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Psaico

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Storie di ordinaria follia narrate con estrema naturalezza, al riparo da giudizi e facili moralismi. I racconti presenti in Psaico indagano la modernità con occhi disincantati e ironici e offrono uno spaccato di realtà che, seppur lievemente…

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ANTEPRIMA

Noir

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Servizi Culturali è un'associazione di scrittori e lettori nata per diffondere il piacere della lettura, in particolare la narrativa italiana emergente ed esordiente. L'associazione, oltre a pubblicare le opere scritte dai propri soci autori, ha dato il via a numerosissime iniziative mirate al raggiungimento del proprio scopo sociale, cioè la diffusione del piacere per la lettura.

Questa pagina, oltre a essere una specie di "mappa", le raggruppa per nome e per tipo. I link riportano ai siti dedicati alle rispettive iniziative.

per gli scrittori per i lettori per tutti

Per pubblicare: 0111edizioni Pubblicare un libro Collana "Gli Inediti" Collana "Generazione

E" Collana "Guest Book"

La TV dei libri

Bookino il "Contastorie" Il Cassetto dei Sogni Parlando di libri a casa di

Paolo TeleNarro

Per leggere gratis i nostri libri

Adottaunlibro EasyReader Gli Scambisti Gruppo di Lettura

Per divertirsi Eventi (in città) Fan Club (i siti dei nostri

autori) I Salotti SpeedRead

I giochi a premi e i concorsi

Concorso Il Club dei Lettori

La Banda del BookO

Il BookShop Il Giralibro (book-shop)

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Scopri le nostre iniziative

DESCRIZIONE:

Storie di ordinaria follia narrate con estrema naturalezza, al riparo da giudizi e facili moralismi. I racconti presenti in Psaico indagano la modernità con occhi disincantati e ironici e offrono uno spaccato di realtà che, seppur lievemente borderline, tocca alcuni nodi irrisolti dell’esistenza umana. Le tematiche trattate, la presenza di situazioni paradossali e lo stile asciutto avvicinano la raccolta alla produzione di autori come Chuck Palahniuk e Arthur Schnitzler.

L'AUTORE:

Luca Brancato è nato e vive (e di questi tempi non è poco). È sposato e sciagurato padre di un figlio. Laureato in giurisprudenza senza un perché, fannullone benemerito, attore, regista e, a partire da questo libro, persino scrittore.

Titolo: Psaico Autore: Luca BrancatoEditore: 0111edizioni Collana: SelezionePagine: 96 Prezzo: 11,00 euro

10,45 euro su www.ilclubdeilettori.com

Leggi questo libro e poi...

- Scambialo gratuitamente con un altro [leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di un PC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che si legge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto per liberarlo [leggi qui]

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E' la nostra web tv, tutta dedicata ai libri. Se hai il video della tua presentazione, oppure un videotrailer del tuo libro, prima pubblicali su YouTube, poi comunicaci i link. Dopo aver valutato il materiale, lo inseriremo nel canale On-Demand di TeleNarro.

Se hai in programma una presentazione del tuo libro nel Nord Italia e non hai la possibilità di girare il filmato, sappi che c'è la possibilità di accordarsi con Mario Magro per un suo intervento destinato allo scopo. Contatta Mario e accordati con lui.

PARLANDO DI LIBRI A CASA DI

PAOLO ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro

VAI AL SITO

La trasmissione di Paolo Federici dedicata ai libri. Ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro. E' possibile vedere le puntate già mandate in onda sul canale On-Demand

BOOKINO il CONTASTORIE

VAI AL SITO

"Bookino il Contastorie" ti racconta un libro in una manciata di minuti. Poi, potrai proseguire la lettura online, su EasyReader.

E se il libro ti piace, potrai richiederne una copia in omaggio con l'iniziativa Adottaunlibro. Clicca su Bookino...

IL CASSETTO DEI SOGNI

(prima trasmissione prevista a FEBBRAIO 2010)

VAI AL SITO

A differenza di "Parlando di libri a casa di Paolo", questa trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice.

E' però possibile richiedere una puntata dedicata a un libro specifico, non compreso nell'elenco di quelli selezionati, accordandosi direttamente con il conduttore, Mario Magro.

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VAI AL SITO

Con EasyReader puoi dare un'occhiata ai nostri libri prima di acquistarli. Sono disponibili online in corpose anticipazioni (circa il 30% dell'intero volume), che ti consentiranno di scegliere solo i libri che preferisci, evitando di acquistare "a scatola chiusa".

In più, con l'iniziativa Adottaunlibro, puoi richiedere in regalo il libro che sceglierai.

ADOTTAUNLIBRO scegli un libro che ti piace e PARLANE...!

VAI AL SITO

SCEGLI UN LIBRO su EasyReader aiutaci a promuoverlo e lo riceverai in omaggio!

(L'iniziativa Adottaunlibro è legata all'iniziativa EasyReader)

CONCORSO IL CLUB DEI

LETTORI

VAI AL SITO

Se hai letto un libro di un autore italiano (edito da qualunque casa editrice), votalo al concorso Il Club dei Lettori e partecipa all'estrazione di numerosi premi. La partecipazione al concorso è gratuita.

Gioca con la Banda del Booko

(che si legge BUCO)

all'ANONIMA SEQUESTRI

VAI AL SITO

In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei quali è richiesto un riscatto all'autore. Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO.

In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.

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Luca Brancato

PSAICO

www.0111edizioni.com

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www.0111edizioni.com

www.ilclubdeilettori.com

PSAICO 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Luca Brancato

ISBN 978-88-6307-247-1 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Febbraio 2010 da

Digital Print Segrate - Milano

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INDICE (R)ATTO UNICO........................................................................................... 1 MAL D’ARIA .............................................................................................. 17 MUSTAFAJ ................................................................................................. 29 PSAICOBIMBO........................................................................................... 41 GLI INTREPIDI GUERRIERI DEL FERRAGOSTO................................ 51 UN GIORNO TU SARAI VECCHIO.......................................................... 65 TREQUATTROSETTE................................................................................ 75 DALLA CIMA CON FURORE ................................................................... 85

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(R)ATTO UNICO Rit – Ratto “Homo faber fortunae suae. L’uomo è artefice delle proprie fortune”. Lo dice un tipo alla televisione. Deve essere vero anche il contrario. Io la mia sfiga me la sono costruita ben benino. Sono seduto sulla poltrona con l’uccello in mano a cercare un canale dove ci sia un po’ di figa. Niente da fare. Centotrentasei canali, più ventuno in alta definizione, e tutto quello che ho da offrire alla mia libidine è la tetto-na in minigonna di uno stupido quiz a premi. A me il silicone non mi at-tizza. In più, mentre cerco di arraparmi, c’è la vecchia che mi gira intorno ai piedi con l’aspirapolvere. Come sempre in questi frangenti, la vecchia sbriga le faccende cercando di non guardare quello che sto facendo. La cosa mi innervosisce un tantino. «Ti fa schifo, ma’?» Non risponde. Le ha già buscate ieri. Comunque lo reinfilo nelle mutande. Verranno tempi migliori. Potrei ac-quistare un porno. Ma nei porno non c’è fantasia. I porno sono per i se-gaioli seriali. Io sono un artista della masturbazione estemporanea. Girovagando di canale in canale trovo un film. È degli anni ottanta. La protagonista è un’attrice che allora era famosa e ora è scomparsa dalle scene. Ha un’acconciatura incredibile, nel film. Il protagonista maschile, invece, indossa il tipico completo anni ottanta. Cerco di afferrare anche i contenuti del film, ma non ce ne sono. Va bene così. Alla fine del primo tempo mi alzo a prendermi una birretta. Me la scolo mentre nel film si danno da fare in una scena di sesso che non mi arrapa neanche un po’. Poso la lattina sul tavolino davanti alla tv. Noto che ci so-no già due lattine vuote sul tavolino. Tre birre ed è appena passato mezzo-giorno. Penso che dovrei darmi una calmata o diventerò una balena. A proposito: vado a pesarmi. Centoventuno chili. Ottimo. Non sono in-grassato. Ritorno sulla poltrona. Il film è finito. Mi sono perso il finale. Chi se ne frega. Riprendo in mano il telecomando per ripassare in rassegna i cento-trentasei canali più ventuno. Di nuovo nulla che mi attizzi il pisello. Zero.

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Guardo l’orologio. Mezzogiorno e trentacinque. Bene. Tra meno di mezz’ora c’è il telegiornale. Lì qualcosa di interessante di solito la trovo. Mentre aspetto, mi trastullo il gingillo dentro le mutande. Alla fine il tele-giornale comincia. La tipa indossa un tailleur grigio castigato. Niente scol-latura. La vecchia è uscita. È tutto perfetto. Posso cominciare il lavoro. Uova Finito il lavoro, si è fatta ora di pranzo. È giovedì, oggi, il giorno delle uova. Allora mi alzo per prepararmi delle uova. Prima però vado a lavarmi le mani. Io ci tengo all’igiene. Poi apro il frigorifero. Niente uova. Finite. La vecchia si è dimenticata le uova. Evidentemente se le cerca. Mi tocca scendere alla bottega sotto casa per comprarle. Prima sarà meglio infilarsi i pantaloni. Esco sul pianerottolo. Sento un casino provenire dal pianerottolo del piano inferiore. Lì ci abita un dottore del pisello, con la moglie e i figli. Non che ci sia niente di male nella professione di dottore del pisello. Se piace... So-lo che a lui piace anche la passera. Così si è fatto l’amante. La moglie non è d’accordo. Mentre scendo le scale li sento litigare. Lui batte i pugni sulla porta. «Apri questa porta del cazzo!» Deformazione professionale. Io pas-so sul pianerottolo e proseguo per la mia strada. Non c’è ascensore in questo schifo di palazzo d’epoca. Dice che è bello abitare in un palazzo d’epoca. Può darsi. In ogni caso, se abiti all’ultimo piano senza ascensore, non è un cazzo bello abitare in un palazzo d’epoca. Soprattutto se pesi centoventuno chili. Al primo piano, già che ci sono, busso a casa della tipa paralitica. Non che io ci sia amico, con la paralitica. È che un mesetto fa mi ha fermato sul pianerottolo. Mi ha offerto dieci euro se scendevo a farle la spesa alla bot-tega sotto casa. Ho accettato. Le ho portato quello che mi aveva chiesto. Un pacco di roba. Lei mi ha detto di tornare la settimana dopo, per altri dieci euro. Soldi facili. Così tutti i lunedì scendo a fare la spesa per la tipa paralitica. Oggi non è lunedì, ma già che vado in bottega, busso per chie-dere se serve qualcosa. Serve niente. Proseguo per la mia strada. Esco dal palazzo. Fa un caldo porco. La bottega è proprio a fianco al pa-lazzo. Non devo nemmeno attraversare la strada. Io non attraverso mai la strada. Entro nella bottega. Il tipo dietro il bancone sta parlando al telefo-no. Io vado al banco frigorifero. Niente uova. Vado al bancone per chiede-

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re. Il tipo è ancora al telefono. Sta facendo un ordine per il negozio. «E mi porti anche le uova, che le ho finite» dice. Sfiga. Allora gioco un sistemi-no. Si sa mai. Magari la ruota gira. Rientro nel palazzo e nell’androne incrocio la figa del piano terra, insieme a sua madre. Sua madre le sta illustrando una qualche ricetta di cucina. A quanto ne so, sua madre non ha molti altri argomenti. La figa sembra non ascoltarla. Passo oltre. Senza farmi notare, do un’occhiata al culo tornito della figa. Uno spettacolo. La ruota comincia a girare. Papà Per pranzo mi faccio una scatola di hamburger scaduta ieri e mi scolo una bella birretta doppio malto. Non a tavola. A me piace mangiare sulla pol-trona. Così riempio il mio vassoio e mi accomodo. La vecchia è uscita per ritirare la pensione della merda. La merda era mio padre. È morto quando avevo otto anni. Un infarto. Era sempre fuori a la-vorare, la merda. Guadagnava un pacco di soldi. Aveva questo lato positi-vo. È grazie ai suoi soldi che ci siamo potuti permettere un appartamento in un palazzo d’epoca. La pensione, però, è tutta un’altra cosa. Non è niente. La merda mi portava ai giardinetti, da piccolo. Tutte le domeniche pome-riggio. C’è un parco giochi, ai giardinetti. Siccome la merda si sente in colpa per-ché è l’unico momento libero che ha da dedicarmi, stiamo sempre lì fino a che non fa buio. In realtà io mi rompo i coglioni molto prima. Ma sempre meglio star lì a rompermi i coglioni che a casa a sopportare lui e la vec-chia insieme. Allora scorrazzo per i giardinetti. Ci sono altri bambini, ai giardinetti. Giocano sempre a pallone. Un giorno la merda mi dice di andargli a chiedere di far giocare anche me. Io lo fac-cio. Loro mi lasciano giocare. Mi dicono di mettermi in porta. Prendo una caterva di gol. A ogni gol che prendo, un bambino che gioca con me mi dà del ciccione. Penso che conterò fino a dieci. La decima volta dice a un al-tro bambino che sono un’inutile mongolfiera. Non fa niente per non far-melo sentire. Mi volta le spalle. Io stacco l’asse di legno che fa da palo al-la porta e gli rifilo una randellata in testa. Lui crolla per terra. Sono un po’ permaloso, io.

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Le domeniche successive i bambini che giocavano a pallone non si vedo-no più, ai giardinetti. Così scorrazzo da solo. Una sera giochiamo che io scappo e la merda mi insegue. È buio e non c’è più anima viva, ai giardi-netti. Mentre scappo, la merda fa finta di non riuscire a prendermi. Ma si capisce benissimo che lo fa apposta. Poi, all’improvviso, la merda cade per terra. Io penso che la cosa faccia parte dello stupido gioco. Invece non si rialza più. Allora mi avvicino a lui. Si tocca il petto. Mi chiede di chia-mare aiuto, con un filo di voce. Io lo guardo. Resto lì, fermo. Lui tende una mano verso di me. Si sforza di sorridere. Mi dice di non avere paura. Mi ripete più volte di chiamare aiuto. Io me ne sto in piedi a fissarlo. La cosa va avanti per una mezz’oretta. Poi muore. Io torno a casa. Terapia Quando è morta la merda sono finito da una psicologa dei mocciosi. Era una biondina niente male, la psicologa dei mocciosi. Un po’ secca, ma con due belle tettine sode e le gambe lunghe. Faceva un sacco di domande. Ma soprattutto mi faceva fare i disegni. Si credeva una cazzo di maestra d’arte, forse, la psicologa dei mocciosi. Poi li guardava e alla fine ne par-lava con la vecchia. Diceva che il trauma che avevo subito era terribile. Diceva che bisognava fare i conti con la mancanza della figura paterna. La merda. Figura pater-na. La vecchia la stava ad ascoltare attentamente. Era davvero preoccupata per me, la vecchia. È sempre stata preoccupata per me. Chissà perché, poi. A me questa cosa dei disegni stava sui coglioni. Allora un giorno, dopo mesi di terapia, disegno la psicologa dei mocciosi che scappa terrorizzata mentre un moccioso con un uccello enorme in mano la rincorre. Quando vede il disegno, la psicologa dei mocciosi diventa pallida come un lenzuo-lo. Nel disegno è proprio uguale uguale alla realtà, la psicologa dei moc-ciosi. Anche io sono proprio uguale. L’unica cosa non proprio uguale è il mio pisello. Ma questo la psicologa dei mocciosi non può saperlo con cer-tezza. Per il resto, il disegno sembra una fotografia. La terapia non è servi-ta a un cazzo. Però ho imparato a disegnare.

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La bambina Finito il mio pranzo, me ne scendo in garage, dalla bambina. La bambina è la mia Ford Puma coupé millessette sedici valvole. Ho diverse cosette da sistemare. Come prima cosa metto in moto. Sgaso per benino, per tenere rodato il motore. Respiro l’odore dei gas di scarico per una buona decina di minuti. Dopo passo alla pulizia. Comincio dai finestrini. Poi gli specchietti. Luci-do i cerchioni. Mentre passo lo straccio sui paraurti, mi viene in mente di quando l’ho portata dal concessionario al garage, dieci anni fa. Era agosto. La città era deserta. Facevo i viali ai centotrenta all’ora in direzione casa, quando incrocio la polizia. Mi fermano. Patente e libretto. La poliziotta ha l’aria scazzata di una che vorrebbe essere con le chiappone a mollo. Inve-ce è in città a sudare come una scrofa, in questo agosto torrido. «Il libretto ancora non ce l’ho» le dico. «L’ho appena comprata. Non c’è nessuno in giro e volevo provarla. Abbia pazienza.» La scrofa non ha pazienza. Mi stampa una multa milionaria. Forse ha bisogno di un volontario che se la scopi. Ma sarà ben difficile che lo trovi. Per via che è un cesso, la scrofa. Questo lo penso solo. Non lo dico. Io so quando conviene tenere la bocca chiusa. Intanto sono passato agli interni. Passo il panno sul cruscotto. Sullo sterzo. Sul contachilometri. Segna 87 chilometri. Io non la uso mai, la bambina. Un po’ per non consumarla. Un po’ perché non vado mai più lontano della bottega sotto casa. Quando vado ad attaccare la spina dell’aspirapolvere alla presa, per pulire i sedili, sento un casino attraverso la parete. Sembra una scazzottata. Dall’altra parte della parete c’è lo scantinato di casa della figa. Secondo me la figa ha qualche problemino con suo padre. Magari gli piace menare le mani, al padre della figa. Medito se sia il caso di andare a suonare il campanello. Poi però ci rifletto un attimino. Cambio idea. Io sono uno che si fa i fatti suoi.

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Spesa È giorno di spesa, oggi. Dieci euro facili. Io i dieci euro li investo tutte le settimane in un bel sistemino. I dieci euro piovono dal cielo. Penso che se il destino mi ha regalato dieci euro facili a settimana, magari posso per-mettermi di chiedergli di più, al destino. Così gioco il mio bel sistemino, coi dieci euro. Tutte le settimane. Mentre mi infilo i calzoni per uscire, la vecchia se ne sta abbarbicata su una sedia, in punta di piedi. Sta tentando di togliere le ragnatele dal soffit-to, in cima alla scala che porta in solaio. Non ci arriva granché. Piange. Non perché non ci arriva, ma perché le ho mollato un ceffone, prima. Ho dovuto. Mi ha chiesto se potevo toglierle io, le ragnatele in cima alla scala che porta in solaio, essendo più alto di lei. Per quanto non ne avessi nes-suna voglia, in uno slancio di generosità le ho detto di sì. Solo che appena ci sono salito sopra la sedia si è rotta e sono caduto. Allora le ho mollato un ceffone, alla vecchia. Comunque, dopo essermi infilato i pantaloni, esco sul pianerottolo. Scen-do le scale. Al piano inferiore sento che in casa del dottore del pisello, come sempre, litigano. Si tirano le cose. Sento rumori di roba che va in frantumi. Passo oltre. Arrivato al primo piano, suono il campanello a casa della paralitica. Lei socchiude la porta e mi porge la lista della spesa e i soldi, oltre ai dieci eu-ro per me. Mentre prendo in mano il tutto, l’occhio mi cade sul suo viso. «Sarebbe pure una bella ragazza» mi dico. Se non fosse che fa ribrezzo, perché è paralitica. Allora mi chiedo: «non è che ha dei parenti, la paralitica?» Perché se ne ha, forse dovrebbero fare qualcosa per porre fine una volta per tutte alle sue sofferenze. Seratina Con i dieci euro mi sono giocato il mio bel sistemino. Sono sceso dal bot-tegaio. Il bottegaio non mi piace molto. Ogni volta che vado lì a giocare il mio sistema mi guarda come se fossi l’ennesimo deficiente che spreca soldi alla ricerca di un impossibile colpo di culo. Ma io me ne frego di quello che pensa il bottegaio. Io gioco il mio bel sistemino settimanale. Perché so che prima o poi quel colpo di culo arriverà.

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Con la mia bella ricevuta, sono tornato a casa. Ora me ne sto bello spapa-ranzato sulla mia poltrona, completamente nudo. Penso che comincerò un bel lavoretto serale, ma non subito. C’è tempo. Accendo la tv. Fa caldo. Apro la finestra. Nel palazzo di fronte ci abita una coppia di lesbiche. La finestra della loro camera da letto è giusto di fronte alla finestra della mia stanza. A me le lesbiche mi fanno arrapare. I finocchi no. I finocchi mi fanno schifo. Tanto per sgomberare il campo dagli equivoci. Comunque, anche le lesbiche hanno caldo. Anche loro tengono la finestra aperta. Si profila la possibilità di una bella seratina. Allora decido di starmene lì in agguato. Magari decidono di farsi una bella scopata, le lesbiche. Magari dalla finestra riesco a vedere tutto. Al momento sono sedute sul letto e parlano. Ma io non ho fretta. Aspetto. Mi faccio una bella birretta ghiac-ciata. Poi un’altra. Poi un’altra. Sono come il cinese che aspetta in riva al fiume. E alla fine…Bingo! Le lesbiche aprono le danze. Io sono lì che le guardo scopare strizzandomi l’arnese, quando una delle due si alza. Va verso la finestra. Si affaccia. Con le tette al vento. Mi fa segno di alzarmi. Dice proprio a me. Mi sorride. Io mi alzo mettendole in mostra orgoglioso il fuso, che orami è completamente in tiro. Lei lo guarda. Indica una misu-ra con pollice e indice. Una misura che non mi piace. Poi tira le tende. La troia. Blackout Merda! La tv si spegne continuamente. Nel bel mezzo del lavoro. Conti-nua a mancare la corrente a tutto il palazzo. È da stamattina. Dicono che forse c’è un problema di infiltrazione d’acqua. Quando non funziona la tv, che si fa? Semplice: ci si dedica al cibo. Due delle tre magnifiche coordinate dell’esistenza. Insieme alla passera. Così vado verso il frigorifero. La vecchia è in cucina. Sta preparando la cena. Vado a vedere cos’ha in mente di propinarmi. Taglia delle verdure. La cosa non è incoraggiante. Vedo il pentolame. Le chiedo. Mi dice che sta preparando un minestrone. Un cazzo di minestrone. Con quaranta gradi all’ombra. Le do una ripassa-ta. Ribalto il pentolame. Le ficco in gola le verdure. Forse esagero un po’, ma ‘sta faccenda dell’elettricità mi ha reso un tantino nervoso. Così mi sfogo. Lei piange. Non si ribella. Se le prende e basta. È da un po’ che ha assunto quest’atteggiamento passivo. Mi infastidisce. Picchio più forte.

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Niente. Ci rinuncio. Chiamo il cinese. Ordino spaghetti di soia, maiale in agrodolce, banane fritte. E due involtini primavera per la vecchia. Alla fine la corrente torna, definitivamente. Avranno chiamato l’elettricista. Religione È da stamattina che ci do dentro con la playstation. Da quattro ore cerco di superare il quinto livello. Fa un caldo boia. Mi sono scolato quasi mezza brocca da due litri di tè ghiacciato al limone. Ora è lì, sul tappeto, ai miei piedi. Ci sono quasi, stavolta, a passare il livello. Manca poco. Proprio pochissimo. Ma devo pisciare. Mi scappa proprio tanto. Allora con una manovra da maestro tiro fuori il serpente dalle mutande e miro dentro la brocca da due litri di tè ghiacciato al limone. Che diventa un po’ meno ghiacciato. Mancano le ultime due curve, quando suona il campanello di casa. Mi de-concentro. “Game over”. Cazzo. Vado a rispondere al citofono. Chiedo chi è. Vorrebbero parlarmi due minuti a proposito della presenza del bene e del male in questo mondo. Dico che non mi interessa. Insistono. Dico di salire all’ultimo piano. Cazzi loro. Nel frattempo che salgono le scale, mi infilo i pantaloni, che non è educato ricevere gli estranei in mutande. Bussano. Vado ad aprire. Chiedono permesso. Prego. Sono in due. Un uomo e una donna. Lui porta degli opuscoli. Li faccio accomodare sul di-vano. Mi parlano del bene e del male, di Dio e del demonio e di un sacco di altre cose. Poi mi chiedono se penso che ci sia la possibilità di migliora-re il mondo. Io resto un attimo in silenzio. Poi chiamo la vecchia. Lei arri-va e saluta educatamente. «Ma’, i signori qua chiedono se c’è la possibili-tà di migliorare il mondo.» La vecchia esita. «Ti sei mangiata la lingua, ma’?». Allora la vecchia fa segno di sì con la testa. Poi comincia a piange-re. Chiede scusa. Scappa di là. I due sono visibilmente imbarazzati. Forse pensano che hanno suonato il campanello sbagliato. Io gli dico: «gradite un bicchiere di tè?»

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Social network Ho conosciuto una, via internet. In un social network. Si chiama Farfalli-na96. Dove 96 sta per il suo anno di nascita. Praticamente una bambina. A me quelli che se la fanno con le minorenni mi fanno schifo, sia ben chiaro. Con Farfallina96 nasce solo un’amicizia. Ci scambiamo idee, impressioni. Ci raccontiamo le esperienze. Ovviamente io evito di renderla partecipe di certe cose. Per esempio, la vecchia non la chiamo così. La chiamo “mia madre”. La merda “il mio povero papà”. Evito di raccontare delle lesbiche di fronte. Le racconto di viaggi con la mia Ford Puma coupé millessette sedici valvole che non ho mai fatto, visto che in verità non attraverso mai nemmeno la strada. Evito di dirle che peso più di centoventi chili. Che ogni tanto do una ripassata alla vecchia. Che do da bere il mio piscio agli ospiti invadenti. O di quanto è stellare il fondoschiena della figa del pia-noterra. O che la paralitica mi fa ribrezzo. Insomma, le dico qualche sana bugia a fin di bene. Per esempio, le dico che ho diciotto anni. Però le dico anche cose vere. Tipo, le racconto del dottore del pisello e della sua aman-te. Così ci divento amico, con Farfallina96. Poi un giorno lei mi chiede di incontrarci. Di incontrarci sul serio. Io scompaio senza lasciare tracce. Peccato. Mi era simpatica, Farfallina96. Mi consolo con la tipa del tele-giornale dell’una. Esercizi Sono ingrassato. La bilancia oggi segnava centoventiquattro chili. Mi met-to in testa che dovrei fare esercizio fisico. Così compro via internet una panca e degli altri attrezzi da palestra. Arrivano dopo tre giorni. Li piazzo in camera mia. All’inizio ci do dentro sul serio. Tutte le mattine. Per via del caldo devo tenere la finestra aperta. La lesbica di fronte sta facendo cyclette. Mi guarda e mi ride allegramente in faccia. Deve essere una spe-cie di ritorsione. Io ci do dentro ancora di più. E più io ci do dentro, più la troia se la ride e pedala. Ma io me ne sbatto. Sono sdraiato di schiena sulla panca a fare pesi per i pettorali e ci do dentro. Sento il sudore gocciolare per terra. Volto la testa da una parte e vedo che si è formato praticamente un lago sul pavimento. Ma continuo a darci dentro. E la lesbica continua a ridere e pedalare. Alla fine mi arrendo. Non sento più le braccia. La troia

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invece pedala che è un piacere. Vaffanculo. La ginnastica non fa per me. Vado a farmi qualche hamburger, che ne ho bruciate, di calorie. Incidente Centoventicinque chili. È il momento di liberarmi di un po’ di zavorra. Alzo la tavoletta del cesso e mi siedo. Prendo un giornale dal portariviste. Mi alleggerisco quasi subito. Poi mi godo il piacere della lettura. Sono a pagina tre, dove descrivono le prestazioni dell’ultima nata in casa BMW, quando sento venir meno il sostegno nei bassifondi. Un attimo dopo av-verto un dolore violento salire velocemente dall’inguine, su lungo tutta la spina dorsale e all’addome. Lancio un urlo. Guardo in basso. Sarebbe sta-to meglio non farlo. Svengo. Quando mi sveglio, vedo un tipo che traffica con le mie parti basse. Metto a fuoco. È il dottore del pisello. Ha qualcosa in mano. Lo mette in un con-tenitore. Mentre aguzzo la vista per capire cosa c’è nel contenitore, arriva la vecchia tutta agitata e ci rovescia dentro un quintale di ghiaccio. Il tutto avviene in pochissimi secondi. Divento completamente cosciente e subito ritorna il dolore lancinante. Sto per urlare, quando vedo cosa c’è nel con-tenitore. Distintamente. È il mio uccello. L’urlo mi si strozza in gola. Ri-svengo. Mi sveglio. Sono su un letto. Ci sono persone che vanno su e giù. Indos-sano camici bianchi. Sono in ospedale. C’è la vecchia seduta a fianco al letto. È bianca come un cencio. Piange. Trema. Le chiedo cos’è successo. Lei mi dice che mi si è rotta la tazza del cesso sotto al culo. Proprio frantumata. Esplosa, quasi. Dice che mi ha sentito urlare ed è arrivata di corsa. Dice che c’era un lago di sangue e io in mezzo. Dice che ero svenuto. Allora lei è corsa al piano di sotto a suo-nare il campanello del dottore del pisello. Per fortuna era in casa. Dice che ci ha saputo proprio fare, il dottore del pisello. Il suo intervento immediato mi ha salvato le palle. In tutti i sensi. Poi è arrivata l’ambulanza e mi han-no portato qui. Dice che mi hanno operato. Mi hanno fatto un sacco di co-se per salvare un sacco di altre cose che stanno nelle parti basse. Natural-mente, come a qualsiasi altro uomo con la u maiuscola, a me interessa so-prattutto una cosa. Così le chiedo che fine ha fatto il mio pisello. Dice che me lo hanno riattaccato. Tiro un lungo sospiro di sollievo.

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Epilogo Torno a casa. Mi portano su per le scale sulla sedia a rotelle. Sudano come dannati. Non bestemmiano per educazione. E un po’ per via della voca-zione da volontari. Arrivati a casa, trovo la vecchia seduta sul divano. Sul pavimento ci sono due grosse valigie. In mano ha un pezzo di carta. I volontari mi aiutano a sedermi sulla poltrona. Poi salutano e se ne vanno. «Parti?» chiedo alla vecchia. Lei fa cenno di no con la testa. Piange. An-cora. Come sempre. Mi porge il pezzo di carta che ha in mano. Io lo pren-do. È la ricevuta del sistemino che ho giocato l’altro giorno. La vecchia mi dice che ho vinto settecentomila euro. E che stava per andare a ritirare il premio e scappare con la vincita. Ma all’ultimo non se l’è sentita di ab-bandonarmi. In un altro frangente le avrei spaccato la faccia. Stavolta evito. Un po’ perché mi fa pena, la vecchia. Un po’ perché allungarmi per mollarle un ceffone potrebbe farmi molto male al dildo. «Hai fatto bene a restare» le dico. «Prepara le mie valigie. Voglio dire addio a questa vita di merda il prima possibile.» Mentre la vecchia prepara i bagagli, telefono per prenotare il volo. Poi me ne sto mezz’ora seduto a fissare il biglietto vincente. Quando la vecchia si presenta con le valigie, le dico di chiamare un taxi. Lei telefona. Io mi al-zo con cautela e prendo in mano il mio bagaglio. Vado alla porta ed esco sul pianerottolo. Mi volto. La vecchia mi sta seguendo. Trascina le sue va-ligie. «Tu non vieni» le dico. Non voglio pesi morti. Scendo le scale. Da solo. Davanti al portone incontro la figa. Da qualche tempo a questa parte non ha più un bell’aspetto. È dimagrita. Ha sempre le occhiaie. Non che io la guardi in viso, quantomeno non abitualmente. Quando passa oltre mi volto a guardarle il culo. Si è rinsecchito. È un fatto grave. Non vorrei fosse ma-lata. O forse dipende dai cazzotti che le rifila suo padre. Non lo saprò mai. Perché parto. Per non tornare più. Esco in strada. Finalmente la attraverso. Di fronte, il mio taxi mi sta aspettando. La ruota ha girato. Lo dicevo io, che prima o poi girava.

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MAL D’ARIA Odio Io odio il mio lavoro. Odio la gente che si accalca inutilmente per prende-re posto. Odio quelli che impiegano dieci minuti per sistemare il bagaglio a mano nell’alloggiamento. Odio quelli che hanno bisogno del mio aiuto per far stare il loro bagaglio a mano nell’alloggiamento. Odio quelli che sistemano il bagaglio a mano in un alloggiamento lontano dal loro posto a sedere. Odio quelli che si siedono al posto sbagliato. Odio quelli che du-rante il volo passano da un sedile all’altro. Odio quelli che si portano ap-presso i bambini, che in volo sono notoriamente dei gran rompicoglioni. Odio quelli che non disattivano i dispositivi elettronici prima del decollo. Odio quelli che riattivano i dispositivi elettronici prima che l’aeromobile si sia fermato. Odio quelli che passeggiano su e giù per l’aeromobile du-rante il volo. Odio quelli che ronfano per tutto il viaggio. Odio quelli che per tutto il viaggio chiacchierano a voce alta. Odio quelli che non allac-ciano per tempo la cintura di sicurezza. Odio quelli che slacciano la cintu-ra di sicurezza prima che l’apposito segnale si sia spento. Odio quelli che non collocano lo schienale in posizione eretta. Odio quelli che si appro-priano della rivista della compagnia aerea. Odio quelli che decidono di andare alla toilette proprio mentre sto passando con il carrello portavivan-de. Odio quelli che chiedono se abbiamo il succo di mela verde. Odio quelli che quando ripasso per ritirare i bicchieri e i tovaglioli usati mi por-gono il tovagliolo sporco, anziché buttarlo direttamente con le proprie mani nella pattumiera del carrello portavivande. Odio quelli che si chiu-dono venti minuti nella toilette. Odio quelli che buttano la carta nel water anziché nell’apposito cestino. Odio quelli che usano la toilette dell’aereo per farsi la barba con il rasoio elettrico. Odio quelli che vanno di nascosto a fumare nella toilette. Odio quelli che si spaventano ad ogni minimo vuo-to d’aria. Odio quelli che mi chiamano venti volte durante il volo per le richieste più assurde. Soprattutto odio quelli che fanno l’applauso al pilota all’atterraggio. E odio anche il pilota, che si prende l’applauso e guarda tutti con la sua aria da eroe, con quel cappello ridicolo in testa. Manco fosse un Top Gun.

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Odio le mie colleghe. Olga, Miriam, Licia, Ingrid, Luana, Marisa, France-sca uno, Francesca due, Teresa, eccetera…Loro e la loro aria da buone samaritane. Odio quelli del servizio bagagli. Odio gli assistenti e le assi-stenti di terra. Odio quelli del metal detector. Odio gli inservienti addetti alla pulizia dell’aeromobile. Infine odio me stessa e il mio maledetto mal d’aria, che mi tormenta da un sacco di tempo. Se non ho citato qualcuno è solo perché lo spazio non è abbastanza per maledire tutti coloro che meritano di essere maledetti. Ciononostante, vo-glio che tutti coloro che non ho citato sappiano che per loro serbo un po-sticino nel profondo del mio cuore nero. Io sono Marica «Prego, signora. Certo, signora. Vuole che metta a posto io il suo bagaglio a mano nell’alloggiamento? Ecco fatto. Si figuri, signora. È il mio dovere. Le auguro buon volo. Se avesse bisogno, mi chiami senza esitare. Io sono Marica.» «Signore, mi scusi se la disturbo, potrei cortesemente vedere il talloncino della sua carta d’imbarco. Signore, sono desolata, ma questo posto è riser-vato a un altro passeggero. Ecco, guardi. Il suo posto è il 21/A. Invece lei si è seduto al 31/A. Si immagini, signore, non c’è alcun problema. Noi as-sistenti di volo siamo qui per questo. Se avesse bisogno, mi chiami pure. Io sono Marica.» «Ma che tesoro il suo bimbo, signora. Come si chiama? Tommaso. Un bellissimo nome. Non si preoccupi, cosa vuole che sia un po’ di bava sul bracciolo. Si asciugherà. Come dice? È un bimbo un po’ vivace? Meglio così, è segno di intelligenza. Ciao Tommaso. Io vado. Per qualsiasi cosa, signora, mi chiami. Io sono Marica.» «Sorella, la prego di collocare lo schienale in posizione eretta. Sa, è una questione di sicurezza. Si immagini, non c’è alcun problema. Come dice? Se preferisce, preghi pure, sorella, ma le garantisco che non è necessario scomodare Dio. L’aereo è in assoluto il mezzo di trasporto più sicuro. A ogni modo, se avesse bisogno, non esiti a chiamarmi, sorella. Io sono Ma-rica.» «Come dici, cara? Un succo di frutta? Certo, vado a prendertelo. Cosa gradisci, cara? No, cara, sono terribilmente dispiaciuta, ma non abbiamo

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succo di mela verde. Succo d’arancia, arancia rossa, pompelmo. Ti consi-glio il succo d’arancia rossa. Io lo trovo ottimo. Niente? Come preferisci, cara.» «Mi dica, signora. No, non si preoccupi, può chiamarmi quante volte vuo-le. È il mio lavoro. No, putroppo non è proprio possibile andare nella sti-va. Ma non deve preoccuparsi, le assicuro che Fuffi sta benone. Si, stia tranquilla. Prego signora, sempre a sua disposizione.» Nonostante tutto, è così che bisogna comportarsi. Ed è così che mi com-porto, nonostante tutto. Sono molto professionale, io. Decollo Ho finito di leccare il culo a questa mandria di stronzi prima del decollo. Miriam sta facendo quella ridicola pantomima sulle modalità di utilizzo dei dispositivi di sicurezza. Dalla cintura, alla maschera a ossigeno, al giubbotto di salvataggio. È una procedura superflua: nessuno dei presenti la sta ascoltando. Io e le altre abbiamo finito di controllare che tutti gli schienali delle pol-trone siano in posizione eretta e che tutti i passeggeri abbiano allacciato le cinture di sicurezza. Così vado a guadagnare posto nel sedile di prua, ri-volto verso i passeggeri, e allaccio a mia volta la cintura di sicurezza. Non appena mi sono accomodata, l’aereo si libra in aria. Davanti a me, la prima fila è quasi vuota. C’è solo uno che legge un giornale. Il Corriere della Sera. Ogni tanto mi guarda. Io me ne sono accorta che mi guarda, ma faccio finta di niente. Lui continua a leggere il giornale e poi a buttare l’occhio su di me, furtivo. È laido. Veramente laido. Io questi arrapati che sbavano addosso alle assistenti di volo proprio non li sopporto. Dopo una quindicina di minuti siamo in quota. Si spegne il segnale della cintura di sicurezza. Mi alzo per percorrere il corridoio. Lo faccio sempre, una volta in quota, per accertarmi che la mandria sia nel recinto. Mentre gli passo a fianco, percepisco che il laido mi guarda il fondoschiena, con molta circospezione. Io faccio ancora finta di niente. Arrivo in fondo al corridoio, dispensando sorrisi educati a tutti i passeggeri. Poi torno indie-tro verso prua. A metà del corridoio vedo che il laido procede nella mia direzione. L’esperienza mi dice che sta andando in bagno. Ha il giornale nella tasca della giacca. Mi viene un dubbio. Che poi più che un dubbio è quasi una certezza. Fondata sull’esperienza. Su migliaia e migliaia di ore

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di volo. Su decine di migliaia di laidi incontrati nella mia ancora breve ma già onorata carriera di assistente di volo. Appena ci incrociamo, io e il laido, mi faccio da parte per fargli spazio. Lui fa lo stesso, ma non si impegna più di tanto. Siamo uno di fronte all’altra e le nostre pance si sfiorano grazie al suo scarso impegno. Un bri-vido di disgusto mi percorre la schiena. Anche davanti al milionesimo lai-do è una cosa a cui proprio non riesco ad abituarmi. Contemporaneamen-te, il suo sguardo passa fugace sulle mie tette. Giusto mezzo secondo. Lui probabilmente è sicuro che io non possa accorgermene. Non ci pensa a quanti sguardi viscidi mi si sono posati sulle tette in migliaia e migliaia di ore di volo. Non ci pensa proprio che ho un sacco di esperienza, in fatto di laidi. Siamo all’altezza della quattordicesima fila. Alla mia sinistra, e alla destra del laido, è seduta la suora che non aveva collocato il sedile in posizione eretta. Quella che pregava il Signore che il volo non le riservasse brutte sorprese. Mi giro per proseguire oltre e con la mano faccio finta di impigliarmi ac-cidentalmente sul Corriere della Sera nella tasca del laido. Il giornale cade per terra. Si apre. In alto, pagina cinque del Corriere della Sera titola: “Ampliamento del diritto di voto agli immigrati: è polemica”. Ma a saltare agli occhi dei presenti è pagina undici della rivista a colori che il laido na-scondeva dentro il Corriere della Sera. C’è la foto di una rossa e di un ne-ro tutti nudi. Non c’è polemica nella foto. Proprio per niente. Anzi, i due sembrano andare d’amore e d’accordo. «Sono desolata, signore» gli faccio, mentre raccolgo il giornale e la rivi-sta. Glieli porgo. Lui, senza guardarmi, li rimette in tasca in fretta e furia. Poi fa dietrofront e torna verso il suo posto a sedere, con gli occhi e le o-recchie bassi. La suora è li che mi guarda a bocca aperta. «Bene così, sorella: “non disperdere il seme”…» le dico facendole l’occhiolino. In quota Una mezz’ora dopo ci imbattiamo in una forte turbolenza. Non era previ-sta. Mentre sto preparando il carrello con le bevande e gli snack, sento la nausea montare. Maledetta. Mi dura pochi minuti, di solito, ma sono mi-

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nuti intensi. Perciò mi siedo un attimo ad aspettare che passi l’attacco. Che razza di idea, scegliere di fare l’assistente di volo se si soffre di mal d’aria. Comunque dopo un po’ comincio a sentirmi meglio. Si è fatta l’ora di preparare il caffè per l’equipaggio. Un buon caffè italiano. Tocca sempre a me prepararlo. Sono la migliore a preparare il caffè per l’equipaggio, io. Dopo aver distribuito la quotidiana tazzina di buon caffè italiano ai piloti e alle colleghe, io e Ingrid cominciamo la distribuzione delle bevande. In-tanto la turbolenza si fa via via più violenta. La mandria è irrequieta. La maggior parte simula tranquillità, ma si vede lontano un chilometro che fa finta. Quelli più abituati a volare, invece, se ne fregano altamente. La suo-ra in quattordicesima fila prega. Poi ci sono quelli come la ragazza in venticinquesima fila, troppo impe-gnati a svolgere il loro compito di rompicoglioni per preoccuparsi della turbolenza. Infatti la ragazza della venticinquesima fila mi chiede se ab-biamo succo di mela verde. Di nuovo. Gentilmente, le ribadisco che «no, non abbiamo succo di mela verde. Solo arancia, arancia rossa, pompel-mo.» Mi permetto di consigliarle ancora una volta il succo d’arancia ros-sa, dato che io lo trovo ottimo. Niente, lei non vuole niente. Vuole solo rompere i coglioni. Infine ci sono quelli come me, che soffrono il mal d’aria. Mentre io e In-grid rientriamo dal giro di distribuzione delle bevande, un ragazzino bru-foloso in ventiquattresima fila mi porge un sacchetto per il mal d’aria. Il sacchetto è pieno. Io gli sorrido, lo maledico col pensiero e gli indico gen-tilmente la pattumiera del carrello portavivande. Lui allunga la mano per buttare il sacchetto, ma l’imbocco della pattumiera del carrello è troppo stretto. Allora il ragazzino brufoloso pensa bene di insistere con la forza. Prima che io possa fermarlo, il sacchetto si rompe e il contenuto schizza tutto intorno. Un misto di succo d’arancia rossa, snack al rosmarino, pane ormai quasi completamente digerito, insieme a un ormai irriconoscibile companatico. Oltre, naturalmente, a una discreta quantità di acidi gastrici. L’invitante poltiglia colpisce un po’ ovunque. Me, Ingrid, quelli dei sedili vicini. In particolare, l’invitante poltiglia centra in piena faccia la ragazzi-na rompicoglioni della fila venticinque. Che così ha potuto provare l’ottimo succo d’arancia rossa. Come mi dispiace.

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Fuffi In seconda fila c’è una di mezza età vestita in modo ridicolo. È la proprie-taria di Fuffi. Non ho ben capito se Fuffi è un cane o un gatto. Né se è un maschio o una femmina. Ciò di cui sono certa è che deve essere una bestia insopportabile, esattamente come la sua proprietaria seduta in seconda fi-la. La proprietaria di Fuffi mi chiama in continuazione, sin da prima del de-collo, sin da quando siamo saliti sull’aereo. È terrorizzata per la turbolen-za. Più esattamente è terrorizzata dall’idea che Fuffi sia a sua volta terro-rizzato o terrorizzata dalla turbolenza. Mi chiede per la trentesima volta se è possibile andare nella stiva per con-trollare che Fuffi stia bene. Per la trentesima volta le ripeto con estrema gentilezza che la cosa non è possibile. Allora lei mi chiede di poter parlare con il pilota. Io le dico che il pilota non si occupa di queste cose. Lei mi dice che invece dovrebbe e che se non le verrà permesso di andare nella stiva da Fuffi, allora vorrà dire che in futuro si rivolgerà a compagnie ae-ree che dimostrino un minimo di sensibilità nei confronti degli animali. In questi casi, normalmente, la politica della compagnia è quella di con-sentire al passeggero che minaccia di rivolgersi alla concorrenza di confe-rire con il pilota. Normalmente. Non quando si sta attraversando un tem-porale di queste proporzioni. Così cerco di fare capire alla proprietaria di Fuffi che il pilota, date le circostanze, non può abbandonare la cabina di pilotaggio. La proprietaria di Fuffi si dice indignata e ribadisce con convinzione che non volerà mai più con la nostra compagnia. La guardo un attimo. Ha un’espressione incattivita. Una voce petulante. L’alito cattivo. Insomma, è davvero insopportabile. A quel punto, im-provvisamente, mi rendo conto che l’occasione è ghiotta. Decido che è venuto il momento di cominciare a divertirmi un po’. «Purtroppo temo che lei non volerà mai più, signora. A meno che un mi-racolo oggi non salvi questo aereo» le dico.

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Panico So come funzionano certi meccanismi. Ce lo hanno fatto studiare al corso di formazione e in diversi corsi di aggiornamento per assistenti di volo. Basta niente. Un piccolo seme piantato in un terreno fertile e la pianta cre-sce rigogliosa in pochi minuti. Così dalla seconda fila, grazie alla lingua irrefrenabile della proprietaria di Fuffi, il panico ha cominciato a strisciare lento e inesorabile fino a poppa. Le voci sono come onde dentro un catino. Si rincorrono. Da prua a poppa, da poppa a prua, poi di nuovo da prua a poppa. E si trasformano, ingigan-tendosi sempre di più. Miriam e Ingrid ora sono lì che cercano di tranquillizzare il maggior nu-mero di passeggeri possibile. Ripetono le solite cose. Che l’Airbus su cui voliamo è un aereo di ultima generazione, costruito per resistere a tempe-ste ben peggiori di quella nella quale ci siamo imbattuti. Che i piloti hanno migliaia e migliaia di ore di volo alle spalle e hanno dovuto affrontare si-tuazioni ben più gravi. Eccetera, eccetera, eccetera… Ma ci sono tre fattori che rendono praticamente impossibile il compito delle mie due colleghe. I primo è fisiologicamente connesso alla paura, in volo. Quando si è inne-scata, solo il rumore rassicurante del carrello che tocca l’asfalto della pista può davvero disinnescarla. Nel frattempo si può solo tentare di contenerla in qualche modo per evitare che si trasformi in panico. Cosa per niente fa-cile, nel caso specifico, a causa del terzo fattore. Il secondo fattore è legato alla circostanza che l’aereo continua a sobbal-zare non poco. Il terzo fattore – il più grave – è che un membro dell’equipaggio – e cioè io - si è lasciato scappare con un passeggero che, a meno di un miracolo, nessuno sopravvivrà a questo volo. Qualunque cosa le mie colleghe dica-no o facciano, a questo punto suonerà inesorabilmente falsa, alle orecchie della mandria. Io me ne sto seduta nel posto di prua rivolto verso i passeggeri. Ho tutti gli occhi puntati addosso. Tutti mi indicano, parlando fra loro. Le mie col-leghe mi lanciano occhiate miste di incredulità e rimprovero. Io sono lì che mi godo la scena. È così gratificante percepire la paura della mandria. Anche di quelli più avvezzi al volo, che nemmeno un’ora fa se ne frega-vano della turbolenza e ora sono lì in preda al panico come tutti gli altri. Ascoltare i pianti, la rabbia, le preghiere. Osservare il sudore scendere in rivoli lungo le guance del laido e inzuppare il colletto della sua camicia. O la mamma del piccolo Tommaso intenta nell’ingrato compito di rassicura-

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re il figlio dissimulando al contempo il proprio terrore. O il ragazzino bru-foloso che ha cosparso l’aereo di vomito piangere sulle ginocchia di sua madre. O la suora in quattordicesima fila pregare in ginocchio stringendo forte in mano il suo rosario. O la ragazza appassionata di succo di mela verde urlare insulti all’indirizzo del suo fidanzato, in preda a una crisi di nervi. Mentre mi godo tutto questo, dagli altoparlanti arriva il disperato tentativo del pilota. «Signore e signori, è il comandante che vi parla. Vi prego di mantenere la calma. Vi assicuro che la situazione è del tutto sotto control-lo e che arriveremo a destinazione senza alcuna complicazione. Ci tengo a sottolineare che l’Airbus su cui voliamo è un aeromobile di ultima genera-zione, concepito per resistere a tempeste ben peggiori di quella nella quale ci siamo imbattuti. Inoltre il sottoscritto vanta più di quindicimila ore di volo e ha affrontato con successo situazioni ben più gravi di questa.» Ec-cetera, eccetera, eccetera… Tutto assolutamente inutile. Già, il comandante. Chissà cosa starà pensando di me, in questo momento. Che devo essere impazzita per dare per spacciato l’Airbus per uno stupido temporale come ne abbiamo affrontati tanti. E che meriterei di essere li-cenziata per aver reso partecipe di quest’assurdità una passeggera, violan-do l’abbiccì del manuale per assistenti di volo. Povero. Lui ancora non sa che quest’aereo davvero è spacciato. E non cer-to per uno stupido temporale come ne abbiamo affrontati tanti. Caffè corretto Prima dell’uso leggere attentamente le avvertenze. Così c’è scritto sul fla-cone. Ma io non ne ho bisogno, di leggere attentamente le avvertenze pri-ma dell’uso. Utilizzo quel farmaco da anni. Senza, non riuscirei pratica-mente a dormire. Soffro di insonnia. Di insonnia e mal d’aria. So quanto ne serve per riuscire finalmente a prendere sonno. So quanto ne occorre per essere certi di farsi otto ore di sonno ininterrotto. E so come preparar-ne una bella dose da cavallo che faccia sprofondare in un sonno profondo da cui è impossibile risvegliarsi prima del tempo stabilito. La prima ad accusare i sintomi del caffè - per così dire - “corretto” è Mi-riam. La vedo massaggiarsi le tempie con le dita, mentre cerca di tranquil-lizzare un passeggero delle file di mezzo che sta dando fuori di matto. Poi,

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piano piano, la vedo sedersi sulle gambe della signora della fila di fianco. Alzarsi di scatto. Biascicare qualcosa nel tentativo di riuscire a chiedere scusa. Cadere in ginocchio nel bel mezzo del corridoio. Poi accasciarsi lentamente e crollare in un sonno profondo. Il panico di quelli seduti vicino al punto dove Miriam si è accasciata au-menta esponenzialmente, perché ovviamente pensano che la poverina sia svenuta per via dello stress dovuto al grave pericolo che stiamo correndo. Ci vedono quello che la loro psiche suggestionata suggerisce loro di ve-derci: un’altra conferma della tesi della pericolosità del temporale nel qua-le l’aereo si è imbattuto. Ingrid corre a soccorrere Miriam insieme ad altri passeggeri. La sollevano. La mettono a sedere nel sedile di fianco. Cercano di svegliarla. Non c’è nessuna possibilità che ci riescano. Non prima di quattro o cinque ore. Ma questo loro non possono saperlo. Così insistono. Inutilmente. Finché an-che Ingrid non dà i primi segni di cedimento. E alla fine crolla addormen-tata accanto a Miriam. Il panico cresce vertiginosamente. Anche perché non è rimasto più nessu-no a tentare di frenarlo. Io mi godo la scena dal mio posto di prua. Mea culpa L’aereo non sta ancora perdendo quota. È che nei maschi i farmaci sono mediamente più lenti a fare il proprio effetto. Ma non c’è fretta. E non c’è scampo. Non a caso è uno dei farmaci più venduti al mondo. La panacea di ogni malato di insonnia. Immagino che il comandante sia già crollato, leggerino com’è. Invece il copilota probabilmente resiste, essendo un peso massimo. Ma cederà. Ser-ve solo qualche minuto in più. Probabilmente, se sapesse che di qua anche Ingrid e Miriam sono andate, prenderebbe delle precauzioni, il copilota. SOS, pilota automatico, atterraggio automatico o chissà quale altra diavo-leria da piloti. Ma mi sa che non ha fatto in tempo a ricorrere a niente di tutto questo, perché ora sento che finalmente stiamo perdendo quota in modo piuttosto brusco. Il panico sale alle stelle. Alcuni passeggeri si precipitano nella cabina di pilotaggio per vedere cosa succede. Ne escono disperati, alcuni in lacrime, altri arrabbiatissimi. La proprietaria di Fuffi, quella della seconda fila, viene verso di me. «Sei stata tu. Ci hai ammazzati tutti. Hai ammazzato me e il mio povero micet-to» mi fa. Bene. Ora so che Fuffi è uno stupido gatto. E che è maschio.

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Poi la proprietaria di Fuffi richiama l’attenzione della mandria. «È stata lei» ripete «non può che essere stata lei. Non c’è altra spiegazione.» Io non confermo. Né smentisco. La cosa viene interpretata come una confes-sione in piena regola. La mandria muove minacciosa verso di me. Qualcuno mi chiede se so pi-lotare questo coso. No, non lo so pilotare. Qualcuno mi chiede di lanciare un SOS. E a che servirebbe, ormai? Qualcun altro mi chiede solo perché. Non rispondo. Uno mi sputa anche in faccia. Pazienza. In quel preciso istante sento arrivare il mio mal d’aria, puntualissimo co-me sempre. Addio, mondo crudele Mentre l’aeromobile concepito per resistere alle tempeste più violente perde rapidamente e inesorabilmente quota, io sono sempre seduta al mio posto di prua. Vomito. Scendendo in modo così ripido è inevitabile. Mi-riam, Ingrid, il comandante e il copilota dormono il loro sonno beatamente ignaro. E la mandria? Alcuni vomitano come me. Altri pregano. Altri piangono. Quelli con i più sviluppati meccanismi di autodifesa giacciono svenuti. Qualcuno tenta con ogni mezzo possibile di svegliare il coman-dante o il copilota. Hanno entrambi la faccia livida per gli schiaffi ricevu-ti. E naturalmente continuano a dormire. Qualcuno armeggia dentro la ca-bina di pilotaggio nell’estremo tentativo di riportare a terra l’aereo. Colpa di tutti quegli stupidi film americani. Altri, invece, hanno deciso di godersi fino in fondo gli ultimi istanti di vi-ta. Sono qui davanti a me. Mi stanno picchiando. Selvaggiamente. Con bagagli a mano, estintori o a mani nude. La vendetta è un piatto che in certi casi puoi gustare solo caldo. Loro ormai lo hanno capito. Perciò ci danno dentro. Mi stanno facendo male. Molto male. Ma ormai non ha più importanza. Il pensiero dello schianto imminente mi ripaga di tutto. Mi ripaga delle bot-te. Mi ripaga del male. Mi ripaga di ogni inutile calca di questa mandria di stronzi per prendere posto. Mi ripaga della loro insopportabile lentezza nel sistemare il bagaglio a mano nell’alloggiamento. Mi ripaga di ogni volta che si sono seduti al posto sbagliato. Di ogni passaggio da un sedile all’altro durante il volo. Di ogni volta che si sono portati in volo i loro bambini rompicoglioni. Di ogni volta che non hanno disattivato i disposi-

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tivi elettronici prima del decollo e di ogni volta che hanno riattivato i di-spositivi elettronici prima che l’aeromobile fosse fermo. Di ogni passeg-giata su e giù per l’aeromobile durante il volo. Di ogni volta che non han-no allacciato in tempo la cintura di sicurezza o che hanno slacciato la cin-tura di sicurezza prima che l’apposito segnale fosse spento. Di ogni volta che non si sono accertati che lo schienale si trovasse in posizione eretta. Di ogni rivista della compagnia aerea di cui si sono appropriati. Di ogni volta che hanno deciso di andare alla toilette proprio mentre sto passando con il carrello portavivande. Di ogni volta che mi hanno chiesto succo di mela verde. Di ogni volta che sono andati a fumare nella toilette. Soprat-tutto mi ripaga di ogni stupido applauso fatto al pilota all’atterraggio. E mi ripaga del mio maledetto mal d’aria. Che mi ha tormentato per un sacco di tempo. Che non mi tormenterà più. ...CONTINUA...