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1 Platone totalitario? Platone totalitario? Karl Popper e il dibattito novecentesco sul pensiero politico di Pla- tone Scritto tra il 1938 e il 1943, sotto l’impulso dell’Anschluss e del suc- cessivo propagarsi del totalitarismo nazifascista, il saggio La società aperta e i suoi nemici di K.R. Popper era destinato a fare scalpore anche e soprattutto per l’interpretazione del pensiero politico di Pla- tone in esso contenuto. Popper non disconosce affatto la grandezza di Platone come pensa- tore, ma proprio la straordinaria auctoritas di cui gode rende ancor più pericolosa l’applicazione di una dottrina politica che contiene in sé un grave errore: la “teorizzazione della società chiusa”. Sostenendo da una parte la necessità di applicare allo Stato l’idea di Giustizia e affermando dall’altra che di essa è depositario il solo fi- losofo, Platone fornisce di fatto la giustificazione della subordinazio- ne del popolo a una classe dirigente, dell’accettazione di un ruolo su- bordinato e passivo in cui – potremmo dire – risiederebbe la “giusti- zia degli ingiusti”. Come afferma Dario Antiseri, uno dei maggiori commentatori del pensiero di Popper su Platone, il filosofo-re di Platone è il solo a co- noscere la giustizia, per cui può e deve guidare i suoi sottoposti ed esigere da loro un’obbedienza incondizionata. La mistica di Platone – per citare Hans Kelsen – costituisce la giustificazione della sua po- litica antidemocratica. Tradendo Socrate, il suo maestro – sostiene Popper – “Platone fu co- stretto a combattere il libero pensiero e il perseguimento della veri- tà. […] Nonostante l’avvertimento di Socrate a guardarsi dalla mi- santropia e dalla misologia, fu indotto ad avere sfiducia nell’uomo e a temere l’argomentazione razionale. Nonostante il proprio odio del- la tirannide, fu spinto a vedere nel tiranno un possibile aiuto e a di- fendere le più tiranniche misure”. La società aperta e i suoi nemici – scrive Antiseri nella prefazione all’edizione italiana del testo di Popper da lui curata (Roma 1996) –

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Platone totalitario?

Karl Popper e il dibattito novecentesco sul pensiero politico di Pla-tone

Scritto tra il 1938 e il 1943, sotto l’impulso dell’Anschluss e del suc-cessivo propagarsi del totalitarismo nazifascista, il saggio La società aperta e i suoi nemici di K.R. Popper era destinato a fare scalpore anche e soprattutto per l’interpretazione del pensiero politico di Pla-tone in esso contenuto.Popper non disconosce affatto la grandezza di Platone come pensa-tore, ma proprio la straordinaria auctoritas di cui gode rende ancor più pericolosa l’applicazione di una dottrina politica che contiene in sé un grave errore: la “teorizzazione della società chiusa”.Sostenendo da una parte la necessità di applicare allo Stato l’idea di Giustizia e affermando dall’altra che di essa è depositario il solo fi-losofo, Platone fornisce di fatto la giustificazione della subordinazio-ne del popolo a una classe dirigente, dell’accettazione di un ruolo su-bordinato e passivo in cui – potremmo dire – risiederebbe la “giusti-zia degli ingiusti”.Come afferma Dario Antiseri, uno dei maggiori commentatori del pensiero di Popper su Platone, il filosofo-re di Platone è il solo a co-noscere la giustizia, per cui può e deve guidare i suoi sottoposti ed esigere da loro un’obbedienza incondizionata. La mistica di Platone – per citare Hans Kelsen – costituisce la giustificazione della sua po-litica antidemocratica.Tradendo Socrate, il suo maestro – sostiene Popper – “Platone fu co-stretto a combattere il libero pensiero e il perseguimento della veri-tà. […] Nonostante l’avvertimento di Socrate a guardarsi dalla mi-santropia e dalla misologia, fu indotto ad avere sfiducia nell’uomo e a temere l’argomentazione razionale. Nonostante il proprio odio del-la tirannide, fu spinto a vedere nel tiranno un possibile aiuto e a di-fendere le più tiranniche misure”.“La società aperta e i suoi nemici – scrive Antiseri nella prefazione all’edizione italiana del testo di Popper da lui curata (Roma 1996) –

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è uno dei grandi libri di questo secolo, un classico della democrazia. È una difesa della democrazia dai suoi nemici, nemici quali Platone, Hegel o Marx. […] È stato Platone, scrive Popper, ad inquinare l’in-tera teoria politica dell’Occidente. ‘Chi deve comandare?’ – questa è, ad avviso di Platone, la domanda essenziale cui dovrebbe rispondere il teorico o filosofo della politica. A tale domanda Platone risponde che devono comandare i filosofi. La stessa domanda ha poi ricevuto, di volta in volta, le risposte più disparate: devono comandare i reli-giosi; devono comandare i militari; devono comandare i tecnici […]; deve comandare questo o quel ceto; deve comandare questa o quel-la razza; questa o quella classe. […] Ebbene questa ricerca è impos-sibile, è ricerca di ciò che non esiste: nessun individuo o gruppo o razza o classe è venuto al mondo con l’attributo della sovranità su-gli altri. […] Non chi deve comandare, ma come controllare chi co-manda: questo è quanto vogliono sapere uomini fallibili che costrui-scono, proteggono e perfezionano le istituzioni democratiche, regole che permettono la pacifica e laboriosa convivenza di uomini fallibili e portatori di idee e ideali diversi o anche contrastanti”.

Riportiamo alcuni passaggi tra i più significativi del testo di Popper: Il principio della leadership e Platone tradisce Socrate, nonché due interviste, concesse entrambe al quotidiano la Repubblica, concernen-ti il dibattito aperto dall’interpretazione platonica dello studioso. La prima, concessa da Mario Vegetti – uno dei maggiori studiosi con-temporanei di Platone – che è, insieme, una difesa del pensiero del grande filosofo greco, ma anche un pacato ripensamento della lettu-ra di Popper e delle istanze che l’hanno generata; la seconda, a Gio-vanni Reale, in cui il grande studioso della filosofia classica prende le distanze dalle interpretazioni totalitaristiche di Platone, ma anche da ogni forma di facile equiparazione dell’idea antica e di quella mo-derna di politica e di democrazia.

Il principio della leadership

1.

È mia convinzione che, esprimendo il problema della politica nel-la forma: «Chi deve governare?» o «La volontà di chi dev’essere

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decisiva?», ecc., Platone abbia prodotto una durevole confusione nel campo della filosofia politica. In realtà, essa è analoga alla con-fusione da lui prodotta nel campo della filosofia morale con la sua identificazione fra collettivismo e altruismo. È evidente che, una volta formulata la domanda: «Chi deve governare?», non si posso-no evitare risposte di questo genere: «i migliori» o «i più sapien-ti» o «il governante nato» o «colui che padroneggia l’arte di go-verno» (oppure, forse, «La Volontà Generale» o «La Razza Supe-riore» o «I Lavoratori della Industria» o «lI Popolo»). Ma una rispo-sta siffatta, per quanto convincente possa sembrare – infatti, chi potrebbe difendere il governo del «peggiore» o del «più grande stolto» o dello «schiavo nato»? – è, come cercherò di dimostrare, assolutamente sterile.Prima di tutto, una risposta siffatta è destinata a persuaderci che sono stati risolti alcuni fondamentali problemi di teoria politica. Ma se guardiamo alla teoria politica da un angolo visuale diverso, ci rendiamo ben presto conto che, lungi dall’aver risolto qualche problema fondamentale, noi lo abbiamo semplicemente aggirato, presumendo che sia fondamentale la domanda: «Chi deve gover-nare?». Infatti, anche coloro che condividono questo atteggiamen-to di Platone ammettono che i dirigenti politici non sono sempre sufficientemente “buoni” o “saggi“ (non dobbiamo troppo preoc-cuparci del preciso significato di questi termini) e che non è affat-to facile ottenere un governo sulla cui bontà e saggezza si possa senz’altro contare. Ammesso ciò, dobbiamo chiederci se il pensie-ro politico non debba fin dal principio prospettarsi la possibilità di un governo cattivo; se non debba cioè di norma aspettarsi di ave-re i leader peggiori e soltanto sperare di avere i migliori. Ma ciò ci porta a un nuovo approccio al problema della politica, perché ci costringe a sostituire alla vecchia domanda: Chi deve governa-re? la nuova domanda: Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompe-tenti facciano troppo danno?Coloro che credono che la vecchia domanda sia fondamentale pre-suppongono tacitamente che il potere politico è “essenzialmente” incontrollato. Essi presuppongono che qualcuno detiene il potere – o un individuo o un corpo collettivo come una classe – e presup-pongono inoltre che colui che ha il potere possa, quasi quasi, fare ciò che vuole e specialmente che possa rafforzare il proprio pote-re e quindi renderlo sempre più prossimo a un potere illimitato e

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incontroIlato. Essi presuppongono che il potere politico sia, per es-senza, sovrano. Se si parte da questo presupposto, allora, eviden-temente, la domanda: «Chi deve essere il sovrano?» è la sola do-manda importante alla quale si deve rispondere.Chiamerò questo presupposto la teoria della sovranità (incontrol-lata), usando tale espressione non per riferirmi a una qualunque e specifica teoria della sovranità fra le varie teorie di questo gene-re, formulate più particolarmente da autori come Bodin, Rousseau o Hegel, ma per indicare il più generale presupposto che il pote-re politico è praticamente incontrollato o la richiesta che tale do-vrebbe essere; insieme con l’implicazione che l’essenziale problema da risolvere è quello di mettere questo potere nelle mani miglio-ri. Una siffatta teoria della sovranità è tacitamente presupposta dall’approccio di Platone e da allora essa ha esercitato il suo ruo-lo. Essa è anche implicitamente presupposta, per esempio, da que-gli autori moderni i quali credono che il problema essenziale sia questo: Chi deve comandare? I capitalisti o i lavoratori?Senza entrare in una critica dettagliata, desidero segnalare che ci sono serie obiezioni contro un’avventata e implicita accettazione di questa teoria. Quali che possano apparire i suoi meriti specula-tivi, essa costituisce certamente un presupposto assolutamente ir-realistico. Nessun potere politico è mai stato incontrollato e finché gli uomini restano umani (finché non si sarà realizzato il Brave New World), non ci può essere alcun potere politico assoluto e illimita-to. Finché un uomo non può accumulare nelle sue mani abbastan-za forza fisica da dominare tutti gli altri, egli deve dipendere dai suoi aiutanti. Anche il più potente tiranno dipende dalla sua poli-zia segreta, dai suoi accoliti e dai suoi carnefici. Questa dipenden-za significa che il suo potere, per quanto grande sia, non è affat-to incondizionato e che deve fare delle concessioni opponendo un gruppo all’altro. Essa significa che ci sono altre forze politiche, al-tri poteri oltre al suo, che egli può esercitare il suo dominio solo utilizzandoli e pacificandoli. Ciò mostra che anche i casi estremi di sovranità non sono mai casi di sovranità pura e incondizionata. Non si dà cioè mai il caso che la volontà o l’interesse di un uomo (o, ammesso che una cosa del genere esista, la volontà o l’interesse di un gruppo) possa conseguire il suo fine direttamente, senza rinun-ciare a parte di esso per mettere al proprio servizio forze che non può conquistare. E, nella stragrande maggioranza dei casi, le limi-tazioni del potere politico sono molto maggiori di queste.

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Ho sottolineato questi punti empirici, non perché intenda usarli come argomentazione, ma semplicemente allo scopo di evitare obie-zioni. La mia convinzione è che ogni teoria della sovranità trascu-ra di affrontare una più fondamentale questione – la questione, cioè, di sapere se non dobbiamo sforzarci di realizzare il controllo istituzionale dei governanti bilanciando i loro poteri mediante la contrapposizione di altri poteri. Questa teoria dei freni e dei con-trappesi può almeno pretendere un’attenta considerazione. Le sole obiezioni a questa pretesa, per quanto riesco a vedere, sono:a) che un controllo siffatto è praticamente impossibile;b) che esso è essenzialmente inconcepibile perché il potere politi-

co è essenzialmente sovrano.Entrambe queste obiezioni dogmatiche sono, a mio giudizio, con-futate dai fatti; e con esse cade anche un buon numero di altre concezioni largamente diffuse (per esempio, la teoria che la sola alternativa alla dittatura di una classe è quella di un’altra classe).Al fine di sollevare la questione del controllo istituzionale dei go-vernanti, noi non abbiamo bisogno di altri presupposti all’infuori di questo: che i governi non sono sempre buoni o saggi. Ma, dal momento che mi sono un po’ soffermato su fatti storici, credo di dover confessare che mi sento incline ad andare un po’ oltre que-sto presupposto. Sono portato a ritenere che i governanti sono sta-ti raramente, sia moralmente che intellettualmente, al di sopra del-la media e spesso al di sotto di essa. E penso che, in politica, sia ragionevole adottare il principio di essere pronti al peggio, nella misura del possibile, anche se, naturalmente, dobbiamo, nello stes-so tempo, cercare di ottenere il meglio. Mi sembra stolto basare tutti i nostri sforzi politici sull’incerta speranza che avremo la for-tuna di disporre di .governanti eccellenti o anche competenti. Per quanto appassionata sia, da parte mia, la considerazione di queste faccende, devo tuttavia richiamare l’attenzione sul fatto che la mia critica della teoria della sovranità non dipende da queste più per-sonali opinioni.A prescindere da queste personali opinioni e a prescindere anche dai summenzionati argomenti empirici contro la teoria generale della sovranità, c’è anche un genere di argomentazione logica che si può usare per mostrare l’inconsistenza di ognuna delle partico-lari forme della teoria della sovranità; più precisamente, l’argomen-tazione logica può assumere diverse ma analoghe forme per com-battere la teoria che i più sapienti devono governare o anche le

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teorie che il migliore, o la legge, o la maggioranza, ecc., devono governare. Una particolare forma di questa argomentazione logi-ca è diretta contro una versione troppo ingenua del liberalismo, della democrazia e del principio che la maggioranza deve gover-nare; ed è in qualche modo simile al ben noto “paradosso della li-bertà” che fu usato per la prima volta e con successo da Platone. Nella sua critica della democrazia e nel suo racconto dell’emergen-za del tiranno, Platone implicitamente solleva questo interrogati-vo: E che dire se la volontà del popolo decide che non esso deb-ba governare, ma un tiranno in sua vece? L’uomo libero, dice Pla-tone, può esercitare la sua assoluta libertà prima di tutto sfidando le leggi e, infine, sfidando la libertà stessa e invocando a gran voce un tiranno. Non si tratta affatto di una possibilità remota; una cosa del genere, in realtà, è avvenuta parecchie volte; e tutte le volte che è avvenuta ha posto in una disperata posizione intellettuale tutti quei democratici che adottano, come base ultima del loro cre-do politico, il principio del governo della maggioranza o una for-ma simile del principio della sovranità. Da una parte, il principio che hanno adottato impone loro di opporsi a tutto fuorché al go-verno della maggioranza, e quindi alla nuova tirannide; dall’altra, lo stesso principio impone loro di accettare ogni decisione presa dalla maggioranza, e quindi anche il governo del nuovo tiranno. L’incoerenza della loro teoria è naturalmente destinata a paraliz-zare le loro azioni. Quelli fra noi democratici che si battono per il controllo istituzionale dei governanti da parte dei governati e spe-cialmente per il diritto di far dimettere il governo con un voto di maggioranza, devono quindi fondare queste rivendicazioni su un terreno più solido che quello costituito da una teoria intrinseca-mente contraddittoria della sovranità.Platone, come abbiamo visto, pervenne a scoprire i paradossi del-la libertà e della democrazia. Ma Platone e i suoi seguaci trascura-rono il fatto che anche tutte le altre forme della teoria della so-vranità danno luogo ad analoghe incoerenze. Tutte le teorie della sovranità sono paradossali. Per esempio, noi possiamo aver scelto “il più saggio” o ”il migliore” come governante. Ma “il più sag-gio” nella sua saggezza può trovare che non lui ma “il migliore” deve governare, e “il migliore” nella sua bontà può forse decide-re che “la maggioranza” deve governare. È importante notare che anche quella forma della teoria della sovranità che postula la “Re-galità della Legge” è esposta alla stessa obiezione. Di ciò, in real-

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tà, ci si è resi conto ben presto, come è confermato dall’osserva-zione di Eraclito: «È legge anche obbedire alla volontà di uno solo».Concludendo questa breve critica, si può, a mio giudizio, asserire che la teoria della sovranità si trova in una posizione debole, sot-to il profilo sia empirico che logico. Il meno che si possa chiedere è che essa non deve venire adottata senza un’attenta considera-zione di altre possibilità.

2.

In realtà, non è difficile dimostrare che si può elaborare una teo-ria del controllo democratico la quale non presti il fianco al para-dosso della sovranità. La teoria alla quale intendo riferirmi è una teoria che non discende, per così dire, da una dottrina dell’intrin-seca bontà o legittimità di un governo maggioritario, ma piutto-sto dall’illegittimità della tirannide; per essere più precisi, è una teo ria che si fonda sulla decisione, o sull’adozione della proposta, di evitare la tirannide e di resistere ad essa.Infatti, possiamo distinguere due tipi fondamentali di governo. Il primo tipo consiste di governi di cui ci si può sbarazzare senza spar-gimento di sangue – per esempio, per mezzo di elezioni generali; il che significa che le istituzioni sociali forniscono i mezzi con i qua-li i governanti possono essere fatti dimettere dai governati e le tra-dizioni sociali assicurano che queste istituzioni non saranno facil-mente distrutte da coloro che sono al potere. Il secondo tipo con-siste di governi di cui i governati non possono sbarazzarsi che per mezzo di una rivoluzione vittoriosa – il che significa che, nella mag-gior parte dei casi, non possono affatto sbarazzarsene. lo propon-go di usare il termine “democrazia” per indicare, in forma sinteti-ca, un governo del primo tipo e il termine “tirannide” o “dittatu-ra” per il secondo. Ciò, a mio giudizio, si conforma anche stretta-mente all’uso tradizionale. Ma desidero mettere in chiaro che nes-suna parte della mia argomentazione dipende dalla scelta di que-ste etichette; e se qualcuno dovesse invertire quest’uso (come, del resto, oggigiorno frequentemente avviene) allora io semplicemen-te direi che sono fautore di quella che egli chiama “tirannide” e avversario di quella che egli chiama “democrazia”. Inoltre, io rifiu-to come irrilevante ogni tentativo di scoprire che cosa “realmen-te” o “essenzialmente” la “democrazia” significhi, per esempio tra-ducendo il termine in “governo del popolo”. (Infatti, benché “il

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popolo” possa influenzare le azioni dei suoi governanti con la mi-naccia di provocarne le dimissioni, non si governa mai da se stes-so in alcun senso concreto, pratico).Se usiamo le due formule nel modo or ora suggerito, possiamo in-dicare, come principo di una politica democratica, la proposta di creare, sviluppare e proteggere le istituzioni politiche per evitare la tirannide. Questo principio non implica per noi la possibilità di realizzare istituzioni di questo genere che siano senza difetti o esenti da errore o che ci garantiscano che le politiche adottate da un governo democratico saranno necessariamente giuste o buone o sagge o anche necessariamente migliori o più sagge delle politi-che adottate da un tiranno illuminato. (Poiché nessuna asserzione di questo genere viene fatta, il paradosso della democrazia resta evitato). Tuttavia, quel che si può dire sia implicito nella adozione del principio democratico è la convinzione che l’accettazione di una politica anche cattiva in una democrazia (finché possiamo lavora-re per un cambiamento pacifico) è preferibile alla soggezione a una tirannide, per quanto saggia e illuminata. Vista in questa luce, la teoria della democrazia non è fondata sul principio che la mag-gioranza debba governare; piuttosto, i vari metodi egualitari di controllo democratico, come le elezioni generali e il governo rap-presentativo, devono essere considerati non più che bene sperimen-tate e, in presenza di una diffusa diffidenza tradizionale nei con-fronti della tirannide, ragionevolmente efficaci salvaguardie istitu-zionali contro la tirannide, sempre aperte al miglioramento e an-che capaci di fornire metodi per il proprio miglioramento.Chi accetta il principio della democrazia in questo senso non si tro-va quindi impegnato a considerare il risultato di un voto democra-tico come autorevole espressione di ciò che è giusto. Benché accet-ti una decisione della maggioranza, al fine di assicurare il funzio-namento delle istituzioni democratiche, egli si sentirà tuttavia libe-ro di combatterla con mezzi democratici e di lavorare per la sua revisione. E se dovesse vivere fino a vedere il giorno in cui il voto della maggioranza distruggerà le istituzioni democratiche, ebbene, in tal caso, questa triste esperienza gli dimostrerà soltanto che non esiste un metodo infallibile per evitare la tirannide. Ma essa non indebolirà la sua decisione di combattere la tirannide e non espor-rà la sua teoria all’accusa di incoerenza.

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Tornando a Platone, noi troviamo che, con la sua insistenza sul pro-blema: «Chi deve governare?», egli fece propria implicitamente la teoria generale della sovranità. La questione di un controllo istitu-zionale dei governanti, e di un equilibramento istituzionale dei loro poteri, risulta quindi eliminata in partenza, senza neppur essere stata sollevata. L’interesse si sposta dalle istituzioni a questioni di personale e il problema più urgente diventa perciò quello di sele-zionare i leader naturali e di addestrarli per l’esercizio della lea-dership.In considerazione di ciò, alcuni ritengono che nella teoria di Plato-ne il bene dello stato sia in ultima analisi una faccenda etica e spi-rituale che dipende dalle persone e dalla responsabilità personale piuttosto che dalla costruzione di istituzioni impersonali. lo credo che questa interpretazione del platonismo sia superficiale. Tutte le politiche a lungo termine sono istituzionali. Nessuno può sfuggire a questa costatazione di fondo, neanche Platone. Il principio della leadership non sostituisce i problemi del personale ai problemi isti-tuzionali, ma semplicemente crea nuovi problemi istituzionali. Come vedremo, esso addirittura scarica sulle istituzioni un compito che va molto al di là di quanto si può ragionevolmente pretendere da una pura e semplice istituzione, cioè il compito di selezionare i fu-turi leader. Sarebbe quindi un errore pensare che l’opposizione fra la teoria dei contrappesi e la teoria della sovranità corrisponda a quella fra istituzionalismo e personalismo. Il principio platonico del-la leadership è ben lontano da un puro personalismo in quanto implica il funzionamento di istituzioni; ed effettivamente si può dire che un personalismo puro è impossibile. Ma bisogna dire che anche un puro istituzionalismo è impossibile. Non solo la costru-zione di istituzioni implica importanti decisioni personali, ma il fun-zionamento anche delle migliori istituzioni (come per esempio i condizionamenti e contrappesi democratici) dipenderà sempre, in grado considerevole, dalle persone che vi provvedono. Le istituzio-ni sono come fortezze: devono essere ben progettate e gestite.Questa distinzione fra l’elemento personale e l’elemento istituzio-nale in una situazione sociale è un punto che viene spesso trascu-rato dai critici della democrazia. La maggior parte di essi è insod-disfatta delle istituzioni democratiche perché trova che queste non necessariamente impediscono a uno stato o a una politica di risul-

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tare al di sotto di alcuni standard morali o di alcune richieste po-litiche che possono essere urgenti e apprezzabili. Ma questi critici rivolgono nella direzione sbagliata i loro attacchi: essi non capisco-no che cosa ci si può aspettare che facciano le istituzioni democra-tiche e quale sarebbe l’alternativa alle istituzioni democratiche. La democrazia (usando questo termine nel senso più sopra indicato) fornisce il quadro istituzionale per la riforma delle istituzioni poli-tiche. Essa rende possibile la riforma delle istituzioni senza ricorso alla violenza e quindi l’uso della ragione nella progettazione di nuove istituzioni e nell’adeguamento delle vecchie. Essa non può fornire la ragione. La questione dello standard intellettuale e mo-rale dei suoi cittadini è in larga misura un problema personale. (L’idea che questo problema possa a sua volta essere risolto da un’eugenetica istituzionaIe e da un controllo educativo è, a mio giudizio, sbagliata; fornirò più avanti alcune ragioni a sostegno di questa mia convinzione). È assolutamente sbagliato imputare alla democrazia le carenze politiche di uno stato democratico. Dobbia-mo piuttosto imputarle a noi stessi, cioè ai cittadini dello stato de-mocratico. In uno stato nondemocratico il solo mezzo per ottene-re ragionevoli riforme è quello del rovesciamento violento del go-verno e dell’introduzione di una struttura democratica. Coloro che criticano la democrazia in base a considerazioni “morali” non rie-scono a distinguere fra problemi personali e problemi istituziona-li. Dipende da noi migliorare le cose. Le istituzioni democratiche non possono migliorare se stesse. Il problema del loro miglioramen-to è sempre un problema che riguarda le persone piuttosto che le istituzioni. Ma se vogliamo dei miglioramenti, dobbiamo mettere in chiaro quali istituzioni vogliamo migliorare.C’è un’altra distinzione, nel campo dei problemi politici, corrispon-dente a quella fra persone e istituzioni. Si tratta della distinzione fra problemi dell’oggi e problemi del futuro. Mentre i problemi dell’oggi sono in larga misura personali, la costruzione del futuro dev’essere necessariamente istituzionale. Se si affronta il problema politico muovendo dalla domanda: «Chi deve governare?» e adot-tando il principio platonico della leadership – cioè il principio che i migliori devono governare – allora il problema del futuro deve configurarsi come il problema della progettazione di istituzioni per la selezione dei futuri leader.Questo è uno dei più importanti problemi nella teoria platonica della educazione. lo non esito a dire che, nell’affrontarlo, Platone

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ha totalmente corrotto e confuso la teoria e la pratica dell’educa-zione, collegandola con la sua teoria della leadership. Il danno che ne è derivato è forse ancora più grave di quello inferito all’etica con l’identificazione di collettivismo e altruismo e alla teoria politica con l’introduzione del principio della sovranità. L’affermazione che compi-to dell’educazione (o più precisamente delle istituzioni educative) è quello di selezionare i futuri leader è ancora largamente presa per buona. Scaricando su queste istituzioni l’onere di un compito che deve andare ben oltre la portata di qualsiasi istituzione, Platone è in parte responsabile del loro deplorevole stato.

Platone tradisce Socrate

Ho tentato di dimostrare che l’intellettualismo di Socrate era fon-damentalmente egualitario e individualistico e che l’elemento di autoritarismo in esso implicito fu ridotto al minimo dalla modestia intellettuale di Socrate e dal suo atteggiamento scientifico. Ma l’in-tellettualismo di Platone è tutt’altra cosa. Il “Socrate” platonico della Repubblica è la personificazione di un radicale autoritarismo. (Anche le sue osservazioni di auto-disapprovazione non si fondano sulla consapevolezza delle proprie limitazioni, ma sono piuttosto un modo ironico di affermazione della propria superiorità). Il suo fine educativo non è la stimolazione dell’autocritica e del pensie-ro critico in generale. È, piuttosto, l’indottrinamento, la modella-tura delle menti e delle anime che, (per ripetere una citazione deI-Ie Leggi), devono giungere «mediante abitudini a non conoscere, a non sapere assolutamente l’agire in qualche cosa separatamente dagli altri». E alla grande idea egualitaria e liberatrice di Socrate, all’idea che è possibile ragionare con uno schiavo e che c’è un le-game intellettuale fra uomo e uomo, un mezzo di universale com-prensione, cioè la “ragione”, si sostituisce la richiesta di un mono-polio educativo della classe dirigente, unito alla più rigida censura persino dei dibattiti orali.Socrate aveva sempre ribadito che egli non era sapiente; che non era in possesso della verità, ma che era un ricercatore, un indaga-tore, un amante della verità. E spiegava che questo atteggiamen-to era implicito nella stessa parola “filosofo”, che indica l’amante della sapienza, il ricercatore di essa in contrapposizione al “sofi-sta”, cioè all’uomo professionalmente istruito. Se mai ebbe a pro-

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clamare che gli statisti devono essere filosofi, egli voleva intende-re con ciò soltanto che, oppressi dal peso di una eccessiva respon-sabilità, essi devono essere cercatori della verità e consapevoli del-le proprie limitazioni.Come trasformò questa dottrina Platone? A prima vista può sem-brare che non l’abbia modificata affatto, non solo perché preten-de che della sovranità deIIo stato debbano essere investiti i filoso-fi, ma anche e soprattutto perché, come Socrate, definisce i filoso-fi come amanti della verità. Ma il cambiamento introdotto da Pla-tone è in realtà totale. Il suo amante non è più il modesto ricer-catore, ma l’orgoglioso possessore della verità. Da esperto dialetti-co, egli è capace di intuizione intellettuale, cioè di vedere (e di co-municare con) le eterne, celesti Forme o Idee. Posto in alto, al di sopra di tutti gli uomini comuni, egli è «come un dio, se non … divino», sia nella sua sapienza che nel suo potere. Il filosofo idea-le di Platone è prossimo sia all’onniscienza che all’onnipotenza. Egli è il Filosofo-Re. È impossibile, io credo, concepire un contrasto più radicale di quello esistente fra l’ideale socratico e l’ideale platoni-co del filosofo. È il contrasto tra due mondi: il mondo di un mo-desto, ragionevole individualista e quello di un totalitario semidio.La richiesta di Platone che debba governare l’uomo sapiente cioè il possessore della verità, il «filosofo pienamente qualificato», sol-leva, naturalmente, il problema della selezione e della formazione dei governanti. In una teoria puramente personalista (in opposizio-ne alla teoria istituzionale), questo problema potrebbe essere risol-to semplicemente dichiarando che il saggio governante sarà nella sua saggezza abbastanza saggio da scegliere per successore l’uo-mo migliore. Tuttavia, questo non è un approccio molto soddisfa-cente al problema. Troppo verrebbe a dipendere da incontrollate circostanze; un incidente può distruggere la futura stabilità dello stato. Ma l’esigenza di controllare le circostanze, di prevedere quel che potrebbe accadere e di provvedervi, deve portare in questo, come in ogni altro caso, all’abbandono di una posizione puramen-te personalista, sostituendo ad essa quella istituzionale. Come ab-biamo già osservato, il tentativo di pianificare per il futuro deve sempre portare all’istituzionalismo.

[…]Il contrasto fra il credo platonico e il credo socratico è anche mag-giore di quello che ho fin qui delineato. Platone, come ho detto, seguì Socrate nella sua definizione del filosofo. «Quali sono per te

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i veri filosofi?» – «Quelli … che amano contemplare la verità», si legge nella Repubblica. Ma Platone stesso non è del tutto sincero quando fa questa dichiarazione. Egli non crede veramente in essa, perché apertamente dichiara in altri passi che uno dei privilegi som-mi del sovrano è quello di fare largo ricorso alle menzogne e all’in-ganno «Se c’è qualcuno che ha diritto di dire il falso, questi sono i governanti, per ingannare nemici o concittadini nelI‘interesse del-lo stato».«Nell’interesse dello stato», dice Platone. Ancora una volta trovia-mo dunque che l’appello al principio dell’utilità collettiva è la con-siderazione etica suprema.La moralità totalitaria annulla ogni altra cosa, anche la definizio-ne, l’Idea, del filosofo. Non occorre ricordare che, in base allo stes-so principio dell’opportunità politica, i governati devono essere co-stretti a dire la verità. «Se … il magistrato sorprende in flagrante reato di falso un cittadino … lo castigherà come reo d’introdurre una pratica sovversiva e rovinosa per il vascello dello stato». Sol-tanto in questo senso piuttosto sorprendente i reggitori platonici – i filosofi-re – sono amanti della verità.

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Platone illustra siffatta applicazione del principio dell’utilità collet-tiva al problema della veridicità con l’esempio del medico. L’esem-pio è bene scelto, perché Platone ama presentare la sua missione politica come quella del guaritore o del risanatore del corpo mala-to della società. Ma a prescindere da ciò, il ruolo che egli assegna alla medicina getta luce sul carattere totalitario della città di Pla-tone, nella quale l’interesse dello stato domina la vita del cittadi-no dall’accoppiamento dei genitori fino alla sua tomba. Platone considera la medicina come una forma di politica o, per usare le sue parole, «un uomo di stato … è … Asclepio». L’arte medica, egli spiega, deve considerare come suo fine non il prolungamento del-la vita, ma soltanto l’interesse dello stato. «Tutti coloro che sono retti da buone leggi hanno ciascuno un compito determinato nell’am-bito statale; e debbono necessariamente eseguirlo, e nessuno può concedersi il lusso di restare malato e di curarsi per tutta la vita». In conformità con tale criterio, il medico «non ritiene di dover cu-rare, come persona non utile né a sé né allo stato, un uomo che non può compiere i suoi doveri ordinari». A ciò si aggiunge la con-

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siderazione che un uomo siffatto potrebbe avere «figli che … sa-ranno simili ai genitori» e che diventerebbero anch’essi pesi per lo stato. (Nella sua età avanzata, Platone, nonostante l’accresciuto odio per l’individualismo, accenna alla medicina in termini più persona-listici. Egli si lamenta del dottore che tratta anche i cittadini liberi come se fossero schiavi; tali dottori danno prescrizioni «come un ti-ranno superbo e tosto si scostano e si dirigono ad un altro schia-vo ammalato», ed egli invoca maggior gentilezza e pazienza nel trattamento medico, almeno per coloro che non sono schiavi). A proposito dell’uso delle menzogne e dell’inganno, Platone insiste nel dire che è «utile … come può esserlo un farmaco»; ma il reg-gitore dello stato, ribadisce Platone, non deve comportarsi come al-cuni di quei «medici mediocri» che non hanno il coraggio di som-ministrare forti medicine. Il filosofo-re, amante della verità come filosofo, deve, come re, essere «un medico più valente», perché deve essere deciso «a ricorrere spesso a menzogne e ad inganni» per il bene dei governati, Platone si affretta a precisare. Il che si-gnifica, come già sappiamo e come di nuovo apprendiamo dal ri-ferimento di Platone alla medicina, «nell’interesse dello stato». (Kant una volta fece osservare, con uno spirito radicalmente diverso, che l’affermazione «La veridicità è la miglior politica» può certamente essere contestata, ma che l’affermazione «La veridicità è migliore della politica» non può essere revocata in dubbio).Che genere di menzogne ha in mente Platone quando esorta i suoi governanti a usare una forte medicina? Crossman giustamente sot-tolinea che Platone intende «la propaganda, la tecnica di control-lare il comportamento … della massa della maggioranza governa-ta». Senza dubbio, Platone aveva soprattutto in mente queste men-zogne; ma quando Crossman dice che le menzogne della propa-ganda erano solo destinate ad uso e consumo dei governati, men-tre i governanti dovevano costituire una intellighentia perfettamen-te illuminata, non posso essere d’accordo con lui. lo penso, invece, che la rottura totale di Platone con ogni residuo dell’intellettuali-smo di Socrate non sia in nessun altro luogo più esplicita che nel passo in cui per ben due volte egli esprime la speranza che anche gli stessi governanti, almeno dopo qualche generazione, possano essere indotti a credere nella sua sovrana menzogna propagandi-stica: intendo dire nel suo razzismo, nel suo Mito del Sangue e del-la Terra; noto come il Mito dei Metalli nell’Uomo e dei Nati dalla Terra. Qui noi vediamo che i principi utilitari e totalitari di Plato-

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ne prendono il sopravvento su ogni altra cosa, anche sul privilegio del governante di conoscere la verità e di pretendere che gli sia detta la verità. La ragione del desiderio di Platone che anche gli stessi governanti debbano credere nella menzogna della propagan-da sta nella speranza di poterne accrescere in questo modo l’effet-to complessivo, onde rafforzare così il predominio della razza do-minatrice e, quindi, bloccare ogni cambiamento politico.

Traduzione di Renato Pavettoin “K.R. Popper: La società aperta e i suoi nemici,

edizione italiana Roma 1996

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Un paradigma in cielo

Intervista a Mario Vegetti di Antonio Gnoli(da La Repubblica 1-5-2009)

Un paradigma in cielo richiama il modo in cui Platone nella Re-pubblica definisce il suo modello di società giusta. Ma quel testo, credo si possa leggere e forzare in molte altre direzioni. È d’ac-cordo?«La Repubblica è un repertorio ricchissimo di metafore, di immagini, di paradossi. I primi due libri presentano una teoria dell’origine della giustizia e una genealogia della morale che portano diritto a Hobbes e Nietzsche; il quarto una psicologia dell’io scisso e conflittuale che ha il suo parallelo in Freud; il quinto l’utopia comunistica, l’abolizio-ne della proprietà privata e della famiglia; il settimo un saggio stra-ordinario di epistemologia antiempiristica delle matematiche; l’ottavo una memorabile critica parallela della democrazia e della tirannide».

E il Platone più familiare, quello delle idee, del bene e dell’im-mortalità dell’anima?«C’è anche quello. Ma la cosa impressionante è lo sforzo di tenere tutto questo insieme, se non in un sistema almeno in un movimento dialettico unitario. Certo, un progetto eccessivo, che avrebbe desta-to la comprensibile irritazione di Aristotele. Ma l’eccesso credo sia la cifra dello stile filosofico di Platone, al quale egli rimedia spesso attenuandolo con un certo distacco ironico».

A proposito di eccesso, il Novecento è sceso a valanga su questo filosofo.«C’è stata un’orgia di appropriazioni e di usurpazioni di Platone per motivi ideologici che risultano alla fine intollerabili».

Pensa alle letture “totalitarie” del suo pensiero?«Nonostante l’assimilazione proposta da Popper fra i “totalitarismi”, bisogna distinguere. I nazisti negli anni Trenta hanno trovato un’im-magine di Platone in qualche modo già predisposta al loro abuso. Questa storia comincia con Hegel che aveva negato il carattere uto-pistico della Repubblica e vi aveva letto lo spirito del tempo, il ri-flesso dell’eticità sostanziale del popolo greco. E questa eticità con-sisteva nell’unità organica della comunità statale, la sua incommen-

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surabile superiorità rispetto all’individuo. Quello che per Hegel era un limite di Platone, fu considerato un suo merito, un’idea forza nel-la Germania della crisi post-bellica, ostile tanto al capitalismo libe-rale quanto all’anarchismo socialista».

Ma in che modo il nazismo se ne appropriò?«Platone divenne una bandiera ideologica già con illustri filologi “umanisti” come Wilamowitz, Jaeger e Stenzel. Quando il program-ma del partito nazional-socialista diceva che i nazisti si proponeva-no di “governare l’ordine come guardiani nel più alto senso plato-nico del termine”, o quando Hitler scriveva nel Mein Kampf che “grecità e germanesimo” sono alleati nell’imminente lotta per la “ci-viltà”, essi non facevano che citare parole già scritte dai professori berlinesi di filologia classica».

C’era anche Nietzsche alle spalle.«C’era, ma con questa precisazione: l’idea che si dovesse formare un uomo nuovo e superiore, una “razza di signori”, i nazisti la tro-varono in parte almeno nella lettura nicciana di Platone».

Nietzsche se ne serve, Marx invece liquida Platone. Perché?«Marx lo descrive come “l’ideologo ateniese del sistema egiziano delle caste”. Sfortunatamente quel Platone divenne una specie di mantra nelle interpretazioni marxiste-leniniste».

A cosa si deve la fortuna della lettura popperiana di Platone?«Più che di fortuna direi che si debba parlare di impatto. L’aggres-sione di Popper ha turbato il sonno di tanti che consideravano Pla-tone, come dice Gadamer, “uno dei padri fondatori della nostra tra-dizione cristiana e liberale”. Ma come, abbiamo da sempre avuto in casa il nemico totalitario e non solo non ce ne siamo accorti, ma l’abbiamo studiato e onorato? Si trattava di un attacco alle radici stesse della cultura occidentale, troppo forte per venire accettato. La seconda metà del Novecento ha quindi assistito a una sequenza in-terminabile di tentativi di difendere Platone da Popper».

Difesa legittima?«Credo che un nemico come Popper aiuti a pensare Platone meglio di tanti suoi pretesi amici che ne fanno una caricatura perbenista per renderlo simile a se stessi e al loro “pensiero unico”. La questione non è di capire se Popper ha bene interpretato Platone, e di segna-

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lare i suoi errori con la matita rossa. La questione è di confrontare i presupposti teorici del pensiero politico di Platone con quelli di Popper, non dando per scontati né gli uni né gli altri: per esempio egualitarismo e antiegualitarismo, liberalismo democratico e gover-no delle élites, individualismo e comunitarismo. A questo livello, per contrasto, la critica di Popper ci aiuta a capire meglio Platone, e forse Platone può aiutarci a capire i limiti del pensiero liberal-de-mocratico».

Leo Strauss fornì una lettura ironica e dissimulatrice di Platone. Nel farlo pose al centro il complicato legame tra l’intellettuale e il potere. È un rapporto che ha ancora senso?«Strauss pensava che la filosofia fosse superiore alla politica perché il suo oggetto non è storico umano ma eterno e trascendente, e che quindi l’intellettuale non dovesse farsi coinvolgere nel gioco politi-co. Al contrario, il suo amico-rivale Kojève pensava hegelianamente che un filosofo non può rimanere estraneo alla storia e alla grande riflessione sulla verità che accade solo nel movimento storico. Que-sta discussione è interessante, ma a me pare molto viziata dal fatto che entrambi hanno un’idea del tutto astratta dei termini “intellet-tuale” e “potere”, come se in ogni epoca si trattasse sempre delle stesse figure. Quanto a Platone, il suo era un progetto in fondo illu-ministico: il governo delle élites dell’intelligenza e della conoscenza. Chi crede che oggi governino i tecnocrati pensa che in qualche modo il progetto sia stato realizzato. Chi pensa invece che siamo in preda all’anarchia capitalista e ai suoi imbonitori populisti, può ancora nu-trire qualche nostalgia per quel programma».

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platone, il tiranno inesistente

Intervista a Giovanni Reale, di Antonio Gnoli(da La Repubblica, 23-8-2002)

«Sobbalzo all’idea che ci sia ancora qualcuno che prenda sul serio l’analisi che Popper ha dedicato a Platone – a “quell’acerrimo ne-mico della libertà”, come sottoscrive acriticamente Marcello Pera – senza interrogarsi sui testi, controllarne le citazioni, metterle a con-fronto. Operazioni elementari. Oggi forse sconosciute ai più, ma alle quali uno studioso che ambisca a questo ruolo, o che ne abbia me-moria, non può sfuggire».

Colgo Giovanni Reale, tra i massimi studiosi internazionali di Plato-ne, alla fine di un lungo ed estenuante lavoro critico sulle Enneadi di Plotino. Distolto dalle sue fatiche, il professore sembra non voler pro-prio digerire l’ennesima vulgata di un Platone totalitario, comunista, infernale anticipatore di gulag.

«Riesco ancora a capire la posizione di Popper, ma mi chiedo che senso abbia oggi farsi scudo della “Società aperta e i suoi nemici” per continuare ad attribuire a Platone cose che non ha mai detto né pensato».

In che senso capisce Popper?«La sua biografia ci consente di giustificare in parte certe analisi. Egli ha assorbito l’interpretazione totalitaria e illiberale che venne fatta di Platone negli anni Trenta. Lettura che Popper ha semplice-mente amplificato a livello ideologico. Ricordo che Gadamer la con-siderava la peggiore che fosse stata data di Platone dal punto di vi-sta storico-ermeneutico».

Totalmente infondata?«Niente è totalmente infondato. Basta prendere una frase, estrarla dal contesto che le è proprio: si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Ci sono letture naziste di Platone, come letture fatte in chiave comunista. E se non basta, da tempo esiste un gruppo di studiosi americani che respinge l’idea che Platone sia stato il maestro del to-talitarismo e ne fa un anticipatore dei temi classici della democra-zia».

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Ma lei da che parte propende?«Sono sempre più convinto che l’opera di Platone vada letta meno in chiave politica e più in quella pedagogica».

Eppure “La Repubblica” sembra un grande trattato sulla politica.«Lo è, ma non nel senso in cui noi siamo abituati a pensare la po-litica. In realtà ciò che sta a cuore a Platone è il destino dell’uomo. La costruzione che egli fece dello Stato mirava a ingrandire l’uomo, a vederlo come avrebbe dovuto essere. Allora, quando Platone par-la della politeia lo fa come un uomo greco del quinto secolo e non come lo faremmo noi oggi».

La diversità in che cosa consiste?«Per noi la politica è principalmente una tecnica che ci consente di organizzare la nostra vita comune. Per il greco la politica era il luo-go in cui l’uomo organizzava e realizzava se stesso».

Chi legga oggi questo classico della filosofia non può fare a meno di vedere dietro la sua grande architettura una vera e propria ri-flessione sul potere.«Ma prima che sul potere è – ripeto – una riflessione sull’uomo. L’uomo si riflette nello Stato. Ed egli descrive lo Stato solo per ca-pire che cosa è l’uomo. Quanto al potere, se lo intendiamo come è oggi, siamo fuori strada. Per Platone il potere è la forza stessa del-la verità. L’idea è giungere a questa verità e calarla nella dimensio-ne storica. Fu questa forse la sua illusione».

Resta ad ogni modo l’accusa di un Platone assolutista e critico feroce della democrazia.«È un’accusa infondata. La democrazia alla quale si riferisce Plato-ne non è la nostra. Democrazia per lui è la demagogia, ossia la li-ceità che porta al caos. Il difetto della demagogia è ai suoi occhi l’eccesso assoluto di libertà che scivola nella licenza. è in questa si-tuazione che l’uomo scatena i suoi istinti peggiori».

È per questo che tra le forme di governo egli considera quella dei molti la peggiore?«In un certo senso è così, ma occorre fare una precisazione. In ge-nere ci si ferma al settimo libro della Repubblica e si ignora che dall’ottavo in poi egli ci parla delle forme corrotte. Ogni governo – egli ci dice – è esposto al deterioramento. Le tre forme di governo

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che Platone ha immaginato – quelle “del migliore”, “dei pochi” e “dei molti” – possono corrompersi. Ma il peggiore di tutti è il go-verno “del migliore”: il re che si trasforma in tiranno. Platone non è mai stato tenero con i tiranni».

E neppure i tiranni con lui. Ma questo è un altro discorso. Ri-mane da capire quello spirito comunista che soffia nelle sue pa-gine: la grande utopia, lo Stato giusto, i fedeli guardiani…«Il comunismo di Platone non prefigura in nessun modo il gulag, come alcuni continuano a sostenere. Certo egli auspica che i difen-sori dello Stato non abbiano proprietà, non siano legati a delle fa-miglie, non abbiano figli propri. Ma tutto questo che oggi ci può ap-parire aberrante in realtà era immaginato con il solo scopo di pro-teggere l’individuo dall’interesse particolare. È un’utopia, ma ne va capito il senso».

Ma allora come mai questo filosofo ha suscitato così tante criti-che, a cominciare da Aristotele?«Aristotele fu non solo il critico, ma anche il suo più geniale allie-vo. Egli respinse la sua dottrina delle idee, ma non sono così con-vinto che inorridisse per le sue convinzioni politiche. La virtù etica come giusto mezzo tra gli estremi egli la mutuò dal pensiero plato-nico».

Fu insomma un pensatore tutt’altro che estremista.«Chi apra i dieci libri delle Leggi, che non sono all’altezza stilisti-ca della Repubblica, può cogliere la critica platonica ai mali estre-mi: all’eccesso di illibertà, ovvero la tirannide o l’assolutismo, e all’eccesso di libertà, ossia la demagogia».