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6 Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino Novembre/dicembre 2007 – Anno VIII Giorgio Amendola e il Mezzogiorno Alfonso Musci • • • Enrico Sacco • • • Giulia Velotti • • • Armando Vittoria • • • Cordinatore Amedeo Lepore Giuseppe Vacca Relatore • • • Mariano D’Antonio • • • Adriano Giannola • • • Simone Misiani • • • Nino Novacco Marina Comei • • • Biagio de Giovanni • • • Massimo Lo Cicero • • • Giovanni Matteoli • • • Cordinatore Andrea Geremicca Le comunicazioni I giovani ricercatori La tavola rotonda Atti del seminario promosso dalla Fondazione Mezzogiorno Europa nel Centenario della nascita di Giorgio Amendola Napoli 6 Dicembre 2007 Dal 28 Febbraio al 2 Marzo LA SCUOLA D’INVERNO DELLA FONDAZIONE MEZZOGIORNO EUROPA Il bando a pag. 13

Numero 6/2007

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Rivista Mezzogiorno Europa

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Page 1: Numero 6/2007

6Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.

Spedizione in abbonamento postale 70%Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

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07 –

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I

Giorgio Amendolae il Mezzogiorno

Alfonso Musci• • •

Enrico Sacco• • •

Giulia Velotti• • •

Armando Vittoria• • •

CordinatoreAmedeo Lepore

Giuseppe VaccaRelatore

• • •Mariano D’Antonio

• • •Adriano Giannola

• • •Simone Misiani

• • •Nino Novacco

Marina Comei• • •

Biagio de Giovanni• • •

Massimo Lo Cicero• • •

Giovanni Matteoli• • •

CordinatoreAndrea Geremicca

Le comunicazioni I giovani ricercatori La tavola rotonda

Atti del seminario promossodalla Fondazione Mezzogiorno Europa

nel Centenario della nascita diGiorgio AmendolaNapoli 6 Dicembre 2007

Dal 28 Febbraio al 2 MarzoLA SCUOLA D’INVERNO DELLA FONDAZIONE MEZZOGIORNO EUROPA

Il bando a pag. 13

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Iniziati negli anni Sessanta, gli scritti di Amendola sulla storia del comunismo italiano si vennero via via inserendo nella sua riflessione sull’antifascismo e sulla storia d’Italia. Essi hanno un carattere fortemente autobiografico e sono parte costi-tutiva del suo profilo di dirigente politico. Nessun altro dirigente del Pci, a parte Togliatti, sentì così forte l’assillo di giustificare storicamente la propria azione politica, e se quest’at-titudine fu incoraggiata e orientata dal magistero di Togliatti, essa però aveva radici più lontane, precedenti l’approdo di Amendola alla milizia nelle file del Pci: traeva origine dal-l’educazione paterna e dall’ambiente familiare della sua giovinezza, in ulti-ma analisi dallo storicismo crociano. Questo contribuì a dare ai suoi scritti storici un’intonazione particolare, rintracciabile soprattutto nella sua visione della storia, nella quale, come ha osservato acutamente Simona Colarizi, il partito prendeva il posto che nella storiografia liberale hanno le élites, e sua concezione della storiografia, che assunse sempre più un ruolo pedagogico, illuministico e catartico. Inoltre, al carattere emble-matico della figura paterna nell’anti-fascismo liberale ed alle ragioni che determinarono la sua «scelta di vita» risale, io credo, anche l’inclinazione a fare della propria biografia una vicenda esemplare per la formazione delle più giovani generazioni: un veicolo attraverso cui trasmettere un patrimonio di valori, esperienze e conoscenze fondamentali per la loro educazione anche perché simbolo degli aspetti più nobili della storia na-zionale. Affrontare il tema Amendola storico del Pci vorrebbe dire, quindi, scegliere la prospettiva più ricca per

lumeggiare la figura dell’uomo e del politico, e ricostruirne la biografia secondo l’angolazione forse più perspicua. Non è questo il compito che qui mi propongo; mi limiterò, invece, a prendere in esame solo alcuni scritti di carattere più propria-mente storiografico e metodologico. Anche con questa limitazione, però, non ci si può sottrarre al fatto che essi sono immersi nella lotta politica che vedeva Amendola protagonista. Dunque, non si potrà prescindere dal contesto politico in cui nacquero e da cui traggono il loro significato.

[…]

Il Pci nell’Italia repubblicana

L’«anno degli s tudent i» e l’«autunno caldo» segnavano la fine «irreparabile» del centro-sinistra e inaugurarono un nuovo ciclo della politica italiana nel quale venne in pri-mo piano la «questione comunista». La riflessione di Amendola sulla storia del Pci assunse allora delle direttrici più distinte, che ne caratterizzarono il percorso in tutto il decennio suc-cessivo: da un lato gli dedicò alcuni interventi anche all’azione del Pci dal 1943 al 1953, dall’altra, pur ribadendo il legame imprescindibile fra storia contemporanea e autobiografia, si sforzò di tenerle separate lavorando, per il periodo 1921-1943, da un lato ai due volumi autobiografici Un scelta di vita e Un’isola, e dall’altro ad una Storia del Pci dal 1921 al 1964 di cui vede la luce solo il primo volume. Le Lettere a Milano (1973) costituiscono invece un genere misto essendo una raccolta di documenti commentati ri-

guardanti l’attività svolta da Amendola come dirigente del Pci dal ’43 al ’45 e al tempo stesso un lavoro preparatorio della successiva Storia del Pci. I contri-buti più propriamente storiografici sul Pci nel decennio 1943-1953 sono tre: Il Pci all’opposizione. La lotta contro lo scelbismo del 1971, Il balzo nel Mezzogiorno (1943-1953) del 1972, e Riflessioni su una esperienza di governo del Pci (1944-1947) del 1974. Al pari degli altri scritti autobiografici e storici degli anni Settanta anch’essi sono strettamente collegati all’azione svolta da Amendola nel partito e nella vita politica italiana e internazionale. Questa coincideva largamente con quella del nuovo gruppo dirigente che dal 1969 veniva emergendo intorno a Longo e a Berlinguer, ma se ne di-scostava su due questioni strategiche fondamentali quali il rapporto del Pci con l’Urss e il modo di risolvere il problema del suo accesso al gover-no. Il riverbero di tali consonanze e divergenze sull’attività storiografica di Amendola si manifesta nella rap-presentazione della classe operaia come la vera nuova classe dirigente della democrazia repubblicana e del Pci come la principale se non l’unica risorsa capace di portare a termine la «riforma intellettuale e morale» del Paese cominciata con la Resistenza e la Guerra di liberazione.

[…]

La possibilità di condizionare il gruppo dirigente giuocando sull’in-determinatezza della sua prospettiva di governo era vanificata dal fatto che Amendola condivideva l’im-pianto strategico dell’«alternativa democratica» e le sue aporie. Infatti, uno schieramento riformatore basato sull’antifascismo non avrebbe potuto

né escludere la Dc, né romperne l’unità. Fin dal ’46 essa costituiva il maggiore dei partiti antifascisti, non aveva mai messo in dubbio il proprio orientamento antifascista, che perciò era divenuto uno dei cementi dell’uni-tà del partito e, grazie alla sua forza, la Dc si era affermata anche come l’arbitro degli indirizzi che l’ispira-zione antifascista poteva assumere secondo il mutare delle congiunture politiche italiane ed internazionali. Per il Pci l’unica possibilità di tornare al governo in nome dell’unità antifascista era quindi affidata ad un mutamento radicale del quadro politico inter-nazionale come Togliatti per primo sapeva. Amendola pensava di forzare la situazione ribadendo l’autonomia della politica italiana dal sistema internazionale della guerra fredda e affermando come un dato acquisito che l’ingresso del Pci al governo costi-tuiva «un problema che non riguarda né gli americani, né i russi».

La citazione era tratta dall’intervi-sta di Togliatti a «L’Unità» del 5 mag-gio 1963, che Amendola riprendeva ampiamente a sostegno della sua posizione. Ma non si può fare a meno di osservare che il contesto in cui To-gliatti aveva rilasciato quell’intervista - le elezioni di aprile avevano pena-lizzato il centro-sinistra premiando il Pci e il Pli - qualificava la proposta di «inserire la grande forza comunista in un campo governativo» come una mossa tattica, volta a contrastare una più netta delimitazione a sinistra della maggioranza governativa e il rischio di isolamento del partito. In tale contesto l’affermazione che l’ingresso del Pci al governo costituisse un pro-blema che non riguardava né i russi, né gli americani, aveva un valore puramente propagandistico, tanto

Giorgio Amendolastorico del PCIGiuseppe Vacca

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�è vero che, come è stato di recente argomentato, il viaggio di Togliatti a Mosca nell’agosto 1964 aveva anche lo scopo di sondare il governo sovie-tico sull’eventualità dell’ingresso del Pci al governo. Per contro Amendola sembra riprendere quell’affermazione con convinzione, quasi ignorasse che l’indeterminatezza della pro-posta di governo del Pci scaturiva soprattutto dalla difficoltà di evitare uno scontro sia con gli Stati Uniti, sia con l’Urss. Perdippiù Amendola insisteva nell’additare la Dc come il principale ostacolo a un’«alternativa democratica» e questo aggiungeva un’altra aporia a quelle che già mina-vano la strategia del partito. D’altro canto, i contraccolpi originati dai movimenti del ’68-’69, l’inizio della «strategia della tensione», i moti di Reggio Calabria e lo spostamento a destra degli equilibri elettorali nelle amministrative del 1971, spingeva-no Amendola a drammatizzare la minaccia neofascista come carta di riserva della grande borghesia e dell’«imperialismo americano», e pe-ricolo incombente permanentemente sulla democrazia repubblicana. Pen-so che la sua analisi del Mezzogiorno come area del Paese in cui un’ipotesi neofascista poteva trovare nuove basi di massa influì sulla visione della situazione italiana che indusse Berlinguer a formulare la strategia del «compromesso storico» ben prima dei famosi articoli sui «fatti del Cile» dell’autunno 1973. Infatti, con un lessico diverso e meno comunicativo quella strategia era stata proposta nel congresso del marzo 1972, in cui Berlinguer era stato eletto segretario: Ma, se l’ipotesi è fondata, le analisi di Amendola finivano per accrescere anziché sciogliere le ambivalenze della proposta di governo del Pci. Né mi pare che una correzione di tali aporie venisse dal contributo dato da Amendola, in quegli anni, all’appren-distato europeistico del Pci.

In questo contesto si collocano i tre contributi storiografici sul Pci nel decennio 1943-1953: essi configurano un tentativo riuscito di fondere, da un lato, storia del Pci e storia d’Italia, dal-l’altro storiografia e autobiografia.

[…]

Un aspetto saliente del primo saggio è la differenziazione della storia del Pci fra Nord e Sud, secondo un giusto criterio generale necessario a ricostruire in modo perspicuo la storia politica e sociale italiana nel suo complesso. E non a caso alla vicenda del Pci meridionale Amendola dedicò subito dopo il lungo saggio Il balzo nel mezzogiorno (1943-1953). Se con il saggio sul Pci all’opposizione egli aveva inteso ribadire - esperienza storica alla mano - la validità della strategia democratica del Pci contesta-ta in modo virulento dall’estremismo post-’68 (Lotta Continua, che fra le nuove formazioni extra parlamentari era allora la più influente, aveva sostenuto, insieme ai neofascisti e alla destra democristiana calabrese, la «rivolta di Reggio»), con Il balzo nel Mezzogiorno ricostruiva un’espe-rienza di lotte politiche e sociali che avevano cambiato il volto dell’Italia additando ad esempio il modo in cui il Pci le aveva impostate e dirette com-binando in modo sapiente iniziativa politica, azione di massa e battaglia parlamentare.

[…]

Fra i tre saggi esaminati Il balzo era quello più schiettamente auto-biografico, poiché in quel decennio Amendola era stato a capo dell’azione politica del Pci nel Mezzogiorno. Ma questo non gli impediva di collo-care quell’esperienza in una valida prospettiva storica. «L’affermazione nel Mezzogiorno di un movimento organizzato della classe operaia e delle masse lavoratrici - egli esordi-va - è il fatto nuovo che ha mutato negli ultimi venticinque anni la carta politica del paese». Non mi pare che tale giudizio si possa contestare: le lotte per la terra del ’49-’51 avevano aperto la strada alla «riforma stralcio» e incrinato il blocco conservatore coagulatosi intorno alla Dc nel 1948, dando inizio alle crisi del centrismo. Nel ’53 quel blocco aveva ricevuto il colpo di grazia proprio nel Mezzo-giorno dove, raddoppiando in pochi anni i suoi voti, il Pci aveva sconfitto la «legge truffa». Ma il suo «balzo» non era solo elettorale. Amendola metteva in luce la vera novità della

storia politica italiana: la costruzione di un partito di massa del movimento operaio che il socialismo prefascista non era mai riuscito a impiantare nel Mezzogiorno; il suo incardinamento in un movimento contadino e in élites operaie e intellettuali urbane ristrette, si, ma moderne e nazionali; quindi la sua capacità di dare un contributo decisivo all’unificazione del Paese e al suo rinnovamento politico. Se sotto il primo aspetto i fatti decisivi erano stati il colpo finale al «blocco agrario» e l’allargamento del mercato interno, e l’inserimento del Sud in un nuovo sistema politico basato sulla democrazia dei partiti, sotto il secon-do aspetto Amendola sottolineava soprattutto un elemento di «riforma intellettuale e morale» quale il va-lore che la costruzione del «partito nuovo» aveva assunto nell’erosione delle basi ideologiche e sociali del trasformismo, tara storica della vita politica meridionale. Ma soprattutto Amendola intendeva evidenziare alcuni tratti esemplari di quella esperienza al fine della sua battaglia politica attuale anche dentro il partito. Infatti, egli documentava come quei risultati si fossero potuti conseguire grazie a una solida unità fra comunisti e socialisti, alla loro azione comune nella costruzione di strumenti di mobilitazione e autorganizzazione delle masse, e dunque dalla capacità dei due partiti di procedere insieme, «dal basso e dall’alto», legando i gruppi intellettuali più avanzati del Mezzogiorno alla costruzione di una democrazia organizzata. Elemento decisivo di tutta l’impostazione del Fronte del Mezzogiorno era stata l’elaborazione di un programma di sviluppo di respiro nazionale, fondato sull’alleanza produttivistica con parti significative dell’industria e delle élites tecnocratiche meridionali, collegate anche con la Dc e capaci di influen-zarla. In fine, Amendola sottolineava come questo disegno fosse entrato in crisi con la fine dell’unità d’azione fra socialisti e comunisti, e come il centro-sinistra avesse rinnovato le fortune del trasformismo nel Mezzo-giorno coinvolgendo anche il Psi e imponendo una seria battuta d’arresto allo sviluppo del Pci. Non è chi non

veda i vari «fronti» - erano certo più di due – a cui la lezione della storia veniva indirizzata.

[…]

Le elezioni del 4 giugno 1979 registrarono la sconfitta del Pci che perse un milione e mezzo di voti (il 4%). Pochi mesi dopo la Fiat licen-ziava 61 operai e dirigenti sindacali sospettati di complicità con il terro-rismo. Lo sciopero indetto pronta-mente dai sindacati confederali fallì miseramente. Fu quella l’occasione per Amendola di manifestare con estrema determinazione tutto il suo dissenso sulla condotta del partito nell’ultimo decennio. Si affidò ancora una volta ad un lungo articolo su « Rinascita» che si può considerare il suo ultimo intervento politico di grande spessore. Colpisce, in esso, l’analisi delle ragioni per cui il falli-mento della «solidarietà nazionale» chiamava in causa le responsabilità dell’intera classe dirigente italiana, che non aveva saputo riformare il sistema dell’economia mista e ricollocare il capitalismo italiano nella competizione internazionale. Inoltre emergeva chiaramente la consapevolezza della portata storica della sconfitta subita dal Pci, che s’era visto costretto a ritirare l’appoggio al governo e provocare elezioni anticipate senza essere in grado di avanzare una proposta di ricambio. Lucida era, infine, la percezione che alla base dell’una e dell’altra sconfitta v’era l’esaurimento delle capacità egemoniche della classe operaia.

Rinuncio con rammarico ad analizzare distesamente quel testo che è forse il documento più emble-matico delle ragioni per cui gli anni Settanta rappresentano il passaggio decisivo di quello che in seguito si sarebbe chiamato «il declino dell’Italia». In questa sede mette conto piuttosto registrare come la percezione di una sconfitta storica della classe operaia, sulle possibilità egemoniche della quale Amendola aveva costruito la sua vita di poli-tico di professione, affinasse la sua capacità di collocare la congiuntura politica in una prospettiva di lungo periodo. Per darsi una ragione della

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�sconfitta Amendola partiva da lon-tano: dal rapporto fra Pci e classe operaia fin dagli anni Venti. É degno di nota che in questa occasione egli rettificasse la sua posizione sulla «svolta» del 1930 in modo ancor più radicale di quanto non avesse già fatto nella Storia del Pci l’anno precedente. Infatti, riconosceva con inusuale franchezza non solo che i collegamenti del Centro estero con la classe operaia italiana in seguito alla «svolta» non si erano affatto rinsaldati, ma anche che, malgrado la gravità della crisi economica, persino alla Fiat gli operai, saggia-mente, non avevano preso in alcuna considerazione le parole d’ordine insurrezionistiche dell’Internaziona-le comunista. Inoltre, venendo agli anni Sessanta e Settanta, superava definitivamente le idiosincrasie del 1968 per il movimento studentesco e tracciava una genealogia persua-siva dell’estremismo italiano dai «Quaderni Rossi» alle Br. In verità da qualche anno il distanziamento di Amendola dalle urgenze della lotta politica immediata ne favoriva una visione più equilibrata della storia politica italiana. Infatti nel 1977, recensendo il volume di Pietro Scoppola su La proposta politica di De Gasperi, Amendola correggeva profondamente il suo giudizio sulla Dc degasperiana, aderendo, con uno dei suoi contributi storiografici più sereni e meditati, alle principali tesi dello storico cattolico.

Sullo sfondo delle riflessioni politiche del triennio cruciale degli anni Settanta, finora brevemente richiamate, Una scelta di vita sembra ispirato dalla volontà, ricca di umori vitali ma anche velata di malinconia, di affidare alla propria autobiografia il compito di trasmettere alle nuove generazioni una esperienza esem-plare per la loro educazione politica e morale: quasi un Bildungsroman. Il libro costituisce, però, anche una fonte indispensabile per l’analisi dei contributi storiografici di Amendola poiché ripercorre le linee della cul-tura politica della sua formazione. Egli documenta che per lui, così come per altri giovani intellettuali italiani approdati al comunismo fra

la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, era stata fondamentale l’influenza dei testi canonici del leninismo; e questo non poteva non riflettersi sul modo di concepire il nesso fra politica e storia, definitosi in quegli anni un volta per sempre. La Storia del Pci assume invece il valore di una difesa estrema dell’eredità to-

gliattiana che, dinanzi alle crisi degli anni Settanta, appariva ad Amendola un patrimonio prezioso da preservare contrastando il pericolo sempre più evidente della sua dispersione.

Poco dopo la pubblicazione della Storia di Amendola uscì da Laterza l’Intervista sulla storia del Pci di Paolo Spriano, condotta da Simona

Colarizi. Amendola prese spunto da essa per sintetizzare, in una lettera aperta all’autore, i temi principali del loro disaccordo. La «lettera» contiene un’utile traccia per fare il punto, in conclusione del nostro saggio, sulla Storia del Pci 1921-1923. Trattandosi di un’opera di seconda mano, ci limiteremo a segnalarne le novità metodologiche e a registrare sia le conferme che i mutamenti di giudizio maturati nel frattempo sui momenti più importanti della storia del partito. Innanzi tutto va segnalato che Amendola dichiarava di non considerare più la storia del Pci come storia meramente nazionale e ne affermava l’interdipendenza con la storia del comunismo internazio-nale. In secondo luogo egli ribadiva l’intenzione di ultimare il secondo volume, al quale stava lavorando, e confermava che sarebbe giunto fino al 1964. Il modo in cui motivava la periodizzazione complessiva della sua Storia appare particolarmente significativo poiché dimostra che Amendola aveva maturato il convin-cimento che il 1964 rappresentasse una data periodizzante sia per la sto-ria italiana, sia per la storia mondiale in quanto segnava l’inizio della fine del secondo dopoguerra:

[Il 1964, egli scriveva,] ha un valore periodizzante non solo per ciò che ha rappresentato per il partito comunista la scomparsa del-l’uomo che, dal giorno dell’arresto di Gramsci, per circa 38 anni lo aveva ininterrottamente diretto […]. Il valore del 1964 come punto di svolta nazionale ed internazionale è indicato dalla vicinanza di altri fatti: dopo la morte di papa Giovanni XXIII, l’assassinio di Kennedy, l’inizio dell’aggressione americana al Viet-nam, l’allontanamento di Chruscëv dalla guida dell’Unione Sovietica. Nazionalmente il 1964 è l’avvio del-l’esperienza governativa del centro-sinistra, ma anche la fine del periodo di espansione monopolistica.

Infine, Amendola dichiarava che il suo lavoro era «essenzialmente fonda-to» sulla Storia del Pci di Spriano: non era frutto d’una ricerca personale ma si basava sulla considerevole biblio-grafia accumulatasi negli ultimi anni

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�sulla storia italiana e internazionale del ventennio considerato. La Storia di Amendola sembra dunque mirare all’obbiettivo di distinguere nettamente storiografia e autobiografia, ma anche di affidare ad una riflessione storica fondata sui risultati delle ricerche esistenti il ripensamento della propria esperienza politica. In questo senso ci pare che la sua Storia del Pci abbia, come abbiamo accennato, un valore catartico.

Nuova e assai netta appare nella Storia, la negazione che nel 1919-1920 ci fosse stata in Italia una situazione rivoluzionaria. Le motivazioni di tale giudizio sono riassunte nella «lettera» a Spriano. Amendola contestava la divisione del quadriennio 1919-1922 in due periodi, il “biennio rosso” e il “biennio nero”, adducendo validi motivi per affermare che un “biennio rosso” non era mai esistito: in primo luogo egli sottolineava l’isolamento della classe operaia, soprattutto nella crisi del dopoguerra, a causa della «estraneità» del Partito socialista alla guerra. In secondo luogo rimprovera-va a Spriano di sottovalutare il ruolo del nazionalismo, che nel corso della guerra aveva allargato le sue file ed era stato la forza su cui il fascismo s’era abilmente innestato fin dall’inizio, senza che il movimento operaio fosse in grado di capirlo. L’unico movimen-to rivoluzionario manifestatosi nel biennio ’19-’20 era stato quello dei consigli, che però non era andato mai al di là dei confini del Piemonte e agli inizi del ’20 («sciopero delle lancette») era già stato sconfitto. Nel dopoguerra si era dunque aperta una crisi del vecchio sistema parlamentare, ma non dello Stato, poiché, argomentava efficacemente Amendola, la monar-chia era restata il suo pilastro non solo non era stato scosso, ma si era persino rafforzato grazie alla guerra (il mito del «re soldato»), tanto da essere arbitro della situazione, come si vide chiaramente al momento della marcia su Roma.. L’argomentazione di Amendola è quanto mai importante perché giustifica la nascita del Pcd’I come «un atto di necessità destinato a promuovere effetti profondi e lontani», ma nell’immediato privo di validità politica. Com’è noto questo

era il giudizio sulla scissione di Livorno che Gramsci aveva cominciato a ma-turare fin dal primo momento. Al di là del teleologismo di cui Amendola lo vestiva esso è coerente con l’afferma-zione, generalmente condivisa anche dalla storiografia, che il vero atto di fondazione del partito fu quindi il

Congresso di Lione in quanto ne definì la funzione in base ad una visione autonoma della storia d’Italia. Va no-tato, inoltre, che anche il teleologismo che aveva segnato pesantemente la storiografia amendoliana sul Pci negli anni Sessanta, ora si affievolisce sensi-bilmente. Avendo riconosciuto anche

al Congresso di Lione un valore più di prospettiva che immediato, Amendola aderiva alla tesi di Spriano, secondo il quale la strategia di transizione de-mocratica formulata da Gramsci nel ’24-’26 non aveva nulla in comune con la «rivoluzione democratica» prospettata dal Pci dopo la caduta del fascismo, poiché concepiva ancora, come punto d’approdo la «dittatura del proletariato». Abbandonando il precedente continuismo Amendola considerava quindi il Congresso di Lione solo un lontano «incunabolo» della politica del Pci nella «guerra antifascista» grazie al fatto che, con la direzione di Gramsci, il Pci aveva superato l’«estraneità» del vecchio socialismo alla storia d’Italia. Last but not least, Amendola obiettava a Spriano di aver invece sottovalutato gli errori d’analisi di Gramsci nel corso del 1926: enfatizzando l’instabilità del capitalismo mondiale e considerando «catastrofica» la crisi del fascismo originata dalla rivalutazione della lira, Gramsci aveva previsto una rapida dissoluzione del «regime» e ciò, os-servava giustamente Amendola, aveva ritardato in misura grave la prepara-zione del partito alla clandestinità ed era stato causa del suo stesso arresto. A fronte di tale errore Amendola sottolinea la differente posizione di Togliatti che, da lontano (egli era a Mosca dal febbraio del ’26 come rappresentante del partito nell’esecu-tivo del Comintern), vedeva meglio la situazione e avvertiva il partito che Mussolini avrebbe risposto alla crisi di «quota 90» con «l’accentuazione sfrenata del regime di terrore», come infatti avvenne. Tuttavia, Amendola non estende il confronto fra Gramsci e Togliatti all’analisi della situazione internazionale, per cui ripropone la lettura erronea, ma consolidata, del dissenso manifestatosi tra loro nell’ottobre del ’26 proposto dalla «questione russa».

Sulla «svolta del ‘30», invece, Amendola conferma i giudizi formulati in tutti gli scritti precedenti. Anzi, la polemica con Spriano fa emergere una motivazione ancora più sofistica. Avendo circoscritto il dissenso di Gramsci sulla «questione russa» alla critica del «rigore» del regime interno

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�del Pcus, Amendola ridimensiona anche le resistenze successive del Pci ad adeguarsi alla politica staliniana quando ormai a Gramsci, era suben-trato Togliatti. Infatti egli sostiene che lo scontro fra il Pci e il Comintern, verificatosi nel X Plenum (luglio 1929), non riguardava la tesi del «socialfasci-smo» in quanto anche l’atteggiamento del Pci verso la socialdemocrazia era sempre stato di totale ostilità. Amendola sostiene invece che nel X Plenum dell’Internazionale comunista le resistenze della delegazione italiana alle pressioni dell’Internazionale ave-vano riguardato solo la strategia degli obiettivi intermedi a cui il partito era costretto a rinunciare. Inoltre aggiunge ritiene che nel ’30 la parola d’ordine dell’Assemblea repubblicana non corrispondeva più a nulla di preciso nella realtà del paese. D’altro canto, sotto la superficie della parola d’or-dine dell’Assemblea repubblicana il settarismo operista che caratterizzava il Pci fin dalle origini non era mai venuto meno. Il corpo del partito - per non dire di Longo e Secchia che l’avevano anticipata - era dunque più che disposto ad accogliere la «svolta» dell’Internazionale. Con tali argomen-tazioni Amendola intendeva sostenere l’origine «italiana». Certo, egli nota, la «svolta» si rivelò un fallimento; ma poi-ché aveva evitato il pericolo che il Pci si riducesse ad un club di emigrati, gli consentì di trovare in se stesso la forza per correggere, in seguito, quella poli-tica e diventare il punto di riferimento della nuova leva di militanti antifascisti che dal ’32 si formava grazie anche ai successi del primo piano quinquennale sovietico. Lo «stalinismo» che in quegli anni plasmava il «legame di ferro» del Pci con l’Urss corrispondeva dunque, secondo Amendola, ad un esigenza vitale per il partito in Italia. Quindi, al di là dei condizionamenti esterni, anche in quegli anni,la storia del Pci era stata una storia fondamentalmente nazionale.

Nella Storia del 1978 l’incon-gruenza di tali giudizi risalta ancor più chiaramente perché Amendola si propone di inquadrare le vicende del partito nel contesto della storia internazionale e quando passa ad esa-minare la storia della Kpd sottolinea

giustamente il peso che essa ebbe nel determinare la persistenza nel Comin-tern della tesi del «socialfascismo» fino a favorire l’ascesa al potere di Hitler. Questo paragone documenta in modo forse più semplice di quanto non provi la storia del Pcus, come la politica del Comintern non fosse altro

che la proiezione internazionale di politiche nazionali dell’uno o dell’altro partito comunista. Il paragone con la Kpd è dunque una spia del vero limite della enfatizzazione amendo-liana della storia del Pci come storia tutta nazionale. L’esempio tedesco da Amendola ricordato dimostra, in maniera palmare che nella storia dei partiti comunisti il nesso na-zionale-internazionale non è tanto necessario a dare il giusto peso ai condizionamenti esercitati dall’Urss, quanto perché, per il modo in cui erano nati e appartenendo a un’unica organizzazione mondiale, la storia dei patiti comunisti è al tempo stesso storia nazionale e internazionale. Le loro particolarità nazionali non si limitavano alla politica sviluppata da ciascuno all’interno del proprio paese, ma comprendevano il nesso da essi stabilito fra politica interna e politica internazionale. Non è chi non veda quanto questo dato influisse sulla visone della leadership del Pci fin dall’avvento di Gramsci alla sua direzione. Infatti, nella celebre lettera

al Cc del Pcr del 14 ottobre 1926, il dissenso con la politica di Stalin era motivato tanto dal timore che la volontà di «stravincere» mostrata dalla maggioranza alterasse irrepara-bilmente la fisiologia del centralismo democratico, quanto dal rischio che il nazionalismo della politica di Stalin

distruggesse le prospettive della «rivo-luzione mondiale». Intorno a questo problema ruotò anche la riflessione dei Quaderni del carcere, nei quali Gramsci non solo elaborò il nesso na-zionale-internazionale come criterio fondamentale per inquadrare storica-mente la politica dei partiti comunisti, ma formulò anche una teoria generale della costituzione dei soggetti politici fondata sulla funzione nazionale e internazionale delle classi e dei gruppi sociali da essi rappresentati.

Vero è che per Amendola il problema era stato risolto una volta per tutte dalla fedeltà dei partiti co-munisti all’Urss, che a suo modo di vedere, malgrado i condizionamenti che ne derivavano, a datare almeno dalla seconda guerra mondiale non aveva impedito e non impediva loro di sviluppare una politica nazionale autonoma ed efficace. Quello che importa qui rilevare è che, a causa di questa visione, che costituiva il trait d’union fra le posizioni politiche e l’impostazione storiografica di Amen-dola, l’obiettivo dichiarato di voler

scrivere una storia del Pci fondata sul paradigma dell’interdipendenza fra il nazionale e l’internazionale veniva sostanzialmente mancato. Nella Storia del Pci 1921-1943 Amendola offre un ampio affresco della storia italiana e internazionale fra le due guerre, e su questo sfondo proietta la storia del Pci. Ma sui passaggi decisivi che già abbiamo esaminato e su quelli suc-cessivi che ci limitiamo a menzionare - la politica del Pci e il VII Congresso dell’Internazionale, l’annichilimento d’una azione efficace negli anni del Grande Terrore e del patto tedesco sovietico, il dispiegamento della sua iniziativa con l’inizio della «grande guerra patriottica», i successi della politica di unità nazionale nella Resistenza e nella Guerra di libera-zione - la Storia del 1978 conferma l’impostazione e i giudizi sedimentati negli scritti degli anni Sessanta. In definitiva, storia nazionale e storia internazionale scorrono parallele in un mosaico mosso e calibrato, ma non c’è l’esplicazione della storia del Pci come attore politico nazionale-inter-nazionale. La grandezza di Togliatti, che Amendola intendeva palesemente mettere in luce, è ricondotta quindi alla capacità di mantenere ininter-rottamente la guida del partito. Solo così, infatti, adeguandosi alle brusche oscillazioni della politica di Stalin Togliatti aveva potuto preservare la possibilità di sviluppare, quando se ne era presentata l’occasione, una strategia nazionale lucida ed efficace. Se questo aveva comportato fare dei «salti della quaglia» - come Amendola in fine riteneva che Togliatti avesse fatto nel 1930 -, mantenere sapienti «riserve mentali» - come Amendola sosteneva che Togliatti avesse fatto nel biennio del patto Molotov-Ribbentrop - questi non erano altro che simboli della sua straordinaria virtù.

* Presidente dell’Istituto Gramsci* Dato il carattere della Rivista e delle stesso Seminario siamo costretti a pubblicare solo un breve stralcio dell’ampio saggio introdut-tivo di Giuseppe Vacca, il cui testo integrale, assieme alle altre comunicazioni, è dispo-nibile sul sito www.mezzogiornoeuropa.it nella sezione dedicata al Mezzogiorno.

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Il nuovo meridionalismo col quale Giorgio Amendola si confron-tò polemicamente negli anni ’50, accomunava eminenti politici ed economisti tra i quali Ugo La Malfa, Donato Menichella, Manlio Rossi-Doria, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, tutti esponenti della sinistra laica e democristiana che, pur con accenti, cultura e collocazione poli-tica differenti, rivendicarono il salto di qualità rappresentato dalla politica economica avviata per il Sud d’Italia con la riforma agraria e la nascita della Cassa per il Mezzogiorno.

La politica meridionalista, se-condo questi protagonisti dell’Italia repubblicana, si distingueva dagli interventi tradizionali dello Stato nel Mezzogiorno per alcuni caratteri radicalmente nuovi: era una politica organica, condotta in forma non episodica, secondo un programma pluriennale; coinvolgeva più settori d’attività economica (l’agricoltura, le infrastrutture e in seguito, agli inizi degli anni ’60, l’industria, in partico-lare quella di grandi dimensioni); era gestita da un organismo straordinario, appunto la Cassa per il Mezzogiorno, dotato di risorse finanziarie per più anni, distinto dall’amministrazione pubblica ordinaria (i Ministeri, gli Enti locali), gestito in forma agile, quindi rapido nell’eseguire i suoi interventi.

Amendola si oppose fin dall’ini-zio alla nuova politica meridionalista con argomenti molto chiari esposti nel discorso che egli pronunciò alla Camera dei Deputati nella seduta del 20 giugno 1950, in occasione del dibattito sulla legge istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno. A suo avviso, la questione meridionale non poteva essere affrontata con leggi

speciali, con i soli lavori pubblici (da lui ritenuti allora la missione preva-lente dell’intervento straordinario) ma richiedeva un indirizzo generale della politica che investisse l’intera economia italiana. Perciò egli riven-dicava a tal fine le riforme di struttura che riducessero il potere del capitale monopolistico e rivendicava l’auto-governo regionale mediante il quale le popolazioni meridionali sarebbero state “le protagoniste del processo di valorizzazione e di sviluppo eco-nomico di cui esse dovranno anche essere le beneficiarie”�.

Su quest’aspetto cruciale dell’in-tervento straordinario, vale a dire il nesso tra politica di sviluppo e auto-governo locale, Amendola pronunciò parole che si riveleranno in seguito profetiche: “La via per la soluzione della questione meridionale, disse,

� G. Amendola, intervento sul di-segno di legge: Istituzione della Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale (Cassa per il Mezzogiorno), in Atti parlamentari, Camera dei Deputati, resoconto della seduta pomeridiana di martedì 20 giugno 1950, pag. 19804. Nel suo discorso A. affermava esplicitamente: “La via per la soluzione della questione meridionale non è quella di un intervento dall’esterno o dall’alto, a mezzo di un ente speciale che, sotto la copertura di un’azione tec-nica, aprirebbe la strada all’espansione di gruppi monopolistici anche stranieri. La via à un’altra: quella di permettere alle stesse popolazioni meridionali di operare il rinnovamento e il progresso economico di quelle regioni e promuovere lo svilup-po delle forze produttive rimuovendo, con una svolta della politica dello Stato italiano verso il Mezzogiorno, e non solo con l’esecuzione di determinate opere pubbliche, le cause di carattere politico e sociale che hanno, dal 1862 in poi, determinato il formarsi di una questione meridionale.”

Il nuovomeridionalismoMariano D’Antonio

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10non è quella di un intervento dal-l’esterno o dall’alto, a mezzo di un ente speciale…”.

Amendola nel suo discorso alla Camera dei Deputati contrastò la teoria del Mezzogiorno inteso come area depressa, una teoria mutuata dall’esperienza del New Deal rooseveltiano e che egli definì

“una terminologia di derivazione keynesiana”. A suo avviso, la teoria delle aree depresse coincideva “con gli sforzi compiuti dai gruppi capitali-stici monopolistici per cercare nuove zone di espansione interne ed esterne che garantiscano un maggiore saggio di profitto”.

Pesava in questo suo giudizio

l’esperienza degli anni ’30, gli anni della grande depressione che dagli Stati Uniti si era propagata all’Europa, all’America Latina, a tutta l’economia mondiale, lasciando però indenne l’Unione Sovietica dove i comunisti erano riusciti a realizzare un impo-nente sviluppo industriale grazie alla proprietà statale dei mezzi di produzione e alla pianificazione centralizzata.

Amendola non aveva mai cre-duto che il capitalismo potesse risollevarsi durevolmente mediante le politiche keynesiane, mediante il controllo politico della domanda aggregata con le leve della moneta e del bilancio pubblico azionate per stabilizzare, anzi per stimolare la produzione e l’occupazione. La sua avversione al cosiddetto keynesismo lo aveva già portato a criticare il Piano del lavoro presentato da Di Vittorio e dalla CGIL nel marzo del 1950, un piano da lui ritenuto d’im-postazione keynesiana, così come criticò l’atteggiamento possibilista assunto da Giuseppe Di Vittorio al momento dell’avvio della Cassa per il Mezzogiorno, come egli stesso ha ricordato in un’intervista concessa pochi mesi di morire2.

Nella stessa intervista Amen-dola per motivare la sua ostilità alle politiche keynesiane si rifaceva all’incontro che ebbe per la prima volta nel giugno del 1931 con Piero Sraffa a Cambridge�: “Mi ricordo l’incontro a Cambridge nel ’31 con Sraffa in cui si parlò proprio di Key-

2 Luigi Vimercati e Sergio Soave, “La politica economica e il capitalismo italia-no. Conversazione con Giorgio Amendo-la”, Roma, 13 dicembre 1979, pubblicata sul sito internet (www.fondazioneisec.it) della Fondazione ISEC (Istituto per la storia dell’età contemporanea).

� Amendola s’era recato da Sraffa su sollecitazione di Togliatti: aveva il compi-to di ritirare da S. un misterioso pacchetto e poi recapitarlo al capo dei comunisti italiani a Parigi. Il pacchetto, com’ebbe a mostrargli emozionato Togliatti al ritorno di A. a Parigi, conteneva le prime lettere scritte da Antonio Gramsci nel carcere di Turi, che pervenissero tramite Sraffa a Togliatti. L’incontro tra Sraffa e Amendola a Cambridge è riportato in G.Amendola, Un’isola, Rizzoli, Milano, 1982, pag.36.

nes. Discutemmo il problema della moneta, il problema della domanda: domanda di armi o domanda di beni di consumo o domanda di beni di produzione.” In altre parole, Amen-dola, diremmo oggi, era interessato alla composizione, alla qualità del-l’intervento pubblico nell’economia capitalistica piuttosto che ad una generica politica di sostegno della domanda aggregata.

Giorgio Amendola si era laurea-to in giurisprudenza a Napoli nel luglio del 1930 discutendo una tesi in economia sul credito al consumo, uno strumento che allora appariva, specie negli Stati Uniti, atto a soste-nere la domanda di beni espressa dai consumatori anche a basso reddito, tanto da aprire sbocchi di mercato alle imprese�.

La crisi avviatasi un anno prima in America e poi trasmessa dall’Ame-rica al resto del mondo dimostrò anche ai suoi occhi quanto fosse fragile la speranza di affidare alle vendite a rate il compito di stabiliz-zare l’economia capitalistica: con l’aumento della disoccupazione i lavoratori che si erano indebitati per acquistare beni durevoli, dall’auto-mobile all’abitazione, divennero di colpo insolventi e il castello di carta dei debiti crollò travolgendo ban-che e imprese creditrici e creando con ciò maggiore disoccupazione. L’esperienza, i dati di fatto della crisi mondiale contribuirono a con-validare la decisione del giovane

� La tesi di laurea di Amendola sul credito al consumo, argomento sugge-ritogli da Francesco Saverio Nitti, ebbe come relatore il professore Augusto Gra-ziani, docente di Scienza delle finanze nell’Università di Napoli fin dal 1898, padre del giurista Alessandro Graziani e nonno del giovane Augusto Graziani, anch’egli dedicatosi in seguito agli studi di economia. La tesi di laurea di Amendola, nel 1931, quando Amendola divenuto comunista era già passato all’attività po-litica illegale, ricevette il premio Tenore dell’Accademia Pontaniana, relatore un altro illustre economista, Epicarmo Cor-bino. Cfr. Valeria Sgambati, “Economia e storia nella formazione intellettuale di Giorgio Amendola”, in L’Acropoli, n.5, settembre 2007; Id., “La formazione politica e culturale di Giorgio Amendola”, in Studi storici, n.3. 1991.

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11Amendola d’impegnarsi nella lotta politica antifascista militando nelle fila del Partito comunista.

Da allora egli maturò una sana diffidenza nei confronti degli eco-nomisti e dei loro teoremi astratti dalla realtà, teoremi che bollava col termine di economicismo: quando la teoria economica non si àncora alla realtà sociale, agli interessi delle classi, dei gruppi di potere che sono in campo, perde ogni interesse per la gente comune, per i lavoratori che ne sono la maggioranza e per i politici che li rappresentano.

Torniamo al rapporto tra Amen-dola e il nuovo meridionalismo, un rapporto che non è estraneo al suo rifiuto del cosiddetto economicismo. Svalutando la Cassa per il Mezzo-giorno e l’intervento straordinario che si avviava negli anni ’50, cri-ticando la tesi del Sud come area depressa bisognosa di essere risolle-vata con nuove politiche pubbliche, Amendola fu tuttavia vittima di un abbaglio intellettuale e commise un errore politico, ma al tempo stesso intravide il destino del nuovo meri-dionalismo, intuì le ragioni che qua-rant’anni dopo avrebbero portato quell’esperimento all’esaurimento e infine alla sua cancellazione.

Quello che ho definito l’abbaglio intellettuale di Giorgio Amendola, è l’avere accomunato la politica di svi-luppo con una politica keynesiana di sostegno della domanda aggregata, con una politica di stabilizzazione del mercato. In realtà, si trattava di due approcci ben differenti. La politica di sviluppo puntava alla trasformazione della struttura eco-nomica del Mezzogiorno, a mo-dificare l’agricoltura e soprattutto a porre le premesse dell’industria-lizzazione. Quest’orientamento fu presente, fin dal dopoguerra, nelle posizioni di alcuni esponenti del nuovo meridionalismo, in partico-lare nel socialista Rodolfo Morandi, ministro dell’industria nel 1946, nell’ingegnere Giuseppe Cenato che era a capo della Società Meridionale di Elettricità (SME), nel professore Pasquale Saraceno, economista industriale e dirigente dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI),

e nei lavori della Svimez, l’Associa-zione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, nata nel dicembre 1946 ad iniziativa di questo gruppo di meridionalisti5.

L’errore politico di Amendola e del gruppo dirigente del Pci di quegli anni fu, a mio avviso, di non aver colto le premesse di una modernizzazione stentata e distorta sì ma pur sempre avviata, che l’inter-vento straordinario promuoveva nel Mezzogiorno. La riforma agraria, la costruzione di alcune infrastrutture a servizio dell’agricoltura ma capaci pure di soddisfare i bisogni di civiltà delle popolazioni meridionali, e prima ancora la diffusione nel Sud dei partiti politici di massa e dei sindacati, avevano smosso le acque stagnanti della società meridionale, del mondo contadino in primo luo-go. Le aspettative dei meridionali per un futuro migliore s’innalzarono nella prima metà degli anni ’50 e

5 Testimonianze eloquenti delle posizioni assunte da Morandi, Cenzato e Saraceno sul necessario sviluppo industriale del Mezzogiorno, fin dal 1947 e coerentemente mantenute nel tempo, si ritrovano negli scritti raccolti nel volume Autori vari, Il Mezzogiorno nelle ricerche della Svimez (1947-1967), Giuffrè editore, Roma, 1968. Pasquale Saraceno, commentando nel 1957 le implicazioni dello Schema Vanoni per lo sviluppo del Mezzogiorno, scrisse chiaramente (Pasquale Saraceno, “lo ‘Schema Vanoni’ due anni dopo la sua presentazione”, ibidem): “… neppure la politica di sostegno della domanda effettiva (per intenderci quella nota sotto il nome di politica keynesiana) può essere applicata nella nostra situazione… la crisi italiana è totalmente diversa dalla crisi ciclica; la nostra disoccupazione non de-riva da un rallentamento del meccanismo economico che lascia temporaneamente inutilizzate alcune sue parti; ma da uno squilibrio tra dotazione di capitale e do-tazione di forze di lavoro, squilibrio che può essere superato non aumentando la liquidità del mercato, ma intensificando il processo di accumulazione del capitale… Una politica ispirata allo ‘Schema’ deve quindi articolarsi su due caposaldi. Da un lato, un aumento rilevante del risparmio nazionale…; dall’altro, un intervento pub-blico attivo nelle zone sottosviluppate, in-tervento che, non limitato alle opere e agli incentivi tradizionali, solleciti la nascita di forme moderne di produzione, e in primo luogo la nascita dell’industria.”

non potendo realizzarsi nell’ambito del Mezzogiorno si riversarono nel resto d’Italia. L’emigrazione dal Sud al Nord s’impennò anno dopo anno fornendo all’industria settentrionale in rapida crescita le forze di lavoro necessarie.

La seconda fase del nuovo meridionalismo, quella che pro-muoveva lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, avviatasi nel 1957 con la legge di rinnovo della Cassa per il Mezzogiorno, con gli incentivi alle imprese e con il vincolo degli investimenti da localizzare nel Sud posto a carico del capitalismo di Stato, dell’IRI e dell’ENI (Ente Na-zionale Idrocarburi), consolidarono ed estesero i nuclei di classe operaia fino ad allora ristretti a pochi luoghi, contribuendo anche per questa via ad articolare in senso moderno la composizione sociale del Mezzo-giorno.

Amendola e i comunisti in quegli anni sottovalutarono questi processi di trasformazione della condizione sociale e delle aspira-zioni dei cittadini meridionali. Si at-tardarono in una rappresentazione statica dell’economia e della società italiana, di quella meridionale in particolare. Fece loro da velo alla percezione del cambiamento la tesi elaborata negli anni ’30 di un capitalismo bloccato anche in Italia dalla catena dei monopoli industria-li alleati con la grande finanza, col capitale finanziario. Paradossalmen-te in quegli anni i comunisti non colsero la portata, il salto di qualità delle nuove istituzioni repubblicane che il Partito comunista contribui-va a radicare nelle coscienze e nei comportamenti degli italiani, il nuovo rapporto tra politica e mercato che i movimenti di massa organizzati, con i comunisti in pri-ma fila, modificavano spostando gli equilibri sociali.

Ugo La Malfa, avversario dei comunisti fino a ritenere astratta e semplicista la posizione di Gramsci sulla questione meridionale, sull’al-leanza tra operai del Settentrione e contadini del Meridione, nell’edi-toriale che apriva il primo fascicolo della rivista Nord e Sud, tuttavia

scriveva6: “Il comunismo ha avuto il merito, nel Mezzogiorno, di ren-dere politicamente attivi molti strati sociali tra i più miseri e sprovveduti, di saper dar loro un’organizza-zione, di sottrarli all’oppressione, al clientelismo, al provincialismo, alla corruzione.” Anche La Malfa definiva in quell’articolo il nuovo indirizzo della politica meridionali-sta un “riformismo calato dall’alto” e sollecitava i giovani democratici della borghesia meridionale ad usci-re dalla loro condizione minoritaria, a ricercare nel Mezzogiorno “le forze di appoggio all’ideale di una democrazia moderna, di un new deal italiano”.

Il “riformismo calato dall’alto” te-muto da La Malfa ovvero l’”intervento dall’esterno” avversato da Amendola sono stati il tarlo che ha eroso nel tempo il nuovo meridionalismo fino a provocare nel 1993 la cancellazione dell’intervento straordinario.

Il nuovo meridionalismo non si è dissolto a seguito di una congiura, come sostengono alcuni tardivi no-stalgici dell’intervento straordinario che, militando anche tra le fila della sinistra, ne decantano ancora oggi i meriti. Il nuovo meridionalismo è stato spazzato via insieme con gli strumenti di una politica disegnata dall’alto, insieme con lo Stato impren-ditore, con il dissesto della finanza pubblica, con i risultati deludenti ottenuti dall’intervento straordinario che non è riuscito in quarant’anni ad accorciare sensibilmente le distanze tra Nord e Sud.

L’intervento straordinario ha seguito il destino delle politiche inter-ventiste con le quali i governi centrali hanno cercato dappertutto, anche in altri paesi, di contrastare senza riu-scirci le forze centripete dei mercati, che attirano risorse nei luoghi in cui sono già produttive, vale a dire nelle regioni più sviluppate.

L’intervento pubblico da fattore di sviluppo si è rovesciato, nel Mez-zogiorno come altrove, in fattore d’inefficienza, ha creato posizioni di rendita dei beneficiari, d’imprese

6 U. La Malfa “Mezzogiorno nell’Oc-cidente”, in Nord e Sud, n.1, dicembre 1954.

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12e famiglie, capaci di catturarne i vantaggi sotto forma d’incentivi, di sussidi, di remunerazioni generose corrisposte ai dipendenti degli Enti pubblici e delle imprese di proprietà statale.

L’autogoverno delle popolazioni meridionali è stata invece la pro-messa non realizzata, invocata da Giorgio Amendola ma tuttora ancora aperta. Tra i due poli contrapposti della politica per il Mezzogiorno, l’intervento straordinario ormai esaurito e una politica promossa, come si dice, dal basso, partecipata dalle popolazioni, con gli enti terri-toriali protagonisti e con lo Stato e le istituzioni comunitarie in funzione sussidiaria, tra questi due poli, uno ormai spento e l’altro non ancora affermatosi, si consuma oggi la crisi del meridionalismo, in un’epoca nel-la quale lo sviluppo governato dallo Stato centrale ha fatto il suo tempo e le istituzioni democratiche decen-trate (le Regioni e i Comuni) non sono riuscite, a quindici anni dalla fine dell’intervento straordinario, a svolgere nel Mezzogiorno appieno la loro parte.

Mi sia permesso di ritornare su due questioni a cui ho accennato prima, una di metodo e l’altra di me-rito, sollevate a suo tempo da Giorgio Amendola, e lo faccio scavando nei miei ricordi personali.

La prima volta che ebbi l’oc-casione d’incontrare Amendola, fu durante il 23° congresso nazionale del Partito socialista che si tenne a Napoli nel gennaio del 1959, al quale A. partecipava guidando tra gli invitati la delegazione del Partito comunista. Allora militavo nella Federazione giovanile comunista e i compagni napoletani mi presenta-rono ad Amendola dicendogli che ero uno studente universitario della Facoltà di Economia. “Giorgione”, come lo chiamavano affettuosamente i compagni per la sua mole fisica ma pure e soprattutto per la sua statura di dirigente comunista, ebbe con me un breve scambio di battute tra il tono burbero e l’aria scherzosa: prima mi ammonì a non seguire la moda degli economisti del tempo (allora l’indirizzo dominante negli studi di

economia era quello neoclassico, fondato sull’approccio soggettivista, dei soggetti economici cosiddetti ra-zionali che massimizzano i vantaggi del loro operato ovvero ne minimiz-zano i sacrifici); poi mi strapazzò dicendo che rischiavo di diventare un economista estraneo ai problemi sociali e politici più rilevanti, ca-dendo schiavo dell’economicismo (la sua eterna bestia nera); infine,

vedendomi imbarazzato e avvilito, mi rincuorò con un sorriso e m’invitò vigorosamente, com’era il suo solito, a studiare, studiare, studiare.

L’ultima occasione d’incontro con “Giorgione” l’ho avuta nell’autunno del 1979, pochi mesi prima che egli venisse meno, durante un convegno organizzato dalla rivista Politica ed Economia, dedicato alla riforma del sistema monetario internazionale, in quegli anni dominato ancora dal dollaro statunitense. Amendola nel-l’intervallo dei lavori, commentando il tema del convegno mi disse una frase che allora mi apparve singolare e fuori tempo perché riecheggiava le tesi dei comunisti sul capitalismo degli anni ’30. Mi disse: “stai attento, il capitale finanziario è il principale nemico dei popoli”.

Cinquanta e trent’anni dopo que-gli incontri, non posso dire di avere seguito del tutto l’indicazione di metodo che egli mi diede, di evitare la trappola dell’economicismo, non

foss’altro perché, accogliendo il suo invito a studiare intensamente, nel frattempo sono diventato professore di economia, quindi tendenzialmente deformato dai miei studi; né posso sostenere che il capitale finanziario sia nel tempo svanito come pericolo da esorcizzare.

La trappola del cosiddetto eco-nomicismo mi è tuttavia ben presente se rifletto su ciò che è accaduto in

Italia e altrove negli ultimi tempi. La tendenza a privilegiare l’economia nell’analisi dei problemi sociali, compare infatti ancora oggi quando si parla di riformismo. In Italia il riformismo è diventato purtroppo sinonimo di liberalizzazione dei mer-cati, del mercato del lavoro dapprima e poi dei mercati di beni e servizi. Si dice anzi che la liberalizzazione, accrescendo la concorrenza, sarebbe una politica economica “di sinistra”: eviterebbe ai lavoratori d’essere preda delle rendite monopolistiche, dei monopoli piccoli e grandi, che, manovrando i prezzi nei mercati non concorrenziali, decurtano il po-tere d’acquisto dei salari. Il guaio di questa tesi liberista è che il mercato del lavoro è stato in Italia e altrove il primo mercato ad essere liberalizzato riducendo così la forza contrattuale di operai e impiegati, mentre la liberaliz-zazione dei mercati dei beni salario, quelli comprati con le buste paga, è venuta dopo e quando è arrivata

procede stentatamente. In questa sfasatura di tempo e d’intensità della liberalizzazione dei mercati contano la politica, il sindacato, i rapporti tra le classi sociali, la gerarchia dei poteri che si fanno valere sui mercati, que-stioni tutte queste che gli economisti di solito trascurano per deformazione professionale, appunto perché intrap-polati nell’economicismo avversato da Giorgio Amendola.

Anche sulla questione di merito (il ruolo dominante del capitale finan-ziario) toccata a suo tempo da Amen-dola, le vicende degli ultimi tempi sono eloquenti: l’attività finanziaria, gli affari delle banche, degli altri in-termediari, dei fondi d’investimento e poi la debole funzione degli organi di vigilanza (banche centrali e com-missioni di sorveglianza delle borse), sono diventati i problemi preminenti del capitalismo contemporaneo in America, in Europa, in Asia. I mercati finanziari sono stati liberalizzati, sono divenuti interdipendenti, globali, i controlli si sono allentati in nome dell’efficienza, la speculazione do-mina la scena. Gli anni ’90 e i primi anni del secolo presente sono stati contrassegnati da diffuse e ripetute crisi finanziarie dovute all’avidità de-gli speculatori finanziari e agli errori nonché all’impotenza dei governi: la crisi del Messico negli anni 1994/95, quella che si è abbattuta sull’Asia orientale nel 1997, quella della Russia nel 1998, del Brasile nel 1998/99, dell’Argentina nel 2001 e buon’ultima la crisi dei mutui per la casa e degli strumenti cosiddetti derivati, partita dagli Stati Uniti nel 2007, propaga-tasi poi e ancora presente anche in Europa.

La produzione e l’occupazione sono state dappertutto ciclicamente coinvolte dalle crisi finanziarie. La politica ha cercato e cerca tuttora di tamponarne gli effetti ma non riesce a incidere sulla radice dei problemi, abbagliata e condizionata com’è dal predominio del capitale finanziario. Giorgio Amendola aveva dunque visto giusto: il capitale finanziario è ancora oggi il nemico dei popoli.

Docente di Economia dello Sviluppo. Università Roma Tre.

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1�

1. Il nuovo meridionalismo e l’oppo-sizione alla istituzione della Cassa

La posizione di Giorgio Amen-dola nei riguardi dei programmi del cosiddetto “nuovo meridionalismo” non può essere compresa senza andare al momento della sua “scelta di vita”, quando decise sul finire del 1929 di lasciare la famiglia liberal-de-mocratica della quale era considerato un esponente di primo piano dopo la uccisione del padre Giovanni, per abbracciare la fede nella rivoluzione russa�. La conversione avvenne nel clima della “svolta” operata dall’In-ternazionale comunista sull’onda emotiva degli effetti della Depres-sione economica mondiale. Sono gli anni del braccio di ferro con Emilio Sereni. Amendola seguì l’itinerario politico dell’amico Manlio Rossi-Doria. Il crollo del capitalismo che si credeva immanente avrebbe dovuto consentire di adottare le politiche di sviluppo rurale nelle regioni meri-dionali che non erano state accolte nell’Italia prefascista. Il “pessimismo” di Fortunato veniva rivisitato alla luce delle categorie del leninismo assunte dal Partito con la “svolta”. Amendola divenne comunista in quanto meri-dionalista. La contraddizione stava nel ritenere di poter conciliare la prospettiva riformatrice del meridio-

� Sugli anni della infanzia e della formazione politica, da ultimo, G. Cer-chia, Giorgio Amendola. Un comunista nazionale. Dall’infanzia alla guerra par-tigiana (1907-1945), Rubbettino, Soneria Mannelli, 2004. Utili indicazioni inter-pretative sono nelle relazioni di Simona Colarizi, Giorgio Amendola, storico e di Roberto Gualtieri, Dirigente del Pci tenute nel Convegno della Fondazione Istituto Gramsci “In ricordo di Giorgio Amendola. A venticinque anni dalla morte”, Roma, 14 luglio 2005.

nalismo con l’indirizzo rivoluzionario e anticapitalista del comunismo sovietico. Rossi-Doria avrebbe risolto questa antinomia nel corso degli anni Trenta facendo prevalere il punto di vista riformatore con la sua apertura verso l’indirizzo di bonifica integra-le; diversamente Amendola rimase coerentemente e rigidamente fermo sulla scelta comunista. Senza questa premessa non è possibile intendere la ragione di fondo del suo indirizzo davanti alla svolta meridionalista presa dal Paese nel 1950 e anche, io credo, il successivo mutamento di rotta amendoliano e perfino il suo isolamento interno al Partito davanti alla crisi del comunismo.

All’indomani della caduta del Fascismo e nei primi governi di unità nazionale Amendola guidò il pro-gramma di riunificazione delle forze riformiste entro un progetto di rilan-cio della politica meridionalista. La prima iniziativa in questa direzione era venuta dal Partito d’Azione con il convegno organizzato a Bari sul finire del 1944 quando l’Italia era divisa in due. In questa occasione Rossi-Doria autore della relazione economica aveva riproposto il problema della questione meridionale, rimosso dal Fascismo, rilanciando nel secondo dopoguerra la prospettiva della ripresa del programma di opere di bonifica integrale e di sviluppo rura-le. Si iniziò a discutere del problema dell’industrializzazione del Mezzo-giorno dopo le prime elezioni libere che videro la vittoria della repubblica e la formazione del primo Parlamen-to. Il 6 luglio 1946 per iniziativa di Amendola e Sereni sorse a Napoli il Centro Economico Italiano per il Mezzogiorno (CEIM), istituzione che era animata al suo interno del gruppo

dirigente meridionale dell’IRI e che organizzò alcuni incontri in cui fu portata per la prima volta al centro dell’analisi politica nell’Italia liberata il tema della industrializzazione del Mezzogiorno2. Sulla scorta delle conclusioni a cui erano giunti i centri studi dell’industria di Stato, della Banca d’Italia e dell’Istat nel corso degli anni Trenta veniva assegnato al programma di intervento industriale nel Mezzogiorno una funzione prio-ritaria nelle politiche pubbliche della ricostruzione del Paese, una volta esaurita l’emergenza post-bellica�. Le ragioni di questa presa di posi-zione erano di tipo squisitamente economico: l’industrializzazione delle regioni meridionali avrebbe permesso di valorizzare un capitale umano altrimenti destinato ad una disoccupazione strutturale e avrebbe consentito all’Italia di rafforzare la sua posizione di potenza industriale. Il disegno risorgimentale si fondava su solide ragioni economiche. Era

2 Il presidente del CEIM fu Giusep-pe Paratore, presidente dell’IRI; Emilio Sereni fu consigliere delegato, mentre Giorgio Amendola con Giovanni Porzio ricoprirono l’incarico di vice presidenti. Le iniziative più importanti organizzate dal CEIM furono le seguenti: Il Convegno per le trasformazioni fondiarie e le isole (ottobre 1946); convegno sui trasporti nel Mezzogiorno (Napoli, gennaio 1947) e un convegno sui lavori pubblici (Napoli, luglio 1947). G. Amendola, Il balzo nel Mezzogiorno (1943-53), in Il Mezzogiorno negli anni della Repubblica, a cura di G. Mughini, Roma, Quaderni di Mondoperaio, 1977, pp. 289-294.

� È questa la tesi avanzata da Guidotti e Cenzato della SME nell’ambito dei lavori pubblicati dal Centro studi del Ministero dell’Industria di Rodolfo Moranti e suc-cessivamente sostenuta dai numeri offerti dai primi approssimati calcoli del reddito nazionale.

questo il punto di maggior origina-lità della posizione sostenuta dai tecnici.

Il CEIM non approdò ad alcun risultato concreto. Si limitò ad orga-nizzare alcuni convegni di studio sui temi della terra, dei lavori pubblici e dei trasporti. Nella esperienza del CEIM si riflettevano le contraddizioni del nuovo corso economico del PCI inaugurato nel 1946. L’apertura alle riforme avveniva senza una rinuncia alle teorie del marxismo-leninismo. L’alleanza politica nascondeva un limite nell’elaborazione del pensie-ro economico: la politica di piano doveva preparare una soluzione rivoluzionaria in attesa del crollo imminente del capitalismo. Il punto di riferimento era ancora il Capitale finanziario scritto dall’amico Pietro Grifone, volume elaborato negli anni del carcere che rifletteva le discussioni avvenute entro il gruppo napoletano nei primi anni Trenta e applicava al caso italiano la teoria catastrofista di Hilferding. La so-luzione del problema meridionale veniva affidato in primo luogo alla riforma agraria, mentre le iniziative industriali nel Mezzogiorno rea-lizzate dall’IRI venivano ritenute come manifestazione del capitale monopolistico di Stato. L’obbiettivo strategico delle nazionalizzazioni e delle socializzazioni produttive restava la parola d’ordine del Partito, rinviato e non certamente rimosso dal programma. La contraddizione della proposta politica di Amendola stava tra nell’aver aperto al mondo liberal-democratico con l’adesione ai principi di un meridionalismo di origine risorgimentale e, al tempo stesso, considerare questo atto come un passo transitorio in vista dell’av-

L’interventostraordinarioSimone Misiani

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1�vento del leninismo aggiornato al caso italiano.

La scelta a favore di una po-litica di intervento industriale nel Mezzogiorno fu decisa solamente dopo lo scoppio della guerra fredda nel quadro della opportunità date dalla scelta occidentale operata dal Centrismo degasperiano�, e in particolare sua origine fu resa possi-bile dai fondi del piano Marshall. La politica a favore del Mezzogiorno doveva dare un contenuto più pro-priamente sociale alla ricostruzione economica dell’Europa5. Una volta ottenuta la stabilizzazione della lira conseguita con la manovra defla-tiva dell’autunno del 1947 il Paese usciva dal dopoguerra e veniva reso possibile dar concreta attuazione al disegno elaborato dal gruppo

� M. Del Pero, L’alleato scomodo (1948-1955). Gli Usa e la Dc negli anni del centrismo, prefazione di F. Romero, Roma, Carocci, 2001; C. Spagnolo, La stabilità incompiuta, Roma, Carocci, 2001.

5 La “linea Menichella” è stata posta al centro di una rilettura della storia po-litica economica dello sviluppo italiano negli ultimi decenni. Punto di avvio di questa fase di studi è il volume di Piero Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1953 al 1955, Bologna, Il Muli-no, 1978. Negli ultimi decenni la ricerca storica ha confermato la linea IRI degli anni Trenta e la nascita dell’intervento straordinario. M. De Cecco, Splendore e crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria e industriale italiana dagli anni venti agli anni sessanta, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Roma, Donzelli, 1997, pp. 389 e ss; R. Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, Il Mulino, 2002; ; S. Misiani, I numeri e la politica. Statistica, programmazione e Mezzogiorno nell’im-pegno di Alessandro Molinari, Bologna, Il Mulino, 2007. Con riferimento alla nascita dell’intervento straordinario: V. Negri Zamagni e M. Sanfilippo, Nuovo meridionalismo e intervento straordinario. La Svimez dal 1946 al 1950, Bologna, Il Mulino, 1988; L. D’Antone, L’”interesse straordinario” per il Mezzogiorno (1943-1960), in Id. (a cura di) Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, Napoli, Bibliopolis, 1996, pp. 51-110; S. Cafiero, Storia dell’in-tervento straordinario nel Mezzogiorno (1950-1993), Bari, Piero Lacaita, 2000.

della Svimez guidato da Pasquale Saraceno sotto la regia della Banca d’Italia di Menichella. Il momento di svolta ebbe luogo nel VI governo De Gasperi con la istituzione nel 1950 della Cassa per il Mezzogiorno. La impostazione del piano Beveridge e anche l’esperienza del New Deal venivano adattate ai problemi strut-turali e alle strozzature del sistema economico italiano. La istituzione della Cassa per il Mezzogiorno vide il prevalere in Italia di una linea modernizzatrice basata sulle analisi economiche e le previsioni di crescita dell’Italia fornite dai primi calcoli del reddito nazionale. Il programma di investimenti poteva contare sul so-stegno determinante degli organismi economici internazionali di Bretton Woods (Fmi, Birs) e l’appoggio del governo degli Stati Uniti.

Il programma di riforme contava per avere successo di poter ottenere il sostegno e l’appoggio all’interno del Paese delle forze economiche e sociali. Una sorta di patto costitu-zionale come contributo alla nascita di una democrazia liberale e anche come completamento del processo di unificazione risorgimentale in senso economico. Ai rappresentanti del mondo imprenditoriale e del “quarto partito” veniva chiesto di continuare a garantire il sostegno alla maggioranza di governo nello slancio impresso alla politica eco-nomica, accettando di abbandonare l’ortodossia liberista. Al sindacato e alle forze della sinistra veniva doman-dato di assumersi una responsabilità nel governo dello sviluppo italiano. La “linea Menichella” espressione diretta del gruppo Svimez e delle minoranze liberal-democratiche incassò il sostegno dei settori più avanzati del mondo imprenditoriale, conquistò all’idea della Cassa un liberale come Einaudi ma registrò le critiche del presidente della Confin-dustria Angelo Costa e degli ambienti fedeli all’ortodossia liberoscambista. I maggiori ostacoli vennero dalle forze della sinistra che avrebbero dovuto raccogliere i benefici occupazionali della politica di spesa. Davanti all’an-nuncio del piano di riforme le parti sociali si erano divise secondo una

linea tracciata dalla scelta di campo dei due blocchi.

Il Partito comunista si schierò contro la istituzione della Cassa. Con la scelta filosovietica e la nascita dei fronti popolari il mito rivoluzionario tornò a prevalere sulla strategia della collaborazione adottata nel dopoguerra6. A farne le spese furono i riformatori che avevano aderito al Partito comunista e che si videro costretti ad una scelta drammatica. Con la formazione del IV governo De Gasperi nato dopo la cacciata delle forze legate a Mosca si era esaurita anche la funzione politica del CEIM, che in effetti sopravvisse fino all’au-tunno del 1947. Nel suo scioglimento emergevano le contraddizioni interne al riformismo comunista, l’incapacità ad assumere una posizione di con-danna del modello sovietico. Con questa scelta di campo perse spazio e ripiegò l’iniziativa politica presa da Amendola nel secondo dopoguerra. In una testimonianza rilasciata negli anni Settanta ha ricordato di aver accettato dopo un duro confronto l’idea che il Mezzogiorno fosse pas-sato tutto all’opposizione, secondo la nuova parola d’ordine proposta da Sereni7. Nella decisione di subire il peso dello stalinismo piuttosto che uscire dal Partito emerge tutta la debolezza della sua proposta politica, l’incapacità di superare il conflitto insanabile tra il riformismo e il comunismo. Accettò la disciplina di Partito contro le ragioni del prag-matismo economico.

La crociata contro la nascita del-l’intervento straordinario diede luogo ad impiego eccezionale di mezzi specie se commisurati alla posta in gioco. La politica della Cassa, non diversamente dagli altri interventi economici adottati nei primi anni Cinquanta, fu uno dei terreni pri-vilegiati della battaglia ideologica condotta dal movimento operaio, in

6 Su questo snodo concordano: S. Pons, L’impossibile egemonia: l’Urss, il Pci e le origini della guerra fredda, 1943-1948, Roma, Carocci, 1999; E. Aga-Rossi e S. Pons, Togliatti e Stalin: il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 2007.

7 G. Amendola, Il balzo nel Mezzo-giorno (1943-53), cit., p. 294 e sgg.

quanto punto di forza della proposta riformatrice. In questa fase si colloca la polemica nei confronti della posi-zione assunta dalla Cgil. Di Vittorio aveva affidato a dei “tecnici” in quan-to indipendenti la stesura di un piano economico presentato a Roma alla Conferenza Economica Nazionale della Cgil del febbraio 19508. Il Piano riprendeva gli elementi di astrattezza keynesiana, contenuti nei programmi di politica economica avanzati nel secondo dopoguerra dai settori più avanzati del riformismo italiano. Su queste basi il piano della Cgil offriva una posizione interlocutoria rispetto al programma dell’intervento straor-dinario. Per questo motivo Di Vittorio fu oggetto di un duro attacco da parte di Amendola che rimproverò al leader sindacale di aver dato al piano non una valenza propagandistica e di denuncia ma di aver offerto al gover-no la piattaforma per una trattativa�. La critica coglieva nel segno. Con il consenso manifesto di Togliatti e degli altri principali esponenti del Partito fu approvata una linea di op-posizione all’avvio del programma di intervento straordinario e fu affidata ad Amendola la elaborazione di una argomentata linea, presentata alla Camera il 20 giugno 1950 in occa-sione del dibattito sulla nascita della Cassa. Il testo formò il principale do-cumento a cui si ispirò la politica di rinascita del partito nel Mezzogiorno nel successivo quinquennio e anche oltre. Nel suo discorso Amendola fece propri i dati sul divario e la disoccupazione strutturale forniti dalla Svimez ma respinse l’opzione di “un intervento esterno”10, quale era

8 Giuseppe Di Vittorio era portato a sottolineare la convergenza di intenti con le proposte del governo, in Il Mezzogior-no repubblicano (1948-1972), a cura di P. Bini, Milano, Svimez, 1976, p. 384 ss.

� R. Martinelli e G. Gozzini, Storia del Partito comunista italiano. Dall’atten-tato a Togliatti all’VIII Congresso, Torino, Einaudi, 1998, 120-122.; G. Barone, La Cassa e la “ricostruzione”, in L. D’Antone (a cura di), Radici storiche ed esperienza, cit., pp. 235-236.

10 G. Amendola, Contro la istituzione di una Cassa per il Mezzogiorno, in La democrazia nel Mezzogiorno, Roma, 1957, p. 284.

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1�appunto la Cassa, per preconizzare invece un non meglio esemplificato intervento delle “stesse popolazioni meridionali”�� al fine “di operare il progresso di quelle regioni rimuoven-do, con una svolta della politica dello Stato italiano verso il Mezzogiorno, le cause profonde che dal 1860 hanno determinato il formarsi di una questione meridionale”12.

Viene disegnata, allora, per la prima volta in modo organico una idea di meridionalismo comunista ispirato ad una ideale e astratta li-nea di pensiero Fortunato-Gramsci. Riemerge nelle sue parole l’impianto dottrinario elaborato dal gruppo na-poletano sul finire degli anni Venti, aggiornato alla luce della scoperta del pensiero gramsciano. I punti nodali del programma amendoliano erano la critica alla politica di in-dustrializzazione interpretata come manifestazione del potere monopo-listico di Stato e la riproposizione in termini aggiornati della categoria del “blocco storico” tra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud cementato dalla Cassa per il Mezzogiorno e le altre forme dell’intervento straor-dinario. L’elemento di originalità del suo comunismo stava nell’aver collocato al centro del suo discorso il tema risorgimentale della nazione, l’obbiettivo del raggiungimento del-l’unificazione economica, sociale e civile dell’Italia. Il pensiero meridio-nalista anche grazie ad Amendola divenne patrimonio costitutivo del comunismo italiano. La linea amen-doliana fornì gli argomenti teorici ad una opposizione di tipo morale e contribuì a porre il tema della so-luzione della questione meridionale come un obbiettivo strategico per la tenuta della democrazia��. La critica

�� Ivi.12 Ibidem.�� La portata e il significato del

meridionalismo comunista nella storia dell’Italia repubblicana fu ben eviden-ziato a metà degli anni Settanta da G. Galasso, Il Mezzogiorno. Da “questione” a “problema aperto”, Bari, Piero Lacaita editore, 2005, pp. 95-96. Nel breve pe-riodo la mobilitazione politica comunista contribuì a creare un clima favorevole all’avvio delle riforme: R. Gualtieri, La politica economica del centrismo, in U.

all’ingerenza dei partiti politici nel-l’intervento straordinario avvicinò, da fronti diversi, la linea amendoliana all’impostazione liberale della Banca d’Italia e del nuovo meridionalismo. Il linguaggio politico su questo punto non era poi così distante nella forma e nei contenuti dall’impostazione seguita nelle Considerazioni del go-vernatore della Banca d’Italia e nelle pubblicazioni della Svimez.

2. Gli anni dello Schema Vanoni e della Programmazione economica

L’obiettivo di una politica di industrializzazione diretta nel Mez-zogiorno fu assunto dal governo soltanto con lo schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Ita-lia nel decennio 1955-’64, noto come schema Vanoni, primo passo verso la nascita della programmazione. Lo Schema fu elaborato da un gruppo di ricerca della Svimez nel 1953-54�� e vide la convergenza tra la “linea Menichella” e la posizione degli organismi di valutazione internazio-nale. Nella visione dei meridionalisti l’Europa avrebbe dovuto a un tempo accelerare la liberalizzazione del mercati e sostenere la crescita delle zone più deboli e in primo luogo del Mezzogiorno d’Italia. Fu accolta la tesi che, tenuto conto dei tassi di crescita straordinaria dell’economia italiana, fosse possibile dirottare una parte delle risorse disponibili per rimuovere gli elementi di strozzatura del sistema economico. L’obbiettivo del raggiungimento della piena occupazione nel Mezzogiorno fu assunto nel programma del gruppo di lavoro Oece nel 1955. In questi periodo prese slancio in Italia un vi-vace dibattito sull’interpretazione da dare allo Schema che accompagnò l’evolversi dello scenario politico. Si confrontarono una linea ancorata al-l’impostazione della Banca d’Italia di

De Siervo, S. Guerrieri, A. Valsori (a cura di), La prima legislatura repubblicana, vol. I, Roma, Carocci, 2004, p. 102.

�� N. Novacco, Politiche per lo sviluppo. Alcuni ricordi sugli anni ’50 tra cronaca e storia, Bologna, Il Mulino, 1995.

impianto liberale e una seconda più aperta ad una lettura di tipo politico e sociale, capace di misurarsi con le sollecitazioni derivanti dal dialogo tra Fanfani e Nenni in vista della nascita del centrosinistra.

La posizione del Partito comu-nista davanti all’annunciato Schema fu di dura opposizione in coerenza con la scelta frontista del 1948. Il primo commento ufficiale venne a margine del congresso per il terzo anno di vita della Cassa organizzato nel novembre 1953 in cui Saraceno annunciò il programma del governo. All’iniziativa fu presente anche una delegazione della Cgil guidata dal segretario generale Di Vittorio. Non si trattò di una presenza puramente formale come si ricava dal lavoro pre-paratorio e dagli atti del convegno15. Negli organismi direttivi del Partito Amendola in quanto responsabile del Pci nel Mezzogiorno si incaricò di criticare il punto di vista sindacale. Fu il segno manifesto del perdurare del condizionamento derivato dal vincolo della appartenenza ideolo-gica16. In questo quadro e con questi limiti Amendola rilanciò la campagna per la conquista della egemonia cul-turale; rinsaldò il gruppo direttivo del Partito nel Mezzogiorno chiamando a collaborare alla direzione giovani vicini alle sue posizioni come Giorgio Napoletano e Gerardo Chiaromonte e annunciò la nascita di «Cronache Meridionali» che doveva costituire un valido contraltare a «Nord e Sud»

15 Di Vittorio alcuni giorni pri-ma dell’incontro di Napoli scrisse al presidente del Comitato dei ministri del Mezzogiorno Campilli, augurando piena riuscita all’iniziativa. Di Vittorio a Campilli, 28 ottobre 1953, in Archivio storico Cgil, Segreteria generale, Atti e corrispondenze 1953, n. 255: “Industria-lizzazione del Mezzogiorno”. La Cgil fu presente per tutte e due le giornate con una delegazione diretta da Di Vittorio e composta da Oreste Lizzadri, Vittorio Foa, Giuseppe Tanzarella, Clemente Ma-glietta, Armando Roveri e Bruno Trentin. Nel corso dei lavori Di Vittorio pronunciò un discorso in cui aprì al Governo: Cassa per il Mezzogiorno, Atti del secondo congresso di Napoli (4-6 novembre 1953), Roma, 1954.

16 R. Martinelli e G. Gozzini, Storia del Partito comunista italiano, op. cit., pp. 122-124.

rivista sorta per iniziativa di Fran-cesco Compagna e Ugo La Malfa, che raccoglieva le forze liberalde-mocratiche favorevoli all’intervento straordinario.

Sono gli anni del duro scontro ideologico tra Sereni e Romeo sui temi del Risorgimento e dello sviluppo italiano. Ma sono anche gli anni in cui il Partito comunista abbandonata la parola d’ordine della riforma agraria e pone in primo piano l’esigenza dell’industrializzazione delle regioni meridionali. Il punto di snodo ebbe luogo nell’autunno del 1957 in coincidenza con il voto per il rinnovo della Cassa. La nuova legge rompeva con l’impostazione liberale dello Schema e segnava il primo risultato del mutamento di rotta dei socialisti che avevano abbandonato la linea frontista dopo i fatti d’Unghe-ria. Amendola criticò la decisione del socialista Francesco De Martino di uscire dalla direzione di «Cronache Meridionali»17 ma contemporanea-mente iniziò a guardare con atteg-giamento meno preconcetto alla prospettiva della programmazione e all’intervento industriale per il Mez-zogiorno18. In questo triennio si avvia un ripensamento della impostazione assunta nel 1950. Il Partito comunista abbandonò la sua pregiudiziale verso l’intervento straordinario astenendosi sulla legge di rinnovo della Cassa in cambio dell’inserimento dell’artico-lo che rendeva obbligatorio per le industrie a Partecipazione statali (Iri ed Eni) di reinvestire il 40% dei loro utili nel Mezzogiorno��, e, negli anni

17 F. De Martino, Testimonianza, in Giorgio Amendola comunista riformista, a cura di G. Matteoli, Soneria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2001, pp. 132-133.

18 Primi segnali a riguardo nel di-scorso pronunciato l’11 maggio 1957 a Napoli all’assemblea meridionale del Pci dove pure ancora viene affermata la centralità della parola d’ordine della lotta per la terra e la riforma agraria. G. Amendola, I comunisti per la rinascita del Mezzogiorno, in La democrazia nel Mezzogiorno, op. cit., pp. 427-431

�� Ricorda Napolitano che fu relatore di minoranza alla Camera che in sede di votazione il Pci non votò contro la legge, ma si astenne. G. Napolitano, Dal Pci al so-cialismo europeo. Un’autobiografia politica, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 44-45.

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1�successivi, il Partito favorì l’installa-zione dell’impianto siderurgico Iri a Taranto e aprì all’iniziativa dell’Eni di Mattei in Sicilia. In un convegno organizzato a Palermo da Danilo Dolci nel novembre 1957 intorno alla prospettive della piena occupa-zione, i comunisti aprirono all’idea di una politica di piano forzandone la lettura in senso politico e sociale20. Appoggiarono l’idea di una contrap-posizione tra una programmazione essere centralistica e diretta “dall’al-to” un’idea dal “basso” affidata alla direzione delle forze sociali e degli enti locali nel quadro della battaglia per un allargamento dei poteri di controllo democratico sull’economia. Il numero di dicembre del 1957 di «Cronache Meridionali» fu introdotto da un lungo resoconto del convegno affidato allo scrittore Carlo Levi21, in precedenza oggetto di un duro attacco, sullo stesso periodico, da parte di Alicata.

L’evoluzione della linea amendo-liana fu scandita dai tempi della storia del centrosinistra. Nel novembre del 1962 Amendola organizzò con l’Istituto Gramsci un convegno per discutere sulle tendenze del capi-talismo italiano sotto l’onda d’urto della Nota aggiuntiva del ministro del Bilancio Ugo La Malfa che aveva sancito la nascita della politica di programmazione. A metà degli anni Sessanta lanciò il programma di riunificazione con i socialisti a cui propose di rientrare nella famiglia comunista e riaprì il dialogo con le componenti più avanzate del meridionalismo, in favore di una politica di programmazione che fos-se impegnata a risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana e in primo luogo la questione meri-dionale. La iniziativa di Amendola prese corpo nel 1966 all’indomani

20 D. Dolci (a cura di), Una politica per la piena occupazione, Torino, Einau-di, 1958. Per i riflessi avuti da questo convegno nel dibattito in corso sulla applicazione di una politica di piano: S. Misiani, I numeri e la politica, cit., pp. 223-227.

21 C. Levi, Il lavoro, misura della liber-tà, in «Cronache Meridionali», n. 12, dic. 1957, pp. 808-825. Sull’episodio si veda: G. Napolitano, Op. cit., pp. 49-50.

dell’unificazione socialista. Il punto di partenza del dialogo fu nella in-dividuazione degli elementi di una comune appartenenza ad una cultura storicista di stampo liberale22. In questo periodo Amendola riallacciò i contatti con Rossi-Doria che era tor-nato alla politica attiva nelle fila del Partito socialista unificato per il quale aveva elaborato il programma per il Mezzogiorno ed era membro del consiglio di amministrazione della Cassa. Amendola inviò a Rossi-Doria una copia del volume “Classe operaia e programmazione democratica” e uno scritto di commemorazione di Croce in cui ricordò il ruolo che

22 Utili elementi a riguardo sono nella testimonianza di Norberto Bobbio contenuta nel volume Giorgio Amendola comunista riformista, cit., pp. 157-168.

ebbe la frequentazione di palazzo Filomarino nella formazione antifa-scista dei giovani durante il periodo del Regime23.

Lo scambio non diede vita ad alcun passo concreto. Le distanze

23 Il 27 maggio Rossi-Doria ricevute le pubblicazioni così gli rispose: «Caro Giorgio, ricevo in questo momento copia del tuo volume “Classe operaia e programmazione democratica». Ti sono vivamente grato di avermelo inviato. Ho letto il tuo bellissimo articolo di comme-morazione di Croce sul «Contempora-neo» [G. Amendola, Incontro a palazzo Filomarino, in «Il Contemporaneo», n. 4, 18 apr. 1966]. Era perfetto e ti sono grato di aver scritto tu cose che tutti noi giovani allora insieme con te avremmo potuto scrivere. Ricordami ai tuoi». M. Rossi-Doria a G. Amendola, 27 maggio 1966, in Archivio storico ANIMI, Fondo Rossi-Doria, Corrispondenza Varia, f., 16.

ideologiche erano ancora incol-mabili. L’idea di programmazione democratica era lontana dalla im-postazione di Rossi-Doria favore-vole all’intervento straordinario. Ma non era questo il nodo che impedì l’avvio della discussione. Il tentativo di Amendola di superare la fase di stallo della politica italiana avveniva senza dar luogo ad una proposta di modificazione delle alleanze politiche con l’Unione Sovietica e ciò rendeva impossibile giungere ad un superamento della formula che aveva dato vita al centrosinistra. La Malfa in una lettera dal tono profetico vide le prospettive di modificazione della situazione politica in relazione con la distensione dei rapporti tra Est e Ovest. Rispetto all’affermarsi dell’ecumenismo e del dialogo cat-

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18tolico-comunista invitò Amendola a farsi interprete dentro il Partito della linea di difesa dello Stato risorgimen-tale e dei principi di una democrazia modernamente laica24. La risposta di Amendola ebbe luogo nel periodo successivo e fu individuata nella formula dell’eurocomunismo, in cui si misurarono le possibilità e i limiti di allargamento delle categorie del marxismo senza una rottura con il legame di fedeltà verso l’Unione Sovietica25.

E solamente nel biennio 1973-’75, di fronte alla crisi del centrosi-nistra e la fine del ciclo di crescita economica, che l’iniziativa riformi-sta dei comunisti ottenne risultati concreti. Nei primi mesi del 1973 Amendola indicò un percorso per il superamento del frontismo, in parte diverso rispetto al “compromesso storico” disegnato in quegli stessi mesi dalla segreteria di Berlinguer.

24 In una lettera del 9 settembre 1967 che riprendeva temi apparsi in un editoriale su «La Voce Repubblicana» invitò Amendola a contrastare nel Partito la linea di dialogo con i cattolici e l’in-dirizzo cattolico-comunista e gli suggerì di interpretare una linea di dialogo sulla base di una comune difesa dei principi del fondamento dello Stato risorgimen-tale. Scrive La Malfa: «Caro Giorgio, ti mando copia di un lungo corsivo della Voce che ti può interessare. Quanto è stato scritto sulla rivista Il Ponte può essere da te facilmente rintracciato. Come noterai, si tratta di una polemica di fondo, che vi riguarda in prima persona. A mio giudizio, l’avvenire sta nel progresso della distensione e della coesistenza pacifica fra i due blocchi; e non nell’ecumenismo e nel dialogo cattolico-comunista. Se i comunisti, invece di guardare alla realtà dei problemi e prendere le iniziative necessarie, commettono errori di valu-tazione del tipo art. 7 della Costituzione, cooperano a distruggere ogni traccia dello Stato risorgimentale. Conto sulla tua sincera attenzione a questo problema». U. La Malfa a G. Amendola, 9 settembre 1967, in Apc, Carte Amendola, Serie: Corrispondenza, f: “La Malfa”. Il disegno del leader del Partito repubblicano negli anni Sessanta e Settanta è messo in luce da P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, TEA, Milano, 1996.

25 Utili elementi interpretativi per in-quadrare la posizione di Amendola sono forniti nel volume di S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino, Einaudi, 2006, pp. 3 e ss.

Aprì alla “linea Menichella” attra-verso il rapporto con Saraceno, anche se tardivamente rispetto ai cambiamenti della congiuntura eco-nomica globale e senza che questo mutamento di indirizzo fosse ac-compagnato dall’abbandono defini-tivo della prospettiva rivoluzionaria. Negli anni sessanta si era consumato un mutamento antropologico ai vertici delle imprese pubbliche. La generazione che aveva diretto il miracolo economico era stata sostituita da manager di nomina politica secondo una pratica che nascondeva un cambio di indirizzo nella conduzione del sistema delle imprese a partecipazione statale con il prevalere di una finalità di tipo sociale meglio funzionale alla logica del consenso elettorale dei partiti di massa26. Saraceno aveva continuato a ribadire il concetto che il manager doveva servire il principio della eco-nomicità della gestione in continuità con l’insegnamento del suo maestro Menichella27.

L’interesse del leader comunista si appuntò prevalentemente intorno al ruolo delle partecipazioni statali nella battaglia per rompere il regime di una economia ristretta e dominata dai monopoli privati28: all’intervento diretto dello Stato veniva affidata una funzione di lot ta contro i monopoli e di strumento di allarga-

26 È un punto molto ben sottolineato da A. Becchi Collidà, La formazione dell’imprenditorialità pubblica: i gruppi dirigenti delle partecipazioni statali, in Problemi del movimento sindacale,a cura di A. Accornero, «Annali della Fon-dazione G. G. Feltrinelli», XVI (1974-75), pp. 523 e sgg.

27 P. Saraceno, Il sistema delle impre-se a partecipazione statale nell’esperienza italiana, Milano Giuffrè, 1975.

28 Sul significato assunto da tale snodo ai risultati del recente convegno Giorgio Amendola. La politica economica e il capitalismo italiano svoltosi (Milano, 18 giugno 2007) con relazioni di Franco Amatori, Francesco Silva e Edoardo Borruso. Il punto di vista di Amendola è stato assunto come chiave interpretativa nella ricostruzione storica di F. De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, t. 1, Torino, Einaudi, 1995, p. 809 e sgg.

mento della democrazia29. Saraceno prese parte al convegno del Cespe, l’istituto di ricerche economiche presieduto da Amendola, sul tema del rapporto tra Imprese pubbliche e programmazione democratica che ebbe luogo nel gennaio del 1973. L’incontro faceva seguito a diverse iniziative che avevano avu-to per tema il ruolo dell’Italia nel processo di internazionalizzazione economica. Nelle due giornate gli economisti del Pci si confronta-rono sui problemi dello sviluppo con i manager delle partecipazioni statali. L’idea della programma-zione democratica fu portata fino alle sue conseguenze estreme. Fu offerto a Saraceno il sostegno del Pci per uscire dall’isolamento in cui era stato posto dalla Democrazia cristiana, di cui pure veniva sottoli-neato il fatto che ne aveva ispirato le linee di politica economica fino alla nascita della Programmazione nel 1962. Amendola distinse tra la impostazione della politica di intervento degli anni cinquanta e la stagione della programmazione diretta dai governi del centrosinistra. L’indomani Saraceno scrisse ad Amendola ritenendosi deluso per come era stato presentato, chie-dendo dal presidente del Cespe una presa di posizione chiarificatrice in vista di una futura collaborazione30.

29 G. Amendola, Imprese pubbliche e programmazione democratica, in Imprese pubbliche e programmazione democratica. Atti del convegno indetto dal Cespe e dall’Istituto Gramsci, Roma, 8-10 gennaio 1973, Quaderni di Politica ed Economia, n. 7, Roma, Cespe, 1973, pp. 7-22. Il discorso di Amendola fu seguito dalle relazioni di A. Pesenti, Capitalismo monopolistico di Stato e imprese pubbliche, in Ivi, pp. 25-45; E. Peggio, Le imprese pubbliche nella economia italiana, in Ivi, pp. 47-121 e N. Colajanni, Problemi della democrazia e sistemi istituzionali delle partecipazioni statali, Ivi, pp. 123-153.

30 Scrive Saraceno: «Caro Amendola, Mi avete cortesemente invitato a dare un mio contributo al convegno sulle Partecipazioni statali; ed io ho accettato volentieri e mi sono seriamente impegna-to a delineare i tratti salienti di una teoria del comportamento, o un’economia di necessità, di un’impresa a partecipazione statale. Nella replica potevi dichiararti

Nella risposta il leader comunista si spinse ben al di là delle aperture svolte nel corso del convegno. Rivalutò in sede di giudizio storico la “linea Menichella” e lo schema Vanoni ponendo le premesse per un ripensamento generale della politica economica fino ad allora perseguita. Vale la pena riportare per intero le sue parole. Di ritorno da Firenze, dove aveva presentato il II volume delle opere di Togliatti, scrisse quanto segue:

Caro Saraceno,[…] Veramente non credevo di

avere detto cose che tu non potessi non accettare. Ti ho dato esplicita-mente ragione per la tua afferma-zione sulla superiore responsabilità che spetta alle forze politiche ed al governo per deliberare gli indirizzi programmatici che le imprese pub-bliche debbono attuare con piena autonomia imprenditoriale. Ho an-che rivendicato per le imprese pub-bliche l’esigenza della “efficienza”. Ho voluto, soltanto, indicare l’equi-voco di coloro che, specialmente tra gli economisti ed i sindacalisti della sinistra d.c., preferiscono criticare i dirigenti delle imprese pubbliche per non colpire il reale bersaglio, che è il governo diretto dalla DC. E qui ho sollevato il problema delle responsabilità che sul piano politico spettano a quei dirigenti di imprese pubbliche che sono anche uomini politici della DC – ed ho fatto il tuo nome, ricordando, con molto rispet-to, il tuo ruolo di “dirigente storico della DC”, per la tua ininterrotta funzione di ispiratore delle linee generali della politica economica seguita dalla DC, dal ’45 ad oggi. Tu

d’accordo o in disaccordo con me; potevi anche non menzionare il mio contributo giudicandolo convincente. Invece hai preferito ricordare solo, invero un po’ frettolosamente, attività da me svolte in passato, e ciò in termini che esprimono un giudizio negativo sulle possibilità da parte mia di interloquire nella materia oggetto del Convegno. Ma allora perché mi avete invitato?». P. Saraceno a G. Amendola, 11 gennaio 1972 [ma presumibilmente si tratta del 1973], in Acs, Carte Saraceno, B. 2, f. “Amendola, Giorgio”. Copia anche in: Apc, Fondo Amendola, Serie: Corrispon-denza, f. “Saraceno Pasquale”.

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1�non puoi disconoscere la funzione che hai avuto, dai primi piani Cer, al piano Vanoni, a San Pellegrino. Da quando non hanno più seguito le tue indicazioni le cose sono andare di male in peggio.

Non vedo in che modo io possa avere espresso un giudizio negativo sulla attività che hai svolto in pas-sato, e che io avevo ricordato nella mia introduzione in termini che tu avevi apprezzato.

Certo, la linea che hai seguito con coerenza è stata da noi (ed anche da me) oggetto di critiche e contestazioni (ricordo il mio discor-so di critica al piano Vanoni). Ma di queste divergenze si è alimentato il rapporto tra noi, che è stato da parte mia sempre molto rispettoso del tuo contributo e della sincerità delle tue motivazioni. Nella mia affrettata (e bene tu dici “frettolosa”) risposta (appena mezz’ora, dopo due giorni di discussione) io non ho ripreso il merito di molte posizioni espresse nel Governo, assicurando che avremmo a lungo meditato sulle critiche e proposte. Ciò che voglio fare anche per quello che è stato il contenuto del tuo intervento.

Mi auguro che queste mie franche spiegazioni valgano a dis-sipare ogni equivoco. Spero di poterti incontrare e di riprendere la discussione.

Cordialmente��.

Le novità più interessanti del discorso di Amendola riguarda-no il terreno dell’analisi storica. Veniva riconosciuto il fatto che, malgrado le critiche, quando all’Iri vi era Saraceno, al Tesoro Vanoni e all’Eni Mattei la collaborazione tra imprese pubbliche e potere politico non aveva incrinato il principio che fine ultimo della politica economica fosse di garantire l’interesse generale del Paese. Il presidente del Cespe distinse tra il modello degli anni Cinquanta che aveva garantito ef-ficienza e sviluppo e gli anni della Programmazione in cui si era affer-mato un regime guidato dai partiti e

�� G. Amendola a P. Saraceno, 16 gennaio 1973, in Acs, Carte Saraceno, B. 2, f. “Amendola, Giorgio”.

dagli interessi corporativi. Affermò la necessità di una riorganizzazione mediante la creazione di una plurali-tà di istituti capaci di ripristinare una effettiva separazione tra le imprese e la politica. La proposta dei comu-nisti era in disaccordo con quella di Saraceno. La soluzione della crisi dell’industria di Stato secondo Saraceno non stava nell’accresci-mento della funzione di controllo democratico quanto, all’inverso, nel ripristino del primato dei criteri del raggiungimento dell’efficienza produttiva32. In questa valutazione riemergevano le differenze di analisi della realtà economica generale. Per Saraceno l’intervento pubblico e la riforma del capitalismo era finaliz-zata allo sviluppo di una economia aperta; diversamente per Amendola le politiche pubbliche erano un mezzo in vista della rivoluzione e l’avvento del socialismo��.

32 Scrive Saraceno: «Caro Amendola, La tua lettera del 16 scorso mi ha molto mortificato perché non pensavo, con le mie brevi considerazioni, di causarti un dispiacere. Debbo dire però che esso mi testimonia un’amicizia che ricambio di cuore e ciò bilancia il rincrescimento per averti scritto. Ti debbo però qualche spiegazione; io credo che veramente sia un grave errore da ogni punto di vista, ma specialmente dal punto di vista di un partito di opposizione, mescolare nell’at-tività di decisione che quotidianamente si svolge nelle imprese a partecipazione statale, l’obiettivo di produttività con altri obiettivi che dovrebbero essere di volta in volta identificati e quantificati da una folla di persone che comprende non solo l’ente di gestione, ma la moltitudine di persone che nelle imprese ogni giorno prende decisioni. Come non temere che si venga a costituire con questa commistione oltre che gravi inefficienze, una enorme area di pericolosissimi sottogoverni locali? Penso che di questo possiamo ancora discutere a lungo tra noi; ed è un tema che certamente reca con sé, come ho fatto presente a comuni amici, quello di una seria programmazione. Considera comunque la mia lettera troppo affrettata come espressione del mio desiderio di continuare questo genere di discussioni con te e con gli altri amici che con te col-laborano». P. Saraceno a G. Amendola, 1 febbraio 1973, in Acs, Carte Saraceno, B. 2, f. “Amendola, Giorgio”.

�� P. Saraceno, Relazione nel dibat-tito, in Ivi pp. 216-218; G. Amendola, Discorso conclusivo, in Ivi, pp. 303-312.

Il punto di avvio della collabora-zione tra i due riguardò il tema della mancata attenzione allo sviluppo del Sud da parte delle forze politiche e sociali del centrosinistra��. La portata e limiti della revisione amendoliana si rese manifesta nei mesi successivi con il progressivo accentuarsi della crisi economica e i primi segni del riaccendersi del divario regionale. Il Mezzogiorno fu posto al centro di un programma riformatore volto all’apertura di una nuova fase della politica italiana. Nel ricevere la ri-stampa del volume Il Mezzogiorno e lo Stato unitario di Giustino Fortunato scrisse a Rossi-Doria, che ne era stato il curatore, di sentire ancora il pro-blema della questione meridionale come attuale nella congiuntura poli-tica attraversata dall’Italia35. Nel suo intervento alla Camera del dicembre 1973 portò questo concetto a sintesi politica36. Riprese gli argomenti della critica morale di Salvemini per denunciare gli sprechi dell’intervento straordinario e invitò a dar vita ad

�� Il 16 gennaio Saraceno organizzò con la Svimez a Napoli una tavola roton-da dal titolo “La centralità del problema meridionale” a cui parteciparono degli economisti del Pci Augusto Graziani e Mariano D’Antonio. Le relazioni furono pubblicate sul numero di febbraio della rivista «Nord e Sud».

35 Così Amendola a Rossi-Doria: «Caro Manlio, la Casa editrice Vallecchi ha avuto la cortesia di inviarmi la nuova edizione di Fortunato “Il Mezzogiorno e lo Stato unitario” con la tua prefazione. La metterò nella mia biblioteca accanto alla 1° edizione Laterza, che fu, negli anni lontani della nostra giovinezza, uno dei nostri testi sacri. Ricordo quan-do ti accompagnai a casa sua, in una di quelle visite dei “giovanissimi” che tu giustamente ricordi. Doveva essere nel 24. Sono passati quasi cinquant’anni, e il Mezzogiorno si trova ancora in queste tristi condizioni. Saluti». G. Amendola a M. Rossi-Doria, 30 novembre 1973, in Archivio storico ANIMI, Fondo Rossi-Do-ria, Corrispondenza ordinata per mittente e materia, f., 23. Copia è anche in Apc, Fondo Giorgio Amendola, Serie: Corri-spondenza, f: “Rossi-Doria, Manlio”.

36 L’intervento si svolse a dicembre del 1973. Il significato di questa presa di posizione è stato sottolineato da G. Napo-litano, Giorgio Amendola e la democrazia italiana, in Giorgio Amendola comunista riformista, cit., pp. 15-16.

una nuova fase della politica meri-dionalista con un allargamento delle funzioni di controllo democratico del processo di spesa.

3. La crisi della Repubblica e la proposta politica di Amendola

Nella seconda metà degli anni Settanta con il procedere della crisi del sistema politico italiano Amen-dola andò ulteriormente ricucendo lo strappo con gli ambienti e le personalità che avevano dato vita negli anni cinquanta alla nascita dell’intervento straordinario e che si trovano sempre meno ascoltati nei rispettivi partiti. L’iniziativa politica prese corpo davanti alla crisi dei governi di solidarietà nazionale e il fallimento della strategia del com-promesso storico di Berlinguer. Vi era in Amendola il convincimento che il ciclo storico iniziato nel 1948 si fosse esaurito e la speranza di poter portare i comunisti all’assun-zione di responsabilità dirette nel governo per contribuire al supera-mento della crisi politica italiana. In questo periodo intraprese un programma di revisione storica finalizzato a sottolineare la diversità del comunismo italiano rispetto al modello sovietico37. Dopo la crisi del governo Andretti che aveva decretato la morte della stagione della solidarietà nazionale e del compromesso storico, il 22 gennaio 1978 dalle colonne de «l’Unità» Amendola lanciò la proposta di una alternativa democratica38. Riconob-be la fine della strategia frontista e lanciò un programma di governo che faceva propria la proposta di politica dei redditi avanzata da La Malfa. Sostenne la necessità di un

37 Un punto sottolineato da Simone Colarizi, Giorgio Amendola, storico, cit. Sull’apporto di Amendola al rinnovamen-to degli studi sul Partito comunista si è ampiamente soffermato nella relazione di apertura al presente incontro Giuseppe Vacca.

38 G. Amendola, Anniversario di lot-ta, «l’Unità», 22 gennaio 1978. Sviluppò i temi della sua proposta politica nel volume: G. Amendola, Il rinnovamento del Pci, Roma, Editori Riuniti, 1978.

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20indirizzo di contenimento della spesa pubblica e l’attuazione di una politica dei redditi che doveva anteporre gli interessi nazionali a quelli particolari e corporativi delle organizzazioni economiche, sociali e dei partiti. Nel linguaggio e nei contenuti venivano ripresi gli argo-menti della tradizione liberal-demo-cratica��. Fu un tentativo estremo e irrealistico di riformare in senso liberale il Partito comunista.

All’invito rispose il giorno dopo il suo amico Rossi-Doria con una lettera che vale la pena di ripor-tare per intero. Nelle parole di Rossi-Doria traspare non solamente l’adesione manifesta alla proposta politica avanzata da Amendola ma anche, più in profondità, il senso di isolamento dei due meridionalisti rispetto alle tendenze in atto della politica italiana. Il riavvicinamento tra i due aveva avuto un precedente simbolico importante nel discorso ai funerali di Emilio Sereni in cui Rossi-Doria aveva tracciato le radici del comunismo napoletano40. Scrive Rossi-Doria: «Caro Giorgio, ho letto il tuo articolo di ieri su «l’Unità» e desidero abbracciarti. Più “cane sciolto” che mai – e come tale diverso da te e contento di esser-lo – approvo la tua e vostra azione. Se sarete molto calmi, fermi, non rigidi, aperti e rispettosi verso gli apporti degli altri di buona volontà, forse il trentennio cominciato il 18 aprile 1948 potrebbe chiudersi alla scadenza dell’anniversario. Peccato non essere più giovane e più forte.

�� Sulle novità del riformismo amen-doliano: L. Cafagna, Le sfide di Giorgio Amendola, in Giorgio Amendola co-munista riformista, cit., pp. 27-33. Con riferimento alla dialettica interna al Partito comunista: R. Gualtieri, Il Pci tra solidarie-tà nazionale e “alternativa democratica” nelle lettere e nelle note di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta a cura di G. De Rosa e G. Monina, v. IV Sistema politico e istituzioni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 281-282.

40 M. Rossi-Doria, In ricordo di Emilio Sereni. Alle radici della nostra storia, in «Rinascita», aprile 1977, rist in: Gli uomini e la storia. Ricordi di contemporanei, a cura e con introduzione di P. Bevilacqua, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 193-200.

Ti abbraccio Manlio»��. Nelle paro-le di Rossi-Doria vi era la speranza di poter riportare il comunismo italiano nell’alveo del riformismo. Come è noto in quei mesi La Malfa tentò, senza successo, di dar vita ad un governo sulla base di una convergenza programmatica con Amendola. Il progetto fu stroncato sul nascere dal veto dell’ammini-strazione degli Stati Uniti e anche dalle resistenze all’interno della compagine del governo e dello stesso Partito comunista42.

�� Archivio storico ANIMI, Fondo Rossi-Doria, Corrispondenza Varia, f., 24. Dopo la morte dell’amico avvenuta il 5 giugno 1980 Rossi-Doria scrisse una lunga lettera al fratello Pietro in cui riversò pensieri di un percorso troncato che avrebbe voluto trasmettere al fratello scomparso. Scrive Rossi-Doria: «Caro Pietro, non ti ho scritto, ma ti sono stato molto vicino nei giorni passati, come avrai anche visto dalle poche righe scritte per “Rinascita” [ M. Rossi-Doria, Quei giovani napoletani e la sua “scelta di vita”, in «Rinascita», 13 giugno 1980]. Due gior-ni fa mi è stata recapitata una copia del libro di Giorgio, che naturalmente avevo già comprato e letto. Ringrazio te, non potendo più ringraziare lui, dell’invio e ti prego di porgere il grazie anche all’edi-tore per l’omaggio. Negli intensi ricordi di questi giorni è cresciuto il rammarico di non essermi a lungo incontrato con lui negli ultimi anni, quando i motivi di dissenso politico non costituivano più un ostacolo all’intendersi. Ma proprio in questa riservatezza sua e mia era forse l’essenza della calda, ininterrotta amicizia che ci ha legato e verso la quale – come anche il libro dimostra – egli è sempre stato affettuosamente leale, come lo sono stato io. Spero, tuttavia, che lo stesso non avvenga tra me e te. Ciò significa che mi auguro che tu possa trovare il tempo per venirmi a trovare o per combinare altri-menti un incontro. Sarò fuori d’Italia sino al 10 di luglio, ma passerò l’estate, come sempre, nella casa costruita vent’anni or sono nella frazione di Montechiaro in co-mune di Vico Equense. Se hai occasione di venire da quelle parti, telefonami e combiniamo l’incontro». M. Rossi-Doria a P. Amendola, 16 giugno 1980. in Archivio storico ANIMI, Fondo Rossi-Doria, Corri-spondenza Varia, f., 28.

42 A. Manzella, Il tentativo di La Malfa, Bologna, Il Mulino, 1989. Circa gli elementi di apertura di Amendola al-l’impostazione lamalfiana e l’isolamento in cui si trovò all’interno del suo Partito nel 1978-79: A. Marzano, Contributo, in Giorgio Amendola comunista riformista,

Negli ultimi anni di vita Amen-dola promosse una dura battaglia per il rinnovamento del comunismo in senso liberale. Attaccò la linea della Cgil contraria all’abbandono dell’istituto della scala mobile richiamandosi all’indirizzo della politica dei redditi e affermando il primato degli interessi generali del Paese su quelli corporativi e di classe��. Negli stessi mesi pre-se posizione contro le forme di violenza politica, denunciando le zone d’ombra e di tolleranza nei riguardi del terrorismo presenti nel movimento operaio. Particolare attenzione rivolse alla difesa della libertà della cultura, da lui corretta-mente intesa come il momento più alto del vivere civile. A metà degli anni settanta aveva manifestato il proprio sostegno a Renzo De Felice contro gli attacchi polemici che gli erano stati rivolti per i suoi studi sul Fascismo. Meno nota è la sua presa di posizione a difesa di Romeo, protagonista negli anni cinquanta, della nota polemica con Emilio Sereni e che era stato preso di mira dai giovani della sinistra extraparlamentare. In seguito ai ripetuti attacchi e alle minacce lo storico siciliano aveva deciso di lasciare La Sapienza dove insegnava e spostarsi alla Luiss. Nell’aprile del 1979 il suo studio era stato og-getto di nuovo attentato, nel clima degli scontri scoppiati in segno di protesta per gli arresti del gruppo

cit. pp. 150-153; A. Maccanico, Contribu-to, in Giorgio Amendola, cit., pp. 57-60.

�� Di notevole interesse è la lettera di Amendola a Napolitano scritta il 4-5 novembre 1978 pubblicata in appendice al volume Giorgio Amendola comunista riformista, cit., pp. 171-179. In questi mesi si aprì un dibattito nell’ambiente economico vicino al Partito comunista sul tema del “salario variabile indipen-dente”. L’economista Mariano D’Antonio riconobbe che tra i fattori che favorirono la crisi dei risultati della Cassa vi fu anche una mancata adesione dei sindacati ad una politica dei redditi ai fini dello svi-luppo piuttosto che il perseguimento di obiettivi di stabilizzazione occupaziona-le. M. D’Antonio, La politica economica degli anni Sessanta, ovvero le occasioni perdute, in «Economia Italiana», n. 1-2, 1997.

di Autonomia. L’episodio non era trapelato sui giornali. Amendola intervenne personalmente con un telegramma per manifestare a Ro-meo la propria solidarietà e questi gli aveva riconosciuto lo status di alleato e amico nella battaglia per la difesa delle libertà democratiche��. Il progetto di riavvicinamento alla tradizione liberale di cui il meridio-nalismo aveva formato un momento cruciale, sarebbe avvenuto sola-mente dopo il crollo dell’Unione Sovietica e senza dar luogo ad una elaborazione culturale adeguata. La considerazione che gli obiettivi di uguaglianza sociale per essere raggiunti hanno bisogno di fondarsi sui principi del pensiero liberale resta ad oggi un nodo non piena-mente sciolto dalla sinistra italiana e forma una questione irrisolta della democrazia italiana che rende attuale e vivo il pensiero politico di Amendola.

Docente di Storia Contemporanea. Uni-versità di Teramo.

�� Dopo quanto accaduto manifestò la propria indignazione in un telegramma: «Esprimole mia profonda solidarietà et viva indignazione per grave atto violen-za et teppismo che indicano necessità combattere ogni forma di attacco alle nostre libere istituzioni democratiche». G. Amendola a R. Romeo, 11 aprile 1979 (Apc, Carte Amendola, Serie: Corrispondenza, f: “Romeo, Rosario”). Questi rispose alle parole del leader comunista con una lettera. Scrive Romeo: «Caro onorevole, tornato da Parigi, dove mi trovavo per un impegno di ricerca al momento dell’aggressione al mio studio, trovo il suo telegramma. Le sono molto grato del suo gesto di solidarietà, per ragioni personali, e anche per il grande significato, politico e morale, che riveste la Sua condanna dei metodi di lotta di personaggi come questi, che pure si atteggiano a paladini della classe operaia. È una condanna nella quale si realizza la solidarietà di tutti coloro che vedono nella democrazia la base irrinunciabile della vita politica e civile nel nostro Pae-se. Mi auguro di avere presto il modo di ringraziarti ancora di persona, e intanto mi abbi con la più cordiale amicizia». R. Romeo a G. Amendola, 20 aprile 1979. Apc, Carte Amendola, Serie: Corrispon-denza, f: “Romeo, Rosario”.

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BANDO

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Giovani ricercatori si misurano col pensierodi Giorgio Amendola

Credo che prima di affrontare qualsiasi argomentazione sia opportuno ren-dere merito ad Andrea Geremicca, che ha fortemente voluto, all’interno di questa giornata, la riflessione di giovani ricercatori, ai quali è stato chiesto di misurarsi col pensiero di Giorgio Amendola. Dando uno sguardo alle tematiche delle singole relazioni è possibile rendersi conto di quanto sia stato impegnativo il lavoro nel quale essi hanno dovuto cimentarsi.La scelta si rivela tanto più opportuna se si pensa alla particolare atten-zione che Giorgio Amendola ha sempre manifestato nel suo rapporto con

i giovani, un rapporto scevro da qualsiasi tentazione paternalistica, privo di “tenerezze”, ma sempre improntato ad una grande fiducia e considerazione. Come lui stesso ebbe a dire nella sua Intervista sull’antifascismo, “i giovani devono avere il coraggio di rischiare, anche a costo di spezzarsi le gambe”. E ancora, nel suo richiamo alla lotta antifascista, incitò i suoi contemporanei a “fare largo ai giovani”, nel convincimento che in una grande politica ricca di senso nazionale il ruolo dei giovani è fondamentale. Sempre sui giovani, in “Fascismo e Movimento Operaio”, riprendendo una relazione al Comitato Centrale del Partito Comunista del ’75, Amendola ebbe a dire: “spetta ora ai giovani partire per condurre a termine l’opera iniziata nella lotta antifascista e nella resistenza”. Nel ’64, dalle pagine di Rinascita, Amendola aveva lanciato l’idea della riunificazione con i socialisti e del partito unico dei lavoratori, esprimendo quella che probabilmente è l’istanza più moderna del suo pensiero. Questo lo portò ad uno scontro violento con la Nuova Sinistra interna al PCI, e con coloro che ritenevano sbagliata quella ipotesi, che erano per lo più i giovani del partito. Ma egli espresse la parte più vera del suo pensiero sui giovani quando scrisse: “il discorso di un vecchio ai giovani non può essere che sincero, anche se è destinato a non essere ascoltato, ma io non credo che i problemi centrali per i giovani di oggi siano quelli posti da una tematica dell’individuo e del privato, quanto piuttosto di liberare l’individualità dei giovani di oggi dai lacci di una umiliante e compassionevole permissività che scoraggia il necessario sforzo personale, l’inevitabile fatica e incoraggia invece devianti ignoranze”. Il cuore di questo messaggio si collega direttamente alla testimonianza di Mariano D’Antonio riguardo ai ripetuti inviti a studiare e a impegnarsi in uno sforzo di approfondimento serio di tipo individuale.Attraverso queste citazioni del pensiero di Amendola a proposito dei giovani intendo in qual-che modo rendere omaggio al lavoro e all’impegno dei giovani ricercatori che sono oggi qui in veste di relatori.

Amedeo Lepore

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2�

Quella di Amendola è stata una figura tanto importante quanto ingombran-

te nella storia del Partito Comuni-sta Italiano e della Sinistra italiana tutta. Per queste ragioni un tema impegnativo ma a mio modo di vedere anche euristicamente si-gnificativo: il ruolo dello Stato, da un lato, e del Partito, dall’altro, nel pensiero e nell’azione di Giorgio Amendola. Perché in una pro-spettiva storico-istituzionale, che è quella a me scientificamente più familiare, nulla illustra meglio di questa coppia concettuale la matrice culturale di Amendola, la sua azione politica nel Partito, per la Repubblica e per la Nazione, tra gli anni ’30 e gli anni ’60. Un punto d’osservazione che ha il pregio a mio avviso di riuscire ad inquadrare adeguatamente il profilo di Amendola nella storia italiana senza incorrere nei pe-ricoli, entrambe incombenti, né di impostazioni agiografiche né tantomeno di letture costruite interamente su di una presunta “eccezionalità” della sua figura nel panorama del gruppo dirigen-te comunista, e che ne ha fatto ingiustamente – a seconda dei casi – o un “comunista imperfet-to” o un “socialista mancato”.

È giunto a mio avviso il tempo di rimuovere dalla figura di Gior-gio Amendola il peso di quella damnatio memoriae cui soprat-tutto una parte della storiografia di origine comunista lo ha ingiu-stamente condannato, evitando contestualmente la tendenza, talvolta abusata pur in buona fede da una certa storiografia laica, di costruire un profilo di Amendola esclusivamente sulla sua “singo-larità” nel panorama della classe dirigente comunista del secondo dopoguerra, vista come diretta

conseguenza delle sue origini culturali o anche famigliari.

Per queste ragioni vorrei pri-ma di tutto sgombrare il campo da ogni equivoco. Pur cosciente di potermi sbagliare, guardo alla figura di Giorgio Amendola ed al suo importante contributo alla costruzione della democrazia italiana, come a quella di un intellettuale ed uomo di partito comunista «fino alla fine», e per il quale contestualmente la scelta della democrazia era «definitiva ed irrevocabile» (De Martino, 2001, 129-130). Insomma, dando per acquisita la sua originaria e “famigliare” matrice idealistico-crociana o storicista, definirei Amendola “comunista perché crociano”, e non “comunista no-nostante il suo retaggio idealista”; comunista perché convinto della funzione “nazionale” ed antifasci-sta del Partito, non “nonostante tutto ciò”.

Amendola «non fu un cane sciolto» (Cafagna, 2001, 19): fu la «positività storica dell’azione comunista nel Paese» a conferire all’allora PdCI quella funzione nazionale ed egemonica nella costruzione dell’antifascismo de-mocratico (Macaluso, 2003, 11), della Resistenza e della Repub-blica che condussero il giovane Amendola a maturare la scelta d’iscriversi al PCdI. Il partito della “svolta del ’29”, che supera la sudditanza del centro interno ed abbandona progressivamente la condanna al “socialfascismo”; il Partito di “Ordine nuovo”, de “Lo Stato operaio” e della lettura gramsciana della rivoluzione na-zionale (Amendola, 1978 A, 28); il Partito del “manifesto Grieco” del 1935-36 che cercava la “ricon-ciliazione” sul terreno nazionale della gioventù italiana deviata dal fascismo (Vittoria, 2006, 37 ss.).

Insomma è sul terreno del-l’antifascismo, della difesa dello Stato democratico e del meridio-nalismo che il giovane studente, di famiglia liberal-democratica ed ambiente crociano, si spinge verso il partito comunista. Per-ché il fascismo rappresenta per Amendola la più grossa delle ferite etico-politiche e personali: una brutale rottura della evolu-zione in senso democratico dello Stato nazionale, secondo l’eredità raccolta dal padre, da Croce e Gobetti, ma anche da Gramsci. Nel riprendere quella eredità alla fine degli anni venti egli non può che aderire al Partito comunista: l’unico soggetto in grado di in-vertire attraverso la sua azione quella tendenza, e ricostruire un antifascismo combattivo e ideologicamente vivo (Amendola, 1978 B, 205).

Ma sono anche le amicizie personali a contribuire alla sua scelta: non può non ricordarsi che egli giunge al partito attraverso Emilio Sereni e Manlio Rossi-Doria, e quella generazione di giovani meridionalisti che nello studio del rapporto tra cultura, economia e terra si avvicineran-no ad una lettura “critica” della questione meridionale (Cerchia, 2004). Antifascismo democra-tico, meridionalismo, funzione nazionale delle masse di lettura gobettiana-gramsciana: questi tre elementi fecero da catalizzatore per una intera generazione di intellettuali (oltre ad Amendola il già citato Rossi-Doria, Alica-ta, Reale, Silone, Giolitti) che negli anni’30 e ’40 costruisce il partito sovrapponendosi ad una prima generazione (Togliatti, Secchia, Scoccimarro, Terracini, Tasca), convinta, e non a torto, che il PCdI fosse il solo capace di fornire quella solida struttura

ideologica ed organizzativa utile a ricostruire un fronte antifascista forte, sulle ceneri lasciate dalla deriva aventiniana dei socialisti e da un movimento liberal-demo-cratico ridotto ad un pugno di intellettuali ormai privi anche del tradizionale apporto massonico (Mola, 2006, 596 ss.).

In definitiva, nel Partito co-munista Amendola individua l’«erede privilegiato dei democra-tici del Risorgimento che poteva storicamente vincere la battaglia laddove quelli [l’azionismo e poi il Partito socialista] l’avevano perduta» (Salvadori, 2001, 88). Perché solo quel soggetto – in quanto comunista ed in quanto partito – poteva svolgere appieno la «funzione nazionale della clas-se operaia» (Cafagna, 2001, 21) di emancipazione e progresso de-mocratico dello Stato, vista come portatrice dell’interesse generale (Napolitano, 2001, 13) .

Qui c’è tutto il senso del nesso tra Stato e Partito nel pen-siero e nell’azione di Amendola: i due pilastri della «via italiana al socialismo» come forma di completamento della democrazia nazionale. Dall’idealismo cro-ciano Amendola mutua, direi, il senso quasi risorgimentale della difesa dello Stato come portatore dell’interesse generale; da Gram-sci (e da Gobetti), l’idea della funzione democratico-nazionale della classe lavoratrice (Bobbio, 2001, 165 ss.) come egemonica nella «direzione intellettuale e morale dei processi» (Gramsci, 2000, 87).

Ciò spiega anche il suo rap-porto, complesso e viscerale, con il partito cui dedicò una vita intera, di chi «contraddì e si contraddisse» per dirla con Macaluso (Macaluso, 2003, 147 ss.): la sua «leggendaria discipli-

Tra Stato e PartitoArmando Vittoria

Giovani ricercatori si misurano col pensierodi Giorgio Amendola

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2�na» (Cafagna, 2001, 20 ss.) come la sua forza critica; l’imponenza fisica e verbale (Macaluso, 2003, 147) nel porre domande scomo-de nel partito e la sua tenden-za «autodisciplinante» da vero quadro comunista; l’Amendola innovatore od anzi «anticipatore» impaziente (Cafagna, 2001, 22 e 31), fautore dell’improvvisazione politica ma anche autoritario “uomo d’ordine” (Salvadori, 2001, 87) nel riportare tutti alla linea del Partito ed alle scelte del suo ceto dirigente, più raramente a quelle di Mosca. Amendola amò il suo partitò almeno quanto lo sfidasse (Tamburrano, 2001, 135), ma di certo ne fu un fedele servitore: lo servì come stesse servendo lo Stato perché per lui quel partito era l’attore principale del riscatto dello Stato nazionale, che lui vedeva democratico e – se mi consentite – “progressivo”.

Una vita vissuta con «laicità di pensiero e di comportamento, per quel codice etico-politico di serietà, coerenza, responsabilità, che forse gli veniva, prima ancora che dall’esperienza della clande-stinità e delle lotte nel PCI, dalla severa e quasi religiosa pratica del liberalismo da parte del pa-dre» (Natta, 2001, 123). Questa l’unica chiave di lettura possibile, quella che almeno a me sembra meno didascalica e manichea, per comprendere il percorso politico di Giorgio Amendola, nella storia del PCI, della sinistra italiana e della Repubblica. Una chiave di lettura che ne spiega insieme tutte le principali scelte politiche personali e i giudizi spesso con-tradditori che di esse diedero i suoi compagni, gli osservatori, i suoi avversari. Nello sviluppare questo piano d’analisi mi servirò di tre passaggi della sua storia personale nel PCI che mi sono sembrati particolarmente signifi-cativi – il “partito nuovo” (1945), il dibattito al C.C. dell’ottobre del 1961 sul XXII congresso del PCUS, e il carteggio con Bobbio del 1964 sul “partito unico della dei lavoratori” – che dimostrano,

e qui mi perdonerà Macaluso, come egli non contraddisse e non si contraddì. Dimostrano, in definitiva, quanto la usa vicenda stia appieno nella tracciato storico del PCI e della sinistra italiana della seconda metà del novecen-to e che le sue furono posizioni coerentemente comuniste prima che amendoliane: le posizioni di chi fondò, questo è il mio giudi-zio, tutto il suo percorso politico sull’obiettivo della via nazionale al socialismo. Altro è dire perché non riuscì a realizzare questo suo obiettivo.

Amendola accoglie Togliatti al suo “sbarco” in Italia. La svolta del “partito nuovo”, da egli fortemen-te condivisa, costituisce infatti il percorso in cui il partito poteva svolgere appieno il suo ruolo nazionale. Durante il V Congres-so del partito (Roma, dicembre 1945- gennaio 1946) il gruppo dirigente del PCI tratteggiava il programma: lotta all’illegalismo ed alla «malattia del mitra», ac-cettazione e promozione di una «repubblica organizzata sulla base di un sistema parlamentare rappresentativo, una repubblica cioè che rimanga nell’ambito della democrazia ed in cui tutte le riforme di contenuto sociale siano realizzate col rispetto del metodo democratico» (Da Gramsci a Ber-linguer, 1985, 77 ss.).

L’orizzonte segnato da To-gliatti e dal gruppo dirigente comunista non è privo di conse-guenze nella base e verso Mosca. Negli articoli 1 e 2 dello Statuto approvato al congresso c’è l’in-veramento di quella funzione na-zionale del PCI che conferma per Amendola il senso della sua scelta di aderire al Partito: tutti possono iscriversi al partito accettandone semplicemente il programma politico, «indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche» (art.2); «Il PCI è l’organizzazione politica dei lavoratori italiani – e non della classe operaia! – i quali lottano in modo conseguente per

la distruzione di ogni residuo del fascismo, per l’indipendenza e la libertà del paese, per l’edifica-zione di un regime democratico e progressivo, per la pace tra i popoli, per il rinnovamento socialista della società» (art.1) (Martinelli, 1982).

Il partito si colloca – im-mediatamente a ridosso della Costituente e dell’avviamento alla normalizzazione democratica del Paese – nel sistema politico con la strategia della «democrazia progressiva», attraverso le libertà democratiche e la rappresentan-za, per la via italiana al socialismo (Vittoria, 2006, 59 ss.). L’idea del “partito nuovo” – per quanto si possa storiograficamente discute-re dei termini ed anche della “sin-cerità” dell’operazione – spiazza per il suo profilo avanguardistico. Togliatti dettava la via italiana al socialismo, il recupero – si pensi alla politica culturale del PCI (Vittoria, 2006, 72 ss.) e successivamente alle edizioni gramsciane – di un terreno na-zionale, l’apertura di una strategia che poneva le premesse di una nuova collocazione del partito nella sinistra e nell’arco parla-mentare, ovvero tutto ciò per cui Amendola aveva lottato e lotterà durante la sua lunga vicenda poli-tica, e che – utilizzando l’efficace forzatura di Macaluso – potrebbe sintetizzarsi nel suo obiettivo di traghettare il «PCI dall’area comunista all’area socialista» (Macaluso, 2003, 151).

Amendola era in quella fase appena entrato nella direzione ed era sottosegretario nel Governo Parri, poi nel primo di De Gasperi (Amendola, 1974). Tuttavia la linea del “partito nuovo” era destinata a forti modifiche sotto l’opera dei colpi interni ma soprattutto ester-ni: la riunione del settembre del 1947 in cui Longo e Reale sono accusati di «arrendevolezza»; le pressioni dell’Urss ad abbando-nare la “via nazionale” del PCI e la risoluzione del Cominform del novembre 1949; l’opposizione in-terna di Secchia e il VI congresso

che obbliga Togliatti ad allineare il partito all’Urss, ad abbandonare la via nazionale e a modificare l’articolo 2 dello Statuto.

La vexata quaestio della no-mina di Togliatti al Cominform costituì poco dopo un momento di svolta. Nulla spiega meglio della direzione nazionale del 31 gennaio del 1851, cui Stalin ac-cettò si demandasse la decisione sulla collocazione di Togliatti, l’impatto in termini di revisione della politica del “partito nuovo” negli anni che vanno dal 1946 in poi. Amendola avrebbe poi detto di aver votato a favore come tutti alla proposta sovietica (astensio-ne di Negarville, voto contrario di Terracini) (Amendola, 1978 C), ma quel voto confermerà la percezione da parte di Togliatti di una dirigenza sfibrata e divi-sa (con una forte opposizione interna), costringendolo ad ab-bandonare una decisa politica di rinnovamento e nazionale e riallinenando il partito a Mosca, per esigenze esterne ma anche di controllo sul partito.

Gli anni che vanno dal 1949 al 1956 sono gli anni in cui la politica del PCI passa sostan-zialmente dalla strategia del “partito nuovo” al centralismo democratico ed all’unitarismo interno. Anni che oggettivamente rappresentano nella prospettiva amendoliana un arretramento rispetto alla sua politica della «specificità nazionale» (Natta, 2001, 123), alla sua idea “fron-tista” fino all’eccesso – anche in tempi non maturi – di un «partito della via italiana al socialismo» (Bobbio, 2001, 161). Eppure sono gli anni in cui Amendola conduce la battaglia meridonalista per la riforma della terra (assieme a Rug-giero Grieco) e fonda con Alicata e De Martino la rivista Cronache Meridionali (1954), riuscendo se vogliamo a tenere la politica del Pci dentro la propria prospettiva politica.

Dopo la citata direzione del 1951 Togliatti medita e program-ma quella che potremmo definire

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2�una “seconda svolta”, cercando di tenere assieme un adeguato e mai supino allineamento all’Urss e un rafforzamento del suo controllo sul partito, senza pregiudicare eccessivamente la strategia della via nazionale e del partito nuovo che pure avevano subito dei duri colpi. La morte di Stalin, sfumata la patina della commozione, apre il «disgelo» e la discussione sil “policentrismo” (Vittoria, 2006, 177) – che decollerà dopo il XX congresso del PCUS – ma soprattutto rafforza le posizioni di quanti, con toni e forse anche prospettive diverse, avevano puntato con forza sulla strategia del “partito nuovo”. La linea di Togliatti, ma anche di Amendola e Terracini, vede aprirsi con la sconfitta della “legge truffa” e soprattutto della sua applicazione elettorale prospettive politiche importanti.

Quando dunque nella pri-mavera del 1954, nel comitato centrale che deve preparare la IV conferenza sull’organizzazione del partito, Togliatti chiama a rela-zionare a sorpresa proprio Amen-dola – e non Secchia, responsabi-le dell’organizzazione – il cerchio comincia a chiudersi: l’affare Seniga, l’inchiesta Scoccimarro, saranno tappe interlocutorie di un processo interno che “veniva da lontano”. La IV segna l’estromis-sione sostanziale di Secchia dalla linea dirigente: la rottura insana-bile con Togliatti sulla visione del partito – di quadri, di massa – era scivolata sul piano delle esclu-sioni personali, e la sua vicenda successiva ne fu una dimostrazio-ne come lo stesso Secchia tenne sempre a precisare.

Giorgio Amendola lo sostitui-va, ed entrava anche nella segre-teria del partito. Questa scelta, spesso non messa debitamente in risalto dalla storiografia, ebbe a mio modo di veder un significato importantissimo, nella direzione che Togliatti e il gruppo dirigente a lui vicino davano al partito in quella determinata fase. La rela-zione di Amendola al comitato

centrale del 16-18 luglio 1854 dava ragione a Togliatti ed era un «manifesto politico»: era il rilancio di una strategia di respiro nazionale della politica del PCI, di programmazione economica e sociale dai profili riformisti (Gualtieri, 2006, 27-41). Era un esito prevedibile. Amendola, per formazione, percorso e posizioni nel partito, aveva un profilo assai diverso dall’ortodosso Secchia. Come ricorderà Macaluso par-lando delle loro diverse vedute proprio sul modello organizzativo di partito, Amendola aveva più volte ripetuto «a Secchia che una struttura così [il modello organizzativo staliniano] si poteva costituire al nord, ma, nel Mezzo-giorno, non se ne parlava neppu-re» (macaluso, 2003, 54): sembra di risentire la polemica di fine ottocento tra Turati e Salvemini. Di certo la scelta di Togliatti si collocava coerentemente dentro una più ampia strategia incline a recuperare la politica del “partito nuovo”, di un partito «aperto a tutti i campi della vita economica, politica e sociale della nazione» (Da Gramsci a Berlinguer, 1985, 574 ss) come egli stesso disse nella quarta conferenza: era il recupero almeno parziale del V congresso, era la via italiana per una “democrazia progressiva”. Giorgio Amendola era in quella fase l’uomo giusto al posto giu-sto: dentro quella prospettiva, dentro quella storia, che era la sua storia.

Ma è soprattutto con la fase politica interna al PCI che si apre con il XX Congresso del PCUS che spinge Amendola a praticare con più intensità – e con una posizione interna al partito ed al dibattito politico del Paese ormai di primo piano – la sua linea e la sua prospettiva politica. Le critiche ormai scoperte allo stali-nismo ma ancora di più i fatti di Ungheria avranno, come noto, un forte impatto sulla sinistra italiana e particolarmente sul PCI – non ultimo un dissanguamento di al-cuni tra i migliori della sua classe

dirigente e degli intellettuali: da Giolitti a Onofri; da Calvino a Crisafulli, Diaz, Cantimori e Sapegno; da Muscetta a Reale (M.S.Righi, 1996). Qualche anno dopo nel Comitato centrale del novembre del 1961, lo stesso Amendola che aveva aperto il fuoco delle critiche interne sul XX congresso, ma poi era rientrato nei ranghi ed anzi aveva cercato, con l’idea della «lotta su due fronti», di contenere i dissensi di Terracini, Negarville e Di Vittorio sull’Ungheria (Vittoria, 2006, 85-86), non farà sconti al partito ed alla sua leadership nel chiedere il dibattito su «quel nodo…quella remora insuperabile se si voleva andare avanti davvero sulla strada del rinnovamento» (Macaluso, 2003, 149).

Era, nella visione amendo-liana, il momento di aprire «in termini di concretezza, alle no-vità» (Tamburrano, 2001, 136), di spingere il cuore oltre l’ostacolo: era l’occasione per una svolta storica nel PCI, tale da collocarlo alla guida della via nazionale al socialismo, in un program-ma strutturale, progressivo e riformatore, che abbandonasse alcune contraddizioni scaturenti dai legami con una parte della politica sovietica.

Il Comitato centrale del 1961 in cui si discussero, soprattutto su spinta di Amendola, le tesi del XX e del XXII congresso del PCUS costituirono per la sua posizione nella classe dirigente del PCI uno spartiacque. Le divergenze con Togliatti emersero con forza su alcuni punti essenziali della politica del partito – democrazia interna, interpretazione del po-licentrismo – sia nelle relazioni, che nel documento finale come nella direzione immediatamente successiva (M.L.Righi, 2007). Il rapporto tra il dirigente napoleta-no ed il partito uscì indubbiamen-te logorato, anche per la forza con cui egli pose quelle questioni. In questo sono fortemente in disac-cordo con alcuni giudizi storio-grafici sulla presunta incapacità

di Amendola di varcare, in quel passaggio, “il rubicone” (Cafagna, 2001, 28 ss.): egli spinse fino al consentibile – in quel tempo, in quel partito – la dirigenza del PCI ad una sua Bad Godesberg se volgiamo utilizzare questo termine. Fu il gruppo dirigente maggioritario a scegliere di “di-menticare Kruschev” (o forse l’Ungheria). Se una responsabilità si può trovare ad Amendola – non col sennò di poi ma con la conte-stualizzazione dello storiografo, si badi bene – non fu un difetto di convinzione quanto, piuttosto, di efficacia politica di quelle scelte, ovvero di quanto quella sua strategia sia risultata o meno vincente. Ciò che voglio dire, in definitiva, è che su questo aspetto le critiche non vanno condotte al percorso e la “scelta di vita” di Amendola per l’impa-zienza del suo carattere né per la sua «rozzezza» – come amava dire – , né per la sua impazienza né forse per la sua disciplinata devozione all’unitarismo di par-tito (che ebbe però altri effetti), ma solo per l’inefficacia della sua strategia politica.

Il limite di Amendola, per dirla con Colajanni, fu di determi-nazione nel porre una leadership alternativa, perché «per affermare le proprie idee occorre anche porre candidature al comando e organizzare le forze. Com-portandosi come si comportò, Amendola rimase isolato» (Co-lajanni, 2001, 74). Nel momento della rottura, egli servì il partito, la sua “patria”; ma «il presupposto unitario», cui Amendola rimase fedele dopo il Comitato centrale del 1961 comportò «un prezzo elevato per il PCI», quello del-l’«isterilimento delle intelligenze» e del «dilagare del conformismo» (Colajanni, 2001, 76).

Un giudizio, quello di Colajan-ni, che oggettivamente restituisce le dovute responsabilità anche all’altra parte del gruppo diri-gente che non seppe valorizzare adeguatamente le suggestioni e, a volte, le provocazioni di Amen-

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2�dola, al di là delle divergenze di linea politica. Bollandolo come «provinciale» – come Togliatti al citato Cc dell’autunno 1961 (Righi, 2007, 5-38) – o come analfabeta del leninismo” (è il caso di Berlinguer al Cc del ’79), facendo emergere quel tratto di snobbismo, chiusura ed autorefe-renzialità culturale di un certo Pci che, certo, mostravano un certo conformismo. Di certo va ascritto ad Amendola il merito, negli anni decisivi della “crisi sotteranea della chiesa comunista”, di essere stato tra i pochissimi a proporre un serio percorso di revisione critica dentro il partito (Crainz, 2005, 161-174).

Va precisato, inoltre, che anche i “cugini” socialisti e della Sinistra in generale non si mostra-rono particolarmente reattivi nel raccogliere le suggestioni spesso lanciate dal dirigente napoletano, nei suoi modi nei suoi limiti. Si pensi al celebre dialogo a distan-za con Norberto Bobbio del 1964 (Bobbio, 2001, 157 ss.). La pro-posta di Amendola di un «partito unico dei lavoratori» nella sinistra italiana, né comunista né social-democratico, «capace di elabora-re una nuova strategia nuova ed una politica nuova» fu una vera «bomba» (Macaluso, 2003, 150) nel Partito, che egli pagherà con «una vera e propria aggressione morale», come avrà modo di dire (Crainz, 2005, 162).

Certamente sulla scelta dei modi e dei tempi per quella ini-ziativa da parte di Amendola ci sarebbe tanto da approfondire: per la crisi del primo centrosini-stra e la riunificazione socialista in atto e anche per la fase politica assai problematica in cui il PCI si trovò ad operare. Eppure non si spiega, diversamente dallo stupo-re, l’aggressione ad una proposta che almeno nei contenuti in senso stretto in fondo ripropone-va, mutatis mutandis, la politica del “partito nuovo”, «il partito della via italiana al socialismo» (Bobbio, 2001, 161), se si vuole confermata nella sostanza poco

successivamente dal memoriale di Yalta.

In ogni modo alla luce degli eventi successivi è forse facile ed anche un po’ banalizzante affer-mare che per molti versi Amendola ebbe ragione. In questo senso egli fu senza dubbio un anticipatore e un innovatore. Ma queste non sono categorie della storia, e l’attuarismo storiografico è uno dei peggiori pericoli per lo storico, da cui mi hanno insegnato a rifuggire.

Una frase tuttavia, del pri-mo degli articoli pubblicati da Amendola nel 1964 su Rinascita, rappresenta più di ogni altra cosa detta sino ad ora, il suo percorso, il suo impegno, la sua azione politica e quella religione civile in lui sospesa tra Stato e partito. Il sogno di un «grande partito unico del movimento operaio – come scrisse a Bobbio – nel quale trovino il loro posto i comunisti, i socialisti e uomini come Bobbio, che rappresentano degnamente la continuazione della battaglia liberale iniziata da Piero Gobet-ti». Di fatto con quelle parole Amendola ritornava al punto in cui tutto per lui era iniziato, alla sua “scelta di vita”.

Ricercatore in Storia delle Istituzioni Poli-tiche. Docente incaricato in Scienza del-l’Amministrazione. Università Federico II.

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Misurarsi col pen-siero di Giorgio Amendola, per chi appartiene alla mia

generazione, vuol dire anzitutto avviare la frequentazione con un “classico” del pensiero storico e politico del Novecento. Èun’af-fermazione non peregrina questa, proprio nella misura in cui lo sforzo della “storicizzazione” verso un classico – di qualunque epoca e di qualunque disciplina, e nel caso specifico di Giorgio Amendola, del pensiero e dell’azione politica – è agevolato dal permanere di una lezione viva, che trascende la contingenza storica. Nel vuoto di “memoria” di cui soffre la civiltà politica italiana, pur oltre i radicali mutamenti sopravvenuti in Italia e in Europa dopo la sua scomparsa, le posizioni di Amendola, riman-gono sullo sfondo, come esemplari nel metodo, di come – nel solco di una “una scelta di vita” – nasce e si forma una “classe dirigente”, si dota di una “visione unitaria” del proprio paese e dei propri proble-mi strutturali, dispiega e organizza la sua azione secondo un’etica del lavoro politico ad essa conforme. Non entusiasma il ritratto di Amen-dola come riformista “migliorista” fine, intelligente, ma minoritario e perdente, né la vexata questio delle basi minoritarie del riformismo italiano che riduce la vicenda di Giorgio Amendola, – riformista in un partito comunista di massa – a caso esemplare e semplificativo di una sconfitta storica.

Né attualità dunque, né rievo-cazione memorialistica, né pro-cesso, né elogio, ma ricostruzione di un clima intellettuale e di un contesto storico che – nel riflesso con le ferite aperte della storia d’Italia unitaria: il Risorgimento, la Questione meridionale, le origini del Fascismo, la Ricostruzione,

l’incontro con l’Europa – offre un’ampia prospettiva visuale per “l’autobiografia della nazione” o d’una sua parte consistente, e questo – permettetemi un inciso ulteriore – è tanto più concreto nel caso di Giorgio Amendola, che, dello sforzo d’aderenza della sua parte politica alle emergenze della “nazione”, della “funzione nazio-nale” nell’azione di massa del mo-vimento operaio comunista, fece un vero è proprio metodo formale d’impostazione delle “questioni” e della “decisione” politica; uno sforzo che avrebbe caratterizzato intimamente l’indole di quello che con un ossimoro è stato definito “riformismo comunista”. Ma il rifor-mismo comunista non fu una cor-rente, c’è una recente definizione di Emanuele Macaluso, molto ade-guata a rappresentare quello che fu l’esercizio politico di Amendola e dei suoi allievi, ma che può essere assunto a norma generale dell’etica politica dei comunisti italiani, e cioè: “muoversi in una strettoia, tra l’impossibilità del governo, la scelta della legalità e della costi-tuzione e l’integrazione di massa senza opzione rivoluzionaria”. È un esercizio che riassume larga-mente la storia dei gruppi dirigenti comunisti vicini a Togliatti e eredi della sua impostazione e non può essere considerata una posizione isolata o marginale, ma largamente maggioritaria e rappresentativa nel mondo comunista. Si tratta dunque di una posizione tutta calata nel dramma del suo tempo che non va scorporata dal suo contesto ma che per varie ragioni: le sue matrici culturali, il suo approccio pragmatico alle vicende sociali e economiche del paese, la lucidità nell’analisi storica pure in una fase di profonda trasformazione, in una parola – mutuata e presa in prestito da Antonio Labriola e volta

in positivo – la sua “congreunza” rispetto alle emergenze del proprio tempo, fanno di Amendola un in-terlocutore capace di superare il re-cinto della contingenza. Misurarsi col pensiero di Giorgio Amendola significa dunque non solo provare a familiarizzare dall’esterno con i suoi testi, con la sua imponente produzione pubblicistica nei pan-ni di redattore delle “Cronache meridionali” o di responsabile per il P.C.I. nel Mezzogiorno d’Italia, oppure con la fluviale produzione politica da uomo delle istituzioni nel suo lungo magistero parla-mentare, ma anche misurarsi dal-l’interno con le manifeste espres-sioni della sua azione di dirigente politico, nel quadro organizzativo “centralistico” del P.C.I., su “que-stioni cruciali” della vita italiana che, pure nella mutevolezza degli scenari, si sono agitate sullo sfondo di un lungo periodo, suscitando, al-meno sino alla sopravvivenza delle strutture emanazione diretta del “continuismo comunista”, dibattito pubblico e polemica politica, ma questo lungi dall’indurre a porre il falso problema dell’attualità di Giorgio Amendola, anzi, oggi di fronte a una stagione politica che, almeno nelle intenzioni, si annuncia come “nuova”, per il suo carattere di decisa discontinuità storica, si pongono forse le premes-se per consengare agli arnesi della ricerca storiografica il controllo del giudizio sul passato, ma come è noto “passato” e “presente” non sono dimensioni alternative o gradi di esistenza incomunicabili, ma convivono il più delle volte in un impasto unico, cui solo il giudizio storico ben avvertito e ben con-trollato è in grado di imprimere una forma selettiva, assumendo, sul piano della rappresentazione soggettiva, l’alterità dell’oggetto in esame. In questa direzione credo

sia insufficiente invocare il rinno-vamento in politica, intendo dire nei luoghi della direzione e della decisione politica, senza pretende-re da chi arriva un “rinnovamento storiografico”, nei luoghi della cultura alta e dell’opinione, non a caso, perché credo invece che una “generazione nuova”, che non sia tale in termini solo anagrafici, si in-sedia e matura buoni frutti se la sua visione del passato poggia su solide basi, se è in grado di sostenere il costo di un passaggio di memoria senza correre il rischio dell’oblio o dell’amnesia o della rimozione di quello che rimane altro da sè, e non per questo minore o maggiore del presente, ma semplicemen-te diverso. Credo – e concludo questa lunga premessa – che per affrontare la storia del comunismo italiano da questa prospettiva – ma questo vale per qualsiasi impresa storiografica – si debba far ricorso all’esercizio intellettuale dell’etno-logo, che Claude Levi Strauss, in un saggio del 1956 dal titolo Les trois Humanismes definiva ‘tecnica dello straniamento’, che non solo prelude allo studio, ma anche alla comprensione di cio che non ci è mai appartenuto o non ci appartie-ne più, per la mia generazione è il caso di Giorgio Amendola.

In questa breve relazione, vor-rei concentrare la mia attenzione, attorno al nodo della “questione meridionale” seguendo da vicino il percorso di definzione dell’ap-proccio amendoliano ai problemi del Mezzogiorno. Il pretesto per occuparmi di Giorgio Amendola e la questione meridionale, mi giunge in maniera indiretta da una pagina autobiografica di Giorgio Napolitano che ricostruisce le vi-cende che condussero all’insedia-mento del IV centro Siderurgico a Taranto. È una pagina meditata che fa ammenda sul passato e sulla cul-

Autocritica sul MezzogiornoAlfonso Musci

Giovani ricercatori si misurano col pensierodi Giorgio Amendola

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2�tura “industrialistica” dei comunisti italiani, una pagina densa che pone problemi sul passato e invita al-l’”autocritica” sulle scelte politiche degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta. Un torno di tempo gra-vido di eventi, che sul piano della mera cronaca coincisero con la nascita dello SVIMEZ nel 1946 per impulso di Rodolfo Morandi, con l’ampio dibattito ‘economico’ nelle vicende congressuali dei partiti del CLN: ad esempio il Partito d’Azio-ne, col convegno svoltosi a Bari dal 3 al 5 dicembre del 1944 sul tema “Dati storici e prospettive attuali della Questione meridionale” cui presero parte Guido Dorso, Manlio Rossi Doria e altri esponenti del “nuovo meridionalismo” o con le conferenze programmatiche della Democrazia Cristiana che nell’ul-timo lustro degli anni Quaranta avrà nella schiera degli economisti ‘dossettiani’ un nucleo vitale e fertile di innovazione scientifica, in grado di accompagnare, sul piano teorico, in sintonia con le più avvertite e avanzate posizioni della scuola angolasassone, il ciclo di ricostruzione economica e pro-duttiva del secondo dopoguerra. Si tengano presenti ad esempio la mozione conclusiva del convegno economico indetto in Puglia nel-l’autunno del 1947 in preparazione del secondo congresso nazionale della DC o i documenti risolutivi emersi l’anno successivo, sempre a Bari, alla Fiera del Levante, in un convegno sul tema “ERP e Mezzogiorno”, si ritroveranno gli incunaboli teorici del dibattito che condurrà all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e alla legisla-zione speciale per il Sud.

In questo scenario maturerà la decisione di istituire la Cassa per il Mezzogiorno, il quadro normativo per l’intervento straordinario e l’istituzione del Ministero per le partecipazioni statali (1956) e in questo contesto, iniziative come il “piano del lavoro” (1950) della C.G.I.L. di Di Vittorio e lo “sche-ma Vanoni” di Pasquale Saraceno (1955), l’approvazione della legge 634 sulle Partecipazioni statali (del

1957) (l’art.2 regolava le politiche d’investimento destinando il 40% dell’investimento totale e il 60% del nuovo investimento al sud) saranno al centro di un disegno “produttivista” in cui da un lato il P.C.I. e la C.G.I.L., con l’anco-raggio del movimento operario e popolare a una nuova politica di sviluppo fondata sulla piena occupazione e sull’espansione produttiva, e dall’altro la DC e la CISL, con un disegno governativo fondato sulla riforma agraria in un primo momento e su una politica di investimenti pubblici, rivolti alla regioni meridionali, attraverso la filiera della Cassa per il Mezzogiorno e del Mini-stero per le partecipazioni statali, prima in direzione del supporto infrastrutturale all’azione della riforma agraria e poi decisamente in direzione dello sviluppo indu-striale, concorreranno in maniera complementare e in ambiti diversi, a una fase di intensa trasforma-zione economica e sociale, da cui l’Italia uscirà profondamente rinnovata. In questo acceso con-fronto tra le parti, soprattutto nelle commissioni parlamentari, nei centri studio e nei luoghi della direzione politica, in un quadro segnato anche da forti divergenze di natura teorica oltre che politica, prenderà vita una sorta di best practice, un ciclo virtuoso del nesso tra momento esecutivo e legislativo, tra consenso e decisio-ne, che farà fare all’Italia un grande salto “morfologico”, collocandola al centro del sistema delle grandi economie avanzate del mondo occidentale. Vero è che si trattava di allocare nel modo migliore un arco di finanziamenti provenienti dall’ERP e cioè dal fondo del “Piano Marshall” per l’Europa (il 2% del totale, pari a 1470 milioni di dollari) in un quadro di intesa tra le maggiori forze politiche del paese, ma non si trattò di un processo né sereno né scontato, perché da un lato il P.C.I. dovette affrontare, senza il supporto del “collateralismo”, la competizione interna con i sindacati operai e con

le frange della sinistra sindacale e dall’altro la DC dovette intaccare un solido blocco di potere costi-tuito dalla destra agraria e monar-chica meridionale e dalla destra protezionista alimentata dai grandi monopoli del capitale e dell’indu-stria del centro nord, e dettaglio non meno rilevante, il passag-gio da un modello d’economia orientato al pareggio di bilancio e alla “stablizzazione” mediante la stretta deflattiva concepita per irrobustire le riserve valutarie, che segnò l’azione dei primi governi a monocolore democristiano, a un modello di politiche anticicliche e programmatorie di stampo “strutturalista”, che segneranno invece la seconda metà degli anni Cinquanta, fu talmente rapido da entrare in collisione col timore cro-nico di una spirale inflazionistica e di un crack finanziario, un timore che per più di una generazione e, senza dubbio per la generazione di Giorgio Amendola, rappresenterà non solo una distopia collettiva ma l’impressione di un rischio concre-to. Ma lo sforzo d’aderenza al si-stema delle relazioni internazionali emerso col secondo dopoguerra e l’obbiettivo strategico di porre l’Italia al centro del sistema delle economie avanzate, indurranno le giovani classi dirigenti del P.C.I. e della DC, a dismettere le paure e a tentare l’intentato. Sia pure nella differenza di toni e di sfumature, DC e P.C.I condivisero sullo sfondo di scelte strategiche, quella che Valerio Castronovo ha defintio la “filosofia dello sviluppo” (comune alle classi dirigenti di altre giovani democrazie europee) orientata dalla prospettiva di un’espansione accellerata e continua del sistema produttivo, da un’azione di gover-no rivolta alla piena occupazione e all’espansione del settore pub-blico, una posizione ideologica debitrice verso le teorie di John Maynard Keynes e dello svedese Gunnar Myrdal, che avevano attribuito allo Stato una parte di rilievo nel mantenimento della do-manda aggregata di beni e servizi, e che nel caso specifico dell’Italia

si declinava nell’intensivo pro-gramma di riduzione del divario macroeconomico e “strutturale” tra Nord e Sud della penisola. Lo SVIMEZ, ad esempio, nato per impulso del mondo accademico e della società civile concorse allora ad aggiornare i termini della “que-stione meridionale” adeguandoli ai nuovi strumenti dell’osservazione e del calcolo economico, e offrì un terreno solido di integrazione tra “tecnica” e “politica”, tra ela-borazione di idee e supporto alle decisioni, e concorse, in una dire-zione ben precisa, a sprovincializ-zare il problema del Mezzogiorno, ricollocandolo sulla grande scala dell’economia mondiale. La scelta strategica di fondo del gruppo di intellettuali che animava le attività dello SVIMEZ fu senza dubbio di tipo “industrialista” e finì per contaminare il nucleo intellettuale dei giovani dirigenti comunisti, di cui Amendola rappresentava senza dubbio l’espressione più avanzata e più dotata sul piano dell’esperienza istituzionale. Non si trattò, però, nel caso dello SVIMEZ di un semplice trust di tecnici senza missione etica, anzi, Pasquale Saraceno, con la giovane schiera dei suoi allievi, Salvatore Cafiero, Nino Novacco, Giuseppe De Rita e altri, seppe alimentare e tenere viva la visione e l’orien-tamento generale dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, sottraendolo alla casistica del localismo e della contingenza dei cicli elettorali e consentendo, anzi-tutto al proprio interno, un ampio spazio di riflessione “critica” e “autocritica”, incontrando, almeno in questo, una comune imposta-zione valoriale con la posizione di Amendola che – almeno nella fase fondativa – dell’intervento straordinario e delle iniziative dello Stato imprenditore, fu duro e inflessibile detrattore. Questa affinità e questa disposizione a problematizzare e complicare le analisi, ha offerto un solido sup-porto per una visione comune dei problemi del Mezzogiorno e ha segnato questa stagione come un

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�0capitolo centrale della moderna “questione meridionale” in età repubblicana.

Su un punto ben preciso di questo ampio dibattito vorrei concentrare in conclusione, la mia attenzione, vale a dire la catena di argomenti che dal punto di vista di Pasquale Saraceno sono al centro dell’opzione industrialista e a fondamento teorico dell’inter-vento straordinario, e che invece dal punto di vista di Amendola,si muovono nel senso dei “controar-gomenti” che egli muove contro la teoria “keynesiana” (si considerì pero che Mariano d’Antonio ha definito l’accostamento delle dot-trine dello SVIMEZ a Keynes, da parte d’Amendola, un “abbaglio intellettuale”) delle “aree depresse” applicata al mezzogiorno d’Italia, ma che conducono entrambi a un’analisi comune, sui rischi di de-generazione dell’intervento straor-dinario e di corruzione all’interno dell’ente cassa in assenza di un concreto programma di riforme del sistema produttivo e di radicamen-to industriale. Sono punti di vista differenti che però, dal lato della posizione critica di Amendola e dal lato della revisione “autocritica” di Saraceno, svelano una comune impostazione nel giudizio storico di lungo periodo sulla mancata modernizzazione economica e politica dell’Italia meridionale, che, sia pure nella differente tonalità, di tipo gramsciano nell’interpre-tazione di Amendola e di taglio neoclassico e strutturalista nell’im-postazione di Saraceno, rinviano a una interpretazione della moderna storia economica italiana di matrice liberale. Saraceno, intervenendo in occasione del II convegno dal titolo: “L’industrializzazione e l’istruzione professionale” indetto a Napoli dalla Cassa, nel novembre del 53,’ esprimerà non poche per-plessità e cautele sul percorso da intraprendere per una robusta e du-revole industrializzazione del Mez-zogiorno. Saraceno nel 53 – siamo ancora nella prima fase “agrarista” dell’intervento straordinario, eppu-re Saraceno insinua i primi germi

di un disegno “industrialista”. Sa-raceno muove dalla constatazione che: “lo squilibrio economico delle regioni meridionali” è tale da porre un “limite” allo sviluppo dell’intera economia nazionale; per ovviare a questo squilibrio – continua Sa-raceno – non basta “un piano per le opere pubbliche, né un piano di investimenti a sostegno dell’agricol-tura, ma occorre realizzare un pro-cesso di industrializzazione”, che non può derivare dall’intervento eteronomo o esterno, ma che deve reggersi su “condizioni ambientali”, il cui compimento è connaturato al processo dinamico di indu-strializzazione, che non è dunque “epilogo” di uno svolgimento, ma “premessa” a una “mutazione strut-turale” dell’economia del mezzo-giorno. L’impegno massiccio dello Stato nella fase d’abbrivio deve caratterizzarsi come momento “propulsivo” e temporaneo, e non invasivo, e sul lungo periodo deve indurre l’iniziativa privata a “svol-gere il suo ruolo” e non sostituirla in una sorta di schema assistenziale e paternalistico. L’anno successivo, in occasione del V congresso na-zionale delle DC, svoltosi sempre a Napoli, Saraceno denuncerà i limiti e la frammentarietà nell’azione del-la Cassa, introducendo la necessità di un programma di “educazione civile e morale” delle classi dirigenti meridionali sempre inclini al vizio del baronaggio e della malversazio-ne, in un contesto di depressione che prima che economica è anche “umana”. In uno scritto assai più vicino a noi (1991) Saraceno, pre-sentando un’antologia di suoi inter-venti apparsi tra gli anni Sessanta e Settanta, a fronte di un lungo bilancio storico e dell’esaurimento di un ciclo che porterà alla fine dell’intervento straordinario, osser-verà quanto ambizioso e visionario fosse il disegno “industrialista” che animò le politiche di quella fase, partendo, oltre che dall’osserva-zione che il divario Nord-Sud si era semplicemente “replicato” su un’altra scala di indici e di valori, da una valutazione di lungo periodo e dalla constatazione che la natura

dell’industrializzazione del mez-zogiorno, fu, e non poteva essere altrimenti, per ragioni storiche e morfologiche, “incomparabile” col processo d’industrializzazione dell’Italia settentrionale, legato intimamente ai cicli della “rivolu-zione industriale e manifatturiera e del sistema del credito, avvenuti nell’Europa centro-settentrionale alla fine del 700’, partecipi d’ una ‘durata’ storica cui il Mezzogiorno e l’Europa mediterranea furono complessivamente estranei. In questo senso si deduce quanto sarebbe stato titanico lo sforzo di recuperare due secoli di storia e di mutazione morfologica nel torno d’un decennio. In assenza di solide fondamenta, e cioè delle condi-zioni storiche e ambientali si stava procedendo a costruire un “gigante dai piedi d’argilla”. Amendola in parlamento nel giugno del 1950 avrebbe votato contro il decreto che istituì la Cassa per il Mezzo-giorno, votando solo l’ordine del giorno aggiuntivo proposto da Alicata che chiedeva l’inclusione dei “lavoratori” nel consiglio di amministrazione della Cassa. Il rinnovamento del Mezzogiorno per Amendola sarebbe giunto da un graduale “allargamento delle basi dello stato con l’espansione dell’economia pubblica e privata, con l’abbattimento dei monopoli, con la democratizzazione dei pro-cessi produttivi. Questo processo avrebbe dovuto fondare il suo peso sulla funzione progressiva delle masse lavorative endogene al Mezzogiorno e non sull’inter-vento verticale e eteronomo delle istituzioni governative. La; libera-lizzazione dell’economia sarebbe dovuta passare attraverso l’impulso popolare.

Amendola avrebbe evocato inoltre i rischi concreti di corru-zione nel Banco di Napoli e nella Cassa. Certo era la posizione di un ‘agrarista’ molto vicino alle tesi di Sereni, ma non estraneo al nodo della modernizzazione, della meccanizzazione e dell’industria-lizzazione dei processi produttivi. Il Mezzogiorno, nella visione di

Amendola – pur seguendo una linea d’analisi keynesiana – non era assimilabile a “un’area depres-sa”, ma al volano dell’economia nazionale, alla base su cui fon-dare l’espansione delle basi del capitalismo, la liberalizzazione dei monopoli e la piena attuazione di un’economia di mercato. Processo economico e processo politico assieme, democratizzazione delle istituzioni e democratizzazione del sistema produttivo sarebbero passati attraverso la liberalizza-zione delle energie inespresse del sud, che in larga parte erano rappresentate non solo dalle masse inoperose ma dal lavoro organizza-to e specializzato, posto alla base del sistema di produzione dei salari e dei consumi.

La “Questione meridionale” – secondo Amendola – avrebbe cessato di essere una “quistione”, se, le classi dirigenti meridionali e nazionali avessero imparato a non considerarla un caso ecce-zionale e confinato a una precisa area geografica, ma anzi il punto debole dell’intero sistema econo-mico nazionale e della sua parziale modernizzazione. In una certa misura – sia chiaro però che non è mia intenzione avanzare soluzioni affrettate o banali ricomposizioni tra cose che nel loro svolgersi furono in aperta opposizione, ma anzi suggerire nuovi spunti di ricerca come del resto ha fatto chi mi ha preceduto – a distanza di quarant’anni, sia pure in chiave speculare e per contrasto, Sara-ceno e Amendola, guardarono al lungo periodo. Entrambi – ma il loro è il merito delle visioni profonde tipiche di chi ha uno sguardo lungo e sa guardarsi al di fuori della battaglia pur nel vivo della battaglia – hanno offerto una “visione complementare” del Mezzogiorno, Amendola nel vivo della polemica e Saraceno nel momento della riflessione e dell’autocritica.

Dottorando di Ricerca in Civiltà del-l’Umanesimo e del Rinascimento. Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento. Firenze

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Mi sono chiesta, come cercare di comunicare, con-sapevole della

difficoltà di “fare storia quando è troppo vicina a noi” e diversa-mente da chi l’ha conosciuto, e quindi solo mediante lo studio, la ricerca, le testimonianze, l’attua-lità del pensiero e dell’agire di un protagonista della vita nazionale del XX secolo, uno dei padri della costituzione italiana, un grande italiano che ha combattuto per liberare l’Italia dal fascismo e dare al nostro paese la libertà ed un avvenire migliore, un intellettuale e un politico rigoroso, un con-vinto assertore delle ragioni del socialismo nel mondo e colui che pilotò l’avvicinamento del Partito comunista italiano alla Comunità europea.

Gli ambiti della sua azione politica erano tanti, ma ne vorrei ricordare solo uno, di quell’euro-peismo comunista di cui si fece portavoce in fasi diverse e in particolare quando scoprì in anti-cipo il contesto europeo mediante l’incontro con il federalismo di Altiero Spinelli e del gruppo di Ventotene.

Come è noto, il PCI ebbe un approccio nettamente contrario al processo che determinò la nascita della comunità europea: il dissen-so dei comunisti a tal riguardo ebbe modo di manifestarsi in tutta la sua evidenza durante il dibattito parlamentare sui Trattati di Roma nel 1957 e si concluse, con il voto contrario da parte della delega-zione comunista. Il motivo di tale atteggiamento va ricercato nella complessa situazione internazio-nale di quegli anni, il cui mondo risultava diviso in due blocchi contrapposti, USA e URSS, e nel totale allineamento delle posizioni

del PCI con quelle dei comunisti sovietici, i quali vedevano nella Comunità europea “una alleanza antisovietica” e nell’europeismo “un semplice paravento”.

Ma a partire dagli anni ses-santa il PCI iniziò a riconoscere “i possibili vantaggi che dalla CEE potevano derivare agli effetti di una intensificazione degli scambi commerciali e di un’azione coor-dinata e unitaria per il movimento sindacale europeo.” Siamo nel 1962. Un anno importante per i fatti della politica italiana ma anche internazionale, e pur man-tenendosi critico, intervenendo ad un noto convegno dell’Istituto Gramsci sulle tendenze del capi-talismo italiano, sulla costituzio-ne della CECA e del MEC, con coraggio notevole affermo che la unificazione economica europea rispondeva ad esigenze obiettive dell’industria siderurgica italiana. “Sarebbe sbagliato da parte nostra minimizzare questi risultati, che ci sono. Una politica che non si basa sui fatti quali essi sono, è una politica sbagliata. La propaganda non può capovolgere i fatti, deve spiegarli”.

E qui Amendola, riferendosi alla forte crescita produttiva e competitiva dei paesi europei coglie un punto fondamentale: il MEC concepito inizialmente come” testa di ponte del capitale americano” in Europa, diventava invece, progressivamente, lo stru-mento necessario per ottenere una sempre più evidente autonomia dall’Europa dagli Stati Uniti sul piano non soltanto economico ma politico.

Un altro punto su tale processo di revisionismo, fu senza dubbio il netto distacco, “Il grave dissenso” del PCI dalle posizioni di mosca sulla crisi cecoslovacca nel 1968.

Da allora l’impegno del PCI, sui temi europeisti, si diramò in due direzioni: si scelse, da una parte, di dare un proprio contributo nel processo di costruzione europea; dall’altra, di intensificare i rapporti con le principali forze di sinistra operanti in Europa. L’importanza che nel PCI andava assumendo la questione europea fu evidenziata dalla designazione di Amendola a capo della delegazione comunista che nel 1969 ottenne la possibilità di sedere al Parlamento europeo di Stasburgo, non ancora eletto a suffragio universale (insieme a lui, per il PCI, Silvio Leonardi e Nilde Iotti, unica donna tra i 18 parlamentari italiani).

E ben prima degli altri partiti, Amendola riuscì a far cambiare la visione della CEE ai “compagni” che non volevano riconoscere la Comunità come realtà oggettiva del panorama politico internazio-nale; ed è grazie alla sua opera che il PCI entra nell’Europarlamento e la sua azione improntata, fin da subito, all’aumento del ruolo de-cisionale del Parlamento a scapito del Consiglio.

Amendola, che nel 1971 con il libretto “I Comunisti e l’Europa”, uno scritto tecnico per un partito in parte ostile e in parte indiffe-rente all’unificazione europea, contribuì ancora una volta a mo-dificare l’atteggiamento di iniziale contrarietà del Pci nei confronti della Comunità europea, ma c’è da chiedersi: riuscì a comunicare al Partito Comunista Italiano la prospettiva dell’integrazione europea?

In una intervista di Renato Nicolai del 1978, Amendola ana-lizzando l’opposizione al Mercato comune che nascava con un vizio di origine rappresentato dal cordo-

ne ombelicale che legava il MEC all’alleanza atlantica, ribadisce che ciò non impedì di avere una certa visione europea. “Quindi – con-tinua nell’intervista – non è che fossimo così chiusi alle esigenze dell’unificazione europea. Debbo dire che conoscevamo poco che cosa era. Arrivati a Strasburgo, animati dalle migliori intenzioni combattive per sfondare la porta, dietro la porta c’era il vuoto”. E nel suo primo discorso a Stra-sburgo, Amendola infatti, parlò di “RE nudo” a proposito di una istituzione che non aveva tutti i pregi decantati dalla propaganda europeistica, e nemmeno tutti i di-fetti denunciati dalla propaganda comunista. Non posso qui ripor-tare più stralci dei suoi interventi al Parlamento europeo datati tra il 1969 e il 1973, tutti permeati da una lucidità di analisi e da una capacità di proposta anticipatrice, ma mi preme sottolineare questo passaggio: “L’Europa Unita si determina nei suoi rapporti con il mondo esterno: USA, terzo mondo e mondo socialista. Se non si ha il coraggio di affrontare questi problemi, il resto è vano sforzo. Si tratta magari di buone intenzioni, ma che non possono portare ad alcun risultato. L’avve-nire dell’Europa è nel superamento dei blocchi. Questa, e soltanto questa, è la via dell’unità europea e della pace”. Come ha scritto Giorgio Napolitano “Amendola rimase a lungo legato all’idea di una ricomposizione della frattura determinatasi nel continente euro-peo attraverso il superamento dei blocchi; ovvio che come doveva realizzarsi questo superamento non veniva detto!”.

Pertanto, come si evince dai suoi interventi, l’evoluzione di Amendola e del PCI si fece, dopo

I comunisti e l’EuropaGiulia Velotti

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�2gli anni Settanta, più rapida e chiara, traducendosi in posizioni e proposte favorevoli allo sviluppo di politiche comuni e all’afferma-zione di una “Europa politica”.

Si possono citare molti discor-si ed articoli nei quali Amendola esprime la sua preoccupazione per “una crisi delle istituzioni comunitarie che ritarda il pro-cesso di unificazione politica ed economica e rinvia a tempo indeterminato la creazione di un nuovo potere multinazionale, il solo che possa risolvere problemi che gli Stati nazionali non sono più in grado, ciascuno per suo conto, di dominare”.

Siamo negli anni Settanta, nella fase dell’eurocomunismo di Berlinguer. Il rapporto con l’Euro-pa costituisce uno dei punti focali dell’Eurocomunismo, ed è il PCI

il primo partito a rendersi conto che la costruzione del socialismo nell’Europa occidentale non può prescindere dal tenere conto del processo di integrazione europea. Nella Conferenza dei Partiti co-munisti dell’Europa Occidentale di Bruxelles del 1974 Berlinguer parla di una via al socialismo non solo nuova e originale per ogni nazione ma anche “rispondente ai tratti comuni che si presentano in questa zona del continente”, inoltre lancia l’idea di “un’Europa Occidentale democratica, indi-pendente e pacifica, che non sia né antisovietica né antiamericana ma si proponga di stabilire rappor-ti di amicizia e collaborazione con questi e con tutti gli altri Paesi.”

Ma accanto a questa visio-ne degli equilibri mondiali è di fondamentale importanza l’idea amendoliana secondo cui solo

la CEE profondamente rinnovata, potenziata e democratizzata può risolvere i gravi problemi eco-nomici che affliggono l’Europa Occidentale. L’idea di Europa di Giorgio Amendola era diversa da quella di Enrico Berliguer, e la pro-va ne fu proprio l’eurocomunismo di Berlinguer che voleva creare rispetto all’Europa e alla stessa Unione Sovietica una alternativa tutta comunista in Europa. Per Amendola il percorso era oppo-sto. L’europeismo comunista fu una convinzione di cui proprio Amendola si fece portavoce, in quanto la intendeva come un avvi-cinamento e osmosi col socialismo europeo. Ed è ancora Amendola che comincia a dialogare con la socialdemocrazia europea e in particolare con gli esponen-ti tedeschi, sempre con l’idea del superamento delle divisioni

interne alla sinistra. Simbolo di questa rinnovata linea politica è l’elezione di Altiero Spinelli come indipendente nel PCI (anno 1976) ad opera di Amendola.

Nella sua esperienza da de-putato europeo la sua presenza in parlamento non rimase mai muta, perché Amendola e vorrei con-cludere con le sue stesse parole: “Bisogna starci dentro per vedere le cose e come vanno le cose, non si può pretendere di giudicarle bene dal di fuori”.

Credo che oggi, in questa at-tuale fase di difficoltà del processo d’integrazione europea, di un’Eu-ropa al bivio, se serve o meno un Trattato, il metodo amendoliano, rigoroso e privo di sovrastrutture ideologiche è di grande attualità.

Ricercatrice.

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� Quando ci si confronta con l’impegno politico di Giorgio Amendola è quasi inevitabile che

l’attenzione iniziale sia indiriz-zata all’approfondimento dei suoi meriti principali, vale a dire maggiormente riconosciuti come simboli della sua intelligenza politica e della sua lungimiranza storica. Penso, ad esempio, al suo inestimabile contributo per avvicinare il partito comunista al giovane progetto integrativo europeo; ma soprattutto alla sua idea di Europa: il 5 aprile 1973, in Parlamento, aveva detto: “La Comunità Europea non è altro che un gruppo di Paesi associa-ti, dilaniati da contrasti, in cui domina un direttorio di grandi potenze, la Germania, la Francia e l’Inghilterra”. Urgeva, invece, “un’Europa che avesse una base politica democratica, che non fosse un’Europa dei monopoli”. Bisognava, per esser chiari, “tra-sformare l’Europa dei monopoli in Europa dei popoli”, secondo una espressione ormai ricorrente in tutti i convegni dei socialisti di quei mesi. Ciò significava che “l’unità europea andava costruita anche dal basso e non soltanto dall’alto per iniziativa degli Stati e per l’attività di una burocrazia internazionale”. E la sua consape-volezza di quanto l’Europa fosse ancora lontana dal raggiungere un tale equilibrio democratico non è mai stata indirizzata a delegitti-mare un progetto sovranazionale unico nel panorama storico, ma è stata sempre indirizzata a un dia-logo costruttivo con le altre forze politiche. Poi da meridionale, penso alla sua costante attenzione per i problemi – ancora gravi e numerosi – che negli anni cin-quanta attanagliavano le regioni del Sud in un perpetuo circolo

di miseria e impotenza politica. Anche in questo caso si è trattato di un impegno sincero che non ha mai accettato i compromessi di una micropolitica più attenta a drenare finanziamenti dal centro che al loro efficace impiego. La posizione fortemente critica as-sunta da Amendola a sfavore della Cassa per il Mezzogiorno – da lui considerata dispendiosa e dannosa, utile solo a raccoglier voti per la Democrazia Cristiana e consensi per una fallace e distorta politica sociale – ne testimonia il carattere.

Tuttavia, al di là delle posizio-ni – condivise e osteggiate – ora-mai chiare nella mente di tutti da attribuire all’azione politica di Giorgio Amendola – quelle che in altre parole sono le posizioni emerse dalla riflessione docu-mentata, dall’analisi critica che ha potuto prendere le distanze dagli umori e dalle passioni di una determinata fase storica del nostro paese – nell’analisi che ognuno fa del percorso politico e riflessivo di tale figura è inevitabile che ad in-cidere siano anche le competenze, le passioni e gli ideali dell’osser-vatore. Insomma, ogni disamina soggettiva si colloca molto spesso, in modo sempre differente, all’in-crocio tra azioni collettivamente riconosciute, oggettivate da chi scrive e tramanda il discorso storico, e interessi scientifici e culturali di ogni singolo analista. Ognuno cerca, cioè, di riversare i propri interrogativi, la propria sensibilità conoscitiva – non le-gata soltanto a delle competenze specialistiche – sulle spalle del proprio interlocutore indiretto, nella speranza di ricevere se non proprio delle risposte chiare quan-tomeno le tracce di una posizione abbastanza definita. Ed è proprio ciò che personalmente ho fatto al

cospetto di Amendola, al cospetto di chi ha costruito la sua militanza politica nel partito comunista a partire da una autonoma libertà di pensiero, di coscienza e di azione.

2. Da qualche anno interes-sato all’analisi del rapporto che intercorre tra crescita materiale e mutamento sociale nelle politiche dell’Unione europea – ripren-dendo il linguaggio scientifico diffusosi negli anni cinquanta, tra crescita e modernizzazione – e, quindi, in linea generale attento alle immagini dello sviluppo in questo periodo preminenti negli schemi pianificatori nazionali e sovranazionali, ho riversato que-ste mie priorità conoscitive nella peculiare esperienza di politico e di studioso di Amendola. Ho cer-cato, in breve, di comprendere la sua concezione di sviluppo, come ha inteso il rapporto, l’equilibrio, che almeno sul piano analitico dovrebbe instaurarsi tra le varie dimensioni costitutive di quel proteiforme concetto; ho cercato di comprendere quale rilevanza attribuisse all’innovazione sociale, intesa come progresso civile di una determinata comunità di soggetti. Ho cercato, infine, in Amendola, il suo giudizio sul tipo di sviluppo, sul tipo di mutamento intrapreso dall’Italia dopo il secondo dopo-guerra. Un giudizio che pur essen-do indissolubilmente legato alla linea politica del partito comunista italiano ed internazionale contiene convinzioni maturate soggettiva-mente e strettamente riconducibili ad un tipo di esperienza unica ed irripetibile. Un giudizio, su cosa debba intendersi per sviluppo, non sistematizzato analiticamente ma desumibile dalla sue posizioni politiche, dalle sue riflessioni retrospettive sempre in bilico tra

la storia degli eventi che hanno contrassegnato il nostro paese fin dall’avvento del fascismo e la sua particolarissima storia biografica. Le posizioni assunte in riferimento al “fragile” progetto europeo e alla questione meridionale già potreb-bero bastare per intravedere una “costante” della sua visione, del suo modo di intendere il muta-mento virtuoso di una collettività: l’inclusione degli interessi di tutti i cittadini nelle più alte sfere deci-sionali, siano esse sovranazionali, nazionali o locali.

Continuando a ricercare quelle che in un certo senso rappresentano le “regolarità” del pensiero amendoliano, sono stato attratto dalle posizioni politiche e intellettuali assunte di volta in volta in riferimento alle numerose trasformazioni che attraversaro-no l’Italia durante il trentennio postbellico. Tra tutte, la lucidità con la quale Amendola ha letto le contraddizioni dell’economia e della società italiana mentre il cosiddetto miracolo economico raggiungeva il suo apice; quando anche gli spiriti più critici hanno riconsiderato il loro originario dissenso nei confronti della po-litica economica italiana, tutta proiettata a rincorrere gli obiettivi finanziari e produttivi già conse-guiti dalle principali economie industriali. Una fase storica all’in-segna soprattutto della rimonta quantitativa, quella del trentennio repubblicano, durante la quale sono stati ad ogni modo compiuti dal nostro paese significativi passi in avanti anche sul piano della qualità dello sviluppo; “un periodo nel quale il popolo italiano, sulla spinta sempre operante data dalla lotta antifascista e dalla Resisten-za, è riuscito a compiere grandi progressi nell’incremento dell’atti-vità produttiva, nel miglioramento

La programmazione democraticaEnrico Sacco

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��delle condizioni materiali di vita, nella conquista di un più elevato grado di istruzione e, soprattutto, nel rafforzamento delle istituzioni democratiche, garantito da una sempre più larga e permanente partecipazione popolare” (1976, p. XI). Constatazione che, però, non ha in alcun modo inibito una riflessione critica sulle numerose conseguenze negative che quello stesso trentennio aveva pesante-mente contribuito ad esacerbare. Un periodo che Amendola non esitò a definire come orgia keyne-siana, quando si guardava, appun-to, più alla quantità dello sviluppo che alla sua qualità. In questo sen-so, un interrogativo posto nella sua intervista sull’antifascismo merita una grande attenzione:

“Come mai, però, dopo que-sto periodo di espansione e di progresso culturale il paese vive in uno stato di crisi? Il progresso ha aggravato le vecchie contrad-dizioni e suscitato problemi nuovi. E allora evidente che sorge una riflessione critica sulla storia del nostro paese, sui limiti che impedi-rono all’espansione di continuare in forma ordinata e diventare sviluppo” (1994, p. 190).

L’espansione non si era tramu-tata in sviluppo. Il solo fatto che l’espansione e lo sviluppo fossero concettualizzati su due piani di-versi già indica la lungimiranza del nostro interlocutore. Amendola si riferisce qui ai peculiari caratteri assunti dal processo di industria-lizzazione, alle sue contraddizioni derivate dal fatto che questo processo si è svolto, non sulla base di un programma di sviluppo democratico, deciso e controllato dalla volontà pubblica, ma per la direzione dei gruppi monopolisti-ci, che lo hanno invece controllato e utilizzato a proprio favore. La mercificazione della società e del lavoro è avversata svelando la finzione del mercato, prodotto da logiche di clan che poi in Italia hanno assunto quelle caratteristi-che peculiari che ne fanno una

delle società a più scarsa mobilità. Ma in questo quadro, in ogni caso sommario, come contestualizzare il giudizio comunque sia positivo, espresso più volte in occasione del trentesimo anniversario della Repubblica? Con le parole dello stesso Amendola, il giudizio sul trentennio deve partire dalla conoscenza delle condizioni di partenza, e non solo dalle con-dizioni materiali causate dalle distruzioni della guerra, ma dallo stato di arretratezza politica e cul-turale, aggravato dalla ventennale dittatura fascista. Bisogna quindi cominciare col non sopravvalutare la forza democratica presente nel paese nel momento della liberazione. La questione, quindi, viene posta in termini relativi e non assoluti; distinzione di non poco conto.

3. La critica del miracolo eco-nomico, allora in piena esplosione, esigeva la presentazione di un programma di sviluppo econo-mico e politico democratico, in alternativa alla linea di espansione monopolistica. Osservazione che acquista una valenza significativa alla luce dei progressi comunque evidenti sul piano della crescita economica, della produttività del lavoro e della crescente capacità esportativa dei grandi colossi industriali italiani. Ma tutto ciò non è stato sufficiente, non è oggi sufficiente, se si intende raggiun-gere uno sviluppo sostanziale, incentrato sulla partecipazione della cittadinanza, incentrato su di un avanzamento di carattere sociale, sulla creazione di beni pubblici locali, sulla valorizza-zione delle tradizioni, sul raffor-zamento di uno spirito civico (di una concezione radicata di bene pubblico) e infine sulla legittima-zione dello Stato come istituzione non soggetta all’influenza di classi particolari.

Progresso sociale che nell’ana-lisi storica amendoliana è ricercato in via prioritaria nelle condizioni della classe operaia (dell’operaio “complessivo”), nel grado di

integrazione sociale raggiunto da quest’ultima; ciò, ad oggi, potrebbe apparire anacronistico, ma solo se si omette di ricordare che nel secondo dopo-guerra la classe operaia incarnava lo spec-chio del mutamento, una cartina tornasole, dei progressi raggiunti e di quelli mancati da tutto il Paese, da tutti gli strati della popolazione lavoratrice. E anche qui il ridut-tivismo e l’euforia economicista degli anni sessanta lascia il posto ad una spietata disamina critica volta ad evidenziare le storture che il sistema socioeconomico capitalista imponeva ed esige-va: “l’imposizione di modelli di consumo individualistici e quindi di un’organizzazione particolare del tempo libero; la diffusione dei mezzi di informazione di massa controllati dalla classe dirigente, nei loro contenuti e nella loro forma espressiva; la disgregazio-ne della vita sociale nei centri urbani; il peso crescente che la collocazione non di classe ma lo-cale (nord-sud), sociale (residenti e immigrati), familiare (il numero di componenti che lavorano) acquistano nel determinare la con-creta condizione sociale” (1976, p. 186). È come dire che la società contemporanea è enormemente progredita dal punto di vista della produzione e dell’organizzazione industriale, ma non è riuscita a coniugare tutto ciò con il più generale miglioramento delle condizioni di esistenza: è il pro-fondo inquinamento morale che desta le maggiori preoccupazioni nel trentesimo anniversario della creazione della Repubblica. La crisi attuale, prima che finanziaria ed economica, è anzitutto crisi morale, crisi di prospettiva (1976, p. XXXIV). Una preoccupazione costante e mai sopita che acquista una capacità di interpretare non solo il nostro recente passato ma anche le nostre possibilità pre-senti, quando nonostante il peso crescente delle iniziative sociali, tramite l’ideazione di politiche di sviluppo locale tese almeno formalmente a coinvolgere le

popolazioni locali destinatarie di incentivi finanziari ed organizza-tivi, le filosofie budgetarie dello sviluppo continuano a imporre la loro sedimentata e interiorizzata ortodossia. Quando troppo fre-quentemente passa sotto traccia che il mercato è una costruzione sociale, frutto del mix di relazioni di associatività, reciprocità, e di autorità che si instaurano tra attori individuali e collettivi sulla base di un determinato sistema di produzione. Una verità posta da Amendola alla base di molte sue rivendicazioni. Quest’ultimo non rinnegava la relazione tra offerta e domanda né si fermava alla semplice insoddisfazione per la scarsa capacità di autoregolazione del mercato, ma evidenziava ad ogni occasione che il mercato non esiste di per sé – le cause che con-tribuivano a spiegare l’arretratezza meridionale erano per lui esem-plificative in tal senso –, bensì è un’istituzione fatta di soggetti che lo edificano sulla base di rapporti di produzione e di potere che si alimentano a vicenda.

Pur apprezzando i miglio-ramenti realizzati nel tenore di vita delle masse, Amendola non indugia in una rappresentazione idilliaca della società italiana, e non dimentica che lo sviluppo industriale del paese è stato pagato da un “feroce” sfruttamento, da un lavoro compiuto in condizioni disumane, da uno sperpero di-struttivo di energie umane. La rot-tura dei vecchi equilibri, le grandi migrazioni, il brusco passaggio dal lavoro contadino alla catena delle fabbriche moderne, le ore bruciate dai viaggi quotidiani dei pendola-ri, tutto ciò è stata la condizione umana delle classi lavoratrici, in un periodo nel quale agli elevati incrementi annuali di produttività ha corrisposto un lento e sempre ritardato miglioramento salariale. E la necessità, da parte delle classi lavoratrici, di avanzare rivendi-cazioni elementari – così come erano elementari le condizioni di disagio vissuto – ha reso più difficile avanzare rivendicazioni

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��di controllo e di portare avanti progetti di riforma strutturale de-mocraticamente stabiliti.

“Il controllo operaio in fabbri-ca pone necessariamente il pro-blema di un controllo democratico della società sugli investimenti privati e pubblici, sugli indirizzi dello sviluppo economico e so-ciale, pone cioè il problema della programmazione democratica. La contraddizione fondamentale della società capitalistica, tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appro-priazione, si esprime nel contrasto sempre più stridente tra la corsa al soddisfacimento dei consumi privati, sotto la pressione di una offerta inesistente, e l’incapacità di soddisfare i bisogni pubblici” (1976, pp. 208-209).

Il costante riferimento amen-doliano alla necessità di una programmazione democratica dello sviluppo rappresenta forse la prova principale che testimonia l’originalità e la lungimiranza del suo pensiero. Basti riflettere sulla crescente centralità che va assu-mendo nelle società cosiddette avanzate il tema dell’autonomia, direttamente connesso e dipen-dente da una visione democratica dello sviluppo. Proprio nell’ultimo decennio, dopo la complessa diatriba ideologica e scientifica che ha coinvolto i paesi del Terzo mondo e il loro supposto proces-so di avanzamento sulla strada della crescita economica, anche in Europa si è parlato molto di autonomia politica nella gestione dello sviluppo territoriale; dove si tratta, in sostanza, della possibilità per i destinatari dello sviluppo di partecipare alle decisioni da prendere: in altre parole, di una partecipazione a livello pratico. Il discorso, poi, sotto le spinte dalle progressiva globalizzazione dei mercati, è stato trasferito nelle sedi decisionali sovranazionali, dove vengono concordati i limiti d’azione dei modelli di regola-zione socioeconomica nazionali

e locali; non a caso i discorsi dominanti entro l’Unione euro-pea e tra i soggetti istituzionali in questa coinvolta gravitano in vario modo intorno a tale questione. Ma c’è anche un problema di autonomia a livello teorico, a livello di definizione della realtà, dove tutta l’azione di una società dipende da specifiche definizioni della situazione. “Ogni defini-zione della situazione implica determinati presupposti teorici, un certo quadro di riferimento, in ultima analisi una visione della realtà. Una volta che la situazione sia stata definita in certi termini, tutta una serie di opzioni pratiche sono ipso facto precluse (Berger 1981, p. 144). È un’idea molto limitata di partecipazione quella di lasciare che una élite definisca una situazione senza curarsi affatto dei modi in cui tale situazione è già stata definita da coloro che ci vivono; e poi consentire a questi ultimi di intervenire nelle decisioni prese sulla base della definizione precostituita; in estrema sintesi un tipo di concezione partecipativa attribuita da Amendola alle cor-renti socialdemocratiche, accusate di inseguire indistintamente tutte le possibili spinte al cambiamento senza mai porre in discussione la realtà fondamentale, o meglio la definizione di questa, propagan-data dai proprietari dei mezzi di produzione; accusa valida non solo entro il contesto italiano: “dovunque i socialdemocratici costituiscono il maggiore partito della classe subordinata, non esi-ste nella società una forza politica di rilievo che opponga un rifiuto radicale al sistema dei compensi del capitalismo moderno” (Parkin 1976, p. 146). E parte del leitmotiv della critica amendoliana, diretta a chiarire la natura e le implicazioni dell’espansione italiana durante quelli che sono stati etichettati anche come i “trent’anni glorio-si”, racchiude – non sempre in modo esplicito – il timore di una definitiva messa in disparte della cittadinanza (della cittadinanza che lavora, che produce, che ha

pagato direttamente il prezzo delle libertà formali) dalle decisioni po-litiche indirizzate alla costruzione oltre che della realtà concreta, di una definizione rappresentativa di quest’ultima. Il timore di non assistere alla costruzione di un modello democratico incentrato su di una partecipazione prima di tutto conoscitiva, dove le esigen-ze, gli interessi e gli obiettivi di tutte le classi lavoratrici, di tutta la popolazione, contribuiscono a strutturare le fondamenta di un ordinamento politico, sociale ed economico intrinsecamente aperto anche nei confronti di quella crescente massa di esclusi dal mercato del lavoro, che oggi definiremmo come marginali.

Diventava urgente nella sua mente il bisogno di concedere alle collettività territoriali e alle classi sociali, oggetto di determinate po-litiche, la possibilità di partecipare non solo a decisioni specifiche (tecniche), ma alle definizioni della situazione sulle quali queste decisioni erano stabilite; diventava urgente il bisogno di una parte-cipazione conoscitiva, tramite la quale l’esperienze di vita e di lavoro di tutti i cittadini acquistano rispetto e considerazione. Una via virtuosa alla partecipazione, negata oltre che dalle classi diri-genti italiane dall’ancora debole Stato unitario:

“La crisi dello Stato – determi-nata essenzialmente dalla crescita del sistema del capitale mono-polistico di Stato, dalla crescente integrazione tra apparato statale e centri di potere del capitale monopolistico, dalla formazione di nuovi organi (politici, economici, amministrativi) parastatali – mette a nudo l’arretratezza delle strutture statali, rivela la crisi della giustizia, della scuola, della pubblica ammi-nistrazione, e spinge insegnanti, magistrati, pubblici impiegati sulla via della protesta, dell’organizza-zione, della lotta” (1976, p. 147).

In breve, anche dal sintetico resoconto delle più importanti

problematiche affrontate e sol-levate da Amendola, diventano evidenti le linee-guida del suo pensiero; la sua volontà di perse-guire un percorso di sviluppo che non sia soggetto a compromessi decisionali e distributivi, che sia sostanzialmente condiviso e tarato sulle reali deficienze so-ciali, che non sia votato al solo miglioramento della performance economica nazionale. E l’unico strumento capace di sintetizzare questa volontà politica era una programmazione socioeconomi-ca democratica. Nei suoi sogni, perciò, più che mai, negli anni settanta, rientrò l’unità dei lavora-tori, tanto più necessaria, quanto più si registravano preoccupanti fenomeni di lacerazioni interne e nuovi e gravi squilibri. Superare le fratture interne tra classe operaia e contadini, tra le confederazioni sindacali, tra le molteplici rappre-sentanze politiche della classe lavoratrice, al fine di contrap-porre unitariamente un progetto societario speculare allo schema regolativo prevalso dopo la Co-stituzione; un progetto – che pur non potendosi realizzare in tempi brevi – fosse chiaro nella sua impostazione antimonopolistica e socialista. Se si concede a tale obiettivo il carattere prioritario che rivestiva nell’azione politica amendoliana, anche quelle che sono state definite le contraddizio-ni di un comunista non ortodosso (la continua ricerca del dialogo e del compromesso virtuoso, la condanna di ogni chiusura massi-malista e il rifiuto per ogni strategia di apatica attesa) potrebbero ricevere una sistematizzazione più coerente.

4. A questo punto sorge un in-terrogativo formulabile nel modo seguente: quali priorità e macro-sensibilità è possibile attribuire al pensatore autonomo e quali inve-ce ritrovano la loro matrice logica nel partito in cui quest’ultimo è stato quotidianamente impegnato a partire dal 1929? È importante soffermarsi su tale interrogativo,

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��anche perché la sua risoluzione può contribuire alla sedimenta-zione di una riflessione storica che abbia una cognizione più flessibile del binomio, eccessivamente irri-gidito in alcune sedi celebrative, Amendola-comunista.

Ora ritornando alle costanti della sua azione politica, mentre l’attenzione di Amendola per un percorso di sviluppo in primo luo-go sociale – dove la produttività del lavoro e il progresso tecnico rappresentano il mezzo per rag-giungere un fine superiore – può essere ascritta in misura maggiore o minore alla concettualizzazione dello sviluppo di matrice comu-nista e marxista, la sensibilità per una programmazione socioecono-mica strutturalmente democratica, invece, assume connotazioni meno istituzionalizzate da una linea partitica e più intimamente legate ad una riflessione autono-ma; e quest’ultima sensibilità può contribuire a spiegare la sua pecu-liare posizione volta a condannare la rigidità di ogni forma elitaria di democrazia, fosse anche per un breve interludio.

È bene ricordare, infatti, che la propensione a realizzare un mutamento socioeconomico che ponga al centro l’esigenze di avanzamento sociale del sogget-to (del lavoratore, dell’operaio), a perseguire politicamente lo sviluppo reale, concreto, di una collettività, è stata condivisa con altri (nella storia del partito comu-nista italiano penso a Gramsci, a Togliatti, a Longo). In riferimento a Gramsci, ad esempio, è utile riprenderne una convinzione profonda sul pensiero di Marx, prima ancora che marxista: e cioè che “questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa

la motrice dell’economia” (Dotti 1999, p. 278). Quel mancato adeguamento più volte denun-ciato da Amendola nell’osservare le strategie di crescita dei colossi industriali nel nostro paese.

Prescindendo poi dall’appar-tenenza partitica, è inoltre inte-ressante cercare nelle particolari esperienze soggettive di grandi politici, di grandi intellettuali, quali siano i tratti costitutivi che questi condividevano con una determinata epoca storica e quali, invece, hanno maggiormente con-tribuito a differenziarli da quello che potremmo definire il “sentire comune”. Come sempre, infatti, quando si parla del pensiero e dell’azione di uomini che hanno inciso largamente sul corso degli avvenimenti del loro paese e non solo, non si può prescindere dalla situazione storica nei quali furono immersi; in tal senso, certo è che Amendola ha condiviso con un dato periodo storico importanti rappresentazioni; tra tutte, una di queste ha accompagnato il suo impegno militante e la sua rifles-sione: una concezione del muta-mento lineare, dove una peculiare idea di progresso occidentale era parte integrante sia del pensiero politico di destra che di sinistra. Una concezione, però, che nel pensiero di Amendola, lo si è constato più volte, viene riadattata e piegata dalla sua sensibilità nei confronti di uno sviluppo sociale e democraticamente programmato. Riuscendo così a prendere le di-stanze dall’accezione dominate di progresso e dall’ideologia moder-nizzante posta a suo fondamento paradigmatico, che lo designa innanzitutto come progresso tecnico e ingegneristico, come progresso dell’attività materiale e non dell’azione così come intesa ad esempio dalla Arendt (1958) nella sua vita activa; accezione, purtroppo ancora dominante, che si caratterizza per la sua incapa-cità di dare conto dello sviluppo reale della civiltà. Un adattamento di non poco conto, ma che non ha posto in discussione una precisa

filosofia della storia, incentrata sull’inesorabilità del cambiamento virtuoso, sia esso unidimensiona-le – tecnico, economico − che multidimensionale (economico e sociale). A questo proposito, scrive Giovanni Cerchia (1996): “nell’otti-ca di Giorgio l’incessante sviluppo della storia politica italiana era segnata da una progressione verso forme sempre più perfette di vita democratica: una continuità dal basso verso l’alto, dove il libera-lismo democratico trovava nel comunismo il suo erede migliore e, allo stesso tempo, il suo più spietato seppellitore”. La convin-zione di una continuità storica si ripercuote anche sui protagonisti delle alterne vicende politiche italiane, e non a caso Amendola condivideva la legittimazione culturale del Pci messa in opera da Togliatti attraverso il recupero proprio di quel filo di continuità Vico-De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci.

Purtroppo quella continuità, quella linearità, frutto di ragione e speranza, sembra essersi ineso-rabilmente spezzata ed è proprio alle nuove generazioni che ad oggi si chiede l’impegno maggiore per riscrivere un copione politico adeguato alla risoluzione di un rinnovato malessere sociale – sfo-ciato in quella che comunemente è definita come l’anti-politica – e alle nuove speranze di rinnova-mento; come? Valorizzando e approfondendo la lezione di chi ci ha preceduto nel migliore dei modi. Questo compito, in primo luogo per i più giovani, assume una grande importanza e merita un impegno costante: confrontarsi e comprendere fino in fondo le ragioni di chi intendeva la politica come la piena espressione della cittadinanza, come l’espressio-ne prima della volontà di cam-biamento, di azione volta allo sviluppo civile; come l’impegno sincero di chi intende farsi voce delle spinte della società tutta, dei suoi cittadini, degli interessi diffusi e non corporativi che cer-cano quotidianamente di portare

all’attenzione dei rappresentanti democraticamente eletti un pro-getto societario alternativo.

Dottore di Ricerca in Socilogia e Ricerca Sociale. Università Federico II.

Bibliografia minima

Amendola, G. 1966. Classe ope-raia e programmazione democratica. Roma: Editori Riuniti.

Amendola, G. 1976. Gli anni della Repubblica. Roma: Editori Riuniti.

Amendola, G. 1994. Intervista sul-l’antifascismo. Roma-Bari: Laterza.

Amendola, G. 2006. Una scelta di vita. Milano: BUR.

Berger, P. L. 1981. Le piramidi del sacrificio. Etica politica e trasformazione so-ciale. Torino: Einaudi.

Cerchia, G. 2004. Giorgio Amen-dola. Un comunista nazionale. Rubbet-tino.

Dotti, U. 1999. Storia degli intel-lettuali in Italia. Roma: Editori Riuniti.

Longo, L. 1962. Il miracolo econo-mico e l’analisi marxi-sta. Roma: Editori Riuniti.

Parkin, F. 1976. Disuguaglianza di classe e ordinamento politico. Torino: Ei-naudi.

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Farò alcune considerazioni cer-cando di porre in parallelo il dibattito e il confronto politico che vide pro-tagonista Amendola come appassio-nato analista e portavoce PCI nella critica che il partito sviluppò fin dall’ avvio sulla esperienza dell’ intervento straordinario e la situazione odierna del dibattito sul Mezzogiorno che è praticamente inesistente, anzi – ad essere precisi – accuratamente oscu-rato non perché sia mutato qualcosa nel rapporto Nord – Sud, ma in nome di una “questione settentrionale”.

Credo che sia utile adottare un approccio storico, perché oggi riviviamo – in modo e per cause ovviamente diverse dal passato – un periodo di grandi mutamenti, ricco di opportunità e carico di rischi. In questa situazione ritengo illuminante far riferimento al periodo della rico-struzione, tra gli anni ’50, e l’ inizio degli anni ’60 per trarre – da questa lettura storica – qualche utile indica-zione per l’ azione di oggi.

Un approccio storico consente ampi margini per sviluppare un’ analisi di sistema, nella quale il Mez-zogiorno diviene parte di un discorso complessivo che lo raccorda alle vicende nazionali ed alle dinamiche che, dal di fuori, investono l’ Italia.

Visto che parliamo di Mezzogior-no – un approccio di sistema consen-te di riconsiderare e comprendere davvero il significato dell’intervento straordinario. Infatti, fino a che con-tinuiamo a confinare l’ analisi all’ angusta prospettiva locale, limitan-doci a considerarlo una strategia da leggere esclusivamente per i suoi ef-fetti sul Mezzogiorno, capiremo ben poco del senso complessivo di quell’ esperienza, decisiva per le vicende del Paese oltre che per il Sud.

Con questa sensibilità, a mio avviso, dovremmo ragionare oggi al fine di verificare se e come nel Mezzogiorno, si possa avviare, in analogia a quanto avvenne negli anni della ricostruzione, una fonda-mentale azione di rigenerazione dell’ economia e della società italiana.

In quegli anni ormai lontani il Mezzogiorno fu il fulcro su cui si fece leva per industrializzare tutto il Paese, produrre beni-salario a costi decrescenti fidando su un’ ininter-rotta migrazione di forza lavoro dal Sud, invadere i mercati esteri, entrare in Europa nel ’57 con un Trattato che prevedeva in un capitolo (redatto da Saraceno) regole particolari per l’ Italia, proprio con riferimento al Mezzogiorno ed in significativa coincidenza con la prima legge di industrializzazione del Sud.

In questa ottica l’intervento straordinario è stato un tassello essenziale di una grande stagione di politica industriale, tesa a realiz-zare – in regime di smantellamento del protezionismo, grazie ad un uso strategico, non localistico, degli strumenti di politica regionale – una poderosa azione pubblica di indu-strializzazione di base. Una stagione di politica industriale che costituì il solido asse portante sul quale si è fondato il successo dell’ Italia nel secondo dopoguerra.

Grazie alle deprecate cattedrali nel deserto ed alla politica di indu-strializzazione del Mezzogiorno, si sono sciolti nodi strategici per l’ industria nazionale creando un moderno settore energetico e side-rurgico, che ha consentito al settore metalmeccanico, automobilistico, aeronautico ed elettronico di decol-lare, oltre che – contrariamente alla

vulgata – di attivare proprio negli anni Settanta notevoli effetti indotti sulla industria manifatturiera meridio-nale. Di tutto ciò – come noto – si è poi persa memoria rifugiandosi, per 20 anni, nella celebrazione retorica dei distretti con il risultato di tro-varci oggi a discettare del declino italiano.

C’ è onestamente da constatare che l’ analisi della sinistra – specie di quella del PCI – fu poco atten-ta al significato complessivo del progetto e poco fiduciosa che es-so – fortemente ispirato dall’ azione pubblica attraverso il ruolo decisivo delle Partecipazioni Statali – potesse conseguire reali obiettivi di svilup-po e, al contempo, di riequilibrio. Paradossalmente quando negli anni Settanta dopo una lenta maturazione il PCI aderì di fatto alla riforma dell’ intervento straordinario, esso aderì sostanzialmente ad un approccio che vedeva quell’ intervento come stru-mento del decentramento, sempre più lontano dalla sua logica originaria di disegno nazionale. Come sappia-mo, sui miti dell’ autopropulsività e del localismo redistributivo si è consumato il fallimento e la dege-nerazione di quell’ esperienza con impressionante progressione dalla metà degli anni settanta in poi ivi compresa l’ esperienza della “Nuova Programmazione”.

Se vogliamo ritrovare il filo dello sviluppo sarebbe molto opportuno riandare alla logica “aggiornata ma originaria” con l’ intento di ritro-vare una strategia di rilancio dell’ economia e – al suo interno – una collocazione funzionale del Mezzo-giorno. Superare cioè quella che è attualmente la visione prevalente di contrapposizione se non di disartico-

lazione nel confrontarci con le gravi difficoltà della nostra economia e che ora ripropone il Sud come palla al piede, sinonimo di sottrazione di risorse, inefficienza e spreco.

Con questo approccio possiamo individuare una strategia da sotto-porre all’ attenzione anche di quegli scettici perplessi all’ idea che il Sud, possa avere ancora un ruolo strategi-co per fare ripartire il sistema.

Il sistema produttivo italiano necessita, sostanzialmente, di “in-vertire” il tanto discusso declino. A determinare la dinamica di questa deriva, non è la Cina bensì l’euro che ha messo impietosamente a nudo l’ insostenibilità di un modello che si affida esclusivamente al dinamismo di piccole imprese di settori maturi resi – ci illudevamo – sempre verdi dalla fantasia nostrana. In nome di questo unilateralismo fondamen-talista alimentato da 20 anni di svalutazioni competitive si è alle-gramente consentito di smantellare tutto il resto.

Rafforzare quel che c’ è quindi non basta, occorrono sostanziali modifiche del modello di specia-lizzazione replicando tardivamente quanto realizzato da anni in Germa-nia, Francia, l’Inghilterra, ecc. Per fare ciò torna in gioco, da protagonista attivo, il Mezzogiorno.

Il Sud in questo momento offre per molte significative opportunità come luogo fisico fruendo – per la sua collocazione – di una “rendita di posizione logistica” che – ben sfruttata – può assolvere al ruolo essenziale di dare respiro ampliando significativamente gli spazi di ma-novra per realizzare il complesso e difficile mutamento strutturale. Una bella differenza rispetto al passato

Una questioneancora apertaAdriano Giannola

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�8quando fu necessario “esportare” milioni di persone per farne la leva dello sviluppo nazionale.

Il richiamo al ruolo centrale del Sud nel Mediterraneo rischia però di essere puramente rituale.

Il Mediterraneo va inteso in senso diverso rispetto a pochi anni fa quando la prospettiva si esauriva nella realizzazione della zona di libero scambio tra le due sponde. Una prospettiva interessante ma non decisiva, lenta e problematica a realizzarsi.

È sempre più concreto ed attuale invece l’ interesse vitale che esprimo-no i nuovi protagonisti del mercato globale. India e Cina in testa, che hanno la convenienza e la necessità di battere questa strada e l’ interesse a valorizzarla ed investire risorse sempre più ingenti. Noi possiamo partecipare a questo tumultuosa evoluzione non solo come luogo di transito, ma attrezzandoci a svolgere un ruolo di partner di un processo che rappresenta l’ aspetto più dinamico e progressivo della globalizzazione dei mercati.

Non è perciò credibile per l’ Italia incapsularsi nella strategia (cara al re-divivo Lombardo – Veneto) di aggan-ciarsi alla Baviera per un’espansione dipendente sui mercati dell’Est. Senza “buttare il bambino con l’ acqua sporca”, quello del Mediterraneo è un discorso serio, molto impegnati-vo, che al di là di interessi regionali, rappresenta una opportunità unica di rilancio e sviluppo della nostra economia.

Occorre perciò affrontare con chiarezza di idee e di intenti i nodi da sciogliere dell’ intricato scenario del persistente dualismo italiano.

Condizione preliminare è una corretta applicazione del nuovo Titolo V della Costituzione, cosa che non fa la proposta di attuazione dell’ articolo 119 presentata dal Governo attuale.

Applicare l’art. 119, vuol dire molto prosaicamente un 36% di spesa ordinaria corrente ed oltre il 45% di quella in conto capitale al Sud.

Applicare l’art. 119 vuol dire infatti non dimenticare che il comma 5 recita che nei territori a minor svi-

luppo, indipendentemente da quanto previsto nei primi 4 commi, è lo Stato, che con risorse aggiuntive e straordi-narie definisce ed attua progetti di invento. Quindi c’è una politica co-stituzionalmente identificata su scala nazionale (da concentrare appunto sulla realizzazione dell’ opzione

Mediterraneo), che si raccorda alla strategia di conseguire obiettivi di interesse nazionale.

Ne deriva, complementarmente, la natura strettamente aggiuntiva dei Fondi dell’Unione Europea, deliberati per il periodo 2007 – 2013. Aggiun-tività e straordinarietà, riemergono a

dar corpo ad un’ azione che non per questo deve calare dall’ alto ma che può divenire occasione di partecipa-zione e concertazione tra territori a condizione che si chiariscano ambiti e competenze con precise funzioni e responsabilità gerarchiche.

È da aprire immediatamente un discorso che coinvolge solidalmente le regioni meridionali, lo Stato centra-le, l’Unione Europea, sul tema della fiscalità di vantaggio, termine tanto citato ed invocato ed altrettanto privo di contenuti. Essa potrebbe effetti-vamente rappresentare un’ efficace misura automatica per favorire sia la riduzione del nostro dualismo, sia – riattivando l’ accumulazione in-dustriale e terziaria del Sud – il rilancio del sistema. L’ obiettivo che un simile intervento dovrebbe porsi è quello di far si che una regione d’Europa come il Mezzogiorno con oltre 20 milioni di abitanti possa applicare un regime fiscale particolarmente efficace e diretto per attrarre capitali ed investi-menti in settori industriali innovativi, ricerca, terziario avanzato,nuove fonti di energia, ecc.

La paventata opposizione della Commissione Europea e, soprattutto, di eminenti commissari italiani non ha da anni alcun fondamento analitico.

In regime di Moneta Unica, è pre-testuoso lamentare una lesione della concorrenza in Italia per chiudere poi gli occhi di fronte alla lesione della concorrenza che nell’ambito della zona euro, ad esempio, Irlanda, e ma-gari Galles e Scozia già praticano da anni e domani praticheranno Polonia, Slovacchia e repubblica Ceca, ecc.

Pochi, ma significativi temi sui quali varrebbe la pena ragionare per valutare in un quadro europeo le pro-spettive di sviluppo del sistema Italia. Una riflessione da fare con lo spirito e volontà che animarono gli anni della ricostruzione e attorno alla quale realizzare la convergenza – come avvenne allora – tra un meridiona-lismo illuminato ed un lungimirante disegno dell’interesse nazionale.

Presidente della Fondazione Banco di Na-poli. Docente di Economia Bancaria. Università Federico II.

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1. Avendo avuto l’opportunità di conoscere e frequentare Giorgio Amendola, ho accettato volentieri, nei mesi scorsi, l’invito di Emanuele Macaluso e di Gianni Cervetti a far parte del Comitato per le celebrazioni del centenario della sua nascita.

E poiché da oltre sessanta anni, a vario titolo e con diverse responsa-bilità, mi occupo del Mezzogiorno, dei suoi problemi, del suo necessario e possibile sviluppo, mi sono fin permesso di suggerire ai promotori che l’odierna manifestazione con-clusiva delle Celebrazioni potesse avere come tema proprio i rapporti di Amendola col Mezzogiorno e con quel “meridionalismo” che dal 1950 ebbe a caratterizzare una parte non marginale delle politiche pubbliche dell’Italia, seppure in un quadro – quale è stata quello dell’intervento straordinario – che Amendola ebbe a contrastare con vigore in Parlamento, e poi anche per non pochi anni successivi.

Poiché il suggerimento sul tema da trattare oggi a Napoli è stato ac-colto – e verrà affrontato sotto diversi profili e, con riferimento al c.d. “inter-vento straordinario”, dal prof. Mariano D’Antonio e dal prof. Simone Misiani, un giovane e qualificato storico che io stesso mi son permesso di sugge-rire −, non mi pare corretto sprecare tempo per approfondire anch’io le motivazioni delle diversità che negli anni ’50 vi furono tra le posizioni e gli approcci di Giorgio Amendola e le posizioni ed il ruolo della SVIMEZ; anche se da un richiamo a tale tema mi è parso doveroso non prescindere anche in un breve intervento svolto a Roma il 21 novembre scorso, nella Sala della Lupa della Camera, e che in qualche punto riprenderò qui come

premessa ad una testimonianza che considero significativa.

2. A metà del 1950, quando si affrontò in Parlamento l’esame della Legge che diede vita alla “Cassa per il Mezzogiorno”, io ero entrato da pochi mesi nella SVIMEZ di Pasquale Saraceno, avendo come iniziali punti di riferimento del mio lavoro Alessan-dro Molinari e Giorgio Ceriani Sebre-gondi, ma anche, progressivamente, il retroterra “alto” dell’Associazione, costituito – oltre che da Saraceno stes-so – da Rodolfo Morandi, da Donato Menichella, da Francesco Giordani, da Giuseppe Cenzato, da Vincenzo Caglioti, da Stefano Siglienti, e da tanti altri rappresentanti dell’economia e della società di allora.

Date le idee che circolavano e maturavano in quegli anni nella giovane SVIMEZ – che aveva, come ha ancor oggi, obiettivi statutari di industrializzazione e di avanzamento economico e civile della parte debole dell’Italia, e che guardava con interes-se alle esperienze del New Deal ame-ricano ed alle realizzazioni della TVA rooseweltiana –, non vi fu certo in noi sintonia con le tesi esposte a nome del PCI in Parlamento da Giorgio Amen-dola, che prese posizione contro la nascita della “Cassa” [strumento che nella sua specialità e straordinarietà appariva invece a noi – e per tanti aspetti a mio avviso lo fu – importante e necessario], argomentando la sua esposizione in termini che, anche ad una lettura di oggi, risultano ispirati da una immagine del Sud troppo legata ad una sua caratterizzazione troppo “rurale”, ed al peso che la “terra” ave-va non solo nell’occupazione e nella produzione del Sud, ma nell’immagi-nario collettivo di molti, e – anche per

la lettura che della “questione” aveva fatto Antonio Gramsci – dell’intera sinistra meridionale di quegli anni. Sulle caratteristiche di quel discorso del 1950 di Amendola vale comunque il recente riconoscimento di Giorgio Napolitano, secondo il quale esso era “inficiato da non lievi unilateralismi e schematismi”.

E sintonia non vi fu neanche negli immediatamente successivi anni dello “Schema Vanoni”, i cui meccanismi – anticipati dal prof. Sa-raceno a Napoli nel novembre 1953 [temi su cui poi per oltre un anno fui allora direttamente impegnato nella SVIMEZ] – ricevettero una migliore accoglienza nel sindacalista Giuseppe Di Vittorio che nel politico Giorgio Amendola.

A tali scelte della sinistra negli anni ’50 e ’60 si riferirà lo stesso Amendola in una lettera a Pasquale Saraceno del gennaio 1973, scriven-do: “La linea che hai seguito con coerenza è stata da noi (ed anche da me) oggetto di critiche e contestazioni (ricordo il mio discorso di critica al piano Vanoni). Ma di queste divergen-ze si è alimentato il rapporto tra noi, che è stato da parte mia sempre molto rispettoso del tuo contributo, e della sincerità delle tue motivazioni”.

Non è certo un’autocritica, ma a me pare che ne contenga i segni; e lo dico pensando ad un’altra no-tazione di quel testo, in cui – dopo aver ricordato di Saraceno la sua “ininterrotta funzione di ispiratore delle linee generali della politica eco-nomica seguita dalla DC” – gli dice: “Tu non puoi disconoscere la funzione che hai avuto, dai primi piani CIR, al Piano Vanoni, a San Pellegrino. Da quando non hanno più seguito le tue indicazioni, le cose sono andate di

male in peggio”.

�. Al di là di ogni giudizio di meri-to, io credo che le responsabilità della sinistra comunista di allora (perché la sinistra socialista fece più presto formale autocritica, e mutò perfino il suo iniziale voto di opposizione in Parlamento) siano oggettive, figlie di una cultura e di una visione troppo influenzata dalla contrapposizione politica alla DC.

Il fatto è che:• sfuggì alla sinistra in quegli anni

la natura strutturale – e le implica-zioni, strutturali anch’esse e di lungo periodo – dei pesantissimi divari ter-ritoriali tra l’insieme del Mezzogiorno e l’insieme del Centro-Nord, che facevano e mantengono ancor oggi dualista l’Italia;

• sfuggì il ruolo potenzialmente determinante dall’industria manifattu-riera, ed in essa della meccanica, che Saraceno già dai primi anni ’50 aveva posto al centro delle politiche per lo sviluppo dei Paesi sovrapopolati, caratterizzati cioè da uno squilibrio tra popolazione e occupazione;

• il “ruralismo” del PCI, ed i giudi-zi sulle caratteristiche del “latifondo” e sul disinteresse proprietario per la sua valorizzazione, finirono con l’influenzare gli approcci connessi alle risorse naturali inutilizzate (ed anche dopo la fine della Cassa, nel 1993, si è continuato a voler parlare di aree sotto-utilizzate);

• si sottovalutò il ruolo civile, oltre che produttivo, della pur limitata riforma agraria, e degli approcci alla trasformazione fondiaria ed all’irri-gazione, mentre si dimostrò che la sinistra non rifletté a sufficienza sul ruolo di modernizzazione che l’ industria avrebbe avuto sulla crescita

I “limiti” del meridionalismo della sinistra degli anni ’50Nino Novacco

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di nuclei di classe operaia anche nel Sud di allora;

• l’accusa di “keynesismo” alla politica straordinaria per il Mezzo-giorno era errata [e lo ha confermato oggi con ragione il prof. Mariano D’Antonio]; in Italia non servivano politiche di sostegno della domanda, anche perché, specie a Sud, non vi erano settori con capacità produt-tiva inutilizzata, ma vi erano state scarse ed insufficienti processi di formazione di capitale, produttivo e infrastrutturale;

• se nel Mezzogiorno il vero fattore inutilizzato era il lavoro, ciò era per mancanza di accumulazione. E di accumulazione e di sviluppo – e di infrastrutture necessarie a carat-terizzare un ambiente che potesse così divenire adatto ad accogliere e attrarre l’industria – si parlava invece nella SVIMEZ, che – come ho detto – guardava al New Deal, alla Tennessee Valley Authority di Roosewelt, e che discuteva col prof. Rosenstein-Rodan del MIT (e più tardi – attraverso la scuola di Claudio Napoleoni – anche con economisti marxisti, che però avevano spesso in mente, per l’industria, il modello dei settori merceologici adottato

nell’URSS fin nella pianificazione e nella ripartizione delle competenze ministeriali, e che prescindeva del tutto dal mercato;

• un vecchio vizio, questo rela-tivo ai prodotti, che resisté fino alla metà degli anni ’70, e la sinistra, che ebbe un ruolo nella Legge 675, guardava ancora ai settori. Dopo la crisi petrolifera mondiale, e quando le loro conseguenze ebbero a mor-dere anche il nostro Centro–Nord, la Legge sulla ristrutturazione e ricon-versione industriale (oggettivamente nordista) finì col concorrere a fermare quel poco di politica industriale che si era avviato nel Mezzogiorno con l’intervento straordinario, quale si era venuto caratterizzando a partire dalla legge del 1957, che dalla pre-industrializzazione aveva aperto le strade a forme di possibile industria-lizzazione, sia da parte dei privati, sia attraverso le Partecipazioni Statali.

• una autocritica del PCI sugli iniziali giudizi in ordine alla politica per il Mezzogiorno – cioè rispetto alle tesi di Amendola del 1950 – vi è stata, ma fin dopo la metà degli anni ’70 le scelte della sinistra per il Sud sono restate sempre condiziona-te dalle valutazioni politico-elettorali

sulla necessaria “guerra contro la DC”;

• le scelte della sinistra – e del-l’Amendola del 1950 –, dichiara-tamente contrarie alla “Cassa per il Mezzogiorno” come intervento centrale e dall’alto, ed a favore di politiche definite e realizzate tutte e soprattutto dal basso – attraverso Regioni ed Enti che anche dopo gli anni ’70 se ne dimostrarono comun-que incapaci – sono state forse il più grosso limite dell’approccio del PCI, che si è tradotto poi nell’errore di puntare troppo – anche più tardi – su regionalismo e localismi, strizzando l’occhio agli studiosi di “Meridiana”. Invece che con le politiche centrali e speciali – alla Nitti e Beneduce – la sinistra si schierò in difesa di un’ot-tica regionalista assai parcellizzata, che pure non aveva caratterizzato né il suo iniziale approccio, né le tesi sostenute dal PCI in seno alla Costituente;

• erano infine e soprattutto sfug-gite alla sinistra le ragioni profonde della necessaria straordinarietà e specialità degli interventi e delle politiche per il Mezzogiorno, che certo ordinarie non potevano essere, data la pesantissima arretratezza del

Mezzogiorno, e dato il dualismo tra Nord e Sud. Le Pubbliche Ammini-strazioni ordinarie – con la loro stori-ca e limitata capacità di spesa – non capivano e non sapevano affrontare la specialità della condizione del “dualismo” nazionale; e lo hanno di-mostrato fin dopo il 1993, anche con la c.d. “Nuova Politica Economica” del DPS di Barca.

Ma se tutto ciò meriterà di essere meglio conosciuto e documentato, trasformando in storia la cronaca e la pubblicistica di una quaranten-nio – durante la seconda parte del quale la sinistra è stata succube di non pochi distorsivi sociologismi meridionali – consentitemi di ri-prendere quanto ho avuto occasione di dire il 21 novembre scorso, in occasione della cerimonia svoltasi nella Sala delle Lupa della Camera dei Deputati.

�. Vengo perciò brevemente ad un ricordo personale ed all’evocata piccola testimonianza, certo non determinante rispetto ad una per-sonalità complessa come quella di Giorgio Amendola; ma a me essa appare interessante, e desidero perciò citarla.

Giorgio Amendola, intorno agli

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anni ’70, accolse quasi sempre gli inviti che io [allora Presidente dello IASM, un organismo nato per fornire assistenza tecnica e per promuovere l’immagine e le opportunità di svilup-po e di industrializzazione del Mez-zogiorno, ma che ebbe a vivere con risorse del tutto inadeguate rispetto a tali ambiziose finalità] ebbi in più occasioni a rivolgergli, di voler offrire agli interlocutori specie esteri il suo punto di vista sulla affidabilità anche politico-sociale dell’Italia, Paese su cui, nel clima di quegli anni, mag-giori erano i dubbi e più penetranti le domande e le preoccupazioni degli imprenditori, l’Italia essendo considerata lo Stato in cui pesava, attivo ed operante – più che in altri Stati d’Europa e del mondo – un forte Partito Comunista filo-sovietico, che restava uno spauracchio.

Certo, nell’accettare di svolgere da par suo, come più volte ebbe a fare con noi e per noi, questo ruolo di autorevole garante sulla affidabilità politica e programmatica, presente e futura, dell’Italia e in essa della sinistra italiana, Giorgio Amendola si muoveva – pur senza entrare nel giudizio sulle politiche applicate al Sud dal Governi dell’epoca – nel

quadro di scelte di cui forse negli archivi del PCI sarebbe interessante poter ritrovare delle tracce.

Ma mi sia permesso di dire che, nell’accettazione di quei miei inviti formulati a nome dello IASM, ebbe sicuramente a giocare un significativo ruolo il fatto del progressivamente mutato giudizio – anche di Amendo-la, ma non solo suo, nel PCI – su quel che ancora intorno alla prima metà degli anni ’70 il c.d. intervento straor-dinario nel Mezzogiorno – la “Cassa” e gli enti ad essa collegati, come ad esempio lo IASM e il FORMEZ [oggi purtroppo ridotti a poco utili e stru-mentali strutture ministeriali, non più meridionaliste] si stava dimostrando capace di realizzare, meglio e più di quanto nel 1950 si era pensato potesse avvenire.

Il sistema poi di rapporti, anche personali, che – attraverso la comune partecipazione a convegni, incontri e tavole rotonde organizzate un po’ da tutti – si erano venuti creando, e che si traducevano in sovente posi-tivi giudizi sull’onestà intellettuale, e sugli orientamenti politico-tecnici, e sulle “motivazioni” di persone che pur erano vicine alla Cassa e che, mentre non erano comuniste, con

essi avevano libere frequentazioni e dialoghi sovente approfonditi e costruttivi, è stato di sicuro un fattore reale di anticipato “disgelo”, dato che esso era riuscito a far superare alcuni pre-giudizi, anche se non aveva can-cellato differenze e preoccupazioni ideali e politiche.

Mi riferisco comunque – ed an-che qui mi ripeto rispetto a quel che ho altrove osservato – ai contatti ed al dialogo che personalità ed espo-nenti della sinistra di allora – Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Napoleone Colajanni, Emanuele Macaluso, D’Alema (padre), Gerardo Chiaromonte, Tonino Tatò, Luciano Barca, Alfredo Reichlin, Antonio Bassolino, Pio La Torre, Eugenio Peg-gio, per non fare altri nomi – hanno avuto con Pasquale Saraceno, con Manlio Rossi-Doria, con Francesco Compagna [il Chinchino che da “Nord e Sud” guerreggiò per anni con “Cronache Meridionali”, rivista diretta inizialmente da Amendola e da Mario Alicata], ma anche con Vittore Fiore e con Domenico La Cavera, e nella galassia della SVIMEZ con Massimo Annesi, con me che vi parlo, con Salvatore Cafiero, oltre che con Claudio Napoleoni, dalla cui

“Scuola sullo sviluppo economico”, portata avanti dalla SVIMEZ con risorse anche della americana Ford Foundation, passarono molte giovani intelligenze vicine al PCI, come è stato anche qui testimoniato oggi dal prof. D’Antonio.

Ed ai giudizi su aspetti pubblici rilevanti, connessi all’impegno idea-le, economico e programmatico dei meridionalisti, si univano spesso altri giudizi e circostanze, propriamente private, come quelle che sono in-tervenute tra chi vi parla e Giorgio Amendola, legate al fatto di essere entrambi appassionati d’arte – e fre-quentatori di mostre e gallerie – co-me ho altrove testimoniato.

Si determinavano così anche rapporti che oggi tendo quasi a mi-tizzare, per taluni mai raccontati né precisabili effetti che il franco e disin-teressato “dialogare” – tradizione ed abitudine di cui oggi si sta perdendo la traccia ed il gusto stesso – riusciva ad avere fin sulla politica del Paese, e sul futuro stesso del Mezzogiorno.

Presidente SVIMEZ.

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��

A mendolae il partitoG i o v a n n iM a t t i o l i

Anzitutto devo dire, per dovere di ufficio, in quanto rappresentante del Comitato Nazionale per il centenario di Giorgio Amendola, che giungia-mo all’appuntamento odierno dopo altre iniziative di grande rilievo. A Torino abbiamo avuto il Convegno su Amendola e la classe operaia, a Milano quello su Amendola e l’Economia, e infine qui a Napoli affrontia-mo il discorso sul rapporto tra Amendola e il Mezzogiorno. A queste si sono affiancate altre

iniziative, come quella del 21 novembre a Montecitorio, e altre ancora in diverse città d’Italia. Una iniziativa molte-plice e multiforme, quindi, che ha contribuito a richiamare l’attenzione su una figura im-portante della storia del Movi-mento Operaio e della sinistra in Italia, e per la storia della democrazia italiana. Atten-zione, data la distanza storica dagli avvenimenti, un po’ meno condizionata dall’interesse di usarla politicamente, correndo il rischio di deformare e piegare ad esigenze quotidiane e contin-genti l’analisi del ruolo e della figura di Giorgio Amendola.

Si è detto poco fa che la storia di Giorgio Amendola si colloca interamente all’interno del PCI e, aggiungeva Beppe

Vacca, all’interno della sua maggioranza. Su questa se-conda asserzione io non sono del tutto d’accordo. Tuttavia certamente Amendola fu uomo di partito. Personalmente ri-tengo, anzi, che abbia rappre-sentato su tanti punti un segno distintivo e importante, e che abbia imposto la sua grande personalità proprio perché in qualche modo era espressione, da uomo di battaglia politica e non di mediazione, come lui stesso si definiva, di quello strano animale che era il Partito Comunista Italiano. Questo suo esprimere le contraddizioni del partito su tanti temi costituiva anche l’elemento per cui egli in qualche modo anticipava, in-travedeva problemi e formulava ipotesi o tendenze di soluzioni

che erano certamente avanzate, e che tuttavia non si sono mai realizzate, alimentando in se-guito qualche analisi anche un po’ semplicistica su un Giorgio Amendola in qualche modo sconfitto, isolato. Vediamo dunque in che modo Amendola esprimeva le contraddizioni e le peculiarità del PCI. In primo luogo egli era profondamente convinto del ruolo di cesura storica che la Rivoluzione di Ottobre rappresentava nella storia del Movimento Operaio, dell’Europa e del mondo con-temporaneo. Era convinto di questo al di là del fatto che poi lui stesso fosse stato tra i primi a criticarne fortemente gli esiti. Lo scontro con Togliatti nel ’56, che è stato qui rievocato, e quello ancora più netto nel ’61,

A n d r e aG e r e m i c c a

Nel lasciare i relatori ov‑viamente liberi di affrontare gli aspetti che ritengono mag‑giormente degni di nota, mi piacerebbe comunque orientare la discussione di questa tavola rotonda intorno ai due temi fondamentali che mi sembrano emersi dalla prima parte del convegno. Il primo è quello del rapporto tra Amendola e il partito; l’altro riguarda più specificatamente Amendola e il Mezzogiorno. Sul primo tema si sono delineate posizioni abba‑stanza contrastanti: da un lato di chi considera Amendola come un liberaldemocratico prestato al Partito Comunista, dall’altro di chi lo considera comunista tout‑court, quasi sempre alli‑neato alle posizioni della mag‑

gioranza del partito. Rispetto a questo tema c’è un aspetto che mi sembra significativo e sul quale

vorrei ascoltare il parere dei nostri relatori: quello relativo al contributo che l’innegabile ma‑

trice culturale liberaldemocrati‑ca della formazione di Amendola ha dato al Partito Comunista. Sempre nell’ambito di questa te‑matica, vorrei anche soffermare l’attenzione sulla capacità di dialogo di Amendola, comunista, con una serie di forze socialiste, liberali e democratica impegnate per il riscatto dell’Italia e per il Mezzogiorno.

Dunque un primo ordine di questioni sul profilo politico e culturale di Amendola, non per il gusto di fissare delle linee quanto piuttosto per capire gli insegnamenti e l’attualità del suo pensiero. Il secondo aspetto per consentirci invece di tornare sulla polemica di Amendola nei confronti del cosiddetto Nuovo Meridionalismo, e di soffermarci sui caratteri della questione me‑ridionale oggi nel nuovo scenario europeo e mondiale.

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Tavola Rotonda

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��testimoniano la sua posizione. Al tempo stesso egli vedeva nel-la possibilità di una rottura del monopolio capitalista la possi-bilità di perseguire vie nuove in tutto il mondo. Su questo punto si apre una contraddizione nella contraddizione, che ha il suo punto più rimarchevole nella posizione da lui assunta du-rante il suo ultimo anno di vita, nel 1980, riguardo all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Con-traddizione che deriva dal fatto che il ’17 segna la nascita del Movimento Comunista, e quin-di di un inserimento del PCI in un ambito che certamente non era solo quello nazionale e nemmeno esclusivamente quello della lotta e della resistenza antifascista. L’aspetto interna-zionale non era secondario.

Invece proprio l ’ambito della lotta e della resistenza antifascista costituisce a mio avviso il secondo punto che se-gna profondamente il rapporto di Amendola col partito. Le pagine in cui narra della scelta di vita, il modo di come arriva ad aderire al PCI, l’incontro con Treves a Parigi, sono elementi illuminanti che testimoniano la ricerca di una sponda per l’iniziativa antifascista.

Amendola non rinuncia mai alla visione del Movimento Ope-raio come difensore e custode di quella bandiera di democrazia e di libertà che la borghesia aveva gettato nel fango, secondo una storica definizione. Su questo punto, anche, si pone il proble-ma relativo alla definizione del significato dell’egemonia della classe operaia. Io ricordo che Amendola veniva sempre di buon grado alla scuola giovanile di partito di Frattocchie, dove io giovanissimo lavoravo; ma in particolare non si sottraeva mai quando veniva chiamato a lezioni o incontri in senso lato che fossero rivolti ad operai, e questo era indicativo dell’im-

p o r t a n z a c h e e g l i attribuiva al ruolo che gl i opera i avrebbero do-vuto assumere nella società. Io credo anche che lui ritenesse possibile arrivare al socialismo per una via democratica, e che questa possibilità la si desse come fat-tore oggettivo: perché la classe operaia, protagonista della battaglia della trasformazione socialista, era stata fondatrice della democrazia italiana nella lotta antifascista, nella resisten-za, e nella costituente, attraver-so i partiti che ad esse facevano riferimento. Infine lo riteneva possibile perché considerava possibile andare avanti in que-sta prospettiva, ma con una strategia di unità nazionale, che a mio parere non coincide con la strategia del compromesso storico degli anni ’70. Questa strategia è un qualcosa che ha conosciuto fasi diverse in tutto il percorso di Amendola, e che probabilmente è alla base della sua proposta di riunificazio-ne dei partiti del movimento operaio, la quale aveva già allora caratteri di inattualità. Macaluso ha definito quella proposta come una provocazio-ne. Tale infatti poteva sembrare proporre al PSI di unificarsi, nel momento stesso in cui si apprestava ad entrare al go-verno, giacché l’accettazione di un simile percorso equivaleva a farlo ritornare all’opposizione. Al tempo stesso però si trattava di una provocazione positiva, sul fronte del cambiamento di una mentalità. Tra l’altro io ricordo che tra le carte di Paolo Bufalini, passate alla sua morte all’Istituto Gramsci, c’era un documento sul progetto del partito unico nel ’64.

La prima stesura di questo

documento venne sot-toposta ad una piccola commissio-

ne, d i cu i erano parte

Berlinguer e In-grao. Inutile dire

che il documento che uscì da questa commissione alla fine era un qualcosa di completamente snaturato ri-spetto alle intenzioni iniziali, per cui alla fine non se ne fece più nulla. Naturalmente la pre-senza di Ingrao e Berlinguer in quella commissione la racconta lunga su come certe questioni venissero trattate all’interno del partito. L’ultima caratte-ristica “amendoliana” che mi pare si possa richiamare in questa sede, è quella della sua concezione del partito e del-l’unità di partito. Senza questa concezione, collegata al modo in cui secondo lui il partito doveva operare nella società, ma anche alla sua esperienza della lotta antifascista e della vita clandestina, non è possibile comprendere perché un uomo che ha ipotizzato un dibattito aperto e che ha operato come responsabile dell’organizza-zione del partito per aprire un confronto più democratico, poi alla fine non avesse mai forma-lizzato un dissenso. In realtà credo che vi fosse in lui proprio la volontà di non spingersi oltre nel portare avanti il confronto, anche incoerentemente con la sua stessa istanza di ottenere un dibattito più aperto. In occasione dell’XXI congresso Amendola affrontò la questione di Ingrao e degli ingraiani, ope-rando fortemente non solo per combatterli politicamente, cosa che io ritengo giusta, ma anche per emarginarli all’interno del partito con una serie di misure e di scelte di inquadramento. Da questo punto di vista riten-

go che il giudizio di Spinelli, secondo il quale il grande valore della figura di Giorgio Amen-dola sia stato quello di saper aprire vie nuove sia vero solo in parte. Forse più che aprire vie nuove, indicare vie nuove. Ma indicare una via in un momento in cui si è persa la strada e si annaspa per riuscire ad uscire da un groviglio di problemi e di contraddizioni, è cosa di grande valore.

Del Comitato Nazionale per le Ce-lebrazioni del Centenario di Giorgio Amendola.

M a s s i m oL o C i c e r o

Io vorrei partire da una parola che è un po’ ambigua, ma che per quanto mi riguarda serve abbastanza bene a spiega-re qual è, nella mia valutazione, la caratteristica principale di Giorgio Amendola: egli era un uomo singolare. Singolare nel senso che era capace di espri-mere tutta la forza della sua individualità, ma anche di reg-gere il confronto con gli altri ed agire positivamente all’interno di un’organizzazione. Tutte le scelte di Amendola, nella loro singolarità, si collocano poi all’interno di un’opzione fon-damentale.

Amendola era un uomo che aveva scelto di mettere la sua vita al servizio di un progetto politico. Egli credeva fortemente, individuo singolare qual’era, che l’azione collettiva si sviluppa sempre attraverso un’organizzazione. Pertanto nella sua ottica il problema era costituito dalla propria capacità di indirizzare l’orga-nizzazione, e non tanto quella di offrire soluzioni più o meno originali. Se non si considera questo punto di vista, poi molte delle sue battaglie e delle sue scelte sembrano poco compren-

Tavola Rotonda

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��sibili. In realtà tutte le batta-glie amendoliane, e tutte le sue scelte sono in qualche modo legate a questa idea secondo me centrale, e cioè del mettersi al servizio di un progetto politico partecipandovi attivamente, ma nella consapevolezza che i progetti politici non procedono sulla base delle scelte degli individui ma sulla base delle scelte di un’organizzazione. Amendola si poneva il proble-ma di stare nell’organizzazione con lealtà, ma con la fermezza di chi difende le sue idee e con l’intelligenza di chi usa di volta in volta l’idea più confacente allo spostamento di tutta l’or-ganizzazione nella direzione che a lui interessava. Da questo punto di vista, come ha detto prima Armando Vittoria, è sicuramente un comunista. Ma io aggiungerei un aggettivo ulteriore: egli è un comunista italiano, appartenente cioè ad una specie che non esiste in nessuna altra parte del mon-do, e che io credo in definitiva abbia poco a che fare col co-munismo stesso. Nell’ambito del comunismo italiano, di per sé stesso cosa veramente originale, Amendola è certa-mente un comunista italiano. L’esempio di Amendola come persona singolare è interessan-te perché permette di valutare la molteplicità dei modi in cui era possibile estrinsecare la voglia di fare politica. Non è un caso che sia stato il capo del-l’organizzazione: condizionare l’organizzazione era infatti l’unico modo per sviluppare l’azione collettiva. Se ragio-niamo in quest’ottica è molto più importante essere il capo dell’organizzazione che non il capo, che ne so?, della commis-sione lavoro. Il problema vero è riuscire non attraverso quello che si dice, ma attraverso gli uomini che agiscono nell’or-ganizzazione con determinati

ruoli, ad ottenere un risultato, che nel caso di Amendola è sempre un risultato politico. E il risultato politico spiega anche la contraddizione enor-me di una persona singolare, amante dell’individualismo e protagonista individuale di moltissime battaglie politiche, che difende l’Unione Sovieti-ca., senza la quale il PCI non sarebbe neanche esistito. Il paradosso del PCI è che esso era un partito a suo modo an-tisovietico, ma che difendeva l’Unione Sovietica perché la sua presenza consentiva, negli anni tra il 1950 e il 1960, una voce diversa nel dibattito politico italiano, una voce che fosse capace di alimentare la differenza e quindi la demo-crazia. In questo contesto si colloca poi quello che secondo me è un punto fondamentale del pensiero di Amendola, e cioè l’idea che il capitalismo sia un ordinamento econo-mico e che la democrazia sia una forma organizzativa della politica. In quest’ottica lo stato non è lo stato borghese che si abbatte e non si cambia, ma è un’istituzione che si rispetta, e che nel caso si governa anche. La figura di Amendola sta tutta nell’equilibrio bipolare tra Unione Sovietica e Stati Uniti, ma in questo equilibrio essa si connota come figura singolare, che si spende per la battaglia politica ovunque ci riesca.

Quello che invece a mio av-viso è assolutamente inappro-priato è considerare Amendola un economista. Certamente, era un uomo di robuste letture e di sana cultura, per cui aveva una certa conoscenza della ma-teria; ma non vi è dubbio che il fulcro del suo ragionamento fu sempre politico. L’attacco di Amendola a Saraceno, ri-cordato poco fa da Adriano Giannola, non avviene perché questi facesse un politica eco-

nomica che non gli piaceva. Avviene perché Saraceno era un democristiano. Era un at-tacco politico. Come pure era politica e tattica la battaglia di Amendola contro la Cassa per il Mezzogiorno.

Infine vorrei soffermarmi su un’altra caratteristica della personalità di Amendola che, almeno per quelli della mia generazione, è stata molto im-portante. Giorgio Amendola ha insegnato ai giovani che è possibile difendere un punto di vista anche se esso non era riconosciuto nell’organizzazio-ne. E che un punto di vista può essere usato per aggregare, ma anche per distinguersi e farsi ri-spettare in quanto portatore di un’idea. Questa sua peculiarità gli consentiva di fare breccia in mondi assolutamente lontani dal Partito Comunista. Una testimonianza molto bella, in questo senso, è quella affidata da Guido Carli alla penna di Paolo Peluffo, nel libro “Cin-quant’anni di vita italiana”. Carli incontrò Amendola quan-do tornò dall’America, dove aveva negoziato i fondi del Piano Marshall da executive director della Banca Mondiale. Egli conobbe un giovane Amendola, presentatogli da Mattioli, e gli fece una grande impressione per il suo essere un uomo vigoroso, un uomo che ispira fiducia e che avrebbe avuto un ruolo nella vita di questo paese.

Infine, io credo che Amen-dola si occupasse di politica economica perché in questo modo poteva parlare alla classe dirigente e ad avere un accesso che non gli serviva per negozia-re al ribasso vantaggi per sé, ma per capire dove, come e fino a che punto poteva sviluppare l’iniziativa politica nelle sedi proprie della politica.Docente di Economia dell’Informazione e della Conoscenza. Università di Roma Torvergata

Marina ComeiCertamente Amendola è

un comunista che può essere inserito a pieno titolo nella sto-ria del comunismo italiano, e anche in quella del comunismo internazionale. Ma probabil-mente quello che più ne rende interessante e originale la figura politica è il suo storicismo. Egli mostra una straordinaria capa-cità di intessere la sua geometria politica con le sue riflessioni sulla storia d’Italia sulla nazio-ne italiana, sul fascismo e sui tratti salienti del capitalismo italiano. Sono queste riflessioni che lo condurranno a pensare che l’esperienza del liberalismo paterno ha in qualche modo fallito, e che lo indirizzeranno verso il PCI e a ritenere che a questo partito spettasse il compito di portare a termine il processo di emancipazione delle masse, interrotto dal fascismo.

Lo storicismo di Amendola è il principale imprinting che gli rimane dalla sua storia fa-miliare, ed è altresì il filo rosso culturale che lo lega a Togliatti, e al continuum tra De Sanctis, Croce, Labriola e Gramsci, che lo stesso Togliatti individuava come presente nella storia del nostro paese. Lo storicismo è certamente la categoria analiti-ca principale che gli consente di muoversi nella società italiana, e di guardare al passato ma an-che di vivere il suo presente; ed è anche il punto di vista che gli consente di avviare il rapporto con le altre forze politiche.

Quando tra il ’46 e il ’54 Amendola diventa responsabile della Commissione Meridiona-le, ed è contemporaneamente segretario del partito per Cam-pania e il Molise, sono anni in cui la crisi del mondo agrario. iniziata negli anni precedenti, si manifestava compiutamente. Amendola imposta l’iniziativa politica del PCI nel Mezzogiorno

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��organizzando le lotte per la ter-ra, ma colloca questo movimento su uno sfondo politico anch’esso in qualche modo storicista. In generale l’iniziativa politica di Amendola nel PCI di quegli anni mostra tre punti principa-li: anzitutto l’antifascismo, che è il terreno principale su cui costruire il nuovo Mezzogior-no, il vero banco di prova del rinnovamento. Secondo punto la Questione Agraria, che egli riteneva fondante e in qualche modo esaustiva della Questio-ne Meridionale. La Riforma agraria era vista da lui come strumento decisivo per condur-re a termine l’iter del processo “rinascimentale” ed allargare il mercato interno e riequilibrare i profitti, che erano stati segnati dalla politica economica del fa-scismo. Poi, coerentemente con la convinzione cui accennava prima il prof. Misiani, Amen-dola assume negli anni ’30 posizioni di grande cautela, che lo avrebbero sempre contraddi-stinto, nei confronti delle ricette industrialiste. Il terzo punto su cui Amendola costruisce la sua politica per il Mezzogiorno in quegli anni è la funzione di indirizzo sull’insufficienza della borghesia meridionale. Su que-sti tre punti Amendola organiz-za e delinea il meridionalismo comunista del dopoguerra. Un meridionalismo che nasce dal riconoscimento del carattere strutturale delle contraddizioni interne all’economia italiana, che il fascismo aveva negato, e che non era riuscito a risolvere. In questi anni il meridionali-smo diventa la forma specifica che l’antifascismo assume nel dopoguerra, in seno al PCI, ma non solo. Diventa un terreno su cui si definiscono i nuovi soggetti politici che avevano preso nel dopoguerra il posto del fascismo. Questa impostazione condiziona in maniera efficace anche l’iniziativa di De Gaspe-

ri sul fronte della scelta della rifor-ma agraria, e consente di incontrare il meridiona-lismo della si-nistra laica nella sua accezione occiden-talista. Questi mi sembrano i punti di vista da cui nasceva l’intervento e la politica per il Mezzogiorno in quegli anni.

Prima di concludere, vorrei tornare un attimo sulla que-stione del rapporto col partito socialista. La difficoltà a com-prendere quanto il paese stava mutando e da dove venisse quel mutamento induce Amendola negli anni tra il ’62 e il ’66 ad intensificare i suoi rapporti col PSI e a fare la sua proposta di partito unico. Questa proposta andava di pari passo con l’insi-stenza sempre più forte da par-te di Amendola nel presentare un programma di riforme che facesse fronte in qualche modo alle istanze di governo che provenivano dal paese. Oggi è stato espresso un giudizio di inefficacia dell’iniziativa poli-tica di Amendola nei confronti del partito socialista. Tuttavia quella proposta era qualcosa di forte ed estremamente signifi-cativo, poiché in quel momento il PSI era al governo. In questo senso Amendola anticipava un problema che il partito avrebbe dovuto poi riaffrontare in anni più recenti anche in seno al-l’Internazionale Socialista.Docente Associato di Storia Contempo-ranea. Univeristà di Bari

B i a g i od e G iovann i

Nel corso del dibattito odier-no sono state dette molte cose convergenti ed espresse idee largamente condivisibili. Viene fuori un quadro di Amendola

come di un uomo pie-n a m e n t e par tecipe del comuni-

smo storico. Un comunista

italiano. Però es-sere un comunista

italiano è cosa varia e complessa, sulla quale vorrei esprimere telegraficamente qualche considerazione. Amen-dola vive la scelta comunista quasi esclusivamente attraverso la scelta antifascista, perché tro-va la militanza comunista l’uni-ca risposta concreta e decisa per una battaglia antifascista. Attraverso l’antifascismo arriva a lui la tradizione paterna, che tra l’altro è una tradizione che non va ascritta al liberalismo classico. Giovanni Amendola è un liberale eterodosso, più le-gato alle filosofie irrazionaliste del primo novecento, più verso Gentile che verso Croce.

La scelta antifascista e l’in-terpretazione del fascismo come segno di una crisi di civiltà è un punto chiave nell’analisi di Amendola. Qui secondo me fa una per molti versi drammatica abbreviazione, non riuscendo a vedere mai la vera autonomia delle istituzioni liberal-demo-cratiche, e manifestando una incapacità a saper distinguere e a mettere la giusta distanza tra le democrazie europee e fa-scismo. C’è uno schiacciamento costante che torna in tutte le sue scelte fondamentali, perfino nel suo iniziale antieuropeismo, e poi naturalmente, la sua grande capacità “storicistica” di sapersi adeguare ai fatti e di capirli. L’antieuropeismo iniziale è legato profondamente all’idea che l’avvio dell’europeismo non solo non costituisce un salto di qualità – come in realtà nelle cose stava avvenendo – ma tutto sommato finisce per affer-mare una sorta di continuismo

con la storia precedente.Lo storicismo di Amendola non è crociano. Il rapporto con Croce è un rapporto amabile e affettuoso. Amendola accom-pagna Croce nelle passeggiate ma subito prende le distanze duramente dalla posizione cro-ciana, soprattutto ancora una volta rispetto al fascismo. Però è giusto dire che quell’atmosfera lo influenza e lo condiziona. Io posso capire la definizione di Amendola storicistra, ma tutto sta a capire anche cosa si intende per “storicismo”. Io credo che in Amendola questo vada ad indicare una fortissima voglia di seguire all’interno di un quadro ideologico molto preciso il continuismo dei fatti, la necessità di capire, e spesso il giustificazionismo. Amendola ha un rapporto forte per ragioni storiche, addirittura prima familiari e poi relative al suo atteggiamento, con il riformi-smo laico. Oggi sono venute fuori giustamente riflessioni complesse e fondate sulla pro-blematicità di questo rapporto niente affatto pacifico. Tuttavia gli interlocutori di Amendola sono quelli: La Malfa, Rossi Doria, Saraceno, cattolico ma di un riformismo laico. Due tradizioni, dunque, che divari-cano e che si scontrano. Perché l’interpretazione che Amendola dà della storia d’Italia lo condu-ce in quella direzione, con tutte le problematicità che io stesso ho messo in campo quando ho segnalato fino a che punto Amendola riusciva a vedere l’autonomia delle istituzioni liberali (anche se poi succes-sivamente se ne rese conto). In Ingrao rimane molto potente il richiamo delle masse.

Questo tema invece secondo me in Amendola non c’è proprio. E questo spiega la profondità storica delle due linee, quella di Ingrao e quella di Amendola. Ingrao è un grande stigmatiz-

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��zatore ma non riesce a cavarne fuori una politica. Queste se-condo me sono le ragioni per le quali possiamo essere tutti d’accordo nel definire Amendola un comunista “doc”, con la con-cretezza di un personaggio che si ritrova tutto nella politica del fare, nella politica dell’iniziati-va . Pur non essendo mai stato federalista, Amendola sceglie Spinelli perché capisce che li c’è una via che va portata avanti.

Questo è Amendola: non ha bisogno di essere federalista per scegliere Spinelli come ca-polista. Gli basta di capire che quella via conduce da qualche parte, spinge, fa avanzare e lui ci vuole stare dentro, pur mantenendo rigorosamente le sue posizioni.

Filosofo.

Amendola e il MezzogiornoM a t t i o l i

Vorrei fare solo una brevis-sima premessa sulla questio-ne del comunismo di Giorgio Amendola. Ricordo che nel 1978 Amendola, che aveva rifiutato di essere candidato alla Presidenza della Camera, fu scelto come candidato di bandiera alla Pre-sidenza della Repubblica Allora era appena uscito il suo volume sulla storia del PCI dal 1921 al 1948, ed egli andava in giro in transatlantico, orgoglioso, distribuendo il volume, perché lo considerava uno dei lasciti più importanti della sua esperienza, e anche qui si potrebbe innesta-re la riflessione sull’attenzione pedagogica di Amendola. Ma ricordo che in quella occasione qualcuno, mi pare Giorgio La Malfa, scrisse un articolo nel quale esprimeva apprezza-mento per questa candidatura, dicendo: è l’ora finalmente

che il figlio del grande marti-re dell’antifascismo Giovanni Amendola, sia candidato. Lui replicò in maniera secca, dicen-do più o meno:“ma che c’entra mio padre, io sono comunista, sono stato candidato dal Partito Comunista. Non dovete tacere questo fatto”. Questo è un punto su cui la sua coscienza, di essere pienamente appartenente al Partito Comunista Italiano era assoluta.

La seconda questione è più generale. Prima ho detto forse lui più che aprire nuove strade le indicava. C’è un terreno però sul quale davvero ha aperto una strada, ed è la questione dell’europeismo nella sinistra italiana . Credo che se in Italia non è accaduto al referendum sul Trattato europeo quello che è accaduto in Francia è perché il PCI non è il Partito Comunista francese. Ha seguito un’altra traiettoria di attenzione verso l’Europa e verso l’europeismo e tanto è dovuto, io ritengo, al-l’opera e alla tempra di Giorgio Amendola.

Vengo adesso alla questione del Meridione. Ritengo che oltre al fatto personale di es-sere meridionale, egli vedesse nella questione meridionale una delle due grandi questioni giudicate da Gramsci come problemi storicamente irrisolti nello stato italiano da parte del-la borghesia, con cui dovevano misurarsi la sinistra italiana e il movimento operaio. È stato op-portunamente segnalato come per Amendola la “Questione meridionale” di Gramsci fosse addirittura la chiave di lettura per comprenderne i “Quaderni”. La questione meridionale era da lui analizzata fondamentalmen-te non come problema economi-co ma come problema politico, che riguardava lo sviluppo del meridione, la sua arretratezza e l’essere elemento debole dello stato, possibile elemento debole

della democrazia. Il giudizio di Amendola sugli avvenimenti a Napoli, che all’epoca era monar-chica, sono illuminanti. E credo che, della battaglia meridionali-sta di Amendola non vadano ri-cordate solo le sue elaborazioni, ma anche l’impegno e il lavoro di costruzione del tessuto demo-cratico e associativo, politico, e non solo politico, del Meridione negli anni ’40-’50.

Nel ’63, alla Camera, egli esprimeva un giudizio molto cri-tico sullo sviluppo, denunciando i giochi di potere e di corruzione cresciuti intorno alla spesa pubblica, all’intervento straor-dinario e così via. A questo però aggiungeva: “sento, invecchian-do, il fascino del moralismo sal-veminiano da me criticato con storicistica crudezza negli anni della gioventù anche prima che diventassi comunista”.

L o C i c e r oSono assolutamente d’ac-

cordo con quello che dice Mat-tioli, e cioè che per capire bene Amendola occorra guardarlo essenzialmente sotto il profilo politico. E non vi è dubbio che il giudizio politico di Amendola sulla società meridionale sia che essa era una società arretrata, con elite incapaci e un popolo ignorante. Infatti l’argomento principale sul quale Amendola faceva leva nel rapportarsi alla tematica del Mezzogiorno era quello dell’educazione. Più che sullo sviluppo locale, Amendola puntava sulla leva degli operai comunisti membri del Comitato Centrale, molti dei quali ebbi la possibilità di conoscere, e che costituivano una “noce” di classe dirigente. Essi non c’entravano niente con l’autogo-verno delle fabbriche, ma erano potenzialmente un serbatoio di ricambio per una elite incapa-ce e parassitaria che in quel momento dominava la scena

politica del Mezzogiorno. È per questo motivo che Amendola spendeva una cura particolare nel seguire le Conferenze Ope-raie, e in generale la nascita di figure di operai comunisti che diventavano dirigenti politici, perché immaginava che la proiezione dovesse essere di tipo democratico – istituzionale e non anarco – sindacalista, e non si è mai interessato parti-colarmente delle questioni dei consigli di fabbrica.

Da questo punto di vista la figura di Amendola è talmente deformata in questa direzione, che là egli commette quello che non è un errore, ma certamente un misunderstanding tatti-co: quando si trova di fronte Saraceno, il club dei “nittia-ni”, il mondo tecnocratico che propone la trasformazione del Mezzogiorno con un’incisiva azione e con strumenti, quelli si, della tecnica della politica economica, allora, nei suoi me-morabili discorsi in parlamento contro la Cassa per il Mezzo-giorno, dice: “Ma quale cassa e cassa, non voglio organismi straordinari, voglio la capacità della democrazia meridionale di governarsi da sola”, che non è la pianificazione dal basso (una cosa che avrebbe fatto gi-rare la testa da un’altra parte). Nella sua “offensiva” successiva contro la linea Carli – Colombo, quando Saraceno teorizzava incentivi come un dazio che aiutasse le fragili creature del Mezzogiorno a crescere, quando il centrosinistra diventava forte e si strutturava subito dopo la politica Carlo – Colombo, nel ’74, è allora che Amendola di-venta ancora più forte, con i suoi operai comunisti del comitato centrale, perché dentro le fab-briche dell’industrializzazione forzata nasce una classe politica alternativa alla classe dirigente locale. È là l’investimento poli-tico di Amendola, che da questo

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�8punto di vista se ne fregava altamente del dibattito sullo sviluppo esogeno e lo sviluppo endogeno, perché quello che gli interessava era che nascessero fabbriche contro il monopolio del capitalismo privato, e che contro il monopolio privato nascessero alleanze coi ceti medi, per creare un’economia diffusa, più piccola e compe-titiva rispetto all’economia del capitalismo privato.

Da questo punto di vista è chiaro perché Amendola, nel pieno del centrosinistra trion-fante, contrappone la proposta del partito unico, che voleva dire considerato che ormai col capitalismo conviviamo tran-quillamente, considerato che abbiamo il più grande partito comunista d’Europa, conside-rato che col centrosinistra anche l’Italia si adegua al generale cli-ma di distensione dopo Krushev e Papa Giovanni, allora perché non fare il più grande partito socialdemocratico d’Europa e glie lo mettiamo nel sedere a tutti?!

Questa opzione polit ica è esattamente il contrario di quella che invece si afferma nel partito comunista e anche nel partito democratico di oggi. Probabilmente se il dibattito sulle diverse opzioni fosse stato portato all’esterno, tra gli elet-tori del PCI, avrebbe prevalso la linea di Amendola, ma siccome allora il PCI aveva l’abitudine di svolgere il dibattito nel suo interno, ad affermarsi fu la linea Berlinguer – Ingrao.

Marina ComeiCertamente per Amendola

il Mezzogiorno era un problema politico e non economico. Un problema su cui si interveniva attraverso la visione politica oppure, se si era al governo, attraverso l’azione di governo. Ma volevo aggiungere qualche

considera-zione sulla quest ione delle poli-tiche per il Mezzogiorno e la questione del federalismo, legandola anche ad alcune considerazioni e giudizi che Amendola espri-meva sul Mezzogiorno e sulla debolezza delle classi dirigenti meridionali. Amendola legava strettamente il rinnovamento del Mezzogiorno alla nascita di nuove classi dirigenti, e in que-sto senso, come diceva De Gio-vanni, sottolineava la funzione del partito, come strumento di questa costruzione.

Ora questo problema della debolezza della classi dirigenti meridionali è nuovamente di attualità, e lo è stato anche ne-gli anni dell’intervento straor-dinario, costituendone uno dei motivi veri del fallimento. Infatti in quel contesto non è nata una nuova classe dirigen-te, quanto piuttosto un ceto di mediatori tra centro e periferia, che hanno fatto dell’intervento straordinario il motivo stesso della loro sopravvivenza. E questi non erano sottoposti a nessun giudizio di responsabi-lità. Uno degli altri elementi di debolezza della programmazio-ne regionale, che poi è connessa con questa difficoltà a creare nuova classe dirigente, è il problema della scarsa capacità di incidenza sul sistema forma-tivo, che oggi è la vera essenzia del divario tra Mezzogiorno e resto del paese.

Ma il problema della debo-lezza delle classi dirigenti me-ridionali è anche una questione che si connette con la complessa e contrastata concezione di nuovo stato federale. Forme di federalismo più o meno accen-tuate sono oggi realizzate; la riforma costituzionale renderà

tutto que-sto proba-bi l mente più lineare e visibile, e

se noi pen-siamo a parti

del nostro paese come la Lombar-

dia e il Nord est vedia-mo che questo discorso è andato molto avanti.

Nel Mezzogiorno invece la discussione su questo tema sem-bra privo di consapevolezza. E qui davvero, se io dovessi consi-derare l’esperienza appena fatta della formazione del PD nel Mezzogiorno, dovrei aggiungere ulteriori elementi di preoccupa-zione. Nella mia regione, che è la Puglia, la costruzione del PD poteva essere una importante occasione per discutere di que-sta questione, ma questo non è avvenuto neanche lontanamente nell’ambito del dibattito.

B i a g i oDe G iovann i

Qualche brevissima osser-vazione. Intanto, credo che sarebbe interessante capire se è possibile definire le fonti attraverso le quali Amendola approfondisce la questione meridionale. Io ho l’impressione che al di là delle riserve che lui formula in molte fasi, il suo meridionalismo nasce molto dall’interno del meridionalismo storico, da Fortunato allo stesso Salvemini, nonostante tutte le riserve da lui stesso avanzate. Meno, per esempio, dal testo gramsciano del 24/26, che invece diventa un po’ una delle bibbie del movimento comu-nista italiano, ma è un testo molto datato (Gramsci dirà cose infinitamente più importanti nei “quaderni”).

Credo che Amendola sia sostanzialmente estraneo a questo aspetto delle fonti del

meridionalismo, il che apporta elementi alla formazione “ano-mala” di Amendola, per quanto poi in Amendola possano pesare le fonti, ché naturalmente è un grande storicista.

La seconda questione: punto fermo secondo me è il Mezzo-giorno come grande questione nazionale, e quindi la lettura e rilettura del dualismo italiano come chiave di lettura della storia d’Italia, la chiave del partito pedagogo (i quadri amendoliani del PCI hanno avuto questo ruolo) che era fondamentale nel suo pensiero. La formazione era l’elemento centrale dentro questo qua-dro, nel quale il problema del Mezzogiorno era la democrazia meridionale e dell’incapacità di diventare protagonisti del processo politico.

Passando ad altro: la crisi della civiltà occidentale ha nel 1917 il principio del rovescia-mento, e quel punto rimane ineludibile in Amendola, ed è alla luce di questo che Amendo-la accetta finanche l’invasione della Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica.

Ultima considerazione: con-cordo appieno con Giannola e con quello che ribadisce Marina Comei, cioè sul totale silenzio del Partito democratico sulla questione meridionale. Questo è scomparso dall’agenda poli-tica, e dietro questa scomparsa c’è il fallimento sostanziale del regionalismo meridionale, cioè di quella reinterpretazione del meridionalismo che poteva rispondere alla crisi degli stati nazionali e ristabilire un nesso virtuoso tra le regioni e l’Euro-pa. Oggi si ricomincia a parlare di Agenzie Centralizzate, e il ministro Bersani ironizza sul Meridionalismo come processo dal basso. Su questo punto oc-corre un grosso sforzo di rifles-sione da condurre in maniere aperta e critica.

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