essi non facevano della politica, ma applicavansi esclusivamente all’insegnamento, e pel motivo precipuo di non nuocere alle finalità cui tendeva il lascito Fazioli. Il Monastero di Santa Maria delle Grazie soppresso definitivamente nel 1867, venne ceduto alla locale Congregazione di Carità in una all’adiacente giardino”.1 una parte dell’orto dei frati è adibito a campo da calcetto. Negli ultimi anni la Chiesa è stata di nuovo chiusa per un lunghissimo periodo a causa di un restauro della Sovrintendenza di Isernia - sezione Archeologica.

▲ La Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Frosolone

(“Cappuccini”). Si trova nella parte bassa del paese, lungo

la strada che conduce al cimitero. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

È stata riaperta al culto il 17 gennaio 1996, giorno di Sant’Antonio Abate. Nel 1997 è stato realizzato l’altare per la celebrazione rivolto al popolo, l’ambone e i banchi.

COME SI PRESENTA ATTUALMENTE

Osservandolo anche sommariamente, ci si accorge che le forme di un vecchio monastero sono rimaste molto appariscenti. La chiesa è protetta da un cancello di ferro, per cui il piano erboso dell’antistante piazzale ed il grandioso albero di elce tra la croce e la facciata delle chiesa, non subiscono danni da parte di ragazzi, tanto più che per essi una parte dell’orto dei frati è adibito a campo da calcetto.

Segue a pagina 16 ►►

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MOLISE DA VISITARE

►► LA CHIESA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE A FROSOLONE (CHIESA DEI CAPPUCCINI) (segue)

Una croce calcarea con le tre parti terminali formati da tre semicerchi, benchè un po’ tozza e conpoco slancio, ciriporta al concetto di una croce nobile, dignitosa e forte della sua virtù redentrice, a cui bisogna rivolgersi come a un punto centrale della vita. È poggiata su di un capitello che ricalca lo stile bizantino, poggiato a sua volta su una colonna, ferma su di una base rettangolare. Il richiamo di costruzione dei Cappuccini affiora leggermente, forse per le modifiche successive. Essendo anteriore alla loro venuta a Frosolone (1580), è stata costruita con lo stile del tempo, che sta il rinascimentale e il barocco, con terminazione ad andamento curvilineo. La Chiesa è piuttosto spaziosa. L’altare maggiore ha un complesso ligneo con colonne e altare di legno ad intarsio ed intaglio. La custodia e l’altare maggiore si rifanno agli altari in legno del tipo di Sant’Elia a Pianisi (datato 1741), di Venafro e di Montefalcone del Sannio. Il lavoro è baroccheggiante, ma realizzato con tale maestria da poter dire che, se l’autore è stato fra’ Bernardino da Mentone, è l’espressione più bella della sua arte. In questo grandioso complesso ligneo vi sono 9 raffigurazioni: 1) Il dipinto centrale rappresenta la Madonna delle Grazie. La Vergine è nel momento che porge il latte al Bambino Gesù sostenuto con la sinistra della Madonna. Gesù poi è nell’atto di accettare il dono della Madre, ma quasi con l’invito che tutti possono attingere a Lei Madre di Grazia. Nella parte inferiore del dipinto vi sono le anime del Purgatorio, come le più prossime a usufruire della intercessione della Vergine. Un orizzonte giallo oro ed un meraviglioso paesaggio formano lo sfondo del lavoro pittorico. 2) A sinistra: San Giovanni Battista, che proclama l’Agnello di Dio. 3) A destra: un Santo Martire 4) Dopo San Giovanni Battista in primo piano, appare San Francesco d’Assisi e dietro a lui 3 santi. Si riconosce bene Santa Maria Maddalena con il vasetto di alabastro in mano. 5) San Lorenzo. In primo piano un orante, che può anche raffigurare un benefattore o il committente dell’opera, e dietro un gruppo di altri 3 Santi. 6) Nello scomparto superiore. A destra: San Giovanni Evangelista. 7) Nel mezzo: San Michele Arcangelo. 8) Un Santo con i paramenti sacerdotali.

9) In alto: l’Eterno Padre. Tra lo scomparto superiore e quello inferiore vi sono i dodici apostoli e al centro Gesù: la Cena del Signore. Esperti di arte sono dell’opinione che si tratti di dipinti del ‘600 del manierismo napoletano, in cui si notano elementi di varie scuole, non esclusa quella umbra. E c’è anche diversità di mano, come nel San Michele. In fondo alla Chiesa vi è un dipinto: San Francesco che medita sulla Croce. Accanto gli è un frate Nella Cantoria: Santa Cecilia. Al centro della Chiesa: Sant’Antonio di Padova. Più avanti San Francesco e nel cielo del presbiterio: la Madonna delle Grazie. Sembrano tutti dipinti a tempera e piuttosto recenti. In fondo alla Chiesa, a destra, nella parete ad arco, un bel Crocifisso, di non grandi dimensioni, ci appare in tutta la sua bellezza e potenza espressiva di amore e di dolore. È barocco non evoluto del 1600, senza riferimento a nessuna scuola. Nella Chiesa possiamo vedere la statua di Sant’Antonio Abate, con vesti di panno. È il santo più venerato nella zona delle Madonna delle Grazie dai contadini. Vi sono poi le statue di San Felice da Cantalice, di San Giuseppe Calasanzio, San Matteo. Nel presbiterio: l’Immacolata. si può ancora osservare il coro. La sacrestia conserva lo stile cappuccino con mobili semplici, ma mal ridotti. In un ingresso che porta al chiostrino (dove si può vedere ancora il pozzo al centro di esso), a sinistra, sulla parete vediamo una lapide che dice: TEMPLUM HOC AB H.J.D.R.D. JOSEPH ANT: FAZIOLI ERECTUM DEO Q: DICATUM LL & RMUS DNUS D. JOSEPH PITOCCO EPUS TRIV: DOM III MAII ANNI MDCCLVIII ANTE ALIA CONSECRAVIT EADEMQ: DOM: ANIVERSARIU’ DEDICATIONIS ANNO. QUOLIBET FIERI PRAECEPIT OMNIBUSQ; CHRISTI FIDELIBUS IN EJUSDEM ANIVERSARII DIE VISITANTIBUS QUADRAGINTA INDULGENTIARU DIES INDULSIT (Questo tempio eretto dal dottore nell’una e nell’altra legge, Giuseppe Antonio Fazioli e dedicato a Dio, l’eccellentissimo e reverendissimo Signore Giuseppe Pitocco vescovo triventino, nella domenica terza di maggio del 1758, prima di tutto consacrò e nella stessa Domenica comandò che ogni anno se ne facesse l'anniversario e a tutti i fedeli, che l’avranno visitato nel giorno anniversario, concesse l’indulgenza di quaranta giorni). 1 G.B. Masciotta, Il Molise dalle origini ai giorni nostri. Vol. II - Circondario di Isernia - Cava dei Tirreni 1952, p. 275 ■

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AMARCORD

I militari inglesi a Termoli per rivedere i luoghi di guerra

di OSCAR DE LENA

Il 6 febbraio scorso sono venuti in visita a Termoli il maggiore medico Ed Clitheroe del Royal Army Medical Corps di Liverpool e un suo subalterno Bob Dixon per fare una ricognizione dei luoghi dove 70 anni fa si svolse una cruenta battaglia tra soldati tedeschi e i soldati inglesi e che costò la vita a circa 1000 militari (metà inglesi e metà tedeschi). Le truppe dell’VIII armata inglese e del Commonwealth comandate dal generale Montgomery, sbarcarono alle 2,45 del 3 ottobre 1943 in una “notte nera come la pece” sulla spiaggia di Termoli e colsero di sorpresa i tedeschi che occupavano la città da diverse settimane. La vera battaglia durò dal 3 al 7 ottobre con la sconfitta e la cacciata dei tedeschi da Termoli che si ritirarono verso il nord sul fiume Sangro e Ortona dove ci fu una ulteriore e più duro scontro che portò alla distruzione della città e l’uccisione di oltre 1300 civili. A Termoli furono 18 i civili morti nelle quattro giornate di guerra. Alla visita del 6 febbraio è seguita quella del 14 marzo in cui insieme al maggiore Ed Clitheroe sono giunti altri 25 militari inglesi che, a partire dal parcheggio del porto, hanno ripercorso gli stessi itinerari, luoghi e vie di Termoli, dove si svolsero le diverse fasi della battaglia: il tratto di spiaggia nord tra l’attuale Lido Anna e La Stella Marina dove avvenne lo sbarco, l’hotel Corona sede del Quartier Generale tedesco, Piazza Monumento che divenne insieme a Piazza Sant’Antonio cimitero dei tanti morti, un rifugio usato durante i bombardamenti sito lungo il Corso nazionale, la villa del podestà Cieri usata per ospitare il generale Montgomery, il Castello deposito delle munizioni tedesche, la Cattedrale con il cecchino tedesco appostato sul campanile, l’Istituto Gesù e Maria dove alloggiarono parte delle truppe sbarcate e tante altre postazioni coinvolte nelle numerose sparatorie e cannoneggiamenti avvenuti in quei fatidici 4 giorni. La “Battaglia di Termoli” è stata descritta su diversi libri inglesi che raccontano gli episodi bellici più importanti della seconda guerra mondiale. Su questa battaglia il professor Antonio Smargiassi ha pubblicato, cinque anni fa, un interessantissimo libro molto apprezzato dagli appassionati di storia locale e non solo. Il 3 ottobre 2013, in occasione dei 70 anni dall’avvenimento, l’associazione dell’Archeoclub di Termoli organizzò un’affollata conferenza per ricordare questa battaglia.

Non è vero, ma ci credo…

Potevo avere all’incirca 7-8 anni. Sulla fronte bello e buono

mi era apparso un “porro”, una piccola escrescenza lunga tre-quattro centimetri. Capirete bene che per un ragazzetto com’ero allora, cominciavo a farmi dei problemi. A quei tempi arrivava il sabato Filippone, come di consueto a ora di pranzo. “Sante Gilie benedìtte che c’ajute” gridava da fuori al portone e io scendevo a portargli l'immancabile dieci lire che mi dava mia madre e che infilavo nella “pacella”. “Silviuccio, che tiè nfronte?… Sabato che vè, te porte na medecìne e vìde a come te ze lèva”. Io tutto contento salii sopra a continuare il pranzo, fiducioso nel rimedio di Filippone. Aspettavo il sabato successivo fremente e intanto cercavo di camuffare il porro anche a scuola. Andavo alle elementari con il maestro Di Nunzio. Il fatidico sabato arrivò e con esso la medicina. “Mìttete chèssa e te ze lèva”. Dieci giorni di pomata “miracolosa”: doveva trattarsi di un miscuglio di erbe medicinali che Filippone preparava da sé. La sera mi addormentavo speranzoso e la mattina dopo però lo specchio rifletteva sempre lo stesso odioso porro: proprio al centro della fronte, leggermente spostato a destra. Mamma Carlina, un bel giorno vedendo che ne soffrivo, mi prese per mano, mi mise il cappotto, - ricordo che faceva molto freddo - e mi disse: “Viè!!! Te porte che mè a na via”. Io contento perché si usciva, - era un dopocena - mi ritrovai dopo cinque minuti di cammino a casa di Liberato Muschitte. Ci fece entrare, ci mettemmo vicino al camino e Liberato e mia nonna si misero a chiacchierare del più e del meno. Roba di vecchi contadini. Io nel frattempo mi scaldavo davanti al fuoco schioppettante. Dopo un breve discutere di tre-quattro minuti, mia nonna parlò a Liberato del mio problema e mi disse di mostrargli il porro. Liberato lo vide senza toccarlo. Disse un paio di frasi sgangherate, dei nonsense (almeno per me) che ovviamente non ricordo e, tempo due minuti, ci salutammo e tornammo a casa. Una visita che si risolse in un dieci minuti circa. Il giorno dopo lo specchio diede il suo responso. Fronte pulita. Il porro era scomparso. Ancora oggi, dopo 40 anni circa, mi chiedo come abbia fatto… E ancora oggi, da allora, quando mi si parla di maghi, stregoni, malocchi e quant’altro, io metto avanti questa mia testimonianza… S.P.

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LIBRI

“Corpi di gloria” di Giuliana Altamura

L’autrice del romanzo edito da Marsilio ha trascorso le sue estati a Capracotta

di MARIA DI SAVERIO

“Quando ero una ragazzina passavo buona parte della mia

estate in un piccolo paesino di montagna, Capracotta, luogo d’origine di mia madre. Non saprei spiegare, se non con le immagini suggerite dalla nostalgia, quei mesi caldi passati lontano dal mare. C’è una villa comunale a Capracotta, piccola come è piccolo quasi tutto, ma il cielo no, quello è davvero immenso. Mi stendevo sull’erba, nessun palazzone all’orizzonte - non ne esistono - attenta che l’occhio non incontrasse altro che l’azzurro, davanti, dietro e intorno a me. In quei momenti ero niente e tutto, cielo infinito e nuvole, mi annullavo nell’impressione che tutto mi appartenesse e che io stessa non appartenessi a niente. Potevo avvertire una sola emozione: la malinconia. Credo non esista uno stato d’animo più appropriato all’adolescenza della malinconia, quel magone di cui è difficile spiegare l’origine, ma che afferra la bocca dello stomaco: nessuno è più tormentato e provato come chi alla vita si è da poco affacciato”. In questo suo esordio letterario, Giuliana Altamura dipinge con tratti sicuri emozioni impalpabili, stati d’animo evanescenti eppure scuri e forti, perché a vent’anni ogni cosa è enorme, tranne forse la morte. “Corpi di Gloria” è un lungo racconto: Gloria e Andrea sono due fratelli riunitisi in vacanza dopo un periodo di separazione, attorno a loro amici, amanti, genitori, ognuno con la propria vertigine, il proprio senso d’impotenza, le potenzialità che non riescono ad esprimersi. Non solo le persone fanno da cornice, ma anche una Puglia amica e nemica, e Riva Marina, luogo della villeggiatura di Gloria e della sua famiglia, pare usuale e ignota nello stesso identico momento. L’indolenza d’agosto lascia spazio solo ai tormenti interiori fino a che la vita non decide di squarciare il caldo con la sua manifestazione più violenta e naturale: la morte. Eppure “Il cielo sulle spalle di Gloria è immenso”, così come il suo amore per il fratello e il vuoto dentro di lei: un buco nero che la fagocita. E Gloria ama, e lotta con il cibo e con se stessa. E in fin dei conti in una storia che parla di ventenni come poteva non rivelarsi forte, distruttivo, tracimante, enorme e fugace l’amore? Morboso, torbido, gentile, ingenuo, l’amore fraterno, quello carnale, quello materno. Tutto è amore, proprio perché ognuno dei protagonisti di questa storia crede di non meritarlo, lo insegue e non lo avverte, lo cerca nelle ferite e nelle pieghe nel grembo materno, nel frigorifero, in un corpo morto che galleggia sull’acqua. È una lettura incalzante e scorrevole insieme quella di questo breve testo, che è arrivato in libreria, in cui per forza di cose si finisce per riconoscersi, ricordare la propria giovinezza nel senso più vero del termine, un’immedesimazione che toglie il velo della nostalgia per restituire quello crudo della realtà all’età più feroce dell’esistenza.

Non si è mai così grandi, e soli, e disperati, e capaci di tutto come quando si è inesperti e nuovi al mondo. Dialoghi riuscitissimi, un ritmo sostenuto che non permette distrazioni ed esige un finale; uno spaccato tanto breve eppure capace di donare identità completa ad ogni personaggio e a lasciarci intravedere il futuro possibile di ognuno, quasi si trattasse di conoscenti o amici del passato: noi stessi e quelli che erano con noi, nella nostra villeggiatura. Quante volte vi siete chiesti come sarebbe tornare indietro? Io molte, e molte volte avrei voluto la possibilità di ripetere daccapo tutto, per cambiare e trovarmi oggi diversa. Ma dopotutto, non vi pare già un miracolo essere sopravvissuti all’adolescenza? Buone le recensioni. "Ha talento Giuliana Altamura. Un talento che si nutre della capacità di raccontare il presente in modo secco, ma con slanci poetici, vestendolo degli interrogativi enormi che si annidano nelle vite dei ragazzi di oggi, e che spesso rimangono senza risposta – si legge sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” di Bari. "Con una scrittura essenziale e, al tempo stesso, capace di evocare sentimenti, scenari, storie, Giuliana Altamura scava dentro un mondo giovanile che ha messo il silenziatore al proprio cuore. E costringe quei ragazzi, troppo fragili nel loro bullismo, troppo affamati d’amore nel consumare il sesso senza nemmeno divertirsi, a guardare negli occhi la propria vita - scrive Alessandro Mezzena Lona sul “Piccolo” di Trieste. Ed ancora: "Corpi di Gloria mi ha colpito. La scrittura molto semplice (tanto da sembrare il risultato di un lavoro attento, ottimo segno per un’esordiente) porta nel cuore dei personaggi in modo diretto. Anche dopo aver finito di leggere, Gloria e le persone che frequenta ti restano dentro - scrive Pietro Cheli su “Leiweb”. ■

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SETTE NOTE

E’ sempre più “Tratturo”

Il gruppo di Isernia è una bandiera della tradizione musicale molisana

di EMILIO IZZO

Se esiste, ed esiste, una colonna sonora del Molise, questa

non può non coincidere con il gruppo musicale de Il Tratturo. E chi altri sennò! Basterebbe mettere insieme voci, note, strumenti e testi per capire che nulla può paragonarsi alla simbiosi tra storia, arte, passione e rappresentazione messa in scena da trent’anni dai musici de Il Tratturo, paragonabile solo agli andamenti di seni e coseni delle linee per orizzonti del regale paesaggio nostrano.

Seni, appunto, di dolce memoria ancestrale ed attuale, come quelli di una mamma o madonna alle prese con lupini amari e traditori, che allatta il suo piccolo, idealmente e facilmente accostabili al piano e alle colline del Molise litoraneo e ai monti freschi, freddi e innevati, non facilmente paragonabili, come il Matese e le Mainarde. E Piero, Enzo, Nicola, Alfonso, Mauro e Roberto da trent’anni accarezzano delicatamente le nostre meravigliose bellezze ambientali, culturali e paesaggistiche, come se fossero in costante pericolo di estinzione. E come dargli torto! Ma loro ci ricordano in modo martellante che Matese e Mainarde hanno in sé l’espressione dei seni delle nostre mamme, dalle quali abbiamo attinto linfa vitale, come vitali sono le acque dei fiumi che scorrono nelle nostre vene, acqua silenziosa ma il cui suono è percepibile nelle note e nei suoni di strumenti allineati su tracciati di rara e unica bellezza. E così il loro nome, tacciato di vecchiume all’inizio della loro storia, già inversamente avanti rispetto alle innovazioni per forza e ad ogni costo dettate dalla modernità sempre e maldestramente di moda. Tratturo, vie di transumanza, di percorsi per greggi e per uomini, tracciati di preistorica memoria, antica, fatta di genti umili che agognano quotidianamente e malinconicamente il ritorno, di orme di zampitti, di pecore, di cani, di cavalli, di buoi, testimonianza ancora visibile di sorgenti, stazzi, recinti, chiese, taverne, questa sì modernità più volte ripresa, pari a null’altro. Autostrade non paragonabili, larghe linee appoggiate su suoli dolci o anche aspri che nulla hanno da spartire con lingue d’asfalto che ci minacciano all’orizzonte.

Quale modernità allora più attuale di quella indicata dai nostri musici all’inizio delle loro passioni, passioni giovanili che quasi sempre non lasciano spazio alla memoria, alle tradizioni, ai lasciti dei nostri avi, alla conservazione del bello così come natura detta, presi dalle mode e dalle passioni dettate dall’età. Eppure questi nostri amici, pur conservando le pulsioni giovanili, hanno saputo mungere, attingere dal passato, facendo volare alto il suono di strumenti, che diversamente potevano andare scomparsi come accade per i lupi e gli orsi del Parco di Abruzzo, Lazio e Molise, pelli e cannule sapientemente forgiate nel passato e amorevolmente riprese da mani moderne, antiche zampogne e ciaramelle già usate dai pastori dei tratturi nella notte di tempi, attuali veicoli di suoni per moderne melodie di ancestrale sensibilità. E se la modernità ci ha imposto chitarre, pianole e batterie, i nostri appassionati artisti sono riusciti nel matrimonio più complesso, quello che ai tamburelli affianca tamburi e piatti, ai mandolini accosta chitarre e bassi, quello che alle corali appoggia tastiere bianche e nere. Nicola si è espresso con “cortesia”, ha vibrato le corde, ha fuso mandole partenopee e corde da beat generation senza stravolgere le sonorità, preso e immerso nel suo creare il nuovo, nel rispetto dell’antico e dell’antica vecchia “curacchiera”. ►►

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SETTE NOTE

►► TRATTURO) (segue) Alfonso da gattone qual è, si è limitato a mormorare cupamente con le corde a sua disposizione gli accompagnamenti, come fossero le buie notti dei pastori sul tratturo, buie, quasi silenziose ma indispensabilmente percepite e presenti. Enzo, in piedi come si conviene ai cavalli dei transumanti, ha reso fluidi i suoni, li ha miscelati da cultore sensibile, da scolaro che attinge a maestri di progressivo mai dimenticati, troppo emozionato per far trapelare la sua vivacità ma concentrato al punto da non dimenticare di avere sotto le dita tasti e non mammelle da mungere per cagliare il formaggio per i pastori, concentrato nell’applicazione della medesima delicatezza. E poi, quando devi gridare alle greggi e ai cani la strada da seguire, lo devi fare con decisione, con amore, con sonorità che tutti possono comprendere e l’ugola di Mauro non si è lasciata tradire, intonare acuti come spari di briganti o melodie lungo i Vicoli o tarantelle per il ristoro faticoso lungo il cammino che porta dai monti verso il mare. Ma certamente la parte più ardua è stata quella di Roberto e non solo perché il suo percorso si è intrecciato con quello degli altri solo successivamente, ma soprattutto per lo strumento ingombrante e variegato che sarebbe stato non proprio pratico da portarsi appresso sugli antichi tracciati! Poco paragonabile al tamburello, almeno per ingombro, poco pratico da attaccare al collo, nient’affatto silenzioso, insomma difficile il suo matrimonio con tutto il resto! Eppure il nuovo entrato è stato capace di accarezzare tamburi e gran casse come un pastore fa con le sue pecore quando deve tosarle, con delicatezza e decisione al tempo stesso, ha vibrato teneri colpi con le bacchette sui piatti dorati, facendoli ondulare ed emettere scintillii provocati dalle luci di Diego, come stelle nei cieli estivi nelle notti a ritemprare gli uomini dopo la lunga e faticosa giornata assolata pronti ad assaporare la pezzata di Irinella, ha messo con sensibilità non comune il suo talento a servizio dei suoni che gli altri da tempo portavano in scena e che vedevano con sospetto il nuovo ingresso “rumoroso”, dimenticando che l’animo rispettoso e capace di Roberto avrebbe abbattuto ogni loro riserva! E che prova! L’amore comune per la tradizione non ha lasciato spazio ad iniziative artistiche non in sintonia, i suoni tutti erano fusi senza sbavature stridenti. Ma se mai sarebbe potuta accadere una oscenità simile, il pastore abruzzese per eccellenza, il bianco controllore di greggi, il sapiente e diligente dirottatore di ovini fuori rotta, con la sua zampogna fatata avrebbe riportato all’ovile tutti i suoi sodali. Troppo forte il suo sentire e la sua concentrazione di giovanile memoria, affascinante capacità di mettere insieme suoni, passioni, amore, rispetto, umiltà, abilità a servizio di un’arte ancora tutta da interpretare. Ma Piero è capace di questo ed altro, lui sì coperto di pelli e mantello, nascosto sotto un cappellaccio di lana nero, pastore di pecore e musici, con la stessa maestria conduce animali e uomini a sostenere melodie che all’unisono devono portare l’ascoltatore ad inebriarsi ed ubriacarsi delle note provenienti da svariati strumenti, diversi tra loro ma imbrigliati dal conducente fino al morbido connubio che la musica colta e popolare insieme richiedono.

E sono costretti al rispetto anche ciaramelle, fisarmoniche, flauti magici e qualsiasi altra diavoleria tirata fuori dalla sacca, persino lo xilofono “maldestramente” introdotto da Mauro ma anch’esso entrato nella sintonia richiesta, a rischio di ringhiate del maestro ma generosamente accettate. E mentre Angelo, vecchio, irascibile, minuto compagno di tanti concerti portati in giro per il mondo, in fondo alla sala ascoltava con emozione soffocata per non tradire il burbero (ma chi ci crede!) personaggio, tanti compagni accorsi, così come per le altre riproposizioni trentennali, a stento sono riusciti a battere le mani sui ritmi dei suoni delle cicirinelle o delle sei sorelle, tanto erano assorti e presi da questi amici, attori e interpreti di una storia mai dimenticata, millenaria e sempre attuale, canovaccio tessuto sopra una terra che non permetteva ingerenze fuori luogo, terra solo assalita da predatori senza scrupoli, vigliaccamente depredata e offesa, ferita ma non ammazzata, ma che sarà sempre protetta e amata da chi le sue sorti e la sua identità tiene a cuore. Musici come pastori, artisti che conducono le note al riparo nell’animo così come il pastore conduce il suo gregge nella stalla al riparo dai lupi. Lo spettacolo dei sentimenti e dell’arte volge al termine ma nessuno ne vuole sapere di rientrare alle proprie case, la sensazione è che in serate come queste sarebbe molto meglio poter continuare a rimanere insieme per ascoltare note, sinfonie dolci, vivaci, morbide, coinvolgenti, amorevoli, antiche ma sempre buone per sentirsi un unico corpo granitico, forte agli attacchi avversi, al riparo di una modernità che ci vede isolati, tristi, abbandonati, protagonisti nella desolazione di un mondo che non concede ninne nanne di sorta, che possano somigliare almeno per un attimo alle amorevoli carezze delle mamme o ai suoni affascinanti e calorosi del vecchio intramontabile Tratturo! Que viva siempre! Un solo e ultimo pensiero al rientro va verso altri amici, , con la speranza di vederli quanto prima ancora al fianco degli altri, Ivana e Lino, anch’essi appassionati musici e raccontatori di leggende e storie magiche. ■

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AMBIENTE

“Il Messaggero” racconta il Molise

Il quotidiano romano, versione on-line ospita due interessanti itinerari:

l’Alto Molise e Bojano-Campitello

di PIERINO VAGO

Stefano Ardito firma sul sito internet del quotidiano “Il Messaggero”, canale “Viaggi”, due pezzi riguardanti il Molise. Il primo su Capracotta e dintorni, il secondo su Bojano e Campitello Matese. Buona lettura.

Alto Molise, con le ciaspole tra gli abeti

Le foreste di abete bianco più rigogliose dell’Appennino rivestono i boschi dell’Alto Molise, in vista della valle del Sangro e della Majella. Una zona poco nota e bellissima, a cavallo tra le province di L’Aquila e Isernia, e che deve la sua notorietà ai templi italici di Pietrabbondante e Vastogirardi, ai latticini e ai tratturi, e alle chiese e alla fabbrica di campane di Agnone, la «Atene del Sannio». Ma anche la neve contribuisce alla fama di questi luoghi. Capracotta, storico borgo a 1421 metri di quota, è uno dei paesi d’Italia dove la neve raggiunge lo spessore maggiore. Quattro metri, quattro e mezzo, cinque. Sui muri delle case, dei segni tracciati con la vernice ricordano le precipitazioni più abbondanti della storia. Di solito a Pescopennataro, addossata a bizzarri speroni calcarei, lo spessore del manto è poco inferiore. E lo stesso vale per la vicina Rosello, in Abruzzo. Capracotta, grazie al suo innevamento, è già diventata una stazione di turismo invernale. Sul Monte Capraro, servito da una seggiovia, sono state tracciate delle piste di discesa di interesse soprattutto locale. Gli anelli di fondo intorno a Prato Gentile, nella parte alta del Bosco degli Abeti Soprani, sono invece diventati uno dei comprensori di sci nordico più importanti del Centro-sud, e ospitano ogni anno delle competizioni di livello nazionale. Quest’anno, dal 14 al 16 marzo, si disputa la Continental Cup, una gara di interesse europeo (in realtà annullata ndr). Quando la neve è abbondante, però, l’Alto Molise e i suoi boschi diventano uno straordinario terreno di gioco per gli appassionati delle racchette da neve. Nel Bosco degli Abeti Soprani, traversato dalla strada che sale da Pescopennataro alla montagna, numerosi viottoli offrono delle passeggiate suggestive. Lo stesso accade a Rosello, dove ci si può inoltrare con le racchette ai piedi in una delle più belle Oasi del Wwf in Abruzzo, nota per i suoi cerri secolari, i suoi annosi esemplari di tasso e i suoi abeti. A Colle Meluccio, nei pressi dello storico tratturo Celano-Foggia, si cammina con le ciàspole in un’abetina protetta da una Riserva Naturale dello Stato.

Il percorso più panoramico di tutti, invece, inizia dalla strada che sale da Capracotta a Prato Gentile. Lasciata la strada per un viottolo nel bosco, ci si alza tra dei rimboschimenti a pino nero, si sbuca su un panoramico crinale, si continua fino alla grande croce di ferro che indica la vetta del Monte Campo, 1745 metri di quota. Quando il tempo è bello, lo sguardo spazia sul Bosco degli Abeti Soprani, sulle altre abetine dell’Alto Molise. Verso ovest sono i valloni e le rocce innevati della Majella. Dall’altra parte si intuisce l’Adriatico.

I NOSTRI CONSIGLI Comune di Capracotta 0865.949210, www.capracotta.com Pro loco Capracotta 0865.943121, www.prolococapracotta.com Sci Club Capracotta 0865.949303 www.sciclubcapracotta.it Rifugio Prato Gentile 0865.94216 Hotel Capracotta, Capracotta 0865.945368 Hotel Sammartino, Agnone 0865.779049, www.hotelsammartino.it

Bojano e Campitello, bianco di neve e mozzarelle

Da qualche anno, ai piedi del Matese, si produce anche la mozzarella di bufala. A Baranello, di fronte ai boschi e ai crinali innevati del massiccio, una dozzina di femmine vivono tutto l’anno tra i seicento e i novecento metri di quota. Le mozzarelle e le trecce realizzate con il loro latte reggono la concorrenza di quelle di Battipaglia e di Paestum. ►►

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AMBIENTE

►► ITINERARI: ALTO MOLISE E CAMPITELLO MATESE - BOJANO (segue) Bojano, cittadina fondata duemilacinquecento anni fa dai Sanniti, deve la sua notorietà tra i buongustai ai formaggi di latte vaccino, nei quali si riflette il sapore dei pascoli della montagna e della Montagna di Frosolone. I caciocavalli di questo angolo del Molise raggiungono ristoranti di tutta Italia, e di molte città dell’Europa. Prima o dopo lo sci sulle piste di Campitello Matese, gli appassionati della neve e dei sapori possono assaggiare le specialità dei ristoranti locali come Filomena di Boiano o la Risorta Locanda del Castello di Civita. E acquistare i latticini di Baranello, i caciocavalli di Boiano, o l’ottimo pane cotto a legna della vicina Roccamandolfi. Grazie al miele del Matese, alle nocciole campane e alla sapienza degli artigiani dell’Irpinia, si produce nella zona anche dell’ottimo torrone.

Per chi conosce la storia, la fama dei monti del Matese è legata prima di tutto ai Sanniti. Il Monte Miletto, la cima più alta, è l’antico Mons Militum, dove i guerrieri del Sannio hanno opposto l’ultima resistenza alle legioni di Roma. Più in basso sono il santuario italico di Campochiaro e le mura poligonali di Civita. Boiano, capoluogo del Molise romano, conserva qualche resto archeologico. Straordinarie sono le mura e le strade lastricate di Sepino, la Saepinum romana, che ha prosperato per venti secoli accanto al tratturo da Pescasseroli a Candela. Da qualche decennio, invece, la fama di queste montagne è legata allo sci. Nonostante la quota non eccelsa, la vicinanza dell’Adriatico e del Tirreno fa sì che la neve sia spesso molto abbondante. Nei trenta chilometri di piste di Campitello Matese, disegnate alla fine degli anni Sessanta da Riccardo Plattner, tecnico della nazionale italiana di sci, ci sono molti tracciati facili e la Capodacqua, una nera di tutto rispetto. E le piste di Campitello sono solo una delle attrattive naturali del Matese. Con la montagna innevata, gli appassionati delle racchette e del fondo hanno a disposizione le carrarecce che salgono da Roccamandolfi e dagli altri paesi pedemontani. Offre sentieri accessibili tutto l’anno l’Oasi Wwf di Guardiaregia, che ospita l’aquila reale, la poiana, il falco pellegrino e il lanario. ■

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Asti: tartufi molisani venduti come piemontesi ASTI - Tra il 2010 e il 2011 svariati chili di tartufo bianco molisano sarebbero stati venduti da numerose persone a ristoratori, enti pubblici, mediatori e consumatori privati spacciandoli per “Tuber magnatum pico” raccolti in Piemonte. Una vicenda che conferma la diffusione del tartufo molisano nei mercati italiani e internazionali, ma privo di una propria identità. La vicenda piemontese sta facendo scalpore perché i nove sono finiti sotto processo: tra gli imputati, Alessandro Romanelli, 50 anni, titolare della ditta “Sandrino tartufi”, uno dei mediatori di “trifole” più conosciuto. Gli altri imputati al processo, mediatori e commercianti, per una presunta frode in commercio sono Flavio Bordizzo, 66 anni, Franco Canta, 51, Ugo Cauda, 50, Albina Chiavarino, 62, Davide Curzietti, 53, Raffaele D’Addio, 71, Emanuela Robaldo, 36, e Rosanna Valle, 59, Per Romanelli, l’accusa riguarda in particolare la vendita di complessivi sette chili di trifole al Comune di Asti, ad un paio di ristoranti astigiani e ad un locale di New York. Per quest’ultima imputazione potrebbero però non esservi le condizioni di “procedibilità giuridica”, visto che la presunta frode sarebbe avvenuta all’estero. Oltre ai tartufi molisani, ci sarebbe una partita di prodotti croati. Secco il commento dell’avvocato Maurizio Lattanzio, legale di Romanelli: «Contestiamo radicalmente le accuse. Chi ha comprato tartufi dal mio cliente ha già spiegato a verbale di non aver chiesto ‘tartufo d’Alba’, ma semplicemente ‘tartufo bianco buono’. Esattamente ciò che ha fornito Sandrino, sulla cui credibilità come commerciante non si può discutere”. Una piena soddisfazione, quindi, per il tartufo molisano. Lattanzio puntualizza: “Il tartufo d’Alba o piemontese non è un marchio registrato. Non esiste un consorzio di tutela o simili. Non stiamo parlando di vini. Qualunque tartufo bianco può essere definito ‘d’Alba’. Il termine non indica una provenienza geografica, ma una tipologia di prodotto”.

MOLISE NOTIZIE

C’è anche Agnone nell’album delle aziende più antiche d’Italia Il fotografo veneto Thomas Quintavalle, come tutti quelli che fanno il suo mestiere, è un gran giramondo. Vive tra Mestre e Berlino e va a caccia di curiosità in tutto il mondo. Ora da mesi Quintavalle gira in macchina da Nord a Sud per conoscere le aziende più antiche d'Italia. Le immortala con il suo obiettivo, mette in luce le storie umane, figli e antenati, scoprendone l’anima più profonda. Il suo progetto si chiama "Imprese storiche" e dal 13 al 21 settembre verrà presentato negli spazi Bomben della Fondazione Benetton. “Per ora sono una quindicina le aziende entrate nel mio progetto, ma la ricerca continua – sottolinea il fotografo”. “Sono tutti capisaldi del made in Italy con oltre cento anni di storia e diretti dai discendenti delle famiglie che li hanno fondati. Non è un caso che questo percorso fotografico nasca in un periodo storico massacrato dagli scandali e dalle incertezze. L'Italia può contare su grandi eccellenze, e vanno tirate fuori. Desidero che lo spettatore apprezzi, attraverso le immagini, l'essenza pulita dei prodotti di qualità, anche se, ad alcuni di essi, non avrà mai accesso diretto”. Uno dei simboli di questo importante lavoro è la Pontificia Fonderia Marinelli di Agnone. Nata, come noto, nell'anno mille come fonderia delle campane del Papa, è oggi la seconda al mondo per anzianità di fondazione. Una “chicca” spesso poco valorizzata in regione, mentre dall’esterno c’è grande attenzione verso questo patrimonio del lavoro italiano. Non a caso l’impresa molisana affianca soprattutto aziende del Nord Italia, come la Torrini, impresa produttrice di gioielli fondata dal capostipite Jacopo nel 1369. O la Camuffo di Portogruaro, che costruisce imbarcazioni dal 1438 e che tra i suoi clienti celebri vanta Maometto II e Napoleone. O ancora le ceramiche di Ubaldo Grazia, azienda attiva dal 1500. Poi si passa al Settecento e all’Ottocento: la laneria Fratelli Piacenza di Pollone del 1733, il Lanificio Conte, fondato a Schio nel 1757 da Giovanni Battista Conte, la Bortolo Nardini, che dal 1779 produce liquori a Bassano del Grappa, la bottega Pascucci di Gambettola (Forlì-Cesena) con il procedimento della stampa xilografia fin dal 1826, il cantiere nautico Crosera, sorto nel 1855 sulle rive del Piave la costruttrice di gondole Tramontin & Figli del 1884, il pastificio Fabbri in Chianti dal 1893, il calzaturificio Voltan di Stra, nato nel 1898 come primo calzaturificio a ciclo produttivo industriale d'Italia. “Nei miei scatti catturo due universi apparentemente in antitesi, quello aristocratico del prodotto finale e quello democratico dove operano gli artigiani e gli operai. Sono le due facce in cui si riconosce il paese - racconta Quintavalle. “Ho cercato di produrre immagini sobrie, depurate da quell'immaginario pretenzioso che è presente in tante pubblicazioni”. Il progetto "Imprese storiche" ha ottenuto il patrocinio dall'Aipai, Associazione italiana per il patrimonio archeologico industriale.

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Fotovoltaico sul tetto? per il Fisco va accatastato

Brutte notizie per chi ha puntato su un impianto fotovoltaico per il risparmio energetico: l'impianto sul tetto di casa, con potenza superiore a 3 kilowatt, potrebbe far aumentare la rendita catastale, quindi l'Imu, la Tasi e le altre imposte che hanno come base il valore catastale (ad esempio, il registro in caso di compravendita). I moduli fotovoltaici vanno considerati come una "appendice" dell'abitazione che aumenta il suo valore. A chiarirlo è una circolare dell'agenzia delle Entrate (n. 36/E del 19 dicembre 2013) che ha esentato dall'obbligo gli impianti "minori" e definito nel dettaglio le circostanze in cui i pannelli vanno registrati al catasto. Secondo gli ultimi dati del Gse – aggiornati al 31 gennaio scorso – in Italia ci sono 176mila con potenza inferiore a tre kw e ben 312mila con potenza compresa tra tre a 20 kw.

Ginecologi obiettori: record in Molise (88%)

Per percentuale di ginecologi obiettori, il Molise è secondo nella classifica nazionale, preceduto dalla sola Campania. Una percentuale – l’88 per cento - altissima, che confrontata con i dati di qualche anno fa, dimostra come negli ultimi tempi ci sia stato un ulteriore aumento tra i ginecologi contrari alle interruzioni di gravidanza. Se infatti nel 2012 circa l’85 per cento dei medici ginecologi molisani si professava obiettori, oggi la percentuale è salita ulteriormente fino a toccare l’88 per cento. Una situazione che annulla di fatto la legge 194 del 22 maggio 1978, mettendo spesso a rischio la salute delle donne e rialimentando il mercato degli aborti clandestini. Inoltre le cifre ufficiali non sarebbero esatte secondo diverse associazioni, convinte che gli obiettori sarebbero di più. Come ha affermato recentemente Anna Pompili della Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194, “se le cifre ufficiali parlano di una media del 70 per cento, quelli che abbiamo raccolto noi, struttura per struttura, sono invece del 91,3 per cento”.

MOLISE NOTIZIE

Expo 2015: il Molise formalizza proposta adesione Padiglione Italia

MILANO - Expo 2015 continua a polarizzare le attenzioni. L’Esposizione Universale di Milano, di natura non commerciale (non è dunque una fiera), organizzata dalla nazione che ha vinto una gara di candidatura e prevede la partecipazione di altre nazioni invitate tramite canali diplomatici dal Paese ospitante, presenta numeri imponenti: sei mesi di durata (dal 1 maggio al 31 ottobre 2014); duecento espositori tra Paesi, organizzazioni internazionali, aziende e organizzazioni della società civile invitati ad apportare il proprio originale contributo al tema “Nutrire il Pianeta, energia per la vita” e a proporre soluzioni concrete per assicurare a tutti il diritto ad un’alimentazione sana, sicura e sufficiente, a garantire la sostenibilità ambientale, sociale ed economica della filiera agroalimentare e a salvaguardare il gusto e la cultura del cibo; un milione di metri quadri del sito espositivo (frutto di sei anni di progettazione); ventuno milioni di visitatori attesi. L’Expo si realizza in un sito appositamente attrezzato ed è un’occasione incontro e condivisione che promuove un’esperienza unica dei partecipanti e visitatori attraverso la conoscenza e sperimentazione innovativa del tema. Il ruolo di Expo più che esporre le maggiori novità tecnologiche è orientato all’interpretazione delle sfide collettive cui l’umanità è chiamata a rispondere. L’organismo internazionale che regola la frequenza, la qualità e lo svolgimento delle esposizioni è il Bureau international des expositions (Bie), nato da una convenzione internazionale siglata a Parigi nel 1928. Attualmente aderiscono al Bie 157 Stati. La prima Expo è stata quella di Londra nel 1851 e il suo successo ha spinto altre nazioni ad organizzare iniziative similari, come l’Expo di Parigi del 1889 ricordata per la creazione della Torre Eiffel. La Regione Molise ha presentato nei giorni scorsi la propria proposta di adesione all’Expo: un progetto finalizzato ad elevare gli indicatori di notorietà e l’apprezzamento delle produzioni agroalimentari del nostro territorio. Attraverso la valorizzazione di esperienze e prodotti che incastonano l’enogastronomia nella storia della sua gente, non trascurando l’apporto informativo ed emozionale delle nuove tecnologie. Gli obiettivi e i risultati attesi sono in linea con la Programmazione 2014-2020, cioè promozione delle filiere produttive, dei prodotti di qualità, della cultura, dei paesaggi rurali tradizionali, incremento del livello di internazionalizzazione dei sistemi produttivi, aumento dell’attrattività del sistema imprenditoriale rispetto agli investimenti esteri, sostegno all’integrazione tra aziende nella realizzazione di un prodotto turistico unitario, miglioramento della competitività delle destinazioni turistiche. “Un’ occasione straordinaria di visibilità – sottolinea il governatore Di Laura Frattura – oltre che un’opportunità unica nella storia della nostra Regione. Mai prima di questo momento siamo saliti su un palcoscenico così importante come quello dell’Esposizione universale”.

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IL MOLISE CHE NON VOGLIAMO

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I L B A R O M E T R O

Disoccupazione: Molise al 15,8%

E record del ‘nero’

Il tasso di disoccupazione, in Molise nel 2013 è arrivato al 15,8 per cento, superiore rispetto alla media nazionale (12,2%) ed in crescita rispetto al 2012, quando era al 12 per cento. Lo rileva l'Istat aggiungendo che sono aumentate a 19 mila, in regione, le persone in cerca di occupazione (3.113.000 in Italia), contro le 15 mila del 2012. Del totale delle persone in cerca di occupazione, 7 mila sono donne e 11 mila sono uomini. A tale dato negativo si aggiunge quello del lavoro sommerso, che – secondo l’Istat – vede primeggiare proprio il Molise in Italia, davanti alla Sardegna. Infatti tra le regioni con il più alto rapporto (unità di lavoro irregolari sul totale) si piazza il Molise (24,6 per cento), seguito dalla Sardegna (22,9 per cento). Secondo l’istituto di statistica nel 2012 il “nero” segna un aumento, seppur leggero, rispetto al 2011, raggiungendo quota 12,1 per cento (dal 12). Dopo due anni in calo, dovuto anche all’aumento della disoccupazione, il fenomeno si fa quindi risentire, soprattutto al Sud, dove è al 20,9 per cento di media. L’Istat precisa che sono definite non regolari le prestazioni lavorative svolte senza il rispetto della normativa vigente in materia fiscale-contributiva, quindi non osservabili direttamente presso le imprese, le istituzioni e le fonti amministrative. Bolzano la provincia più virtuosa con il 7 per cento.

Scommesse: è emergenza

Cresce il gioco d’azzardo in tutto il mondo, Italia (e Molise) compresi. Secondo i dati globali, si quantizza una crescita del 4,9 per cento nel 2013, raggiungendo un profitto lordo pari a 317,6 miliardi di euro. A rilanciare l’allarme è l’Adoc, associazione dei consumatori, che sta diffondendo dati per fornire una migliore informazione e una più corretta educazione dei consumatori, affinché diventino sempre più consapevoli. Il sito dell’Adoc nazionale monitora i maggiori settori del gioco on line, a dai casinò al poker on-line fino alle scommesse, indicando quali sono le cautele che i giocatori dovrebbero tenere per evitare di far si che il gioco si trasformi in fonte di problemi, sia economici sia psicologici, e quali sono i requisiti dei siti di gioco on line affinché questi siano conformi alle norme di settore. L’Adoc Molise sollecita la Regione alla definitiva approvazione della legge sul “gioco d’azzardo” e alla costituzione di un Osservatorio sul gioco e sulla ludopatia nel quale siano presenti le associazioni dei consumatori molisane. In Italia – dati dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli - il fatturato dei giochi d’azzardo ha superato i 90 miliardi di euro contro gli 80 del 2011. Il notevole aumento dei giocatori, negli ultimi anni, è causato anche dalla crisi economica. Il fenomeno interessa particolarmente la popolazione di ceto medio-basso, coinvolgendo anche casalinghe, pensionati, disoccupati e soprattutto giovani, specie con i video games attivabili prevalentemente dai tablet. Per un milione di italiani il gioco d’azzardo è già una malattia e secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità coloro che sono a rischio di soffrire di ludopatia in Italia sono addirittura un altro milione e otto. L’Adoc Molise invita tutti i cittadini a recarsi presso una delle sedi dell’associazione: a Campobasso è in via Conte Verde n. 3 (tel. 0874-413052), mentre a Termoli è in via Sandro Pertini n. 1 (tel. 0875.707103).

Tar: ‘litigiosità’ in crescita

Non calano le cause, nonostante la crisi. Anzi, i numeri si mantengono alti. Soltanto sul fronte Tar, in Molise ci sono ben 1.344 ricorsi pendenti. È uno dei dati significativi forniti dal presidente del Tribunale Amministrativo Regionale, Antonio Onorato. Quattrocentoquattordici i nuovi ricorsi presentati invece durante il 2013 (75 in più rispetto all'anno precedente, pari al 22 per cento), 634 le istanze definite durante gli ultimi dodici mesi, con una conseguente riduzione di 220 fascicoli in attesa di giudizio. Insomma, la litigiosità dei molisani non decresce.

Banda larga: siamo maglia nera

Per quanto riguarda l’efficienza della rete informatica, il Molise è in fondo alla classifica italiana. E’ quanto emerge dal Rapporto sulle infrastrutture a banda larga e ultralarga sul territorio molisano curato da Uniontrasporti e Unioncamere Molise e realizzato nell’ambito del progetto “Innovazione e servizi di banda larga in Molise”. A fine 2012 in Italia, la copertura del servizio Adsl ha raggiunto il 91 per cento delle unità locali delle imprese, che risultano quindi attestate su una centrale telefonica in cui è stato attivato il servizio Adsl senza vincoli che impediscano la fruizione, da parte del cliente, del servizio. Il Molise si posiziona all’ultimo posto in termini di copertura tra le regioni italiane, con solo il 71 per cento delle unità locali delle imprese raggiunte da Adsl.

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L’ARTICOLO DEL MESE

Il Molise snobba i fondi europei nonostante la situazione economica

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Anche questo mese selezioniamo un pezzo di Claudio De Luca. E’ stato pubblicato dal giornale “Termolionline” lo scorso 26 febbraio.

In Molise i dati economici e sociali delineano un’economia stagnante, con una bassa partecipazione alla forza-lavoro (in cui le donne hanno un ruolo secondario), per lo più tenuta a galla dalla spesa pubblica. Quella “pro-capite” delle Amministrazioni statali e locali, al netto degli interessi, è aumentata di 1/4 dal 2003-‘05 in poi, con conseguente triplicazione del debito tra il 2002 ed il 2011. La natura clientelare di questa massa di danaro viene posta in evidenza dalla concentrazione della spesa nel settore sanitario e dalla scarsità degli investimenti. Il grosso dell’occupazione è operativo nei servizi, come sarebbe normale in un’economia avanzata; ma qui la quota di impiego pubblico è abnorme. Le poche imprese private hanno una redditività prossima allo “0” nelle annate “buone”; ma, solitamente, distruggono valore, mostrando livelli di indebitamento in crescita pressoché costante che – negli ultimi anni – hanno determinato sofferenze sempre maggiori, in parte pure perché il settore bancario pratica tassi sproporzionatamente alti rispetto al costo delle provviste richieste. La base produttiva si è erosa nei settori industriali, con una cassa integrazione aggiuntasi in modo esplosivo alle altre forme di assistenza. Gli imprenditori, per tutto il decennio (dunque bene prima della crisi), hanno patito, aspettando il peggio; e la contingenza, com’è ovvio, non ha stimolato gli investimenti.

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Per conseguenza si è determinata una perdita di competitività che ha colpito le esportazioni soprattutto verso l’Europa e nel settore tessile e dell’abbigliamento dove la regione ha sofferto per le vicende della “ITR” che, un tempo, era il quarto Gruppo tessile italiano. Resiste (un poco) solo il turismo, che però rimane caratterizzato da piccole imprese a conduzione familiare, con una clientela che, per il 90%, è italiana. L’ente Regione, affogato in un sistema che si autoalimenta, riesce ad utilizzare solo in parte i Fondi europei; e ciò aggrava la situazione economica soprattutto in questo periodo di crisi. Tra le consorelle più virtuose ad “approfittarne” si trova la Valle d’Aosta (64,7), poi c’è la Lombardia (56), quindi l’Emilia-Romagna (52) ed il Piemonte (51). In fondo vi sono la Campania (36), la Basilicata (38), la Puglia (40), la Calabria e la Sicilia (42). Al 31 dicembre 2012 il Molise ha visto sfumare 10,8 milioni di aiuti comunitari; l’Abruzzo 3,3; il Friuli 6,8; il Lazio 16,8; la Liguria 3,7; le Marche 6,6; la Toscana 3,3; la Sardegna 49,7; la Basilicata 47; la Calabria 38,7; la Puglia 67,1; la Sicilia 69,5.

L’unico dato relativamente positivo (ma fino a quando?) riguarda la solidità patrimoniale delle famiglie, legata ad ataviche virtù di frugalità, seppure comincino ad apparire evidenti le crepe originatesi dalla lievitazione dei prestiti e dal raddoppio delle sofferenze registrate in questo ambito. In conclusione, i Molisani vivono ed operano in una società oramai incagliatasi in una insostenibile situazione di assistenzialismo, di bassa produttività, di asfissia imprenditoriale e – in definitiva – di declino generalizzato. Dati negativi a parte, non possiamo non considerare la 20.a regione una sorta di Patria più piccola; e, poiché “Patria” è una parola che cammina sul cuore di tutti, spesso la si pronuncia anche se altri (più provveduti?), avessero ad irriderci. In definitiva in questa terra riposano i nostri genitori; e, quando il filo della nostra vita si sarà sdipanato, vi giaceremo “in aeterno” anche noi. Ma una Patria minore non può essere solo questo. E’ vero che essa “chiama”, ma è pur vero che, nel contempo, dovrebbe “dare” per il tramite di chi la rappresenti, facendosi riconoscere ben oltre i benefici di commozione offerti ed i sentimenti che suscita. Il conforto del racconto delle sue memorie (che – in definitiva – sono le nostre) non può essere sufficiente a coprire tutto ciò che non ci viene concesso da parte della Politica. Alludiamo alla carenza di “benefits” sociali e di servizi in genere ed al corretto rispetto del “bene comune”. ■ (Claudio De Luca)

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MOLISANI A ROMA

Una serata “Splendor” per la dispensa molisana

Lo scorso 10 marzo quasi 300 persone per l’appuntamento enogastronomico

promosso – tra gli altri – dall’associazione Forche Caudine

di PIERINO VAGO

Quasi trecento persone hanno preso parte alla riuscitissima serata “Splendor Molise” promossa lo scorso 10 marzo dalla “triade” Movimento del turismo del vino del Molise, teatro del Loto di Ferrazzano e “Forche Caudine”, il circolo dei molisani a Roma e dei tanti romani d’origine molisana. Un’occasione, inserita nel raffinato locale “Splendor” di via Vittoria Colonna a Roma, presso piazza Cavour, non solo per radicare il rapporto tra i romani-sanniti con la terra d’origine e con le produzioni molisane, ma anche per far conoscere il “made in Molise” a chi continua ad ignorarlo. Impeccabile la coordinatrice, Arianna Fusilli: tutto è andato per il meglio. Oltre al centinaio di iscritti all’associazione “Forche Caudine”, i quali non hanno voluto perdersi l’appuntamento – gratuito – con l’enogastronomia regionale, tante altre persone – tra cui molti opinion leaders – hanno avuto modo di “avvicinarsi” materialmente alla più sconosciuta regione del nostro Mezzogiorno. Molti i giornalisti presenti tra cui Bruno Gambacorta (Rai Tg2 Eat Parade), Fabio Turchetti (Il Messaggero), Alex Cavalli (Corriere della Sera-Cultura), Gianfranco Ferroni (Italia Oggi), Alessandra Moneti (Ansa), Stefania Cardi (Adnkronos), Luigi Cremona e Lorenza Vitali (Porzioni Cremona e Witaly), Mariella Morosi (Italia a Tavola), Ludovica Mariani (Agroalimentare news), Stefania Belcecchi (Doctor Wine), Andrea Pietrarota e Alessandra Staltari (CorrieredelWeb.it), Monica Puglia (Radio Antenna 1). Tra i giornalisti anche Simonetta D’Onofrio e Silvio Rossi, legati all’associazione dei molisani. Per il direttivo dell’associazione “Forche Caudine” erano presenti il presidente Giampiero Castellotti, che al microfono ha salutato i convenuti, e il segretario Gabriele Di Nucci, mentre il vicepresidente Donato Iannone è stato trattenuto all’ultimo momento da un impegno, così come la giornalista Ida Santilli. Presenti anche Stefano Sabelli, Giovanni Germano e il giornalista Giuseppe Tabasso. “Una terra da esplorare, da conoscere, di cui si parla poco: il Molise, dal punto di vista culinario, è stato una piacevole scoperta per me – racconta il blogger di “Per un pugno di capperi”. E prosegue: “Alcuni assaggi mi hanno veramente impressionato: da menzionare la Ricotta del Caseificio Fonte Luna, l'incredibile pancetta di Antonelli Salumi, dal sapore deciso e con una parta grassa che si è sciolta in bocca, ma anche lo straordinario tartufo a fette della Cooperativa San Michele – continua la dettagliata analisi. ►►

▲ Quasi trecento persone hanno affollato il locale

di via Vittoria Colonna a Roma.

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MOLISANI A ROMA

►► SERATA MOLISANA A ROMA (segue) Bruno Fulco, sommelier Ais che cura la rubrica “DiVini Blog”, non ha dubbi: “Dal punto di vista vinicolo il Molise si rivela in forma smagliante. La regione è l’esempio perfetto dell’incredibile ricchezza gastronomica di un paese come l’Italia, dotato di una diversità enogastronomica difficilmente riscontrabile ad altre latitudini. Così come sulla tavola anche nel bicchiere troviamo particolarità di primo livello. Considerato enologicamente per lunghi anni “solo” come territorio tra Abruzzo e Campania, ha da queste adottato i vitigni che costituiscono oggi la maggior parte degli impianti molisani. Aglianico e Montepulciano campeggiano tra i protagonisti vinificati in purezza o sapientemente assemblati, come nel caso del ‘Pentro’ della cantina Campi Valerio, in cui nel Montepulciano interviene anche un sensibile contributo di Sangiovese per un vino di solida struttura ma capace di essere avvolgente nella sua complessità. Ottime anche le espressioni della Cantina Borgo di Colloredo tra cui il ‘Terra degli Osci’, un Aglianico vinificato in purezza dal carattere deciso ma che non declina una certa eleganza. Il carattere vero e proprio del Molise lo ritroviamo però nella riscoperta della Tintilia, antico vitigno autoctono che i produttori locali hanno ripreso a coltivare nella ricerca di quell’identità territoriale orgogliosamente perseguita. Questo vitigno importato dai Borboni nella seconda metà del Settecento fece le sue fortune fino al dopoguerra, quando fu progressivamente abbandonato in virtù delle tendenze che in quegli anni prediligevano la quantità di vitigni più prolifici. Arrivato fino al limite dell’estinzione, è stato fortunatamente riscoperto dai produttori locali che oggi lo coltivano ottenendo degli ottimi vini dotati di un profilo di buona complessità tra spezie e frutti di bosco, con buona persistenza e tannino abbastanza presente, che pur non essendo invasivo tende ad arrotondarsi nell’invecchiamento. Tra le versioni proposte veramente apprezzabile il ‘Dajje’ della cantina Cieri 1938 vinificato in rosato dal magnifico color buccia di cipolla, estremamente delicato e di piacevole freschezza, nella versione classica invece, oltre al ‘Re Bove’ della stessa cantina del precedente da segnalare ‘Uvanera’ prodotto in numero contenuto di bottiglie dalla Cantina di Remo segno della passione che accompagna questo vitigno simbolo dell’enologia molisana”. ■

IL FOTORACCONTO

▲ Alcuni protagonisti della serata: in alto, Bruno Gambacorta,

curatore di Tg2 Eat Parade. Al centro Giovanni Germano

e alcune persone di Duronia. Sotto l’attore Stefano Sabelli.

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MOLISANI A ROMA

La scheda della serata molisana

Vini in degustazione Prodotti in degustazione

Cantine Borgo di Colloredo FALANGHINA DEL MOLISE DOC

GIRONIA BIFERNO ROSSO DOC

AGLIANICO TERRE DEGLI OSCI IGT

Cantine Catabbo XAATUIS FALANGHINA DEL MOLISE DOC

TINTILIA DEL MOLISE “S” DOC

TINTILIA DEL MOLISE DOC

Caseificio Fonteluna Vastogirardi (IS)

Biosapori Casacalenda (CB)

Azienda Cianfagna Vincenzo SATOR TINTILIA DEL MOLISE DOC

MILITUM CHRISTI AGLIANICO

RISERVA MOLISE DOC

Cantine Cieri BREZZE FALANGHINA TERRE DEGLI OSCI IGT

DAJJE TINTILIA ROSATO DOC

RE BOVE TINTILIA DEL MOLISE DOC

Antonelli Salumi Castel del Giudice (IS)

Cooperativa Sanmichele Vastogirardi (IS)

Cantine Cipressi FALANGHINA TERRE DEGLI OSCI IGT

MEKAN MOLISE ROSSO DOC

MACCHIAROSSA DOC MOLISE TINTILIA

Azienda D’Uva Angelo

KANTHAROS TREBBIANO DEL MOLISE DOC

RICUPO ROSSO DEL MOLISE DOC

TINTILIA DEL MOLISE DOC

Azienda Principe Pignatelli Monteroduni (IS)

La Cantina di Remo UVANERA 2009 TINTILIA DEL MOLISE DOC

Masserie Flocco FALANGHINA TERRE DEGLI OSCI IGT

PODERE DI SOT MOLISE ROSSO DOC

SANGUE DEI BUOI BIFERNO ROSSO DOC

Splendor Parthenopes

Minestra con pizza di granone

Lasagnette con zucca e salsiccia

Cantine Terresacre OROVITE TREBBIANO DEL MOLISE DOC

ROSAVITE ROSATO TERRE DEGLI OSCI

IGT TINTILIA DEL MOLISE DOC

Antonio Valerio FANNIA TERRE DEGLI OSCI IGT

SANNAZZARO MOLISE ROSSO DOC

PENTRO DOC

Agnello cacio e uova alla molisana

‘U scescìlle

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MOLISE A ROMA

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Prosegue mostra di Fratianni

ROMA – Domenico Fratianni è protagonista a Roma di una grande mostra antologica intitolata “I segni dal profondo”. L’occasione migliore per festeggiare cinquant’anni di attività. L’appuntamento è nei saloni dell’Istituto nazionale della Grafica in via Poli 54, a cento metri dalla Fontana di Trevi. In mostra sessantatré opere. Il maestro è originario di Montavano (Campobasso. La mostra resterá aperta fino alla prima settimana di maggio.

Da Guardialfiera verso la Capitale

ROMA - Il dinamico Centro Studi Molise 2000 di Guardialfiera, guidato dallo straordinario Vincenzo Di Sabato, sarà in visita a Roma domenica 23 marzo per la mostra del Vittoriano “90 anni di radio e 60 anni di tv. Pubblicazioni, manifestazioni, convegni, col l’ègida del Capo dello Stato e l’intervento di alte personalità, si organizzano e si moltiplicano in tutt’Italia, per ricordare i 90 anni della Radio ed i 60 della televisione. Nella mostra del Vittoriano si rivive e si rivede un microcosmo di realtà fra politica, costume, personaggi, informazione, scienza, sport, spettacolo, musica e carrellate tematiche curate da Andrea Camilleri, Piero Angela, Bruno Vespa, Sergio Zavoli, Piero Badaloni, Bruno Pizzul, Barbara Scaramucci, Claudio Ferretti, Umberto Broccoli. Il Centro Studi di Guardialfiera ([email protected]), riconosce storicamente e artisticamente valida la mostra della Rai al Vittoriano e organizza per domenica 23 marzo una evocativa e stimolante gita di primavera a Roma, guidata dalla dottoressa Maria Rosa Gatti responsabile di “Vita Romana”, autorevole associazione turistica-culturale della Capitale.

Danze popolari: la Zumparella

ROMA – Lo scorso sabato 15 febbraio s’è svolto un laboratorio di danza popolare a cura dell’associazione Lo Scacciapensieri. L’iniziativa è ideata per dare al pubblico la possibilità di conoscere “il garbo” ossia il linguaggio coreutico proposto dai musicisti e danzatori tradizionali e di poterlo usare con “sentimento” ossia ascoltando la propria emozione. La finalità è quella di ricreare e fare rivivere, seppure in un contesto teatrale, e in quanto tale estraneo alla tradizione stessa, l’atmosfera consonante e carica di emozioni della festa popolare. Tra i promotori dell’iniziativa, che include anche balli tipici dell’Abruzzo e del Molise, i molisani Silvio Adducchio e Pietro Berardo, Alessandro Calabrese, Cristina Falasca, Rita Mattei, Noretta Nori, Filomena Pannunzio. Il programma include Mazurka scambiata, la Spallata di Schiavi d’Abruzzo, Saltarelle, Ballarella, Cotta abruzzese, Sciottë, Quadriglia e la Zumparella di Duronia (Campobasso). Tra gli strumenti: organetti, zampogna (detta ciaramella), tamburello, putipù o bottafochë, chitarra, “Lo Scacciapensieri” è un’associazione culturale romana costituita da suonatori e danzatori provenienti da varie regioni del centro-sud dell’Italia, Molise compreso. Opera principalmente nella capitale. Predilige spesso la presenza e il coinvolgimento degli anziani testimoni della tradizione popolare. Info: www.facebook.com/pages/Lo-Scacciapensieri-Gruppo-Ricerca-Danze-Popolari/599490506755181

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Originaria di Montorio

Erika Di Rienzo, otto anni,

star molisana di fiction Rai

Di recente è stata vista da milioni di italiani nella serie tv sul maestro Alberto Manzi ("Non è mai troppo tardi” con Claudio Santamaria). Lei, Erika Di Rienzo, otto anni, è originaria di Montorio nei Frentani, dove ha i nonni e torna a trovarli abitualmente insieme alla famiglia. Nella miniserie ha interpretato Roberta, la figlia del maestro Manzi. Erika Di Rienzo è la figlia di Nicola, a sua volta figlio di Costanzo e Maria, i nonni di Montorio nei Frentani. Il papà Nicola ha raccontato il debutto della piccola attrice insieme alla mamma Katia e al fratello Matteo: “Lei è iscritta in un’agenzia di casting, ha sostenuto diversi provini ed è piaciuta subito alla produzione. E’ molto spontanea e ha risposto a tutte le domande. Ha vissuto questa esperienza con naturalezza e si è divertita tanto. Per noi è stata un’emozione immensa. Peraltro, è stata selezionata anche per altre due fiction in corso di realizzazione a Roma”.

MOLISANI A ROMA

Roma, il Molise al teatro Keiros

ROMA - Sarà interamente dedicata al Molise la seconda tappa di “Sentieri d’Italia”, il viaggio attraverso la piccola grande provincia italiana promosso da Francesco Ventimiglia, autore Rai. L’evento dedicato all’Alto Molise si svolgerà in collaborazione con la Camera di commercio di Isernia e con il patrocinio dell’associazione “Forche Caudine”, il circolo dei Molisani a Roma. L’appuntamento è per sabato 22 marzo presso il teatro Keiros a Roma, in via Padova 38/a (zona piazza Bologna). La serata – dalle ore 21 alle 24 - prevede uno spettacolo e una cena a base di prodotti molisani al costo di 35 euro, il cui incasso servirà agli organizzatori per la copertura delle spese. L’associazione “Forche Caudine” assicura gratuitamente il proprio patrocinio per la promozione dell’evento e non riceverà alcuna forma di contributo. La Camera di commercio di Isernia si farà carico, invece, del supporto musicale. Il progetto – curato da Francesco Ventimiglia – prevede periodicamente una serata dedicata alla cultura, alla musica, alle tradizioni enogastronomiche dei diversi territori italiani. Un “Petit Tour” nell’Italia minore, tanto vitale quanto sconosciuta. Che sa ancora sognare, costruire, generare ricchezza. Nonostante tutto. Ogni ultimo sabato del mese - alle 21 - il Teatro Keiros allestisce uno spettacolo fatto di musiche, letture, poesie del territorio. Quindi, alle 22.30 nella vicina enoteca “Uve e forme” (via Padova 6) offre una cena basata su materie prime e manufatti enogastronomici locali, alla presenza dei produttori. Il biglietto è unico (35 euro). Il 22 marzo è di scena Isernia e il Molise interno. Il titolo è: “Alto Sannio. L’alba dell’Uomo nel silenzio del tratturo”. Protagonisti della serata, sul palcoscenico di Keiros: il gruppo musicale “Il Tratturo”, che eseguirà brani tratti dal repertorio musicale molisano con strumenti originali della tradizione contadina e pastorale. Nel corso della stessa serata, Caterina Venturini, accompagnata dal pianoforte di Valentina Ventimiglia, citerà pagine letterarie, leggerà aforismi, proporrà versi idealmente collegati a questo angolo di Sud. Primi attori della cena tra i tavoli di “Uve e Forme”: i sapori di una terra “fuori schema”. E gli imprenditori locali, promotori diretti della manifestazione: Caseificio Di Nucci di Agnone; Azienda Agricola Principe Pignatelli di Monteroduni; Valerio Vini di Monteroduni.

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MOLISANI NEL MONDO

“Effetto-Svizzera” sull’immigrazione, in Europa si rafforzano i nazionalismi

Il referendum nei Cantoni alimenterà un’ondata sciovinista?

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di GIAMPIERO CASTELLOTTI

La Svizzera a due facce. Ma, in fondo, non dissimili tra loro. Per entrambe, poca ideologia e molto pragmatismo. Sconfitto a sorpresa al referendum del 9 febbraio sull’immigrazione, il partito trasversale delle “frontiere aperte” si svela più neoliberista che filantropico. Anche nelle dichiarazioni del giorno dopo, mostra la supremazia delle ragioni economiche rispetto a quelle umanitarie. Evidentemente la presenza di uno dei centri creditizi e finanziari più importanti al mondo e di cinque delle cinquanta più grandi aziende europee per quotazione di Borsa, con il corollario di lavoratori immigrati, surclassa l’irreprensibile spirito civile e sociale degli svizzeri nonché i fiori all’occhiello umanitari che qui hanno sede, le agenzie dell’Onu, la Croce Rossa e i numerosi tavoli negoziali internazionali. Gli analisti del Credit Suisse – esperti più di abiti di foggia italiana che non di sai da missionari – si preoccupano per un possibile calo del Pil dello 0,3 per cento (1,2 miliardi di franchi) per i prossimi tre anni a causa del risultato referendario. In fondo, però, quisquilie per il Paese con il secondo reddito pro capite al mondo (82.730 dollari annui, solo la Norvegia fa meglio). Capace, in questi anni di drammatica recessione, di ridurre il debito pubblico dal 41,8 per cento del 2008 al 35,3 per cento del 2013, cioè percentualmente circa un quarto di quello della vicina Italia. Altre preoccupazioni emergono come spade di Damocle sul fronte del lavoro. L’agenzia Awp accende criticità per il reperimento di risorse umane. Presume maggiori difficoltà nel reclutare personale qualificato, soprattutto nel settore medico. Timore condiviso con Sibille Duss, economista dell’Ubs e con il capo della direzione del lavoro presso la Segreteria di Stato dell’economia, Boris Zurcher, che prevede “una maggiore insicurezza nel mercato occupazionale”.

Drastico anche Yves Fluckiger, direttore dell’Osservatorio universitario dell’impiego, il quale parla apertamente di “clima nefasto” per le relazioni economiche.

Vincitori a sorpresa Insensibile a queste ragioni e smentendo i sondaggi della vigilia - anche gli inappuntabili svizzeri possono sbagliare - l’altra faccia della medaglia, costituita da “sì” agli steccati contro l’immigrazione, ha prevalso al referendum grazie ad una differenza di appena 19.516 schede. A guidare i fautori delle quote all’immigrazione è stato un partito conservatore, l’Unione democratica di centro (Udc), che vanta la maggioranza relativa col 26,6 per cento dei voti, per quanto nelle ultime elezioni del 2011 ha visto diminuire i consensi. Ha condotto una battaglia solitaria, contro tutti gli altri partiti e soprattutto contro le grandi banche e la Confindustria elvetica. La vittoria, insomma, è squisitamente popolare, alternativa ai “poteri forti”. L’esile maggioranza del 50,3 per cento è però ben più pesante dei pochi voti di scarto ottenuti. Perché nell’affermazione dei più intransigenti ci sono i tanti spettri delle complesse motivazioni. Non facili da decifrare. E, tra l’altro, con effetti che saranno certamente di peso sul resto d’Europa.

Svizzera xenofoba? Leggere il voto svizzero come frutto di un’intolleranza endemica, operazione tentata tout court da qualche sprovveduto analista, è smentito dalla realtà stessa del Paese elvetico:

il modello sociale svizzero – dove “federalismo” non è una parola vuota ma il caposaldo del dialogo tra comunità differenti - è foggiato proprio sulla partecipazione dal basso e sulla tutela delle diversità. Non è un caso se i forestieri hanno raggiunto ben il 23,3 per cento della popolazione, a cui va aggiunto l’esercito dei frontalieri, centinaia di migliaia di italiani, francesi, austriaci, tedeschi. Fenomeni, tra l’altro, non certo recenti, ma attivi in forme rilevanti sin dal dopoguerra. E’ quindi superficiale, se non proprio fuorviante, tentare di ridurre e liquidare l’insofferenza verso l’immigrazione alla sola e presunta matrice sciovinista o xenofoba. L’esito è di apporre in modo sbrigativo, generico e approssimativo etichette discriminatorie ad uno Stato europeo che non deve certo imparare da nessuno in termini di civiltà, di pacifismo e di democrazia. Dove dal primo gennaio 1995 vige una tra le più ferree normative contro il razzismo etnico e religioso. E dove, soprattutto, la volontà popolare ha un peso politico reale. Chi sovrappone il voto ad un presunto dna razzista non fa altro che esacerbare le posizioni. Facendo riemergere vecchi e dimenticati episodi di cronaca, come l’uccisione xenofoba del carpentiere italiano Alfredo Zardini nel 1971 a Zurigo. O assicurando enfasi a notizie non proprio edificanti provenienti dal Paese elvetico, come la sentenza di metà febbraio del tribunale supremo di Losanna, che non ha ritenuto razzista l’insulto “sporco profugo” (“Dreckasylant”) con cui un poliziotto svizzero ha apostrofato un migrante algerino sospettato di furto (secondo i magistrati elvetici, un insulto è razzista quando fa esplicito riferimento all’etnìa o al colore della pelle). Analogamente ha fatto rumore l’assenza dell’aeronautica svizzera Schweizer Luftwaffe nel prendere in consegna l’aereo della Ethiopian dirottato qualche giorno fa all’aeroporto di Ginevra, a cui hanno dovuto supplire due Mirage francesi. ►►

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MOLISANI NEL MONDO

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Le vere ragioni che hanno animato la maggioranza degli svizzeri, al di là degli “infortuni” di costume o delle minoranze xenofobe marginali, stanno evidentemente altrove.

La sconfitta multirazziale

Molti degli elvetici che hanno votato “sì” al referendum mostrano insofferenza non tanto verso i cittadini immigrati, quanto verso l’evoluzione del fenomeno migratorio. La ragione non è soltanto nel numero crescente di stranieri, raddoppiato negli ultimi 25 anni - oggi costituiscono quasi due degli otto milioni dell’intera popolazione svizzera, con un incremento del 3,4% tra il 2012 e il 2013 - ma nella rapida trasformazione della forza lavoro straniera. Dal dopoguerra agli anni Novanta l’immigrazione è stata quasi esclusivamente italiana: i nostri connazionali costituivano oltre la metà di tutta la comunità straniera. Nel 1970 gli italiani erano ben 650mila su una popolazione immigrata di un milione e 100mila. A cui andava aggiunto l’esercito dei frontalieri. Nel 1980, su 900mila immigrati, 423mila erano nostri connazionali. Una sorta di monopolio del “Made in Italy”. Poi le cose sono radicalmente cambiate. Mentre anno dopo anno la comunità italiana si è ridotta sensibilmente - ma oggi c’è un’inversione di tendenza che sta riportando il dato oltre le 300mila unità – si è registrata la forte crescita di altre comunità. Dopo la crisi dell’ex Jugoslavia, si sono stabiliti circa 300mila slavi. I tedeschi, soprattutto dell’est, sono 285mila, numero più che raddoppiato negli ultimi dieci anni. La comunità portoghese ha raggiunto le 240mila unità. I turchi sono 70mila. Gli asiatici, costantemente in crescita, sono 120mila. Insomma, la Svizzera in pochi anni s’è scoperta multietnica. Di riflesso, la difesa dell’identità nazionale, con il suo carico di “superiorità democratica” come l’ha definito il giornalista Antoine Menusier, ha giocato un ruolo determinante.

Non a caso i più numerosi “sì” al referendum non sono venuti dalle città dove la percentuale di stranieri è più alta (36,2 per cento a Ginevra, 33,4 a Basilea, 24,5 a Zurigo), ma dalle campagne, dove le tradizioni alpine svolgono una funzione basilare per la coesione sociale. E’ stata la scelta “dell’identità piuttosto che della prosperità”, come ha titolato “Le Monde”, anche se parliamo di uno dei Paesi più ricchi al mondo. Rispetto alle paventate spinte xenofobe, sono stati in realtà gli sciovinismi e gli istinti di conservazione ad aver avuto un’influenza decisiva sul voto referendario. E se ciò avviene nella civile Svizzera, Stato sovrano, più di qualche osservatore rileva come l’Europa dei Palazzi non possa liquidare un voto democratico minacciando unicamente rappresaglie. Ad esempio, sfidando in modo ricattatorio la confederazione elvetica su quei duecento accordi bilaterali, basati per lo più su relazioni commerciali, che Berna ha concluso con l’Unione europea negli ultimi 21 anni.

La dissociazione con l’Europa

Proprio nella “gestione” del voto elvetico emerge tutta la debolezza dei vertici comunitari. O meglio, l’incompatibilità tra il modello politico verticistico, elitario, lobbista e indifferenziato dell’Unione europea e quello cantonale svizzero, concepito proprio per tutelare le diversità e le libertà individuali. Una prima differenza è frutto della struttura economico-fiscale. Molti osservatori, soprattutto tedeschi, riconoscono la virtuosità del “modello svizzero”, focalizzandone i punti di forza soprattutto nella sovranità popolare e nel federalismo fiscale.

Qui un terzo del gettito fiscale va ai comuni, un terzo ai cantoni e un terzo al governo federale. Sistema che garantisce democrazia diretta. “Controllori e controllati sono vicinissimi - ricorda Sergio Morsoli, membro di direzione di Credit Suisse. E aggiunge: “Il potere politico, il controllo della spesa, la sorveglianza sull’amministrazione in Svizzera sono decentratissimi, e così gli svizzeri vogliono che restino. Questo a Bruxelles proprio non lo capiscono”. Sulla stessa linea il politologo tedesco Gerd Habermann, che esalta la tutela delle diversità: “Il grado estremo di suddivisione del governo, cioè la coerente applicazione del principio di conferire le competenze più importanti al livello più basso e di favorire il privato sul pubblico e le strutture informali su quelle formali, implica che il principio di sussidiarietà sia praticato in Svizzera come in nessun altro luogo in Europa. La diversità viene quindi concepita come un’opportunità, non come disparità indesiderata, da compensare con l’armonizzazione”. Insomma, è il trionfo della distinzione che diventa unità, esattamente l’opposto di quanto sta facendo l’Unione europea che mira all’omologazione delle diversità in nome dell’integrazione. Grazie alla ricchezza di tale modello politico basato sull’esaltazione delle diversità, a beneficiarne è anche il merito e la competenza, incentrati sul confronto tra territori coesi. La differenza dei modelli elvetico e comunitario è ben percepita dagli stessi svizzeri. Nel 2001 il 76 per cento degli elettori elvetici, sempre con un referendum, bocciò l’adesione all’Unione europea. E secondo un recente sondaggio della tv di Stato tale percentuale sarebbe addirittura salita all’82 per cento nel 2012 e arriverebbe all’89 per cento contro l’ipotesi dell’inclusione istituzionalizzata dentro uno spazio economico europeo. Non interrogarsi nel profondo sulle ragioni del “sì” svizzero e procedere per minacce o contrapposizioni da parte dell’Unione europea equivale a radicare sempre di più l’idea, nelle popolazioni, di Palazzi comunitari distanti dai cittadini e dalle realtà locali, preda dei poteri forti, degli interessi globali e delle burocrazie. ►►

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MOLISANI NEL MONDO

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Le insofferenze sociali contro “regole” dettate da interessi economici, ben presenti sottopelle nell’elettorato comunitario, rischiano di scalfire i principi democratici, compreso quello della solidarietà, base indispensabile per nazioni definibili civili. La più naturale conseguenza sarà quella di segnare una storica e ramificata débâcle dei partiti tradizionali alle prossime elezioni europee di maggio a favore delle formazioni estremiste, sospinte da venti di autoconservazione e di fanatismo.

Le paure sociali Un altro capitolo delle motivazioni che hanno spinto la maggioranza degli svizzeri – e ben diciassette cantoni (su 26) - a chiedere un tetto per l’immigrazione è quello delle paure sociali. Il vento dello smarrimento per stagioni future meno rosee di quelle presenti soffia anche, con le dovute proporzioni, oltre le alte montagne della confederazione. Lo spettro dell’inquietudine per la recessione economica e per la contrazione occupazionale, in Svizzera conseguenti soprattutto alla crisi dell’edilizia, animano fronde populiste e nazionaliste, non molto dissimili da quelle che altrove agitano la bandiera del ritorno alle monete nazionali o l’avversione al freddo rigorismo teutonico. Un voto che, su queste basi, investe pure il Vecchio Continente; anche perché, oltre alla richiesta di quote per l’immigrazione, rimette in discussione numerosi accordi stipulati tra la confederazione e l’Unione europea, compreso quello di Schengen sulla libera circolazione delle persone.

Il caso ticinese Emblematico delle motivazioni economiche, che affiancano quelle identitarie, è quello del Canton Ticino, determinante nel far pendere il risultato finale del referendum dalla parte del “sì”. Qui l’applicazione degli accordi di Schengen (insieme all’intesa italo-svizzera del 1976 sui frontalieri) ha determinato non pochi problemi di dissidio sul lavoro.

In sostanza, se il mercato occupazionale locale garantisce 240mila posti, gli italiani ne occupano da soli ben 60 mila, cioè un quarto. E i ticinesi sanno che con la grave crisi economica in Italia, milioni di lombardi o di piemontesi sarebbero pronti a ritagliarsi altri spazi nel mercato elvetico. Tutto ciò sta provocando, tra l’altro, un abbassamento dei livelli salariali. C’è poi il fenomeno delle centinaia di camioncini che ogni giorno varcano la frontiera, guidati da elettricisti, idraulici e altri artigiani italiani che, come sottolinea Claudio Mesoniat, direttore del quotidiano ticinese “Il Giornale del popolo”, “praticano una concorrenza scorrettissima” perché “offrono i loro servizi a prezzi stracciati, non pagando le imposte in Svizzera grazie agli accordi con l’Europa, ma non le pagano nemmeno in Italia perché sfuggono al fisco italiano”. In Ticino persino forze di sinistra, come i Verdi, hanno appoggiato il “sì” al referendum.

Cosa succede ora Il Consiglio federale elvetico, con efficientismo tutto svizzero, ha già deciso – a soli due giorni dal voto - che il nuovo progetto di legge sull’immigrazione sarà pronto entro la fine dell’anno. Conterrà limiti ai permessi per immigrati e frontalieri e precedenza agli svizzeri nelle nuove assunzioni. Il nuovo testo costituzionale impone a Berna di introdurre, entro tre anni, un nuovo sistema d’ammissione per tutti gli stranieri. Entro lo stesso termine, l’Accordo di libera circolazione delle persone dovrà essere rinegoziato per superare il contrasto determinatosi con le norme votate dalla maggioranza dei cittadini elvetici.

“Nelle settimane e nei mesi a venire - si legge nella nota del governo svizzero - il Consiglio federale continuerà a occuparsi intensamente dell’attuazione del nuovo sistema, chiarendo a poco a poco le questioni aperte e adoperandosi per trovare le migliori soluzioni possibili sul piano della politica nazionale e internazionale”.

Accuse al mittente

L’onda d’intransigenza sembra però investire, con proporzioni più accentuate, l’intera Europa. Il tabloid di sinistra “Blick”, il più diffuso in Svizzera, ha pubblicato un sondaggio condotto in Francia, Germania e Gran Bretagna che dimostra come la volontà di regolare l’immigrazione sia maggioritaria anche in altri Paesi europei. I dati sono emblematici: vorrebbero limitare il numero di stranieri il 77,5 per cento dei britannici, il 69,7 per cento, dei francesi e il 61,8 per cento dei tedeschi. Percentuali che vanno ben oltre quel 50,3 per cento degli elettori svizzeri. Degno di riflessione il fatto che in Germania sono in proporzione i più giovani e le donne a chiedere freni all’Einwanderung, L’esperienza referendaria svizzera sembra essere vista con favore nell’altro Paese più ricco del Vecchio continente: la Norvegia. Nonostante sia una delle economie più ricche del pianeta, zero debito pubblico, bassissima disoccupazione e un fondo sovrano da 830 miliardi di dollari, il rallentamento del Pil (dal 3,4 per cento del 2012 al 2 per cento dello scorso anno) ha attivato campanelli d’allarme. I nodi al pettine sono la corona troppo forte, che frena le esportazioni, la riduzione degli investimenti nell’economia petrolifera e i salari molto alti. ►►

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MOLISANI NEL MONDO

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Ma i conservatori della premier Erna Solberg tornati al governo dopo otto anni, hanno al fianco il Partito del Progresso, destra xenofoba che mira a ridurre l’immigrazione, a varare norme più severe per i ricongiungimenti familiari e a prevedere il carcere per i richiedenti asilo che commettono illegalità. Oltre a rendersi protagonista di una campagna per difendere il diritto di servire maiale nelle mense, anche con presenza di islamici, il Partito del Progresso sta sostenendo con sempre maggiore vigore la proposta di chiudere le frontiere agli immigrati, accompagnata dagli allarmismi per il futuro. Confortata dai sondaggi, la formazione dell’estrema destra ha annunciato che intende chiedere l’indizione di un referendum in Norvegia sul modello di quello svizzero. Con le dovute proporzioni, tali orientamenti lievitano in tutta Europa e rischiano di alimentare terremoti in molti scenari politici. Ad esempio, la Francia progressista è con il fiato sospeso per i sondaggi che registrano l’inarrestabile ascesa di Marine Le Pen e del suo Front National, accreditato per la prima volta in testa, due punti sopra l’Ump e cinque sopra i socialisti. Ciò sta determinando un cambio di strategie nel governo, che ad esempio sta intensificando gli sgomberi di campi rom. Indicativo della nuova linea di fermezza anche il recente caso dell’espulsione di Léonarda Dibrani, l’adolescente kosovara di etnia rom, prelevata dalla polizia mentre era in gita scolastica e rispedita con la famiglia in Kosovo.

Il ministro dell’Interno Manuel Valls, che aveva parlato di “impossibilità” nell’integrarli, è stato richiamato della Commissione europea. In Inghilterra il governo conservatore di David Cameron, incalzato dai sempre più forti nazionalisti dell’Uk Independence Party, con la nuova legge sull’immigrazione cancellerà i sussidi di disoccupazione e i contributi sulla casa nei primi tre mesi per gli immigrati senza lavoro. Inoltre renderà più facili i rimpatri per i clandestini, limitando le possibilità di fare ricorso. I test di lingua per ottenere i benefit sono stati già resi più severi. Cameron ha annunciato di voler ridurre entro il 2015 l’immigrazione netta (la differenza tra immigrati ed emigrati) sotto le centomila unità, forse dopo aver letto un sondaggio del British Social Attitudes secondo cui 75 britannici su 100 si dicono favorevoli alla riduzione del numero di stranieri. I sondaggi vanno nella stessa direzione anche in Danimarca. Quello pubblicato sul quotidiano “Jyllands-Posten” prevede una netta svolta a destra per il Paese della Sirenetta. Almeno nelle intenzioni di voto. Mentre i socialdemocratici della premier Helle Thorning-Schmidt scenderebbero al 18,3 per cento (dal 24,8 ottenuto nel 2011), pagando le privatizzazioni, i tagli al welfare e le operazioni con la Goldman Sachs, s’affermerebbe il Venstre, partito di centrodestra attualmente all’opposizione, e soprattutto volerebbe il partito anti-immigrati con il 19,5 per cento dei voti. Anche in Spagna la questione dell’immigrazione è sempre più sentita. Specie da quando centinaia di africani tentano di entrare in Europa attraverso le città di Ceuta (lo scorso 6 febbraio quattordici migranti sono annegati nel mare antistante la città) e Melilla.

Secondo le organizzazioni umanitarie, gli agenti della Guardia Civil affronterebbero la situazione sparando proiettili di gomma ad altezza d’uomo, mentre il filo spinato provocherebbe mutilazioni e lesioni gravi (c’è chi propone il più civile uso di droni). Un rapporto dei servizi segreti spagnoli parla di circa trentamila africani accampati in Marocco, pronti ad ingressi clandestini attraverso le due città (in genere a bordo di auto e moto lanciate a tutto gas o in doppi fondi sotto i pullman). Il traffico di uomini sarebbe ormai in mano a bande di nigeriani. Un recente accordo con Senegal e Gambia limita gli ingressi nelle Canarie. Insomma, il referendum svizzero potrebbe davvero essere considerato “all’acqua di rose” rispetto a ben altre prospettive in Europa. E non solo, visto che Israele, con l’operazione “Si torna a casa” potrebbe rimpatriare circa 50mila africani, mentre persino gli Stati Uniti, da quando Obama è presidente, hanno espulso due milioni di clandestini.

Il fronte anti-siriani C’è un altro fronte europeo che sta preoccupando l’Unione europea e le organizzazioni umanitarie: quello orientale. E’ in atto una massiccia azione di respingimenti di profughi e richiedenti asilo provenienti principalmente dalla Siria. A tale scopo, nel dicembre 2012, la Grecia ha costruito un muro di 10,6 chilometri – costato circa venti milioni di dollari – lungo la frontiera con la Turchia. Il risultato è stato quello di scaricare l’emergenza sul confine bulgaro, dove fino a novembre 2013 sono entrati circa duemila profughi e richiedenti asilo a settimana (9.325 le richieste d’asilo nel 2013), finché il governo di Sofia non è passato alle maniere forti: 1.400 agenti di polizia dispiegati al confine con la Turchia, secondo le organizzazioni umanitarie. Non solo: sembra che la Bulgaria voglia innalzare un muro di 33 chilometri, con filo spinato, per fermare i siriani in fuga dalla guerra nella regione di Elhovo, al confine con la Turchia. ■

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Versi

Il lago di Civitanova Cerco il lago e ancor lo trovo al disgelo di marzo, raccolto in calice nella valle dei giganti, che silenti abbracciano il cielo, un baleno d’argento rimbalza sulle limpide acque, veloce come il verso del falco, com’eco d’un fuggente infinito che s’acquieta lontano, poi… da un nulla d’azzurro si leva una nuvola rada, per presto svanir allo stretto orizzonte, e… or ecco, un soffio invisibile, leggero m’attraversa, come fossi diafano fantasma, la mano vorrei come foglia ancor dormiente nella sua gemma, gli occhi sciolti al rivolo lento… è nudo il fruscio della foresta e timido il canto dei piccoli uccelli, m’incanto… e un’armonia vedo ch’intorno mi danza e sussurra: tutto passa, ma non tutto muore! Tu puoi… se vuoi… puoi svelar l’arcano: la vita è ricordo, immagine eterna di memoria, libera dalla durezza d’un corpo destinato allo schianto di morte." Don Annibale Prezioso

DULCIS IN FUNDO

I ragazzi della “Jovine”

Chiudiamo questo numero di “Forche Caudine” con un’immagine particolare: quella di San Giuliano…

Abbiamo ammirato l’altra sera la seconda puntata della nuova serie dei “Dieci comandamenti”, il programma di Raitre curato dal giornalista Domenico Iannacone, origini molisane tra Torella del Sannio e Frosolone. Al di là dell’amicizia che lo lega alla nostra associazione, riteniamo Domenico uno dei più validi giornalisti in circolazione. Meno noto di altri abituati a “dirigere il traffico” in quella specie di arene televisive che garantiscono visibilità ai politici di turno. Ma certamente più bravo, con la sua capacità di recuperare la dimensione umana nelle sue storie proposte al grande pubblico. Non a caso ha ricevuto il prestigioso premio “Ilaria Alpi”. Domenico ha raccontato una storia molisana: i ragazzi della “Jovine”, la scuola di San Giuliano di Puglia crollata undici anni fa strappando le giovani vite di ventisette studenti. Una storia che riemerge, purtroppo, soltanto come una sorta di rito a fine ottobre in occasione dell’anniversario. Viceversa Iannacone ha avuto la capacità di “fare il punto” ad oltre un decennio di distanza da quella immane tragedia. Ha intitolato la storia "Il risveglio". E si è soffermato non solo sui luoghi ricostruiti (anche se negli altri Comuni terremotati del Molise la ricostruzione è ferma al 35 per cento, nonostante il miliardo di euro speso), ma soprattutto sulla vicenda di Pompeo Barbieri, uno dei ragazzi che si sono salvati sotto quella scuola crollata, ma a caro prezzo: vive su una sedia a rotelle e, per complicazioni successive, con un rene trapiantato, donatogli da suo padre. "Siamo partiti facendoci una domanda: a distanza di tanto tempo il paese è stato ricostruito, ma le identità sono state veramente ricostruite? Parliamo di rinascita, di un paese che deve essere ricostruito spiritualmente, prima ancora che materialmente - sottolinea il giornalista molisano.

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