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Numicus L'alba di roma

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Raccolta di racconti e poesie

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Collana – Artetremila – “ Racconti “

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Artetremila® è un marchio registrato. Note : Ogni eventuale riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, é da considerarsi puramente casuale. NUMICUS – L‟alba di Roma. Di Giulio Buonanno Proprietà letteraria riservata. © Artetremila Edizioni © Copyright 2012 Associazione Artetremila Responsabile della pubblicazione Buonanno Giulio Libro pubblicato a cura dell‟autore

Foto di copertina: Enea alla corte di re Latino - Opera di Ferdinand Bol, 1661-1663

Stampato in Italia da melostampo.it Tipografia Zanzibar Soc. Coop. p.a. ONLUS – Ancona

I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere utilizzata, riprodotta o diffusa con qualsiasi mezzo senza autorizzazione scritta dell’autore.

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Giulio Buonanno

NUMICUS L‟alba di Roma

Artetremila® Edizioni www.artetremila.it

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Prefazione La giovane città di Pomezia, occupa un‟area a sud di Roma che af-fonda le sue radici nella leggenda. Riconosciuta dagli studiosi come luogo dove approdò Enea e i cui discendenti fondarono Roma, la città che dominò il mondo conosciuto. Pur non essendo geografi-camente parte dell'Agro, la nascita di Pomezia fece seguito alla ri-qualificazione della palude pontina decisa dal governo Mussolini con la legge di bonifica integrale del 1928, che diede tra l'altro origi-ne a Littoria (oggi Latina), Sabaudia, Pontinia e svariati altri centri rurali minori comunemente appellati "borghi". Originariamente, per l'istituendo comune fu previsto il nome di Au-sonia, ma già prima dell'inizio dei lavori esso fu mutato in Pomezia. Concessionaria della costruzione fu designata l‟Opera Nazionale Combattenti, che il 1° ottobre 1937 bandì un concorso urbanistico vinto dagli architetti Petrucci, Tufaroli, Paolini e Silenzi. Pochi mesi dopo, il 25 aprile 1938, fu posata la prima pietra simbo-lica e il 29 ottobre 1939 i primi insediamenti furono inaugurati. La popolazione consisté originariamente di famiglie coloniche: i primi arrivi, quaranta nuclei, giunsero dalla Romagna nel giugno 1939; in ottobre giunse un secondo contingente e, a seguire, popola-rono la zona famiglie provenienti dal Veneto e dal Friuli. Responsa-bile delle assegnazioni era sempre l'Opera Nazionale Combattenti, e i poderi da questa consegnati ai coloni erano comprensivi di un ca-solare e di un appezzamento di terreno coltivabile. Il territorio di Pomezia subì pesantemente gli avvenimenti bellici le-gati alla seconda guerra mondiale, soprattutto nel periodo tra lo sbarco alleato ad Anzio (22 gennaio 1944) e la liberazione di Roma dall'occupazione nazista del successivo 4 giugno. Durante tale peri-odo molti furono i bombardamenti effettuati dagli Alleati, ivi com-presi quelli dell'aeroporto di Pratica Di Mare e della Torre del Vaja-nico (Torvajanica), così come molte furono le mine che i tedeschi, ritirandosi, lasciarono lungo il litorale pometino e romano.

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Le prime elezioni libere per nominare il sindaco del comune (che comprendeva anche il territorio di Ardea) si tennero nell'aprile del 1946. Il litorale Pometino rimase relativamente sconosciuto fino ai primi anni cinquanta. L'11 aprile del 1953 salì prepotentemente alla ribalta a causa di un fatto di cronaca nera, il ritrovamento sulla spiaggia di Torvajanica del corpo senza vita di una giovane donna di 21 anni, Wilma Montesi. La vicenda, che giornalisticamente prese il nome di “Caso Montesi“, ebbe vasta eco a livello nazionale, ma in ambito loca-le ebbe l'effetto di richiamare l'attenzione sul litorale che, così, di-venne meta preferita della Roma bene e, in seguito, dell'edilizia abusi-va. Inizialmente progettata come centro principale di una zona a voca-zione agricola, nel dopoguerra Pomezia ha cambiato la sua storia di-ventando un importante centro industriale del Lazio, in virtù della sua vicinanza con Roma e dell'inclusione del suo territorio tra le zo-ne beneficiarie delle politiche di sviluppo economico dell'ente Cassa per il Mezzoggiorno. Pomezia fu inclusa nel territorio della Cassa nel 1955 in virtù del provvedimento Cervone-Villa. Il 6 maggio 1970 la frazione di Ardea si staccò da Pomezia per for-mare un comune autonomo. Dichiarare Ardea una frazione è un grave errore perché fu definita da Virgilio “Antigua” che, in latino, significa antica. Per gli uomini di quel periodo era considerato antico ciò che viene prima di Roma. Ardea quindi dominava quel territorio prima dell‟avvento di Enea il guerriero che contrapponendosi all‟audace Turno causò il declino dell‟antica città di Ardea. Città che sembra non avere storia perche, nel corso dei secoli, è stata scippata dalla vicina Roma del proprio patrimonio mitico e culturale. Il libro “ Ardea La città dei Rutuli” di Giosuè Auletta e Michele Zuccarello pubblicato nel 2010 documen-ta ampiamente l‟importanza dell‟antica città di Ardea nello sviluppo economico e culturale dell'Italia centrale.

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Il piano di sviluppo fu decisivo per la crescita della città di Pomezia; infatti, se il censimento del 1951 contò 6.005 abitanti e quarantasette attività locali con 104 addetti, quello del 1991 (gli aiuti della Cassa per il Mezzogiorno erano terminati l'anno prima) contarono 37.512 abitanti, con 537 attività per 18.943 addetti. Dalla fine degli anni ottanta la zona di Pomezia è stata interessata da un progressivo processo di deindustrializzazione che ha portato alla chiusura di numerose piccole e medie imprese, e di alcune grandi (p.es. la FEAL). Alcune grandi imprese, anche se non hanno abban-donato il territorio, hanno gradualmente ridimensionato la propria presenza. A fronte della crisi industriale si è registrato un progressi-vo sviluppo dell'economia legata al terziario e al commercio, che ha permesso alla città di consolidare la sua importanza economica in ambito regionale. A questi fenomeni economici si è aggiunto quello dell'arrivo nel territorio Pometino di nuclei familiari provenienti da Roma, costituiti soprattutto da giovani coppie, anche a causa del forte incremento dei prezzi nel mercato immobiliare romano. Ciò ha creato forti fenomeni di pendolarismo, rendendo, di fatto, Po-mezia un centro satellite della Capitale. Al 31 08 2009 Pomezia con-ta 59.866 abitanti. Questa pubblicazione, rivolta principalmente ai giovani abitanti del territorio di Pomezia, che spesso sottovalutano l‟importanza di esse-re nati e di vivere in un territorio antichissimo. Essere Pometino vuol dire farsi custodi di quei valori che animarono gli antichi abi-tanti dell‟agro pontino. Uomini e donne che con il loro lavoro, la lo-ro intelligenza e la loro arte posero le basi per la crescita e la diffu-sione di una grande civiltà, quella romana, che si diffuse in tutto il mondo. I racconti, le poesie e le immagini pubblicate vogliono essere un semplice contributo a far si che sia preservata, per le future genera-zioni, una terra ritenuta, la “madre” della grande civiltà romana.

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Nota introduttiva dell’autore.

Questa raccolta di racconti, poesie e immagini che compongono questa mia pubblicazione, vuole testimoniare il valore storico di una antica terra, spesso snobbata dai grandi circuiti turistici, ma che na-sconde un fascino primitivo e misterioso; abitata prima dell‟avvento di Enea e di Roma da uomini e donne che con il loro lavoro e l‟ingegno profuso hanno messo le basi per fare di una terra ostile e piena di pericoli, punto di riferimento per le culture di tutto il mon-do conosciuto. Il primo racconto dedicato allo sbarco di Enea è un‟interpretazione e visione, tutta personale, di ciò che accadde in quel periodo storico. Altre storie di uomini e donne, qualcuna fantastica, vogliono far co-noscere e trasmettere al lettore le sensazioni che si provano mentre si passeggia in alcuni luoghi di quest‟antica terra.

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Brevi cenni biografici dell’autore: Giulio BUONANNO, in arte Giulio BONA‟, è nato a Sant‟Antimo (NA). Ha sempre coltivato la passione per le arti, in particolare per la pit-tura e la scrittura. Nel 1999 fonda a Pomezia (RM) l‟Associazione Culturale Artetremila (www.artetremila.it). Attualmente è presiden-te del sodalizio. In quest‟ambiente, dove s‟incontrano poeti, pittori e scrittori, l‟artista matura la convinzione che il materiale scritto e che aveva archiviato piace ed inizia a pubblicarlo. Integra lo storico sito dell‟associazione con l‟apertura di nuovi spazi web tra i quali il cana-le Tv e radio che contribuiscono ad un scambio culturale tra artisti di tutto il mondo. Romanzi pubblicati: MARE NOSTRUM Libertà violata (Kimerik) LA TERZA IMPRONTA Operazione bilancia (Kimerik) JOHN SMITH Il segreto della roccia di Manitu. (E. Aletti.) AMORE TRA LE STELLE (Kimerik) PULCINELLA SI RISVEGLIA (Artetremila) Commedia

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Agli uomini e alle donne che con il loro sacrificio hanno contribuito alla crescita e al progresso del territorio dell’agro Pontino.

Alla città di Pomezia che festeggia il 73° anno della fondazione (25 aprile 20111)

Alla città di Roma che festeggia il 2764° anno della fondazione

(21 aprile 2011)

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Lo sbarco di Enea Sembrava un‟alba come tante altre quella mattina di primavera del circa 1200 a.c. I primi raggi di sole incominciavano a sfaldare la nebbia lungo la costa a sud del Lazio illuminandola a tratti e a insi-nuandosi tra la moltitudine di alberi della Silva Laurentina. Selva che si contrapponeva agli acquitrini e alla zona paludosa che occupava numerose aree della pianura che ora conosciamo con il nome di Pontina. Gli antichi abitanti di quella zona, per sopravvivere, pote-vano contare sulla grande varietà di selvaggina mentre dovevano lot-tare, costantemente, per rubare un po‟ di quella terra alla palude per dedicarla alle coltivazioni di prodotti indispensabili alla propria ali-mentazione. La bruma notturna, causata dall‟alto tasso di umidità di quei luoghi, si estendeva sino a un chilometro dalla costa e quando questa si di-radò, mettendo allo scoperto ciò che galleggiava sul mare, si udì un prolungato suono di corno. Era Cornelius che soffiava nel suo strumento, a più non posso, per avvisare gli abitanti di quel piccolo villaggio, sorto ai limiti della zo-na paludosa, che un pericolo incombeva su di loro. Cornelius aveva avvistato una piccola flotta in avvicinamento proprio verso la costa di fronte a lui. Eccitato per quella visione, continuò a soffiare nel suo corno sino a quando tutti gli uomini validi del villaggio di Lau-rentum si radunarono vicino a lui. Tutti assieme, armati di archi, lance e spade, discesero un corso d'acqua sin quasi allo sbocco. Qui si appostarono tra le dune ai due lati della foce del fiume. La leg-genda vuole che si trattasse del fiume Numicus. Dove è ora quell’antico fiume? Molti hanno risposto che corrisponde al fosso di Pratica di Mare. I più attenti hanno risposto che corrisponde al fiume Incastro. Perso-nalmente ritengo che Enea non risalì nessun fiume ma entrò sem-plicemente nella grande laguna Laurenton che a quel tempo acco-glieva con sicurezza mercanti e viaggiatori. Un luogo sicuro al riparo dalle improvvise tempeste di mare.

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Nell’antica mappa in alto è il punto segnato dalla freccia, litorale molto differen-te da quello di oggi.

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Ingrandimento dell’antica baia e

punto di approdo della flotta di Enea.

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Lo sbarco di Enea: Opera di Giulio Bona’

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Quella piccola flotta lentamente, ma inesorabilmente invase tutta la laguna. Le navi si affiancarono alla riva, vennero calate le ancore a mare e, dopo averle assicurate con corde, l‟equipaggio sbarcò. Tra di loro anche alcuni ammalati spossati dalla lunga permanenza in mare. Uomini, donne e bambini scesero dalle piccole navi e si radunarono in uno spiazzo tra le dune sorvegliati dagli abitanti del luogo nasco-sti tra gli arbusti. Colui che comandava quegli uomini venuti dal ma-re invitò tutti a pregare. Una breve cerimonia di ringraziamento agli Dei per averli protetti durante la navigazione e per averli fatti ap-prodare sani e salvi, così l‟uomo che li comandava recitò: ‹‹Noi figli di Troia ringraziamo gli dei per averci condotti sani e salvi alla terra degli antichi padri. Qui troveremo le nostre radici, fonderemo le nostre città, costruiremo altari per i nostri Dei. Ameremo la nostra antica madre terra, cresceremo i nostri figli, cosi che la stirpe di Troia non perirà mai.›› ‹‹Urrà! Urrà! Urrà! Per Enea nostro condottiero e re.›› Così si chiamava quell‟ uomo venuto da lontano e che fu osannato e acclamato re da coloro che lo accompagnavano. Proprio quando tutti smisero di applaudire una freccia, scoccata dall‟arco di Corne-lius, attraversò quello spiazzo tra le dune e si conficcò nella coscia destra del condottiero Troiano. Subito si formò un cerchio di uomi-ni e scudi a protezione di Enea.

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Che tipo di uomo era Enea?

Mercurio appare a Enea

Mercurio ordina ad Enea di lasciare Cartagine

Villa Valmarana "Ai Nani" - Vicenza Opera di Giovanni Battista Tiepolo

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Enea era spinto contro la sua stessa volontà a vagare sui mari alla ricerca di una nuova sede per il suo popolo. Profugus: la definizione va al di là della sua fuga da Troia e ne dipinge la psicologia instabile e sradicata. La coscienza lo costringe a sottomettersi agli dei, ma il sentimento gli fa percepire la durezza del proprio ruolo e la solitudine della condizione umana.

La Pietas reca con sé un grave peso, Pondus; anzi, quanto più l'uomo è Pius, tanto più sembra inchiodato ad una vita disumana. La pietas va dal "basso" (cioè dall'uomo) “all'alto" (cioè alla divinità). E poiché quella volontà divina, può essere una volontà crudele e spietata, affinché i disegni del Fato siano com-piuti, il pio Enea può essere anche un combattente o un amante spietato, quasi con un rovesciamento di significati.

L'eroe virgiliano è un personaggio complicato a differenza dell'eroe omerico che esprime un codice aristocratico: all'eccellenza della nascita corrisponde l'eccellenza del carattere. Coraggiosi, caparbi ed egocentrici, gli eroi omerici agiscono senza dubbi o contraddizioni; non seguono le regole, ma le dettano e, anzi, le incarna-no. Infatti le qualità individuali degli eroi omerici non erano mai subordinate ai bisogni della collettività a differenza dell'uomo -eroe di Virgilio che si fa porta-voce dei bisogni della comunità che sa interpretare e realizzare attraverso le im-prese eroiche al servizio del suo popolo.

Proprio il senso del collettivo caratterizza il nuovo codice eroico. Omero narra le eterne vicende degli eroi; Virgilio vuole invece indagare le motivazioni del dolore umano: mihi causas memora quo numine laeso . Il dolore colpisce tutti, neppure l'eroe è immune; anzi sembra proprio che con il dolore la divinità la faccia soffer-to oggetto di predilezione.

L'eroismo è in Omero condizioni e priori; in Virgilio è l'esito vittorioso di un lungo conflitto interiore, pagato a caro prezzo. L'episodio narrativo in cui la di-stanza fra Virgilio e Omero è più tangibile è quello della descrizione dello scudo di Enea. Lo scudo, costruito da Vulcano è un clipeo, lo scudo rotondo e metalli-co dell'oplita greco, non lo scudo ligneo e oblungo dell'esercito romano.

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Enea fugge da Troia: Opera di Federico Barocci- Galleria Borghese

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Lo sguardo ammirato di Enea è il punto di partenza della descrizione e è pro-prio l'occhio dell'eroe che dà senso alla descrizione. La differenza con Omero sta in ciò che è raffigurato nello scudo di Enea e ciò che raffigurato nello scudo di Achille descritto da omero nell'Iliade: tema della raffigurazione virgiliana è la storia della potenza romana dalle origini ai suoi tempi. La storia, perciò, entra in questo modo prepotentemente nel mondo dell'immaginario mitico; lo scudo non è tanto un'arma che consente all'eroe di proseguire l'azione, come era avvenuto in Achille, ma è il segno dell'accettazione definitiva da parte di Enea del suo desti-no, è la consacrazione ad eroe. Enea, con lo scudo, diventa il nuovo Achille, un Achille che deve combattere però , non per conseguire onore personale, ma per la realizzazione di quegli eventi che sono rappresentati sulla sua arma, per la futu-ra grandezza di Roma, la storia della quale è li raffigurata nelle sua tappe prin-cipali e più significative.

Il fatto che Virgilio non descrive le armi nell'atto della loro costruzione, come in Omero, ma nel momento in cui Enea le riceve e le osserva, sposta l'attenzione del lettore sul personaggio: la descrizione si arricchisce del punto di vista dell'eroe. Ora è pronto a sollevare sulle sue spalle il destino della sua gente e a collaborare per la gloria futura del popolo romano: il destino di Enea si compirà solo in fu-turo, quando nascerà una nuova era aurea, il presente dei contemporanei del poeta.

La distanza epica si è annullata nella consapevolezza storica. Dal mito l'eroe passa alla storia. Il materiale storico così diventa nelle mani del poeta un potente mezzo per veicolare i valori del presente L'introduzione da parte di Virgilio di più punti di vista nella narrazione lo differenzia da Omero il quale poneva il narratore esterno come "fuoco": il narratore rappresenta la verità insindacabile, eterna ed immutabile.

Molti autori, anche recenti, si sono serviti della figura dell'eroe come punto di riferimento per argomentare determinate idee. Un esempio è Ugo FOSCOLO: Nel sonetto A Zacinto , nel quale il poeta sviluppa il tema dell’esilio, canta la patria ideale, esprime il nuovo concetto romantico dell’eroe, grande per la forza e la dignità con cui sa sopportare le ingiurie della sventura, gli oltraggi della vita: la condanna al finito, che si oppone allo slancio infinito dell’io.

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Nasce la poesia dei "vinti" soccombenti e tuttavia superiori al destino. La sensi-bilità è quindi romantica: parla di una vicenda dolorosa, Foscolo definisce se stesso in relazione e contrapposizione con Ulisse. Dal paragone emerge l’eroe romantico che ha il fato avverso e l’eroe classico che ha il destino amico. Omero cantò l’esilio di Ulisse e il suo ritorno, Foscolo canta invece il suo esilio e il suo non ritorno. Anche nei Sepolcri spicca la figura di Ettore che rappresenta la fe-deltà. Infatti il poeta eternerà non solo la gloria dei vincitori ma anche quella degli sconfitti: funzione della poesia è anche ispirare la pietà per le sofferenze”.

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Enea ferito in una pittura murale di Pompei (Napoli) Museo Archeologico Nazionale

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‹‹Morte agli invasori!›› era il grido di battaglia degli abitanti di quel villaggio che, con altri sparsi in quella zona, costituivano il popolo dei Laurenti. Il primo scontro fu aspro e cruento, ma mentre si bat-teva Enea gridava:‹‹Siamo venuti in pace… Perché ci attaccate?›› Quella domanda posta continuamente rallentò la lotta sino a bloc-carla. I due gruppi restarono in attesa degli ordini dei rispettivi capi che, fermi uno di fronte all‟altro, si scrutarono. ‹‹Veniamo in pace… Non cerchiamo conquiste, ma un posto dove crescere i nostri figli›› disse Enea rivolgendosi all‟uomo che coman-dava gli assalti mentre, con la mano destra, reggeva la base della freccia conficcatosi nella sua gamba. ‹‹Perché dobbiamo credere alle tue parole straniero? Già altre volte uomini venuti dal mare dicevano di essere venuti in pace, ma poi hanno saccheggiato i nostri villaggi, rapite le nostre donne per spari-re nel nulla›› disse Cornelius. ‹‹Credete alle mie parole in nome degli Dei! Noi non siamo invaso-ri… Un nostro antenato, Dardano, prima di partire per la Grecia dove fondò la città di Troia abitava questi luoghi prima di voi e il fato ha voluto che ritornassimo alla nostra terra di origine.›› ‹‹Di quale fato parli?›› ‹‹Dopo la fuga da Troia e durante una notte del mio soggiorno a Cartagine ebbi una visione… La visione mi vedeva capostipite di una stirpe che avrebbe dominato il mondo. Lottai contro me stesso e lasciai Cartagine ferendo profondamente la regina di quella città, Didone, per andare incontro al destino. Destino che vuole l‟unione tra i nostri popoli.›› ‹‹Abbiamo avute notizie della morte di Didone, si dice che si sia lan-ciato nel fuoco per ritrovare la sua forza e dignità di regina dopo a-verla smarrita per la forte passione per uno straniero venuto da lon-tano. Sei tu dunque quello straniero?››

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Moneta raffigurante La regina Didone

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‹‹Si! Sono io… La notizia mi rattrista e prego per quella donna co-raggiosa che si è battuta con tutte le sue forze nel tentativo di con-trastare le forze divine che si contendono il mio destino.›› ‹‹Se gli Dei ti proteggono lo sapremo presto. Ora invierò un mes-saggero al nostro re Latino e sarà lui a decidere la sorte tua e del tuo popolo. Noi vi lasceremo riposare, ma sorveglieremo i vostri movi-menti in attesa di ordini.›› ‹‹Non sarà il tuo re a decidere il nostro destino, ma gli Dei e se la lo-ro volontà sarà quella di dovere combattere… Allora cosi sia!›› ‹‹Cosi sia!›› ribatté Cornelius mentre faceva cenno ai suoi uomini di arretrare. Così quegli uomini venuti dal mare potettero raccogliere legna per i fuochi, acqua da bere e cacciare selvaggina per nutrirsi. Passò una settimana senza che il re Latino intervenisse per scacciarli cosi con-tinuarono a dedicarsi alle consuete attività giornaliere. Anche quella mattina andarono alla ricerca di selvaggina, ma quel giorno c‟era an-che Enea che nonostante fosse ancora zoppicante per la ferita alla gamba, contribuì con successo a quella battuta di caccia. Infatti riu-scì a catturare una scrofa bianca dopo averla inseguito sino ad un colle dove assistette al parto di trenta maialini. Poi fu attratto da una sorgente d‟acqua naturale e successivamente da una famigliola di cinghiali ed altri animali selvatici che scorazzavano nel sottobosco. Quella serie di eventi quasi miracolosi fece riflettere molto Enea che guardandosi intorno capì che quello era il luogo ideale per fondare la sua città. Enea si inginocchio e ringraziò gli Dei: ‹‹Le fonti scorgono improvvise, le mense si imbandiscono. Oh Dei benevoli! Grazie per avermi guidato e mostrato i prodigi di questa terra. Qui fonderò la mia città, qui si compirà il fato.››

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Opera di Guido Reni (1575-1640)

Didone ed Enea

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Finito di pregare Enea si rimise in piedi e, osservato da tre uomini che lo accompagnavano, sfoderò la sua spada, l‟alzò al cielo e disse: ‹‹ Con questa spada affidatami da Paride, figlio di Priamo re di Tro-ia, traccerò i confini della nuova città di Troia.›› Enea rivolse la spada verso la terra ed incominciò a tracciare, su quella superficie vergine, i confini della nuova Troia. Quando finì si rivolse ai suoi fedelissimi e disse:‹‹Dite al nostro popolo di venire su questo colle perche da domani inizieremo a costruire una nuova cit-tà… La nostra città.››

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Enea abbandona Didone - Opera di Pompeo Batoni

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Intanto al campo del re Latino nella città di Laurentum il consiglio di guerra che discuteva da diversi giorni aveva preso una decisione. I Troiani furono considerati invasori e pertanto Latino mosse loro guerra. Erano trascorsi trenta giorni dallo sbarco di Enea quando un messaggero inviato da Latino comunicò, ai Troiani, quando deciso dal consiglio di guerra. ‹‹Non abbandoneremo questo luogo… Gli Dei non me lo permet-tono e se vorranno mettermi alla prova con una guerra io non mi sottrarrò. Comunica le mie parole al tuo re.›› ‹‹Comunicherò la vostra decisione di voler restare e di sfida al no-stro sovrano›› rispose il messaggero mentre faceva indietreggiare il suo cavallo. Enea, subito dopo la partenza dell‟ ambasciatore mandato da Lati-no, chiamò a raccolta i suoi uomini e diede disposizioni di rinforza-re le difese e di mettere sentinelle su tutto il perimetro, di quel vil-laggio, appena abbozzato. Poi mandò uomini in ricognizione per controllare le mosse del nemico. L‟inizio degli scontri non tardò ad arrivare; infatti dopo tre giorni da quella intimidazione di lasciare le coste del regno dei Latini, un eser-cito si mosse contro quel colle dove Enea e i suoi uomini avevano alzato un recinto fortificato e si erano asserragliati. L‟abilità dei sol-dati Troiani ben presto fece la differenza e l‟esercito comandato da Latino dovette indietreggiare e rinunciare ad un nuovo assalto. Così i Latini, stupiti per quella energica e valorosa reazione di quegli uo-mini venuti dal mare, pensarono che fosse meglio stringere d‟assedio il colle. I giorni passarono ed anche i mesi, ma i Troiani resistettero a quel lungo assedio. La posizione strategica, l‟abilità nel combattere, ma soprattutto la ricchezza di acqua che sgorgava natu-ralmente e l‟abbondanza di selvaggina di quel sito furono elementi decisivi che permisero ai Troiani di poter resistere ad un lungo peri-odo di assedio. Ebbe così inizio un lunga fase costellata di aspri scontri e intervallati da periodi di tregua. Latini e Troiani decisi a non recidere dalle pro-prie posizioni caratterizzarono con la loro guerra quel periodo stori-co del centro Italia.

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Morte di Didone : Giovanni Battista Tiepolo

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Durante un periodo di tregua concordato tra i belligeranti, il re Lati-no ospitò alla sua corte, ambasciatori Troiani e qui fu stipulata una pace. La pace venne suggellata con la promessa di Latino di dare sua figlia Lavinia in sposa ad Enea. A questa decisione del re Latino si oppose energicamente Amata, madre di Lavinia e moglie di Latino, che aveva sempre prediletto il giovane Turno come futuro sposo della fanciulla. A nulla servirono le proteste della donna, aizzata fol-lemente dalla furia di Aletto per ordine di Giunone, che scatena or-ge bacchiche e canta le nozze di Lavinia e Turno. Così Troiani e Latini, prima nemici e poi alleati, festeggiarono l‟unione dei loro popoli. L‟alleanza fu successivamente suggellata quando la nuova Troia fu chiamata Lavinium in onore di Lavinia.

Questo matrimonio adirò Turno, re dei Rutili (abitanti della vicina Ardea), promesso sposo della principessa Lavinia. Il re Turno chia-mò a raccolta tutti i capi delle tribù locali a lui sottomessi e mosse guerra ai Troiani.

Turno, secondo la leggenda, era anche un semidio, essendo figlio di Dauno e della ninfa Venilia; ha due sorelle: la più giovane è sposata con un rutulo di nome Numano, mentre l'altra è Giuturna, che ama-ta a suo tempo da Giove era stata da lui resa immortale. Il nome mi-tologico di Turno viene fatto derivare dal greco antico Touros, che ha significato di “Animo impetuoso”.

Turno dopo aspre battaglie si batté in duello mortale con Enea, ve-nendone sconfitto; nel drammatico duello, quando egli era già stato ferito, Enea si accorge che l'avversario indossa ancora il balteo del giovane amico Pallante, ed è per questo che l'eroe troiano, dopo l'i-niziale intenzione di risparmiarlo, spinto da un'ira vendicativa inflis-se al giovane re il colpo di grazia. La vita di Turno con un gemito svanì indignata tra le ombre.

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Enea alla corte di re Latino

Opera di Ferdinand Bol, 1661-1663

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Nel poema virgiliano, Turno è presentato come l'alter ego di Enea, un eroe segnato dal fato. È un sovrano molto amato dai suoi guerrieri e anche da quelli alleati, tra i quali ci sono i suoi due più grandi amici, il re italico Ramnete, che è anche l’augure (un sacerdote dell'antica Roma che aveva il compito di interpretare la volontà degli dèi) dell'accampamento, e Murrano, un giovane di Laurento imparentato con la famiglia del re Latino. Il suo unico detrattore è il vecchio cor-tigiano latino Drance, sostenitore di un accordo di pace tra gli italici ed Enea. Nei combattimenti Turno si batté con passione e ardore, cedendo occasionalmente alla ferocia (come nel noto episodio dell'uccisione di Pallante, al cui cadavere sottrae il balteo: per questo ornamento, come si è detto, Enea non ebbe pietà di Turno nella sfida finale.

Turno che molti descrivono come un giovane romantico e vittima predestinata di Enea è in verità un vero “guerriero italico” che più di ogni altro fa uno scempio immane di Troiani e loro alleati arrivan-do ad uccidere da solo quasi 50 nemici:

Eleonore, Lico, Ceneo, Iti, Clonio, Dioxippo, Promolo, Sagari, Ida, Antifate, Seroedone, Merope, Erimanto, Afidno, Bizia e il fratello Pandaro, Faleri, Gige, Ali, Fegeo, Alcandro, Alio, Noemone, Pritani, Linceo, Amico, Clizio, Creteo, Pallante, Stenelo, Tamiro, Folo, La-de, Glauco, Eumede, Asbite, Cloreo, Sibari, Darete, Tersiloco, Ti-mete, Fegeo, Diore, Claro, Temone, Menete, Illo, Creteo.

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Uccisione di Turno: Luca Giordano (1632-1705)

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Nella guerra contro Turno morì anche Latino, ed Enea, suo succes-sore, trasportò la sede del governo a Lavinium e fuse insieme i due popoli sotto il nome di Latini. Enea è figlio del re di Troia Anchise e della dea Venere, Lavinia ha nelle sue vene il sangue di Fauno, a sua volta discendente di Satur-no, il padre di Zeus che, scacciato dall'Olimpo e spodestato, si rifu-giò nel Lazio. Da questa stessa stirpe veniva Dardano, poi fuggito in oriente a fondare Troia. La città fondata dai due è pertanto destinata ad ospitare una stirpe assai illustre e circondata da grande sacralità. Lavinium , attuale Pratica di Mare, è quindi la culla di Roma, il luogo delle origini. “Secondo la leggenda, dopo quattro anni di regno, Enea sarebbe stato assunto in cielo tra lampi e tuoni durante una battaglia contro gli Etruschi nelle vicinanze del fiume Numico e ricevuto nell' Ollimpo insieme agli dei. È interessante notare che anche a Romolo viene decretata la stessa fine, permettendo successivamente di deificare anche Giulio Cesare e Augusto, suoi lontani discendenti. Le origini divine dei fondatori di Roma sarebbero quindi incontrovertibili. Accettando E-nea quale capostipite, si trovano Venere e Marte come antenati. Nelle leggende più arcaiche, Romolo non ha un gemello ed è figlio di Zeus; le successive elabo-razioni sono analoghe, ponendo Romolo e Remo come figli di Marte e Rea Sil-via, (in alcune versioni lei era una sacerdotessa) e perciò di discendenza divina. Un'ulteriore versione della leggenda, indica Rea Silvia come figlia di Enea e un suo nome aggiuntivo sarebbe Ilia, per ricordare il collegamento di Roma con Tro-ia ("Ilio" in greco). Enea inoltre dimostrò un grande interesse per la cultura greca.” Il mito di Enea andava diffondendosi in tutto il mondo conosciuto. Quel regno che all‟inizio comprendeva solo un piccolo colle ora dominava tutto il centro Italia e comprendeva importanti città e luoghi sacri: Tusculum, Aricia, che vide la sconfitta degli Etruschi di Porsenna ad opera dei Latini e dei Cumani; Lavinium , dove sbarcò Enea e luogo erede della mitica Laurentum, centro religioso famo-sissimo della tribù dei Laurentes; Horta (Orte); Tibur (Tivoli); La-

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nuvium e Velitrae, centri collinari posti nelle vicinanze del Nemus Dianae (Nemi); Ardea, capitale dei Rutuli; Antium e Satricum, centri marittimi; Circeii e Tarracina; Cora (Cori), Norba (Norma) e Signia (Segni)al confine con gli Ernici, Collatia (Castelverde); Gabii, luogo sacro; Praeneste (Palestrina), no-ta per le sue tombe; Nomentum, Fidenae, Ficulea (sulla via Nomen-tana), Bovillae, Aefula, Pometia, Tellanae, Caenina, Corniculum, Medullia, Ameriola, Ficana, Anagnia, Setia (Sezze). La stirpe di Enea con l‟aiuto degli Dei Penati dominò quelle terre gettando le basi per una grande crescita culturale di tutto il centro Italia. L‟alba di Roma era cominciata; infatti dopo 450 anni dalla fondazione di Lavinium fu fondata, dai discendenti di Enea, Romo-lo e Remo, Roma. La città che avrebbe dominato tutto il mondo conosciuto.

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Dove fu fondata Roma?

Roma nell'anno della sua fondazione, nel 753 a.C

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Ha scuola ci hanno insegnato che Roma nasce sul colle Palatino; in effetti sul quel colle si sono trovate le tracce di capanne che costi-tuivano un nucleo abitativo della prima età del ferro e sarebbe rima-sto un piccolo villaggio se nelle vicinanze non ci fosse stato il Teve-re. Proprio in quel luogo, dove c‟è l‟isola Tiberina, unica possibilità di attraversare quel fiume; è qui che nasce Roma.

Quando ce un incrocio di strade, un ponte, un luogo dove poter guadare il fiume la gente si ferma e si incontra; sorgono mercati spontanei e punti di scambio di merci. Molto importante per lo svi-luppo di quel punto d‟incontro è la manutenzione del ponte; una organizzazione che consente il proseguo delle attività attorno ad es-so. In antichità tutto quello che era utile per il popolo diventava sa-cro. La persona che era incaricata di custodire e proteggere il ponte veniva eletto, a Roma, ad autorità sacrale e chiamato “Pontifex”.

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L’isola Tiberina raffigurata in una antica stampa.

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L‟isola Tiberina è un isolotto basso e allungato; circa 300 metri per 80 che sorge nel Tevere, fra i ponti Garibaldi e Palatino. Quell‟insolita isola stimolò le fantasie dei romani che gli intesserò attorno varie leggende. La sua forma simile a quella di un grande barcone, è legata, secondo una leggenda, all'affondamento di una nave, sottolineata in passato dal rivestimento di travertino che la circondava, di cui rimangono notevoli resti, il simulacro del natante aveva nel mezzo un obelisco rappresentante l'albero maestro. Mentre, secondo un'altra leggenda, la sua origine era dovuta all'accumularsi del fango sul grano dei Tar-quini gettato nel fiume dal popolo dopo la loro cacciata. L'isola era sacra al culto di Esculapio, dio della medicina, a cui fu dedicato nel 289 a.C. un tempio ove oggi è la chiesa di San Barto-lomeo, eretta da Ottone III, rifatta tra la fine del '500 e l'inizi del '600, da cui l'isola viene comunemente detto di San Bartolomeo. Secondo una leggenda all'alba di un giorno d'agosto del 293, una nave romana risale le rive del Tevere con a bordo un prezioso cari-co: un'anfora contenente un serpente che il Console Quinto Oguino ha rapito dal tempio di Esculapio, dio della medicina, che sorge nel-la antica città greca di Epidauro. Giunta all'ultima ansa del Tevere nella strettoia tra l'Aventino e Trastevere, il serpente esce dall'anfora e, tra lo stupore dei romani, scivola nel fiume, lo attraversa e va a nascondersi tra i canneti dell'isola. Anziché una sventura la cosa vie-ne interpretata come un segnale divino: è qui che il dio Esculapio vuole il suo tempio. In un bassorilievo sulla fiancata dell'isola si ve-de ancora il serpente di Esculapio. Il serpente, simbolo vivente del dio è, secondo i romani, l'ultima speranza per liberarli dalla pestilenza, per cui per consultazione dei Libri Sibillini fu introdotto il culto di Asclepio, dove fu eretto un tempio a Esculapio, cui affluivano i malati per essere risanati dal dio guaritore. La vocazione di accogliere gli infermi durò nei secoli, tra-sformandola in lazzaretto durante la peste del 1656 e oggi in sede dell'ospedale dei Fatebenefratelli costruito nel 1584, uno dei più an-tichi ospedali del mondo.

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L'isola è unita alla riva sinistra dal ponte Fabricio (62 a.C.), il più an-tico di Roma, dopo Ponte Milvio, con le erme quadrifronti alla sue quattro estremità (e perciò detto Quattro Capi, o ponte giudeo per-ché gli ebrei lo attraversavano per rientrare nel Ghetto e alla riva de-stra, Trastevere, dal ponte Cestio (I secolo a.C.), restaurato nel 370 d.C.e rifatto nell'800 mantenendo d'antico solo l'arcata centrale. L‟isola Tiberina quindi era uno dei pochi punti fermi in una zona paludosa che consentiva un facile attraversamento per tutto ilo cor-so inferiore del fiume Tevere. Romolo e Remo, secondo la leggenda, erano figli di Marte e di Rea Silvia, discendenti di Enea e sono, nella tradizione mitologica roma-na, due fratelli gemelli, uno dei quali, Romolo, fu il fondatore epo-nimo della città di Roma e suo primo re. La data di fondazione è in-dicata per tradizione al 21 aprile 753 a.C. (detto anche Natale di Ro-ma e giorno delle Palilie). Esistono innumerevoli versioni della leggenda di Romolo e Remo e della fondazione di Roma, tutte tese alla glorificazione degli antenati dei Romani e della famiglia Giulia (gens Julia). Ci sono stratificazio-ni tra diverse leggende, dettagli diversi e "rami laterali", di volta in volta tesi ad aggiungere (o togliere) onore e diritti ai Romani. La leg-genda della fondazione di Roma è riportata dallo storico romano Ti-to Livio nel libro I della sua Storia di Roma. Di essa riferiscono anche Dionigi di Alicarnasso, Plutarco, Varrone. Questo racconto è da sempre stato ritenuto una favola, risalente al periodo fra il IV e il III secolo a.C. Per molti critici la città di Roma si era addirittura formata soltanto centocinquanta anni più tardi, all'epoca dei re Tarquini (fine del VII secolo a.C.). Tuttavia, sul colle del Palatino, durante dei lavori esplorativi, sarebbe stata ritrovato il lupercale, un locale sotterraneo di epoca romana, a circa 15 metri dalle fondamenta della villa di Augusto. Tale struttura sarebbe iden-tificabile con la grotta-santuario dove i due leggendari figli di Marte e Rea Silvia, sarebbero stati allattati dalla leggendaria lupa.

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La lupa capitolina v secolo a.C.

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Le rive di Enea. Come sono ora quelle spiagge che vide Enea tanti secoli fa? Nella foto pubblicate nelle pagine successive, sono raffigurate tratti del litorale a sud di Roma dove si svolsero gli eventi legati alla leg-genda di Enea. Luoghi ora invasi da una lunga diga fatta di cemento; il risultato di lunghi anni di speculazione edilizia. L‟urbanizzazione selvaggia delle coste che adesso deve fare i conti con l‟inevitabile innalzamento del livello dei mari. L‟erosione dovuto a questo particolare fenomeno è evidente in mol-te zone del mondo e in alcuni casi sta provocando la scomparsa di intere isole; il destino delle isole Carteret, al largo della Papua Nuo-va Guinea è segnato e solo ora ci si rende conto di quale paradiso il mondo ha perduto. Deve fare un certo effetto vedere risucchiare i luoghi in cui si è nati e vissuti dalle acque circostanti. Ma di quegli atolli in mezzo all'Oceano non esiste più nulla, se non un miracolo, che possa fermare le onde. Alle Hawaaj ci hanno provato, hanno tentato di salvare le isole dove c'era più turismo, ma sebbene abbiano eretto muri ed altri accorgi-menti è difficile fermare le onde, si tratta solo di rinviare l'inevitabi-le. Adesso tocca agli abitanti delle Carteret, i primi profughi ambien-tali, abbandonare le loro case a causa del perdurare delle problema-tiche ambientali che affliggono da tempo le loro isole. Sebbene da anni gli abitanti, in maggioranza indigeni, abbiano provato a costrui-re barriere protettive con muraglie e piante di mangrovia, nulla pos-sono più ora. Le alte maree, provocate dal riscaldamento degli ocea-ni, continuano a sommergere pezzo per pezzo coste, spiagge, case ed orti. Così, dopo Lohachara, che è stata inghiottita dal mare più in fretta del previsto, adesso tocca a queste isole perdute nel Pacifico pagare a caro prezzo la deficienza umana (leggasi global warming). L‟avanzata delle acque è implacabile: l'oceano sta vincendo la sua partita, sommergendo giorno dopo giorno gli atolli, che tutti insie-me equivalgono alla superficie di ottanta campi di calcio.

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Di questo paradiso sulla Terra fagocitato dall'Oceano, l‟uomo dovrà scordarsene, così come degli atolli vicini, abitati da altre tremila per-sone costrette anche loro ad evacuare. Secondo le stime, le isole Carteret spariranno entro il 2015. Alla radio australiana, Raymond Masono, il vice amministratore del governo autonomo di Boungaville, ha annunciato che l‟acqua salata ha già invaso gran parte delle fonti d‟acqua dolce ed ha distrutto le coltivazioni, rendendo inevitabile l‟evacuazione della popolazione e il trasferimento proprio nell‟isola di Bouganville, 100km più a sud. Ostia, Torvajanica, Ardea ed altri comuni del litorale Tirrenico do-vranno fare i conti per molti decenni con questo fenomeno; le pro-teste di coloro che hanno volontariamente costruito, con lo sciagu-rato consenso degli amministratori, a pochi metri dalla battigia non fermerà il mare.

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Lungomare di Torvajanica.

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Erosione della costa a Torvajanica

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Erosione della costa: sullo sfondo fabbricato costruito sulla battigia.

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Edifici a pochi metri dalla battigia.

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Foto: aviazionecivile.com - Lungomare Tor San Lorenzo, Ardea, Torvajanica.

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IL vecchio ulivo Era un‟ alba di primavera quando Maria e Giovanni si incontrarono vicino al vecchio ulivo che segnava il confine dei poderi dei rispetti-vi genitori; eredità dei primi coloni che con fatica e amore avevano reso quelle terre fertili. Il territorio di Pomezia come tanti altri co-muni a sud di Roma, era infatti cresciuto grazie all‟impegno di quei primi uomini e donne e ora i due giovani godevano di quei beni frutti dei sacrifici fatti dalle tre precedenti generazioni che gli con-sentivano agiatezza economica e la possibilità di poter vivere una vita serena. Tuttavia, a Giovanni e Maria questo non bastava, loro volevano di più. Quel mattino avevano deciso di dare una svolta alla loro vita. Ave-vano organizzato un viaggio che prevedeva un giro turistico dell‟Europa a bordo della potente moto di Giovanni. Viaggio con-trastato energicamente dalle rispettive famiglie, ma nonostante ciò loro ormai avevano deciso. Erano le otto del mattino quando il rombo del motore dell‟ Aprilia echeggiò lungo il sentiero che deli-mitava i due poderi. I ragazzi si lasciarono alle spalle quell‟ ulivo, compagno di giochi d‟infanzia, che diventò sempre più piccolo sino a confondersi con la campagna. Dopo dieci minuti erano già sulla rampa che li immetteva nella via Pontina direzione nord. Il centauro, con una accelerata, portò la moto ad una velocità adeguata al traffico che in quel momento af-follava la statale. Maria era contenta di questa loro decisione e si stringeva, felice, ai fianchi di Giovanni. I due, corpo unico con quel mezzo meccanico, zigzagavano tra le auto, i camion e altri mezzi che viaggiavano nella stessa direzione su quella lingua di asfalto. Dopo circa sessanta minuti, varcarono il casello dell‟autostrada del sole a nord di Roma; la striscia di asfalto era più larga, con poco traffico e quel senso di libertà, tipico di chi viaggia in moto, si mani-festò con più forza così Giovanni, istintivamente, diede gas al moto-re. Quella massa unica di metallo e carne prese a viaggiare a cento-quaranta chilometri orari.

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Un vecchio albero di Ulivo

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I raggi del sole venivano riflessi dai caschi dei ragazzi e dalle parti metalliche della potente moto mostrando a chi osservava, con le spalle al sole, solo una scia luminosa. Per circa venti minuti la velo-cità restò invariata sino a quando Maria suggerì: ‹‹Al prossimo Auto-grill fermiamoci e facciamo colazione››. Giovanni acconsentì e ridus-se i giri del motore portando la moto sotto i cento chilometri orari. Un cartellone stradale segnalò un punto di ristoro a circa tremila metri di distanza e, dopo pochi minuti, la moto si fermò nella sta-zione di servizio. Dopo aver fatto il pieno parcheggiarono la moto e si diressero al bar. Proprio davanti al bar sostavano altre quindici moto e, fermi in circolo vicino ad esse, un folto gruppo di giovani che discutevano animatamente sull‟itinerario da percorrere. Il passaggio di Maria pla-cò per alcuni secondi quella discussione dato che gli sguardi dei ra-gazzi furono tutti per lei. I lunghi capelli neri, sciolti sulle spalle, incoronavano quel viso sfac-ciatamente perfetto. Alta un metro e settanta, con tutte le curve al posto giusto, non passava mai inosservata. Giovanni, che cammina-va due metri avanti, non si accorse di nulla ed entrò nel locale segui-ta dalla sua amorosa. Qui fecero colazione seduti ad un tavolino e conversarono sul loro viaggio e sulle città da visitare. Dopo circa venti minuti uscirono dal bar e ripresero la marcia verso nord. Dal piazzale dell‟Autogrill, altre quindici moto schizzarono via immettendosi nella scia della moto dei due ragazzi partiti poco pri-ma. Il rombo assordante viaggiava con quella massa di metallo in movimento echeggiando nella valle adiacente all‟autostrada. Rumore che incuteva timore agli automobilisti che percorrevano la stessa ar-teria e che li costringeva a rallentare quando venivano sorpassati, sia da destra che da sinistra, da quella mandria sciolta. Davanti, a circa tre chilometri di distanza, Maria e Giovanni viaggia-vano attorno agli ottanta chilometri orari senza curarsi di ciò che avveniva alle loro spalle. Ma dopo cinque minuti, i primi due moto-ciclisti del gruppo avevano raggiunto i due giovani e incominciaro-no a sfiorare la moto con a bordo e Maria. ‹‹Che cazzo fate!›› escla-mò Giovanni, mentre si accostava sulla destra senza diminuire la

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velocità. Poi diede uno sguardo alle sue spalle e vide quella massa scura avvicinarsi sempre di più. Non ci pensò due volte e ordi-nò:‹‹Maria! Tieniti stretta!››. Appena il gruppo delle moto si avvicino alle sue spalle, diede gas al motore e in pochi secondi portò la sua moto a circa centocinquanta chilometri orari. Quella reazione scate-nò un inseguimento folle da parte del “branco”. I guidatori delle moto, indispettiti da quella reazione, al grido:‹‹Prendiamoli! Pren-diamoli!›› trovarono un pretesto per movimentare la loro giornata fatta solo di vagabondaggio sulle strade italiane. ‹‹Ho paura! Chiediamo aiuto!›› esclamò Maria mentre, stretta alla vita di Giovanni e singhiozzando, non osava guardare avanti e tantome-no indietro. Giovanni la rincuorò confidando nella propria abilità di guidatore e dell‟affidabilità della propria moto. L‟inseguito e gli inseguitori, come uno sciame impazzito, percorre-vano l‟autostrada a folle velocità in un gioco pericolosissimo, morta-le. Gli automobilisti, che venivano sorpassati da ogni lato, reagivano suonando i clacson in segno di monito per quella sciagurata corsa messa in atto dai piloti delle moto. I tre chilometri di vantaggio della coppia in fuga, a tratti diminuivano per poi assestarsi nuovamente. ‹‹ Tra poco raggiungeremo il casello di Fiano Romano e approfitte-remo del Telepass per guadagnare ulteriore vantaggio›› disse Gio-vanni, poi continuò esclamando:‹‹Ma guarda che stronzi! Vedi se ral-lentano e ci lasciano in pace!››. ‹‹ Pensa alla strada ora, stai calmo!›› gli consigliò Maria. Quando giunsero allo svincolo che portava al casel-lo di Fiano Romano, la moto di Giovanni rallentò solo per curvare e arrivare al casello a velocità moderata per poi riprendere velocità appena superato il varco. Come aveva previsto Giovanni la massa di acciaio e carne che li in-seguiva fu costretta ad arrestarsi alle soglie del casello. Così come i cavalli sferzati da una corsa, sbuffano appena si fermano, anche i motori delle moto, costretti improvvisamente ad un regime di giri minimo, emisero suoni irregolari di affaticamento. Gli inseguiti po-tettero finalmente effettuare la grande curva e la successiva rotatoria alle porte della cittadina romana con grande calma. Imboccarono la via Tiberina e successivamente via Civitellese che li condusse alla

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piccola cittadina medievale di Civitella San Paolo. Giunti nella piaz-za principale, si fermarono e potettero rincuorarsi a vicenda e ripo-sare. Maria, molto scossa e ancora tremante, si tolse il casco e si but-tò nelle braccia di Giovanni e implorò:‹‹ Ti prego non ripartiamo subito aspettiamo qualche ora quì››. La richiesta di Maria fu subito condivisa da Giovanni che senza perdere tempo si dette da fare per trovare un posto tranquillo e nascosto dove parcheggiare la moto. Poi entrarono in una locanda dove potettero ristorarsi. L‟ambiente tranquillo e rilassante contribuì a calmare Maria. Ora non tremava più, anzi sorrideva alle battute di Giovanni dette proprio per distrarre la sua amata. I due ragazzi restarono in quel luogo non per un ora, ma per tutta la giornata. Visitarono l‟antico castello ed altri edifici medievali e a tarda sera alloggiarono nella lo-canda. Quella notte si amarono intensamente, più volte si unirono liberi e coscienti, mossi da quel forte desiderio reciproco, da quella sensazione che intorpidisce la mente e che spinge gli uomini a fare cose inimmaginabili per unirsi alla persona amata. L‟amore che fa scalare le montagne, che fa attraversare gli oceani, l‟amore che muove la vita era dentro di loro. Scoprirono quel mon-do fatto di odori e di sensi, quel mondo che avrebbero conservato nei loro cuori per sempre. All‟alba si svegliarono due persone adulte e non più due ragazzi. Quella esperienza d‟amore aveva segnato i loro corpi, le loro menti e ripresero il viaggio coscienti di quel cam-biamento interiore che li aveva resi adulti. I due ragazzi , nel loro vi-aggio, toccarono le più importanti città dell‟Europa e mostrarono il loro amore a tantissime persone. Volti anonimi che videro la felicità di quei due giovani in viaggio, manifestarsi tantissime volte. Si bacia-rono e si abbracciarono davanti ai più bei monumenti d‟Europa. ‹‹Per favore ci scatta una foto?››. Questa la domanda fatta più frequente a svariate persone. Volevano delle foto da riguardare a casa a testimonianza di quel viaggio tanto desiderato e che ora stavano vivendo. Dopo aver trascorso quindici giorni in giro per le strade d‟Europa, decisero di ritornare a casa. Il sedicesimo giorno varcarono la frontiera Italiana direzione sud. Nei loro occhi e nei loro cuori erano custoditi ormai le immagini dei pa-

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esaggi e delle grandi opere degli uomini custodite nei musei e nelle città per le future generazioni. Il sole era basso all‟orizzonte, quando la moto guidata da Giovanni uscì dal grande raccordo anulare e im-boccò la via Pontina. La potente moto viaggiava a ottanta chilometri orari e i due ragazzi poterono così gustare la bellezza di quella cam-pagna a sud di Roma. Mentre viaggiavano, Maria raccontava a Gio-vanni di quella campagna:‹‹Devi sapere che nelle campagna Pontina si veneravano gli dei Penati portati da Troia e la dea del fuoco e del focolare Vesta. In queste campagne ebbe inizio la storia di Roma.›› Giovanni, per un attimo si girò e sorrise a Maria, poi esclamò:‹‹ Tu sei la mia dea!››. A quella affermazione Maria appoggiò il capo sulla spalla di Giovanni e sussurrò:‹‹Ti amo!››. I due ragazzi, felici per quella forza universale che li univa, pieni di un desiderio reciproco raggiunsero la strada polverosa che li portò al vecchio ulivo. Decisero di fermarsi sotto al loro vecchio amico che li aveva visti crescere. Il sole stava tramontando, gli ultimi raggi il-luminavano la cima di quel albero che come un vecchio approfittava di quel tepore offerto dalla natura per caricarsi e affrontare la lunga notte. Maria, dopo essersi tolta le scarpe, salutò quegli ultimi raggi imitando un ballo ancestrale. Ruotava lentamente su se stessa e muoveva la testa a scatti trasci-nandosi dietro i lunghi capelli. In simbiosi con la natura muoveva il suo corpo disegnando armoniose curve e Giovanni, seduto e con la schiena appoggiato al fusto dell‟ulivo, osservava incantato la sua donna. Le foglie dell‟ulivo, mosse da una tiepida brezza, accompa-gnavano quel ritmo. Ogni tanto piccole raffiche di vento scuoteva-no le foglie come a farle liberare un applauso per quella danza offer-ta da Maria alla natura. Giovanni manteneva il ritmo battendo le mani sulle ginocchia, incitando:‹‹Balla! Balla Maria!››. Maria inconte-nibile, felice di quel viaggio appena concluso e contenta di trasmet-tere la sua gioia a Giovanni, incominciò a spogliarsi. Lentamente, ma senza mai fermarsi, si tolse uno ad uno tutti gli indumenti rima-nendo praticamente nuda. Le prime ombre della notte incomincia-rono a vestire quel corpo, ma la luce riflessa della luna, appena sor-ta, intraprese un braccio di ferro con quelle ombre. I due conten-

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denti dopo quindici minuti di lotta, stipularono una tregua, consen-tendo la visione di quel corpo in movimento, ai pochi spettatori di quella piccola valle. Oltre a Giovanni, la luna, l‟ulivo, alcune cornac-chie, tre passeri e un gruppo di conigli selvatici, appostati poco di-stanti, come se fossero in tribuna d‟onore. Ecco gli unici privilegiati spettatori di quella danza d‟amore. La danza durò per altri intermi-nabili dieci minuti, sino a quando la ragazza, stanca, si lasciò cadere a terra tra le braccia di Giovanni. Il corpo caldo e sudato della ra-gazza riscaldò il petto nudo del suo uomo e stretti, l‟uno sopra all‟altro, incominciarono a rotolarsi sulla nuda terra protetti dal loro vecchio amico. Quel vecchio albero di ulivo aveva visto altre passioni manifestarsi vicino alle sue radici dalle prime generazioni di coloni, ma a quella dimostrazione totale di amore non aveva ancora assistito. Nel passa-to le passioni alle quali aveva fatto da spettatore, erano state unica-mente intrecci di sguardi e solo raramente aveva visto innamorati lasciarsi andare ad effusioni più spinte. L‟ulivo, frutto dell‟amore della terra per gli uomini, nel suo scuotere le fronde sembrava ap-plaudire a quella libera, spontanea dimostrazione d‟amore tra i due giovani. Nessuna costrizione e tanto meno violenza turbava quel ta-lamo naturale. ‹‹Ecco l’amore vero!›› Sembravano esclamare l‟albero, la luna, e gli altri momentanei e involontari spettatori. Dopo essersi amati, trascorsero la notte accanto all‟amico albero nei loro sacchi a pelo, protetti da quella natura amica. La luce del giorno e il cinguet-tio dei passeri annunciarono l‟inizio del nuovo giorno e la fine di quella notte di passione. Giovanni fu il primo a svegliarsi e subito dopo Maria. Ancora intor-piditi dal sonno, lentamente, si alzarono e si riassettarono. Poi si guardarono intorno e videro, in lontananza, il furgone guidato dal padre di Maria che, come ogni mattina, percorreva quel viottolo che delimitava i poderi delle rispettive famiglie dei giovani per recarsi al mercato ortofrutticolo di Aprila per portare i frutti della terra, del proprio lavoro. Istintivamente Maria si nascose dietro al largo fusto dell‟ulivo tirando a sé Giovanni. ‹‹Non facciamoci vedere! Per carità Giovanni nasconditi!››. Le rispettive famiglie non condividevano

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quel rapporto che si era instaurato tra i due giovani. Più volte ci fu-rono discussioni tra i rispettivi genitori che, a più riprese, avvelena-rono la serenità di quelle famiglie. ‹‹Tutta colpa di quella vecchia di-sputa sul confine dei due poderi. Però se ci sposiamo credo che tut-to si appianerà›› disse Maria mentre faceva accucciare Giovanni per non essere visti. ‹‹ Credo proprio che tu abbia regione e questa sarà la prima richiesta che faremo appena tornati a casa››. I due ragazzi convinti del loro proposito, salirono sulla moto e percorsero il breve tragitto che li condusse a casa di Giovanni . La madre di Giovanni li vide arrivare nel cortile antistante la casa colonica e subito esclamò:‹‹ Ma bravi! Bravi! Siete andati via senza il nostro consenso… Sentirai ora che ti vede tuo padre!›› poi aggiunse rivolgendosi a Maria:‹‹ Bella signorina è questo il modo di compor-tarsi?››. La ragazza con tono deciso rispose:‹‹ Io amo Giovanni e ab-biamo deciso di sposarci con o senza il vostro consenso!›› ‹‹Ah! Questa è bella! E‟ meglio che faccio finta di non averti senti-to!›› Carmela, così si chiamava la madre di Giovanni, si allontanò dai due sbottando e chiamando a gran voce il marito:‹‹ Mario! Mario! Vieni a sentire questi!››. Il padre di Giovanni , alle grida della moglie , uscì dal fienile e dopo averla ascoltata si mise ad infierire contro il figlio e la ragazza. A quella discussione si riunirono altri familiari e successivamente la madre di Maria, Rosa chiamata telefonicamente da un fratello di Giovanni. Rosa, in compagnia della mamma anziana, e di altri figli contribuirono ad alimentare quella discussione che per alcuni tratti sembrò degenerare. Tutti contro tutti e principalmente contro i due ragazzi colpevoli so-lo di amarsi. Quando le cose stavano per mettersi al peggio, quando alle parole si stava per passare alle mani un grido di intimidazione echeggiò nella campagna:‹‹ Fermatevi! Razza di farabutti!››. Quella confusione aveva attirato l‟attenzione del nonno di Giovanni che stava nell‟orto poco distante a seminare la lattuga e con tono deciso e con l‟autorità di un saggio continuò domandando: ‹‹ Che avete intenzione di fare? Volete contrastare la natura? Volete decidere voi per loro? Chi siete voi per dire a questi ragazzi con chi

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e quando si devono sposare? Le antiche tragedie di giovani innamo-rati non vi hanno insegnato niente?››. A quelle domande restarono tutti a bocca chiusa e ammutoliti quan-do il vecchio aggiunse:‹‹ In verità vi dico che se direte ancora una parola contro questi due ragazzi, stesso oggi andrò dal notaio e la-scerò tutta la mia terra a loro.›› A quella minaccia i genitori di Gio-vanni e gli altri figli non osarono dire più niente, capendo a quali brutti risvolti poteva spingere i ragazzi la loro opposizione. La nonna di Maria e il nonno di Giovanni si guardarono negli occhi e rammentarono la loro infelicità patita a causa dei comportamenti dei propri genitori. Una lacrima bagnò il viso pieno di rughe della vecchia, mentre gli occhi del vecchio diventarono rossi. Il vecchio saggio distolse lo sguardo dalla donna e lo rivolse verso il vecchio ulivo che come lui stava a guardia di quella terra e disse ai ragazzi: ‹‹ Andate tranquilli, nessuno vi farà più del male. Crescete nel bene e amate e rispettate sempre questa terra››. I due ragazzi si strinsero al vecchio e lo ringraziarono per il suo saggio intervento. Poi mano nella mano si allontanarono e si diressero verso il vecchio ulivo.

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Gita al castello.

Quella mattina di primavera alle 06.30, come avevano deciso la sera prima, Andrea, Assunta, Annarella, Peppino e Maria si incontraro-no davanti al bar di Romoletto a Torvajanica. Qui consumarono una bella colazione; cornetto, cappuccino e cafè. I cinque amici, come avevano organizzato altri fine settimana e al contrario delle abitudini dei propri coetanei, preferivano trascorrere il tempo libero al contatto con la natura e nello stesso tempo visitare castelli e resti del passato. Quella mattina avevano deciso di visitare l‟antico castel-lo di Pratica Di Mare.

“Il castello Borghese di Pratica di Mare segue le vicende del piccolo borgo della campagna romana di cui fa parte. Il borgo ed il castello sorgono in uno dei tratti più affascinanti della campagna limitrofa al litorale romano, nei pressi dell’antica città di Lavinium e a circa 5 km dal mare. Prime notizie relative ad una qualche incerta forma di fortificazione risalgono al VII-VIII secolo, poi confermate in documenti relativi alla menzione di un Castrum Pratica. Il borgo, probabilmente fortificato, venne concesso da papa Mariano I tra l’882 ed l’884 ai monaci di San Paolo di Roma e a questi rimase, come attestato da una bolla di papa Gregorio VII sicuramente fino alla fine dell’XI secolo e, con fasi alterne fino alla prima metà del Trecento. Una prima fortificazione dovrebbe essere rela-tiva proprio a tale periodo e consisteva in un’altissima torre di avvistamento, ol-tre più di 40 metri, purtroppo oggi scomparsa a causa dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, mentre poco si conosce della costruzione del castello. Con lo spostamento della sede papale da Roma ad Avignone, borgo e torre ven-nero contesi tra numerose famiglie nobili romane, fino a passare nel 1432 ai Capranica e nel 1526 ai principi Massimo. A tale periodo risale l’ambizioso progetto di una rifondazione del borgo, firmato da Antonio da Sangallo il Gio-vane, e che interessò sicuramente anche il primo manufatto castellare del trecento – quattrocento. Altri modificazioni furono probabilmente realizzati dopo l’emanazione della bolla papale di papa Pio V del 1567, che comandava delle fortificazioni costiere a seguito delle frequenti scorrerie piratesche lungo la costa tirrenica, una delle quali, nel 1588, interessò anche il borgo di Pratica di Mare.

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Nella prima metà del Seicento il castello ed il borgo passarono ai Borghese che provvidero a ristrutturare il borgo e a fortificare il castello. In tempi più recenti il castello cessò di assolvere completamente alla funzione militare e difensiva e ven-ne trasformato in palazzo, pur mantenendo alcune particolarità originali. Oggi il castello, situato al centro del borgo, si presenta in forma quadrangolare, con resti di una torre con beccatelli e merli ed un corpo di fabbrica più recente tra-sformato ed ingentilito dall’apertura di numerose finestre che ne hanno snaturato l’architettura originale.”

Appena finirono di fare colazione salirono nell‟auto di Andrea e si diressero al Castello di Pratica di Mare. Una luogo d‟Italia che offre moltissime possibilità di svago a contatto con la natura e l‟occasione di assaggiare antichi sapori. Entusiasti per quella scelta, in allegria, si allontanarono dal litorale laziale e dopo circa dieci minuti giunsero in vista dei Colli di Enea; colli che un tempo erano dedicati alla col-tura del grano e che negli ultimi anni hanno subito l‟invasione del cemento.

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Colli di Enea-1980: Opera di Giulio Bonà-

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Dopo qualche minuto giunsero al castello ed entusiasti entrarono nell‟antico maniero. Salirono ai piani alti percorrendo una lunga rampa di scale. Annarella fu la prima a varcare la soglia di quella stanza situata all‟ultimo piano; sulla parete sinistra un quadro di no-bildonna e sulla destra quello di un nobiluomo, sulla parete centrale un quadro raffigurante un gruppo di persone e per terra una cassa-panca. Al centro della stanza un tavolo con cinque sedie. Sopra al tavolo due candelabri. ‹‹Forza razza di rammolliti, abbiamo fatto solo cento gradini!›› e-sclamò Annarella a voce alta. ‹‹Cento gradini!... Io ne ho contati mille... E tutta la strada a piedi per arrivare al castello?›› disse Andrea barcollando. Nel frattempo giun-sero gli altri ragazzi che sbuffando si sistemarono attorno al tavolo. ‹‹E che saranno mai cento scalini, voi uomini sapete solo fare gli sbruffoni... Appena incontrate qualche piccola difficoltà fate subito i difficili›› Annarella avvicinandosi ad una finestra e guardando fuori continuò dicendo: ‹‹ E poi non vale la pena fare un po‟ di sacrificio per questo bellissimo panorama... Per questo splendido castello.››

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Castello di Pratica di Mare

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‹‹Sarà come dici tu, ma io mi sento stanchissimo... Ho le gambe flo-sce›› rispose Andrea sedendosi sulla cassapanca, poi rivolgendosi agli amici domandò:‹‹ E… Voi come vi sentite?›› ‹‹Stanchi...stanchissimi!›› risposero in coro Maria, Assunta e Peppino ‹‹Ho i crampi allo stomaco… E da qui non mi muovo se non mi ri-vengono le forze›› affermò Maria. ‹‹Sei la solita ficosecco!›› esclamò Annarella, stizzita e additando Ma-ria. ‹‹Noi donne siamo fragili e non capisco dove tu prendi tutta questa energia... A volte sembri un maschiaccio›› intervenne Assunta rivol-gendosi ad Annarella, ma guardando Peppino. ‹‹In questo momento sono un maschiaccio un po‟ stanchino... An-narella è una ragazza abituata agli sforzi; pratica la pallavolo, corsa campestre e a casa aiuta il padre nei campi›› affermò Peppino. ‹‹Annarella non è una donzella, ma un mulo›› incalzò Andrea. ‹‹Mulo ci sarai tu... Io mi mantengo solo in forma›› ribatté Annarella. ‹‹Vedo!... Ammiro le tue grazie e rimango estasiato›› affermò Andrea avvicinandosi e sfiorando il corpo di Annarella. ‹‹Vai via sbruffone!›› esclamò Annarella mentre con una mano allon-tanava Andrea. ‹‹Io vi consiglio di mangiare qualcosa›› disse Assunta mentre tirava fuori dallo zaino una busta. ‹‹D‟accordo!›› concordò Maria mentre frugava nel suo zaino. ‹‹Ottima idea!›› esclamarono in coro Peppino e Andrea. ‹‹Poveri bambini stanchi hanno bisogno della pappa›› disse Annarella con ironia. ‹‹Si! Siamo tanto stanchi, la mamma ci dice di mangiare tanto, tanto, tanto›› rispose Andrea con ironia poi cambiando tono di voce sug-gerì ad Annarella:‹‹ Faresti bene a mangiare qualcosa anche tu per-ché con questo caldo il cibo non si manterrà a lungo.›› ‹‹Va bene!... Va bene!›› rispose Annarella convinta. ‹‹Ho portato pollo, patatine fritte e tanta frutta›› disse Maria. ‹‹Io una bella frittata di spinaci e tu?>›› domandò assunta rivolgen-dosi a Peppino.

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‹‹Una torta al limone e frutta secca.›› ‹‹A me la torta al limone piace tanto›› affermò Andrea. Annarella, Maria, Assunta e Peppino, quasi simultaneamente e con sguardo minaccioso rivolto ad Andrea dissero:‹‹Anche a me piace la torta al limone.›› ‹‹Ho portato una caciotta e pure del vinello che solo papà sa fare›› informò Annarella. ‹‹Se è quello che ho bevuto quando sono venuto a trovarti l'ultima volta, devo dire che è proprio buono anzi una delizia!›› esclamò An-drea. ‹‹Si è veramente una delizia!›› avvallò Maria. Assunta e Peppino dopo essersi procurati dei bicchieri di carta chie-sero in coro:‹‹Fammelo assaggiare!›› Intervenne Maria che disse:‹‹Facciamo un bel brindisi.›› Tutti assieme avvallarono la proposta e in coro esclamarono: ‹‹Si un brindisi,un bel brindisi!›› Annarella dopo aver riempito i bicchieri disse:‹‹Si ! Un brindisi alla nostra amicizia.›› ‹‹Urrà! Bene! Cin cin… Alla nostra amicizia!›› esclamarono in coro i ragazzi felici di stare assieme. Il gruppo mangiò e bevve in allegria intonando ritornelli di canzoni e raccontandosi barzellette. Andrea raccontò la prima barzelletta: ‹‹La sapete quella su un'automobilista che viene fermato ad un posto di blocco a Palermo e quando il carabiniere gli domanda cosa porta nel portabagagli, l‟automobilista gli risponde una calcolatrice. Il mili-te apre il portabagagli per verificare e trova una lupara ed esclama: “ Ma questa non è una calcolatrice! L'automobilista gli risponde:" Noi qui i conti li facciamo con quella” Annarella, Aassunta Maria e Peppino risero a crepapelle. Poi a turno raccontano altre barzellette sino a quando decisero di riposare. ‹‹Ragazzi! Questo vinello mi ha portato sonnolenza, mi stendo su questa cassapanca… Ci sentiamo tra qualche ora››› disse Andrea mentre sbadigliava. Gli amici di Andrea assecondarono quella deci-sione e ad uno ad uno si addormentarono in quella stanza isolata del

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castello di Pratica di Mare. Mentre i ragazzi riposavano entrano nella stanza due fantasmi: Leon e Armelle.

Borgo di Pratica di Mare

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Leon seguiva Armelle che fece diversi giri nella stanza la quale si fermò solo per rispondere: ‹‹Oh! Dolce Armelle perché continui a sfuggirmi?... Il mio è amore vero… Perché mi fai soffrire anche in questa vita?›› Armelle allungando una mano e rivolgendosi a Leon: ‹‹Allontanati, non perseguitarmi, te lo dissi n vita e te lo ripeto anche ora che siamo morti. Il tuo folle desiderio causò la nostra morte e il mio cuore non potrà mai appartenerti››. ‹‹Perdonami! Ero fuori di me e volevo solo stringerti tra le mie brac-cia e non feci caso a dirupo alle nostre spalle… Potrai mai perdo-narmi?›› ‹‹Forse un giorno ma ora no!.. Con il tuo comportamento hai butta-to via il dono più bello… La vita e hai condannato entrambi all'e-terna oscurità. Guarda questi giovani che riposano ignari del tesoro che posseggono.›› ‹‹Si li guardo e credimi vorrei essere nei loro panni e continuare a vi-vere insieme a te per ricominciare tutto daccapo.›› ‹‹Saranno le loro azioni a decidere il loro futuro… La vita non va sprecata con gesti inconsulti come hai fatto tu nei miei confronti.›› ‹‹Si mia dolce Armelle! Ora capisco il mio gravissimo errore, evento fatale per la nostra esistenza.›› ‹‹Devi apprendere la gentilezza e la grazia dei fiori se vuoi che il mio cuore si apra e abbandonare la tua idea unica, fissa, esclusiva ed os-sessiva che io possa amarti ad ogni costo›› rispose Armelle mentre usciva dalla stanza seguita da Leon. Proprio in quel momento An-drea Cade dalla cassapanca ed esclamò:‹‹Accidenti che botta! Acci-denti a te!›› Il ragazzo diede un calcio alla cassapanca e sentì un rumore proveni-re dall‟interno. Decise di aprire la cassapanca pensando di aver rotto qualcosa. Vide una bottiglia, una tuta bianca e una maschera nera. “Chissà da quanto tempo sta qui questa roba. Sento uno strano o-dore…Con questi oggetti voglio fare uno scherzo ai mie amici” pensò Andrea. Il ragazzo indossò la tuta, portò la maschera al volto e per incanto, per uno strano scherzo, perse la sua personalità.

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‹‹Eccomi qua! Lo dicevo prima o poi che qualche fesso ci sarebbe cascato, avrebbe indossato la maschera… La maschera di Pulcinel-la… E tutta sta gente che dorme chi sono?... Ho! Ho! Ho!... E tutta sta roba da mangiare?… B‟è io mangio, mi rimetto in forza e poi li sveglio.›› Pulcinella dopo aver spizzicato con avidità, a voce alta e prolunga-ta:‹‹Ue! Sveglia! Sveglia! Sveglia!›› Assunta, Annarella, Maria e Peppino quasi in coro:‹‹Che successo! Il terremoto! Che scherzi sono questi! Aiuto!›› ‹‹Andrea che maniere sono… ›› Annarella accortosi che non era Andrea e riprendendosi dallo spavento chiese:‹‹ Ma chi siete? Sve-gliare gente nel sonno in questo modo è pericoloso, sono mezza morta.›› ‹‹Che scostumato, avete l'aria di un matto›› disse Assunta. ‹‹E che maniere, sto ancora a tremare, guardate questa mano›› disse Maria mentre mostrava la mano tremante. ‹‹Mi viene quasi voglia di tirarvi un ceffone!›› esclamò Peppino rivol-gendosi a Pulcinella. ‹‹Avete finito! Io sono Pulcinella per servirvi, ho l'animo allegro e scusate, anzi vi chiedo umilmente scusa se ho alzato un poco la voce.›› ‹‹Un poco, voi mi sembravate la sirena di un'autoambulanza›› affer-mò Annarella ‹‹E va bene io, signorina, quando parlo non mi so controllare, è il mio tono naturale.›› ‹‹Sarà come dite voi, ma piuttosto avete visto un ragazzo alto che dormiva sulla cassapanca? Quella là›› domandò Assunta indicando la cassapanca. ‹‹Si! Mi sembra di aver visto un coso lungo uscire da quella porta.›› ‹‹Un coso lungo? Vi sembra questo il modo di descrivere una perso-na?›› domandò irritata Maria. ‹‹Questo è troppo, sto per perdere la pazienza!›› esclamò Peppino. ‹‹E che fate se perdete la pazienza? Vi mettete a trovarla subito o dopo?›› domandò ironico Pulcinella.

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Peppino si avvicinò minaccioso a Pulcinella ed esclamò:‹‹Vuoi la ris-sa!›› Annarella frapponendosi tra i due disse:‹‹Smettetela, un po‟ di con-tegno, stiamo in gita di piacere e cerchiamo di finire la giornata in modo sereno. Ditemi Pulcinella quel ragazzo aveva una camicia bianca?›› ‹‹Si! E ha detto pure che tornava presto, di aspettarlo qui.›› ‹‹E' strano che si sia allontanato non conoscendo quasi niente di questo castello, vi ha parlato?›› ‹‹No! Appena ha visto la mia persona è volato via.›› ‹‹Volato via!? Mica è un volatile.›› ‹‹Che storie raccontate... Una persona non "vola via" si allontana›› disse Maria. Peppino con voce ironica disse:‹‹Fa una passeggiata e poi ritorna. Le anime dei morti volano via e non un cristiano vivo e vegeto›› ‹‹L'avete detto voi... Le anime volano e io ho visto l'anima volare›› affermò Pulcinella. Peppino rivolgendosi a tutti disse:‹‹Ma voi lo sentite quello che dice, questo uomo è pazzo o è ubriaco.›› Annarella, Assunta e Maria in coro avvallarono:‹‹Lo sentiamo, è pazzo, si è pazzo.›› A quelle affermazioni Pulcinella disse:‹‹Si! Ma sono un pazzo che ra-giona, ho i miei motivi per dire quello che ho detto e poi la colpa non è mia, io dormivo beato è stato il vostro Andrea che mi ha sve-gliato.›› ‹‹Svegliato!? Ma dove stavate dormendo se in questa stanza c'erava-mo solo noi?›› domandò perplessa Annarella. ‹‹Stavo nella cassapanca e Andrea che stava sopra ha fatto rumore svegliandomi, questa è la verità!›› ‹‹Gesù! Gesù! Questo è proprio pazzo, hai ragione Peppino, bisogna avvertire qualcuno›› affermò Annarella. ‹‹Pazzo non sono io ma chi mi mise nella cassapanca sperando di sbarazzarsi di me come una cosa che prima si sfrutta e poi si butta, come una cosa vecchia.››

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‹‹Io mi sono scocciata di sentirlo vado a cercare Andrea›› disse As-sunta. ‹‹Si! Hai ragione ti accompagno›› disse Maria. ‹‹Aspettate che non conoscete bene il castello, vengo con voi›› disse Peppino e rivolgendosi ad Annarella aggiunse:‹‹Tu aspettaci in que-sta stanza, noi facciamo un giro e torneremo presto.›› Annarella rivolgendosi a Peppino e con tono preoccupato disse:‹‹Si! Ma tornate presto.›› ‹‹Vi faccio compagnia io , sarò un po‟ matto come dite voi, ma un matto galantuomo.›› ‹‹Voi raccontate di anime che volano, dormite in una cassapanca... Cosa può pensare la gente.›› ‹‹La gente! E che brutta gente, vuole dimenticare l'allegria che ho da-to un tempo, gelosie, invidie mi hanno a poco a poco cancellato e fatto morire.›› ‹‹Addirittura, voi siete vivo e vegeto, un poco strano questo si, ma non vedo in voi tanta cattiveria che qualcuno possa desiderare il vo-stro male.›› ‹‹Avete parlato giusto… In verità è proprio la mia simpatia la causa della mia sfortuna, credetemi se vi dico che quanto apparivo io tutti gli occhi erano per me, ero come il sole che sorge e tutto colora.›› ‹‹Ma scusate che lavoro facevate?›› ‹‹Attore, attore di teatro, una faccia che ha fatto divertire uomini po-tenti e gente del popolo, e mo sta faccia mia l'avevano buttata den-tro una scatola di legno piena di tarli, che brutta fine, mangiato dai tarli.›› ‹‹Su! Su! Che cosa è questa tristezza, non sempre si può essere felici, la vita è fatta di gioie e dolori e poi dovete essere contento di essere stato un grande personaggio del teatro, nella vita non si può mai di-re, può darsi che quando meno ve l' aspettate qualcuno pensi a voi e vi scrittura per una nuova storia.›› ‹‹Con i tempi che corrono chi volete che pensi a me, le storie di oggi sono piene di morti e feriti, pistole e mitragliatrici si sprecano e non capisco come può piacere tutta questa confusione. L'unica arma che so usare è la forchetta... Ecco la porto sempre a presso.››

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‹‹E sì c'è poco romanticismo nelle storie moderne e troppa violenza. Bisogna pazientare e vedrete che arriverà di nuovo il vostro mo-mento, credetemi la gente capirà che la vita è fatta soprattutto d'a-more e di allegria e invocherà storie dove ci sarà sempre posto per un pulcinella.›› ‹‹Signorina come parlate bene, il mio cuore si rallegra, siete buona e non vi posso fare cattiverie. Voi volete bene ad Andrea?›› ‹‹Si! Ma perché mi fate questa domanda!›› ‹‹E‟ semplice curiosità. Ditemi è l‟innamorato vostro?›› Annarella, sventolandosi con la mano destra, rispose:‹‹E‟ più di un amico per me. A volte gli uomini sono un po‟ distratti e non si ac-corgono di niente.›› ‹‹Ho capito!›› esclamò Pulcinella poi guardando in alto e facendo uno sberleffo con una mano aggiunse:‹‹E‟ distratto il giovanotto… Io invece quando vedo una signorina…›› In quel momento ritornarono; Maria, Assunta e Peppino. ‹‹Non si trova quel lazzarone!›› esclamò Assunta. ‹‹Quando lo trovo deve fare i conti con me… Sono cascato e per poco mi ammazzo. Che dolore!›› aggiunse Peppino. ‹‹Non esagerare! E‟ stata una piccola caduta›› testimoniò Maria men-tre Assunta rideva. Peppino, rivolgendosi ad entrambe esclamò:‹‹Gesù! Sono rotolato per venti scalini è me la chiamano piccola caduta!›› ‹‹Va bene!... Va bene! Nella mia borsa ho della pomata. Dopo fatti fare un massaggio da…›› Venne interrotta da Pulcinella che agitando le mani disse:‹‹ Te lo faccio io un massaggio… Io sono bravo!›› ‹‹Ne! Questa confidenza… Come vi permettete! Ma perché non ve ne andate… Chi vi ha invitato?›› chiese adirato Peppino. Pulcinella saltellando e facendo un giro attorno al gruppo disse:‹‹Io mi sono invitato… Ho voglia di parlare, di esibirmi e di cantare›› e continuò a saltellare intonando un ritornello di una canzone famosa. ‹‹Ma guardatelo!›› esclamò Peppino indicandolo agli amici. ‹‹Un po‟ di pazienza è matto!›› aggiunse Maria. ‹‹Si! Questo è matto… Matto da legare›› confermò Assunta.

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‹‹Va bene! Voi riposatevi un po‟… Io faccio un giretto per il castello per cercare Andrea›› disse Annarella. Peppino, rivolgendosi con voce ironica ad Annarella aggiunse: ‹‹Si! Ma portati pure il tenore, con la sua voce può aiutarti a chiama-re Andrea. ‹‹Si! Vado con Annarella!!›› Pulcinella continuò, avvicinandosi all‟orecchio di Peppino e grida: ‹‹O sole mio sta in fronte a te! ›› poi scappò fuori dalla stanza. Peppino saltò per l‟urlo e si girò per inseguire Pulcinella, ma venne fermato da Maria e Assunta. ‹‹Ma che scostumato, se ti prendo ti mollo due ceffoni!›› esclamò Peppino mentre si portava una mano alla schiena e aggiunse: ‹‹Ai! Che dolore!››. Maria e Assunta, quasi contemporaneamente lo consolarono: ‹‹Su! Non farci caso!›› poi Maria prese per un braccio Peppino e lo invitò a stendersi e a scoprirsi la schiena. Dopo si rivolse ad Assunta e comandò: ‹‹Mi prendi la crema dalla borsa di Annarella.››. ‹‹Eccomi!›› esclamò Assunta mentre frugava nella borsa di Annarella. Dopo aver tirato fuori diverse cose tra cui quattro mutandine, fi-nalmente trovò la crema e a voce alta si interrogò: “ Mi domando e scusate la domanda indiscreta, ma quante mutante di riserva prepareranno i let-tori prima di leggere questo racconto?›› Maria, rivolgendosi ad Assunta:‹‹Ma fatti le mutante tue e porta la crema!›› ‹‹Ok! Ok! Ho capito il concetto!›› esclamò Assunta, poi rivolgendosi a Peppino, con voce calda e provocante:‹‹Ora ci penso io a massag-giarti.›› Maria, spingendo Assunta, disse:‹‹Ci penso io›› e continuò con voce più energica:‹‹Ho detto ci penso io!...›› fu interrotta da Peppino che disse:‹‹ Basta che vi decidete!›› Maria diede uno schiaffo sul sedere di Peppino e comandò: ‹‹Zitto tu, come se non ti conoscessi… Stai giù e rilassati!›› Peppino rivolse lo sguardo in alto e disse:‹‹Mi prende a schiaffi e mi dice di rilassarmi... Le donne.››

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Maria e Assunta, quasi simultaneamente domandono:‹‹Cosa hai da dire sulle donne?›› ‹‹Io niente! Dicevo le donne se non ci fossero…›› Peppino venne in-terrotto dalle due ragazze che chiesero, simultaneamente, e con at-teggiamento minaccioso:‹‹Se non ci fossero?…›› ‹‹Sarebbe un peccato mortale!›› ‹‹Ah! Così va bene!›› esclamarono le ragazze. Finalmente Maria fece il massaggio a Peppino che si sentì subito meglio, ma Assunta, vera provocatrice invitò Peppino a non esitare se avesse avuto bisogno di altri massaggi. Maria richiamò Assunta per i suoi atteggiamenti da smorfiosa e quest‟ultima risentita dis-se:‹‹Non sono una smorfiosa…›› venne interrotta da Maria che dis-se:‹‹Io so cosa sei… Lo sappiamo tutti cosa sei…›› venne interrotta da Assunta che con fare minaccioso chiese:‹‹Cosa sono?… Avanti dillo?››. ‹‹Vuoi proprio che lo dico?›› ‹‹Sentiamo cosa vuoi dire?›› replicò Assunta mettendosi le mani nei fianchi. Peppino tappò la bocca di Maria e la pregò di non dire niente e ag-giunse:‹‹ Altrimenti oltre ad un disperso questa gita si concluderà anche con feriti››. Maria seppure con la bocca tappata emise dei suoni molto chiari che irritarono ulteriormente Assunta. Solo l‟abilità di Peppino riuscì a placare gli animi. Maria e Assunta si avvicinarono, si misero di fianco e si urtarono con l‟anca, con il sedere, con l‟altra anca, con il petto, batterono le mani, mani contro mani ed esclamarono:‹‹Pace!...Pace!›› In quel momento ritornarono Pulcinella ed Annarella che ascoltaro-no lo scambio di pace tra Maria e Assunta. ‹‹Pace! Cosa Avete combinato?›› domandò Annarella sostenuta da Pulcinella che chiese: ‹‹Cosa combinavate? Parlate… Sono curioso!›› ‹‹Sorvoliamo! Piuttosto lo avete trovato ad Andrea?›› ‹‹Ma questo è fesso! Se lo avessimo trovato stava con noi!›› sbottò Pulcinella. ‹‹Che state borbottando? Fatevi sentire e capire!›› domandò Peppino.

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‹‹Stavo riflettendo a voce alta›› rispose Pulcinella. Annarella interruppe lo scambio di battute tra i due e informò i ra-gazzi sull‟insuccesso della ricerca. ‹‹Speriamo che non gli sia successo niente di grave!›› esclamò preoc-cupata Annarella che venne subito consolata dalle sue amiche e da Pulcinella che disse: ‹‹Signorina bella, non fate cosi. Il ragazzo si sarà addormentato da qualche parte…›› ‹‹Ma che dite… Si è addormentato!?›› sbottò Peppino. ‹‹Fatevi i fatti vostri!… State attento che vi potreste addormentare anche voi!›› intimò Pulcinella. ‹‹Ma questa è una minaccia!›› esclamò Peppino mentre si avvicinava a Pulcinella che disse: ‹‹ Forse si! Chi lo sa.›› ‹‹Avanti! Fatemi addormentare…›› Peppino venne interrotto da An-narella che gridò:‹‹Basta! Basta!›› Anche Maria ed Assunta intervennero per separare i due litiganti. ‹‹Avete ragione voi! E‟ meglio che vado via, a fare un altro giro.›› Cosi; Maria, Assunta e Peppino uscirono dalla stanza per fare un altro giro di perlustrazione nel castello alla ricerca di Andrea. Pulcinella ed Annarella rimasero soli e, mentre la ragazza era malin-conica per l‟allontanamento di Andrea, Pulcinella incominciò a can-tare intonando vecchie canzoni. Annarella non capiva l‟allegria del giovane in quel momento di tristezza ed espresse il suo disappun-to:‹‹Scusatemi non è mancanza di rispetto. Io so che il vostro fidan-zato non corre pericolo. Credetemi!›› ‹‹Sarà come dite voi… E poi i matti vanno assecondati.›› ‹‹Ora mi offendete voi. Dovete avere fiducia e vi prometto che pre-sto rivedrete Andrea.›› ‹‹Scusatemi sono molto nervosa, lei deve capirmi. Mi dite che devo avere fiducia e io vi voglio credere.›› ‹‹ Gli volete così tanto bene?›› domandò Pulcinella. ‹‹Si! Ma perché mi fate questa domanda?›› ‹‹Promettetemi di non spaventarvi se vi dico che sotto questa faccia c‟è Andrea e a sua insaputa.›› ‹‹Volete prendermi in giro?››

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‹‹No! Non è mia intenzione. Ora sono serio e vi dico che se volete che Andrea ritorni dovete fare quello che vi dico…›› la conversazio-ne venne interrotta dall‟ingresso del diavolo che gridò: ‹‹Zitto! Non dire altro e ascoltami.›› Annarella spaventata si riparò dietro a Pulcinella gridando:‹‹Mamma mia! Questo chi è… Che sta succedendo. Aiutatemi!›› ‹‹ Ha! Ha! Ha! Guarda chi si rivede… Signorina non preoccupatevi che questo signore ci penso io›› rassicurò Pulcinella mentre agitava una mano mimando legnate. ‹‹Non dovevi vendicarti di coloro che ti hanno messo da parte? Tu che hai fatto parlare tutto il mondo della tua arte. Che uomo sei se bastano due occhi tristi per commuoverti?›› domandò il Diavolo. ‹‹Ma è possibile che stai sempre tra i piedi e non ti prendi mai una vacanza?›› chiese Pulcinella. ‹‹Mai perché io vigilo, vi sorveglio tutti e come sbagliate… Zac! So-no pronto a beccarvi.›› ‹‹E non vi vergognate ad abusare delle debolezze umane?›› domandò Annarella. ‹‹Ah! Ah! Vergognarmi per cosi poco? Io sulle debolezze umane ho costruito un regno. Un regno dove io sarò il sovrano.›› ‹‹Un regno senza amore non può durare a lungo, si sfalderà e crolle-rà come tutti i regni retti sulla tirannia e non sull‟amore›› affermò Annarella. ‹‹Amore! Che cosa è? Io conosco la superbia, l‟avarizia, la lussuria, l‟invidia, la gola, l‟ira, l‟accidia ed altri vizi che l‟uomo persegue oggi più che mai.›› ‹‹Se non conoscete l‟amore vuol dire che non siete mai nato. Siete un morto che cammina, anche l‟uomo più cattivo ha conosciuto at-timi d‟amore… Voi non vivete…›› Annarella fu interrotta da Pulci-nella che disse:‹‹Hai sentito? Tu non esisti, sei un fantasma. Un esse-re spregevole che si nutre del male terreno.›› ‹‹E tu sei un fantasma di te stesso che vuole rivivere, ma sei già di un altro mondo›› replicò il Diavolo. ‹‹Si! E‟ vero, ma io ho tanti ricordi, emozioni, passioni, sorrisi e pianti di tanta gente. Tu invece non hai ricordi di nessuna vita se

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non quella tra le fiamme dell‟inferno e delle anime dannate che ti circondano.›› ‹‹Perché non ti redimi? Pensa ai colori della terra, alla vita che im-perversa ovunque, al piacere di calpestare un prato o stendersi, sen-tire i profumi che emanano i fiori….›› Annarella venne interrotta da Pulcinella che aggiunse:‹‹ Pensa alle tavole imbandite, alle spaghetta-te che puoi farti, al piacere di gustare i tanti sapori e frutti della ter-ra›› poi Pulcinella e Annarella quasi contemporaneamente disse-ro:‹‹Pensaci e capirai quanto ti sei perso del bello che ci circonda. Pensa alla tua dimora nelle tenebre e alla luce della tua nuova casa?›› ‹‹Ue! Ma che fate mi rubate il mestiere? Fate i diavoli tentatori? Que-sto è troppo. Sono io che devo comprare le vostre anime!›› ‹‹Caro diavolo se questa è la tua missione hai sbagliato indirizzo. A noi ci piace troppo soffrire qui sulla terra. Soffrire mentre si aspetta il dolce di un bel banchetto nuziale e correre dopo per i prati fioriti›› rispose Pulcinella subito avvallato da Annarella che disse:‹‹Caro dia-voletto… Meglio che cambi aria. L‟amore è nei nostri cuori e nes-sun diavolo riuscirà a convincerci.›› ‹‹Voi mi cacciate ed io ero venuto ad offrirvi fama e ricchezza, ma non mi arrendo. Sarò sempre in agguato e vi spierò pronto a colpir-vi…›› venne interrotto da Pulcinella che armato di bastone disse: ‹‹Ma fammi il piacere… Ora mi hai proprio scocciato. Tieni e becca-ti questi colpi dell‟aldiquà.›› Il Diavolo fece tre giri intorno al tavolo inseguito da Pulcinella pri-ma di uscire dalla stanza. ‹‹Lo dico sempre che con quello bisogna usare le maniere forti al-trimenti non ti capisce›› disse Pulcinella. ‹‹Cosa mi stavate dicendo prima a riguardo di Andrea?›› domandò Annarella. ‹‹Promettetemi che resterà un segreto sepolto nel vostro cuore e poi vi dirò quello che dovete fare.›› Dopo che Annarella promise di mantenere il segreto Pulcinella dis-se:‹‹Bene! Quando vi dirò di staccare la mia faccia staccatela e ripo-netela con cura dove stava, vedrete il vostro Andrea tornare ed io riposerò ancora, ma mi raccomando di non dire niente a lui e tan-

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tomeno ai vostri amici››. Pulcinella si stese per terra e socchiuse gli occhi poi rivolgendosi ad Annarella ordinò: ‹‹Ora staccatela con tut-te le vostre forze.›› Annarella si chinò e baciò la fronte di Pulcinella, ma pulcinella gri-dò:‹‹ Ora! Ora!›› Annarella afferrò con tutte e due le mani il volto di Pulcinella e lo tirò via e delicatamente lo ripose nella cassapanca. Nel frattempo Andrea si desta lentamente e appena in piedi incrociò gli occhi di Annarella la quale, senza dire una parola si avvicina ad a Andrea e lo baciò e proprio in quel momento arrivarono gli amici. Maria, Assunta e Peppino, quasi in coro, dissero:‹‹Ma bravi i pic-cioncini e noi giravamo per trovarlo. Noi in pensiero e loro si sba-ciucchiano.›› I tre ragazzi notarono l‟assenza di Pulcinella e chiesero ad Annarella dove fosse andato. ‹‹E' andato via e vi lascia i saluti›› rispose Anna-rella. ‹‹Ma di chi state parlando?›› domandò Andrea. ‹‹Un giovane burlone che si era perso nel castello, ma tanto simpati-co. Piuttosto ragazzi dobbiamo andare via che si è fatto tardi,su! Raccogliete tutto che si parte›› disse Annarella. Gli amici accolsero l‟invito e ad uno ad uno uscirono da quella stan-za. Annarella fu l‟ultima ad uscire da stanza, ma prima gettò un ul-timo sguardo sulla cassapanca e lancia un bacio con la mano.

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Il lago delle meraviglie Erano le ore 08.00 di una domenica mattino di inizio estate quando i primi raggi di sole, come sottili lame, tagliarono quella leggera nebbia che aveva nascosto per tutta la notte, agli occhi della luna, il lago delle meraviglie. Un piccolo specchio d‟acqua formatosi nel corso dei secoli alle falde di un promontorio dove fu fondata, dal mitico Enea, la città di Lavinium e i cui discendi disegnarono i con-fini della città eterna che regnò sul mondo conosciuto per molto tempo. Forse quel nome dato al lago ebbe origine proprio dalle meraviglie viste da Enea in quei luoghi dopo il suo approdo sulla costa Laziale, alle foce del fiume Numicus. I raggi, lentamente, ma inesorabilmen-te sfaldarono quella cappa di umidità che avvolgeva tutta la zona si-no a farla evaporare. Poi si insinuarono tra gli alberi e la bassa vege-tazione che circondava lo specchio d'acqua sino a raggiungerne la superficie. Il sole, pigramente, iniziava ad ampliare la sua azione sul lago e sulla terra circostante. Ora erano poche le zone in ombra e principalmente dove la vegetazione era troppo fitta per permettere alla luce di entrare. Quelle folte macchie di vegetazione venivano il-luminate solo dalla luce circostante. In una di queste, un corpo, sta-va disteso per terra e in parte nascosto da foglie secche. Era il corpo di Michelle. Una studentessa universitaria, alta 1,70 me-tri, capelli corti di colore rame. In simbiosi con la natura viveva quell‟alba e le sue fasi. Una brezza, come un leggero e caldo respiro, scuoteva le foglie circostanti e quelle che coprivano la ragazza fa-cendole vibrare. Lo stridere continuo di una cornacchia la scosse da quel torpore ed ella aprì gli occhi. Subito si portò le mani sul basso ventre cercando di placare un dolore che non era fisico, ma mentale. Era stata fatto oggetto di un tentativo di violenza da coloro che lei riteneva amici. Un gruppo di coetanei che la sera prima, in allegria, l‟avevano convinta ad andare in discoteca. Tre maschi e tre femmine unite dalle stesse passioni; la musica, le discoteche e i viaggi. Quel sabato, invece ; Sonia e Vanessa l‟avevano attirata, spinte da una ri-valità verso Michelle, mai manifestata apertamente, in un gioco

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perverso. Usciti dalla discoteca la convinsero, spalleggiate dai tre maschi, a concludere quella serata con un brindisi sulle sponde di quello specchio d‟acqua. Ognuno di loro avrebbe dovuto esprimere un desiderio appena avessero avvistato una stella cadente, ma non andò cosi. Quando la sera prima giunsero al lago, Sonia e Vanessa aprirono una delle tre bottiglie di spumante comprate la sera prima in un su-permercato per aggirare il divieto di vendita di alcolici in vigore nei locali notturni dopo un certo orario. Senza farsi notare, versarono del sonnifero nel bicchiere di plastica destinato a Michelle, poi offri-rono da bere a tutti i presenti. Non passò molto tempo che Michelle incominciò a barcollare, mentre i loro amici, indifferenti, ingerivano pasticche di varie tonalità di colore. Dall‟abitacolo dell‟auto, che vibrava in sintonia con gli altoparlanti, fuoriuscivano onde sonore che echeggiavano nell‟aria spaventando i tanti uccelli che stavano già da ore nei loro nidi. I volatili protesta-vano cinguettando ripetutamente e saltellando da ramo in ramo, ma per tutta risposta, uno dei ragazzi lanciò una delle bottiglie di spu-mante, ormai vuota, contro la chioma di un albero poco distante scatenando il panico tra i piccoli uccelli. ‹‹Fatela finita bestiacce!›› urlò Marco. ‹‹Mortacci vostra!›› aggiunse Pino. ‹‹Sono scappati tutti!›› disse Alberto indicando con una mano un piccolo stormo che si era formato dopo il lancio della bottiglia. ‹‹Ha! Ha! Ha!›› ridevano, alle stupide gesta dei loro amici, Sonia e Vanessa mentre ballavano sulle note di una canzone pop. Quella notte, molti animaletti del posto, furono costretti a trasloca-re; gli uccelli, roditori, talpe, lepri, conigli ed altri piccoli abitanti, protetti dall‟ombra della notte, si allontanarono dal lago. Intanto Michelle si era seduta per terra, stordita da quella dose di narcotico, non riusciva a tenere gli occhi aperti. ‹‹Fatemi vedere se siete uomini!›› esclamò Sonia all‟indirizzo dei ma-schi e indicando con la mano destra Michelle. ‹‹Si!›› anche io voglio vedere…›› avvallò Vanessa.

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Quella fu la molla che diede inizio a momenti di pura follia. In pre-da alla droga e all‟alcool i tre ragazzi stavano per iniziare ad abusare della loro amica incitati da Vanessa e Sonia. Una ragazza che aveva condiviso con loro tante emozioni stava per essere trattata come un qualsiasi oggetto. Proprio in quel momento, due fari di un auto il-luminarono, per qualche istante, il gruppo causando l‟interruzione di quello che loro credevano fosse solo un gioco. Senza curarsi delle condizioni della loro amica, spaventati, salirono in auto e ripartirono a grande velocità, verso Roma. Uscendo in-crociarono quell‟auto che li aveva intimoriti interrompendo quello che loro ritenevano un semplice passatempo. Il mezzo entrò nel piazzale antistante il lago, ma subito ne usci; quell‟auto aveva approfittato di quello spazio per fare inversione di marcia. Gli occupanti non si resero conto di nulla e tantomeno vide-ro la povera Michelle, priva di sensi, che stava distesa per terra cela-ta alla vista da alcuni grossi cespugli. Si era addormentata in posi-zione fetale con le mani tra le gambe come per proteggersi. Era not-te fonda ormai e il silenzio si impossessò del lago e dello spazio cir-costante cosi, ad uno ad uno, tutti gli abitanti di quel luogo fecero ritorno nei rispettivi rifugi. Solo un passero non volle ritirarsi nel suo nido e continuò a svolaz-zare attorno e sopra al corpo di quell‟intrusa per diverso tempo. Non capiva di quella presenza e sospettoso si posò su un ramo di un cespuglio poco distante e qui restò, per tutta la notte, a guardia della sua prole. Nemmeno le cornacchie lo spaventarono, ma dovet-te soccombere quando le vide scendere in picchiata e subito si rifu-giò nel suo nido. Vide quell‟intrusa finalmente muoversi e che len-tamente si allontanava dal suo nido così si rassicurò e potette final-mente riposare tranquillo. Ecco cosa accadde quella notte al lago delle meraviglie. Il sole illuminava già un terzo di quel piccolo lago quando Michelle si avvicinò alla riva. Lentamente si svestì sino a restare nuda. Come se fosse ipnotizzata e spinta da una forza misteriosa, si inoltrò nel lago sino a quando l‟acqua non le arrivò alla gola, poi si lasciò acca-rezzare.

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Il lago delle meraviglie

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Quella giovane e moderna Dea intendeva cancellare l‟oltraggio rice-vuto purificandosi con quelle antiche acque. Si lasciò cullare da quell‟elemento fonte di vita offrendosi completamente alla sua azio-ne rigeneratrice. La lieve brezza del mattino increspava lievemente la superficie del lago disegnando linee, quasi parallele, che partendo dalla riva sinistra percorrevano tutta la superficie dell‟acqua sino ad infrangersi contro la riva opposta. Quando queste incontravano il corpo di Michell, si curvavano in quel punto per poi riprendere, su-bito dopo, la lenta corsa verso la sponda opposta. Poi quella brezza cessò e sul lago regnò un silenzio quasi irreale. All‟improvviso un fascio di luce, proveniente dall‟alto, la investì il-luminando tutto il suo corpo rendendolo simile ad una statua di cri-stallo. Non capiva cosa stesse accadendo, ma sentiva una nuova e-nergia che si impossessava del suo corpo. Quella luce non proveniva dal sole perche ancora troppo basso e questo incuriosì molto la ra-gazza. Incominciò a scrutare il paesaggio per cercare una spiegazio-ne plausibile, per farsene una ragione, ma non ebbe riscontri. Appe-na terminò l‟azione di quella luce vide apparire, a circa venti metri da lei, una figura femminile lievitare sulla superficie di quel lago. Mi-chelle restò impietrita da quella donna, vestita con stoffe regali e in testa un elmo, che ricordava una anticha Dea venerata in quei luo-ghi. Quella strana e misteriosa figura sorrise a Michelle e protese le mani in segno di aiuto e di incoraggiamento. Michelle la seguì con lo sguardo sino a quando non scomparve dalla sua vista. Quello strano fenomeno la distolse dai suoi pensieri. Ora non pen-sava a niente e tantomeno a coloro che l‟avevano tradita. Quei ragazzi che l‟avevano abbandonata e che tutti avrebbero di-chiarato essere “Bravi ragazzi” quella notte dovettero affrontare il giudizio di una entità superiore; come si era verificato all‟alba di al-tre domeniche, anche durante quel primo crepuscolo numerosi inci-denti stradali avevano visto coinvolti giovani di ritorno dalle disco-teche e non solo. Sonia, Vanessa, Marco, Pino e Alberto furono cinque delle migliaia di vittime di una guerra senza fine, mai dichiarata. Quella guerra che spinge giovani e non ad abusare del proprio corpo, violandolo e

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mortificandolo fino al martirio. Giovani vite rubate alla terra, ai ge-nitori, agli amici e alla patria da una follia collettiva. Sregolatezza, stupidità, imprudenza, irragionevolezza, incoscienza, leggerezza sono i cardini di quella follia comune che assale la gio-ventù e li porta ad immolarsi per un fine effimero. Ora restava solo il dolore delle madri, dolore inconsolabile, che niente e nessuno potrà mai alleviare. La consapevolezza che quelle vite, destinate a prolungare il mistero delle generazioni si erano tra-gicamente spezzate segna, agli occhi dei genitori, una ferita mortale non solo per le leggi della natura, ma spesso anche nel rapporto con la fede. Agonia incomparabile che causa la morte di una parte del genitore, perché il futuro, con tutti i sogni e le speranze riposte va in frantumi.

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Figli caduti Le madri piangono, mentre stringono al seno, i pargoli loro, le anime loro. Tragedia immane, che stringe il cuore, che assilla la mente. che lacera la carne. Le madri li invocano, i padri li chiamano, essi gridano al vento il loro dolore, i loro nomi, la loro sofferenza. Foglie perse, strappate al fusto dai nuovi demoni, venti mortali che bruciano la mente e lo spirito. Figli caduti e persi per sempre.

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Michelle, all‟oscuro dell‟accaduto, invece fu invasa da un nuovo sen-timento che la spingerà a non fidarsi più di nessuno. Una ferita in-terna, profonda che difficilmente rimarginerà. Un‟esperienza che all‟improvviso l‟ha proiettata in un nuovo mondo facendola scoprire valori negativi che percepiva, ma che non aveva mai vissuto in pri-ma persona. Avrebbe desiderato rimanere ancora in quel posto, ma l‟ora era tardi e doveva far ritorno a casa. Le cime degli alberi ripre-sero a scuotersi sotto l‟azione del caldo alito del vento de sud, avan-guardia di quella massa d‟aria proveniente dall‟ Africa settentrionale. Il vento di scirocco ora aumentava la sua intensità e Michelle, a mala voglia, si avviò verso la sponda e qui si lasciò asciugare. Poi si rivesti e si avviò verso l‟uscita per incamminarsi sul tratto di strada in salita che conduceva al Castello di Pratica Di Mare. Mentre percorreva il breve tratto venne invitata da automobilisti di passaggio a salire a bordo, ma Michelle li ignorava. Il suo sguardo fissava solo la strada in un punto non definito davanti a lei. Dopo cinque minuti giunse davanti al Maniero e qui sosto a fare colazione nel bar dell‟antico borgo. Dopo essersi rinfrancata riuscì dal borgo e si incamminò sino a rag-giungere il bivio con Via Dei Castelli Romani chiamato anche; “Bi-vio del crocifisso”. Li restò in attesa dell‟arrivo della corriera che l‟avrebbe riportata a Roma. Mentre aspettava i suoi occhi si soffermarono a contemplare quella croce e ciò che rappresentava per milioni di uomini sulla ter-ra. Il simbolo cristiano è collocato all‟ombra di tre pioppi, cresciuti uno di fianco all‟altro, quella immagine evoca le tre croci del monte Cal-vario. Un angolo incantevole che emana una atmosfera surreale e che Michelle restò a guardare sino a quando non fu distolta dal ru-more assordante di un jet, in fase di decollo dal vicino aeroporto mi-litare.

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“Il giorno dopo che ho terminato di scrivere queste ultime righe mi sono recato per incontrare un amico a Torvajanica e, con gran amarezza, ho potuto consta-tare che al bivio chiamato “Del Crocifisso” i tre alberi non c’erano più, erano stati abbattuti e la croce spostata. Dove erano gli ecologisti e le associazioni am-bientaliste sempre pronti a dire no a tutto ciò che può modificare un paesaggio? Subito dopo sopraggiunse il bus che si fermò su richiesta della ra-gazza. Michelle salì a bordo e si accomodò in una delle prime file di sedili. Il mezzo ripartì lasciando alle sue spalle una nube scure segno che su quella tratta venivano ancora impiegati mezzi poco efficienti, altamente inquinanti. Si erano fatte le ore 12.30 quando Michelle inserì le chiavi nella ser-ratura del suo appartamento di Boccea, un quartiere popolare di Roma. La studentessa sfruttava quell‟appartamento lasciatole da sua nonna Adele, morta l‟anno precedente. Nonostante l‟opposizione dei genitori Michelle aveva deciso di stabilirsi in quell‟abitazione due mesi dopo la perdita della nonna. Una decisione irremovibile per un suo forte desiderio di poter vivere una esperienza nuova; la voglia di sentirsi grande, di fare quel passo che distingue un giovane da una persona adulta e responsabile. Michelle adagiò sul tavolino del salotto la piccola borsa e le chiavi poi si purificò nuovamente, ma questa volta nel bagno della sua ca-sa. Si sentiva ancora sporca, ma sapeva che non era il suo corpo ad aver bisogno di essere lavato. Il suo pensiero andò per qualche i-stante a quei ragazzi che l‟avevano illusa della loro amicizia e si mise a piangere mentre svogliatamente si passava la spugna impregnata di sapone alla base del collo. Un pianto nervoso che echeggiò nel piccolo locale e che ritornò alle sue orecchie. Rimase a singhiozzare per altri cinque minuti mentre ora strofinava la spugna tra le gambe per cancellare ogni traccia di

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quel tentativo di violenza; si lasciò scivolare nella vasca da bagno si-no a rimanere immersa completamente. Restò sott‟acqua per circa cinquanta secondi per poi uscirne. Tirò un lungo respiro e si alzo in piedi, uscì dalla vasca e si coprì con l‟accappatoio giallo che gli aveva regalato l‟anno prima sua madre. Dopo essersi asciugata i capelli andò sdraiarsi sul grande divano po-sto a ridosso di una parete e restò, con gli occhi chiusi, per diverso tempo. Quando si destò allungò il braccio e prese il telefonino dalla borsa riposta precedentemente sul tavolino. Lo mise in funzione ed entrò nella rubrica, fece scorrere i numeri e cancellò uno ad uno quelli di coloro che l‟avevano tradita.

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Bivio del Crocifisso - 1980 - Disegni di Giulio Bona’

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Proprio nell‟istante in cui cancellava l‟ultimo numero, squillò la suo-neria. ‹‹Pronto!››. ‹‹Michelle sono mamma… come stai?›› ‹‹Ciao mamma!... Sto bene!›› ‹‹Davvero?››. ‹‹Si! Va tutto bene.›› ‹‹Ero preoccupata… hai sentito il telegiornale?›› ‹‹No! Perché?›› ‹‹Questa notte c‟è stato un brutto incidente alle porte di Roma e so-no morti cinque ragazzi… Dai nomi ho avuto l‟impressione che fossero amici tuoi.›› ‹‹Te li ricordi i nomi?›› ‹‹Mi sembra fossero: Sonia, Vanessa, Marco… Gli altri due non me li ricordo.›› ‹‹Per caso Pino ed Andrea?›› ‹‹Si! Si! Sono proprio questi… allora li conosci?›› ‹‹Erano colleghi dell‟università.›› rispose distaccata Michelle. ‹‹Poverini! Che disgrazia per quei poveri genitori!›› Madre e figlia rimasero a telefono per diverso tempo a commentare l‟accaduto. Assunta, cosi si chiamava la madre di Michelle, si prodi-gò in consigli suggerendo alla figlia di evitare le uscite notturne e di non bere alcolici. Di fare attenzione con chi uscisse e di non accet-tare passaggi da sconosciuti. Le stesse frasi dette e ridette ogni volta che le due si sentivano per telefono. ‹‹Si mamma! Ho capito mamma! Faro attenzione… Non devi pre-occuparti›› così rispondeva Michelle ogni volta. Il bip che segnalava; batteria in esaurimento accorciò quella conver-sazione. Le due donne si salutarono dandosi appuntamento alla prossima telefonata. Michelle si alzò e mise il telefonino sotto carica e subito dopo acce-se il televisore sintonizzandolo su canale cinque. Erano le 13,00 l‟ora del telegiornale. Michelle ascoltò quella terribile notizia e vide le immagini di quell‟auto. Gli occhi fissi sullo schermo non tradivano nessuna emozione. Una calma raggelante si era im-

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possessata di quella ragazza che restò immobile ad ascoltare. Nessu-na lacrima bagnava le guance a testimonianza di una indifferenza to-tale. Le nere pupille restarono asciutte sino alla fine di quel servizio. Quando iniziò il secondo servizio, Michelle spense il televisore, si distese sul divano e si mise a dormire. Così trascorse quella domenica pomeriggio, nella penombra di quel-la stanza ancora con le tapparelle abbassate. La luce che filtrava dalle due ampie finestre del salotto disegnavano, sulla parete opposta due file di cinque distinte linee luminose. Michelle si rifugiò in quel mondo misterioso fatto di sogni. Un luogo sicuro dove tutto era possibile, dove la mente si rigenera distaccandosi da una realtà trop-po spesso crudele. Ora si era rigirata e un braccio pendeva giù dal divano toccando il pavimento. Dopo pochi minuti si girò nuovamente segno che qual-cosa turbava il suo riposo. Stava vivendo nuovamente quella brutta esperienza in quel mondo irreale; rivedeva gli amici scappare spor-chi di sangue inseguiti da lingue di fuoco e da ombre misteriose, ri-visse quel fugace incontro con quella donna apparsa dal nulla. Que-sta volta, oltre al copricapo, imbracciava uno scudo con il braccio sinistro ed una lancia con la mano destra. Michelle incominciò a su-dare e si agitava sempre di più sino a quando emise un grido e si svegliò. Quando apri gli occhi le linee luminose stavano per toccare il soffit-to, segno che il sole stava per tramontare. La ragazza si alzò e con-trollò l‟orario sul telefonino; erano le 19.00. Michelle si recò in ba-gno e si lavò il viso, poi pettinò i capelli e si preparò per la notte in-dossando una vestaglia che aveva lascia appesa dietro alla porta del bagno. Come un automa si recò in cucina, si versò del latte, prese un sacchetto di biscotti, depose tutto in un vassoio, poi prese dalla libreria in salotto un libro di storia dell‟arte e andò a sedersi fuori al piccolo terrazzo che affacciava ad ovest. Mentre sorseggiava il latte incominciò a sfogliare quel libro. Dopo qualche minuto si soffermò su alcune immagini di antiche statue. Sbarrò gli occhi quando rivide quella donna nelle sembianze della Dea Minerva Tritonia.

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“La Pallade Atena dei Greci; figlia di Giove, dal cui capo balzò armata, era dea della sapienza e protettrice della guerra, delle scienze, delle arti femminili. Era particolarmente venerata ad Atene dove sorgeva il celebre tempio di Porde-none, in cui era la statua di Athena Parthenoa, opera di Fidia. Era armata di lancia e sul petto portava l’egida con nel mezzo il terribile capo del Gorgone. Le era sacro l’ulivo e la pallida fronda. Suo epiteto è “glaucopide”: dagli occhi scin-tillanti. La dea Minerva veniva chiamata anche: Minerva Acaia - venerata a Luceria in Puglia, dove sono stati rinvenuti i resti con doni votivi. Minerva Agelia - predatrice. Minerva Agoraia - dell'agorà. Minerva Alalcomeneide - protettrice della Beozia. Minerva Ambularia - che incede. Minerva Anemotide - che regola il vento. Minerva Apaturia – ingannatrice dei nemici.. Minerva Area - salvatrice di Oreste. Minerva Armipotente - potente in battaglia. Minerva Asia - perchè Castore e Polluce le dedicarono un tempio in Asia. Minerva Assiopena - vendicatrice. Minerva Ausiliare - che aiuta. Minerva Calcidica - dell'Eubea. Minerva Calinite - che mette le briglie ai cavalli. Minerva Capita - che comanda. Minerva Celeuteia - che cammina. Minerva Cissea - dell'edera. Minerva Colocasia - col manto di feltro. Minerva Coria - inventrice delle quadrighe. Minerva Coronide - civetta. Minerva Corifasia - uscita dalla testa. Minerva Crastia - per il tempio sibarita. Minerva Crisia - d'oro. Minerva Equestre - che combatte a cavallo. Minerva Ergane - industriosa, patrona delle arti decorative. Minerva Glaucopide - dagli occhi lucenti.

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Minerva Igiea - che restituisce la salute. Minerva Ingeniosa - intelligente. Minerva Ippia - perchè inventò di attaccare i carri ai cavalli. Minerva Larissea - di Larissa. Minerva Leitis - la bella Dea. Minerva Lennia - adorata a Lenno. Minerva Lesira - che procura bottini in guerra. Minerva Mantide - di Aiace. Minerva Medica - medico, curatrice. Minerva Memore - che si ricorda delle preghiere. Minerva Nicefora - che porta vittoria. Minerva Oftalmite - che protegge gli occhi. Minerva Ostalmite - dagli occhi benevoli. Minerva Pacifera - portatrice di pace. Minerva Parcia - dalle belle gote. Minerva Partenia - sempre vergine. Minerva Peana - guaritrice. Minerva Plinteria - velata. Minerva Poliade - della città. Minerva Poliuca - che conserva la città. Minerva Promacorma - colei che sta davanti a tutti in battaglia. Minerva Pronea - del pronao. Minerva Pronoia - la provvidenza. Minerva Sapiens - sapiente. Minerva Salpinga - inventrice della tromba. Minerva Tritogenia - tre volte potente per la nascita. Minerva Tritonia - che comparve per la prima volta accanto al fiume tritone. Minerva Virgo - la vergine. Minerva Zosteria - (della cintura) quando era armata per la battaglia.

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Minerva Tritonia : Museo Archeologico Lavinium - Pomezia

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Dea Minerva – Etrusca

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Dea Minerva - Romana

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Tempio di Minerva al foro di Nerva

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Tempio di Minerva a San Lucio

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Scosse la testa, non credeva a quello che vedeva e molte domande affiorarono nella sua mente. Quale significato dare a quella apparizione? Perché proprio a lei? Era successo veramente, un sogno o l‟inizio di qualche disturbo mentale? Michelle lasciò cadere il libro e alzò lo sguardo verso l‟orizzonte ab-bandonando per qualche minuto i suoi pensieri, i suoi dubbi. Ora si godeva quel tramonto, le ultime fasi di una giornata che l‟avrebbe segnata profondamente nel suo carattere e non solo. Os-servava quella luce naturale che lentamente, ma inesorabilmente la-sciava il posto alla luce artificiale prodotta dall‟uomo e a quella ri-flessa della luna. Come una scure calavano le ombre della notte sulla città cambiando a poco a poco il colore del cielo e di tutto il pae-saggio. Tutto sembrava sparire, ma tutto era presente dentro a quel-la oscurità. Un profondo turbamento si impossesso di Michelle quando, una grossa nube tenne nascosta la luna; tutto divenne più scuro e la luce dei lampioni stradali faceva fatica a contrastare il buio che avanzava. Piccole ombre procedevano sui marciapiedi in modo frenetico. Era-no i ritardatari che affrettavano il passo per fare rientro nelle loro case. Ogni tanto qualche auto di passaggio illuminava quelle ombre e, solo allora si poteva distinguerne il sesso. Due, di quelle ombre, attirarono la sua attenzione. Una dietro a l‟altra percorrevano, fret-tolosamente, il marciapiede proprio di fronte al suo palazzo. Quella che precedeva affrettò il passo come per allontanarsi il più possibile da quella che le stava dietro, ma inutilmente. L‟ombra più grande le stava incollato a qualche metro di distanza. Con uno scatto la picco-la ombra cerco di aumentare quella distanza, ma tutto fu inutile. L‟ombra più grande, con un balzo, annullò immediatamente quello spazio appena guadagnato dalla piccola ombra e, con un secondo scatto, si fuse con essa dando così inizio ad un rimescolamento di luci ed ombre che aveva tutte le connotazioni di una lotta. A tratti la piccola ombra sembrava farcela a distaccarsi, ma la grande ombra, come un grosso pianeta, attirava a se la piccola ombra. Una forza di gravità cui la piccola ombra non riusciva a sfuggire.

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Michelle, a quell‟aggressione, balzò in piedi e sporgendosi dal ter-razzo, con rabbia gridò verso quell‟uomo che stava tormentando quella ragazza. Per tutta risposta l‟uomo trascinò la ragazza in una rientranza e fu allora che accadde qualcosa d‟incredibile. Armelle, stimolata da una forza sopranaturale, incominciò a lievita-re; i suoi occhi erano diventati piccoli soli ed irradiavano una luce accecante. Ora il suo corpo, avvolto in una luce azzurrina, fluttuava nell‟aria e si diresse, sorretto da una forza invisibile, verso quell‟angolo di strada dove era iniziato un tentativo di violenza. Ar-melle, appena toccò terra, alzò il braccio destro al cielo e per incan-to, nel suo pugno, si materializzò una spada. Era la mitica arma della dea Minerva. Con decisione si frappose fra le due ombre ed affrontò l‟uomo rote-andole davanti quella misteriosa arma. La scia di luce, che la spada lasciava dietro, era impressionate e questo fu sufficiente a fare scap-pare il malcapitato. La ragazza, con le mani a protezione degli occhi, guardava stupefat-ta quella figura avvolta da quella mitica luce che, come una dea, era venuta in suo soccorso. Non riusciva a parlare, non sapeva come comportarsi, troppo forte era stata l‟emozione. In suo soccorso le venne Armelle che allungò la mano sinistra e le disse:‹‹Non avere paura di me. Sono una ragazza come te che vuole solo aiutarti.›› A quelle parole, la fanciulla, si lasciò toccare e fiduciosa si avvicinò ad Armelle e con gli occhi sbarrati per lo stupore esclamò:‹‹Grazie!... Grazie!›› e continuò chiedendo:‹‹ Ma chi sei? Cosa è questa luce che ti circonda? Da dove vieni?›› Armelle accennò un sorriso e le pose una mano sulla bocca e le sug-gerì:‹‹Ora vai a casa e dimentica quello che è successo.›› Armelle non poteva parlare di cose che non riusciva ancora a com-prendere e quindi decise di allontanarsi. La ragazza restò per qual-che istante a guardare quella donna che si allontanava ancora avvol-ta da quella strana luce che lentamente si affievoliva sino a scompa-rire e, con essa Armelle. Ancora sbalordita per quello strano, ma efficace incontro, la ragazza affrettò il passo e si allontanò per fare rientro a casa, si girò un ulti-

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ma volta, ma la sua salvatrice era ormai svanita, inghiottita dall‟oscurità. Armelle, protetta dal buio, era giunta sotto al suo ter-razzo, alzò lo sguardo verso il suo appartamento e bastò che deside-rasse di stare in quel luogo che il suo corpo fu sollevato da quella misteriosa forza e con un balzo si ritrovò sul terrazzo del suo appar-tamento. Armelle, appena posò i piedi su quel terrazzo, si recò nella sua ca-mera da letto, aprì l‟anta dell‟armadio dove era collocato un grande specchio e incominciò a fissarsi. Gli occhi erano normali, ora non vedeva più quella luce. Si carezzò i lunghi capelli, poi, con un rapido gesto li buttò dietro alle spalle. Fece scivolare la camicia da notte ai suoi piedi ed esaminò il corpo. Si carezzò le spalle, i fianchi, le mammelle e le gambe cercando un segno, una risposta a quello stra-ordinario fenomeno. Restò di fronte a quello specchio per diversi minuti, ma niente, nessuno indizio che potesse soddisfare la sua vo-glia di sapere. Delusa raccolse la vestaglia e si rifugiò nel letto. Ci volle parecchio tempo, quella sera, prima di addormentarsi, ma si assopì con il pensiero che l‟indomani sarebbe ritornata in quel luogo dove tutto era iniziato. L‟alba arrivò puntuale, come avviene da millenni, con la sua forza vitale che fa destare tutti gli esseri viventi infondendogli fiducia e nuova vitalità. Michelle stropicciò le palpebre, aprì gli occhi e fece un grande sbadiglio, poi si stiracchiò allungando le mani sino a toc-care la spalliera del letto e poi la parete alle sue spalle. Una smorfia apparve sul suo volto mentre ripercorreva con la mente i fatti acca-duti il giorno prima; era stato tutto un sogno? Quale era veramente la realtà? Mentre si preparava per uscire dal suo appartamento pen-sò che solo ritornando in quel luogo poteva avere una risposta alle sue domande, ai suoi dubbi. Un ultimo sguardo allo specchio posto vicino all‟ingresso come per indagare quel volto che conosceva; viso osservato mille e più volte ma che ora vedeva diverso, più luminoso e nei suoi capelli erano apparsi dei riccioli di un rame brillante che contrastavano fortemen-te il colore naturale dei suoi capelli. Cercò con le mani, più volte, di

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lisciarli ma non ottenne nessun risultato, così si decise ad uscire di casa per ritornare in quel località dove tutto era iniziato. Durante il viaggio, dal centro di Roma alla periferia, scrutava con gli occhi quei resti di Roma Imperiale, assediati da costruzioni che ten-tavano, ma senza riuscirci, di offuscare la loro magnificenza. Nono-stante alcuni fossero solo dei ruderi sovrastati da palazzoni e, in al-cuni casi, invasi da vegetazione spiccavano per originalità, armonia, e audacia distinguendosi dall‟anonimato della maggioranza delle co-struzioni moderne. Quando fu fuori Roma la campagna che si apriva alla sua vista e che prima era dedita a diversi tipi di coltura, che seguiva quei ritmi lenti delle stagioni, ora era preda di un frenetico sviluppo urbanistico. I verdi pendii e i campi rigogliosi narrati dagli eroi del passato mo-stravano i segni dell‟abbandono. La via Pontina che scorre parallela alla via Laurentina ( strada che un tempo conduceva le legioni ro-mane verso sud) ora era trafficata da legioni di auto che ogni giorno e ad ogni ora la percorrono scuotendola profondamente. Dopo un ora di traffico, alle porte di Pomezia, giunse finalmente presso il lago delle meraviglie. Appena varcò il cancello d‟ingresso di quell‟oasi incontrò due pescatori pronti per una battuta di pesca sportiva; unica attività possibile sulle rive di quello specchio d‟acqua. Armelle parcheggiò la sua piccola utilitaria sotto l‟ombra di un sali-ce, spense il motore, uscì dall‟abitacolo e si diresse lentamente nel luogo dove aveva avuto quella visione. Dopo aver percorso il bordo del laghetto lungo un piccolo sentiero giunse sotto la collina che so-vrastava un lato del lago. Incominciò a guardarsi intorno, riconobbe il punto esatto dell‟apparizione e con timore percorse gli ultimi metri. Quando giunse sul punto esatto un brivido di freddo invase la sua schiena e la scosse per alcuni secondi per poi trasformarsi in dolce calore; un caldo diverso che non faceva sudare ma che distendeva i muscoli, che rassicurava e rasserenava. Armelle incominciò a parlare con quella figura che si era materializ-zata davanti a lei e a pochi metri di distanza; avvolta da una luce dif-fusa ma che non accecava, la Dea minerva Tritonia armata di lancia

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e scudo la incoraggiò Armelle, con un cenno del capo, a continuare a parlare. Sulla riva opposta i due pescatori intenti a pescare osservavano, ogni tanto, quella ragazza ferma ai piedi della collina; ora era immobile e come una statua fissava un punto ben definito, un punto scuro sot-to quella massa di terra che sovrastava il lago. Adesso sembrava che parlasse con qualcuno, ma era sola. Uno dei pescatori incuriosito da quello stano comportamento do-mandò al collega:‹‹ Sarà mica matta quella li?›› indicando la ragazza. ‹‹Be! Oggi giorno non bisogna meravigliarsi più di niente!›› esclamò l‟altro mentre effettuava un nuovo lancio con la canna. I due intenti a pescare non potevano vedere ciò che Armelle vedeva. Minerva si presentò alla fanciulla armata con alto elmo e corazza, nella mano destra impugnava una corta spada, con la sinistra im-bracciava lo scudo, appoggiato sulla testa del Tritone. Un grande serpente attorcigliato intorno al braccio e serpentelli, uc-celli e quadrupedi ornavano il grande scudo su cui erano incisi nu-merosi quarti lunari. Minerva rappresenta la divinità garante dei riti di passaggio cui numerose giovani donne e adolescenti si rivolgeva-no in cambio della sua protezione. Ecco cosa vedeva Armelle. Il desiderio della ragazza di capire di più sui poteri acquisiti e sui misteri narrati nelle leggende la spinse a domandare alla Dea di portarla con lei in quello spazio fatto di luce, che esiste ma che solo i prescelti possono viverci. La Dea sorrise e rispose:‹‹ Se è questo che desideri, allora vieni.›› Un attimo dopo una luce intensa avvolse le due donne portandosele via. I due pescatori videro quel fenomeno lumino e l‟improvvisa spari-zione della ragazza e restarono per diversi secondi attoniti; non riu-scirono a parlarsi e tantomeno a guardarsi negli occhi. Nessuno dei due volle commentare l‟accaduto e continuarono nella loro attività di pesca in silenzio.

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Pensieri

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Il tempo.

Sento il soffio del tempo, il suono provenire dal passato, il corpo n‟è invaso, confuso, stordito. Grida di gioia e di dolore, si mescolano nella mia mente, son voci delle ere passate.

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Amare. Coricarsi con la terra. Condividere il suo calore sino a raggiungere, il calore dell‟amore.

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I Sogni Come una nube vaga la mente, spinta dal soffio dei desideri. Aprire nuovi orizzonti attraversare confini, per raggiungere i sogni.

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Mare Ho incontrato il mare in un istante di pace. Nessun fragore, un solo colore. Gli ho toccato l‟anima, mentre vibrava. Ho sentito la vita, ho visto l‟eternità.

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Acqua di mare Acqua dal profumo inebriante, stuzzicante, elettrizzante. Acqua quieta, a volte strepitante, fragorosa e rimbombante. Acqua limpida, chiara, che diventa azzurra e poi d‟orata. Acqua profonda e misteriosa, impenetrabile e oscura. Guardarti è perdersi nell‟infinito dell‟orizzonte tuo. Navigarti è abbandonarsi al destino, alla ricerca di un nuovo inizio. Sfidarti è come duellare con l„eterno sonno. Amarti è vivere per sempre nel grembo materno. Acqua che unisci e dividi i figli della madre terra. Acqua antica e fonte di vita. Il tuo respiro è un canto che stordisce, melodia d‟amore. Nelle notti di luna piena è un respiro leggero. Un bacio di due innamorati, nel tuo andare e venire contro la sabbia che si lascia carezzare. Una pace che dura una notte stellata, quando alcune stelle, cadute dal cielo, su di te riposano ma non sono stelle. Sono lampare cullate dall‟acqua di mare.

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Indice

Prefazione 7 Nota dell‟autore 8 Biografia 11 Lo sbarco di Enea 13 Dove fu fondata Roma 39 Le rive di Enea 45 Il vecchio ulivo 53 Gita al castello 63 Il lago delle meraviglie 83 Pensieri 109

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Artetremila Edizioni

NUMICUS – L‟alba di Roma.

Di Giulio Buonanno

Finito di stampare nel mese di Marzo 2012. Da melostampo.it

Tipografia Zanzibar Soc. Coop. p.a. ONLUS – Ancona

Associazione Culturale Artetremila Pomezia (RM)

www.artetremila.it [email protected]

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