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Quaderni Anno V - N 2/2005

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Quaderni Anno V - N 2/2005

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Sommario

• EDITORIALE di Augusto Conte 5

• ARGOMENTI DI ATTUALITÀ FORENSE - Il conflitto coniugale tra mediazione ed intervento giudiziale di Luciano Guaglione 8

- La riforma del giudizio di Cassazione come nuova edizione della Costituzione di Teodosio II

di Claudio Consales 21 - Tutela avverso il silenzio-rifiuto e nuove frontiere nella sindacabilità giurisdizionale della fondatezza della pretesa sostanziale del privato di Giuseppe Lucarini 25 • DIRITTO E INFORMATICA

- La lanterna magica di Massimo Renna 45• ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

- Presentazione della Fondazione dell'Avvocatura della Provincia di Brindisi 5 2- Comunicazione agli iscritti 53- Disponibilità buste per le notifiche 54- Parcheggio uffici giudiziari 55• CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE

- La Commissione di Studio per le Pari Opportunità di M. Stella Comitangelo 5 7• PREVIDENZA FORENSE

- Effetti e problematiche della prescrizio-ne dei contributi previdenziali di Dario Lolli 64

Q U A D E R N IRIVISTA QUADRIMESTRALE

DELL'ORDINE DEGLI AVVOCATI DI BRINDISI

Anno V - N. 2-2005Autorizzazione Tribunale di Brindi-

si n. 10 del 16 maggio 2001Testata associata all' A.STA.F.

Direttore ResponsabileAugusto CONTE

Comitato di redazioneCesare ATTOLINI, Giancarlo CAMAS-SA, Stella COMITANGELO, Claudio CONSALES, Marcello FALCONE, Dario LOLLI, Mauro MASIELLO, Antonio MAURINO, Leonardo MUSA, Carlo PANZUTI, Massimo RENNA, Tomma-so RESTA, Angelo ROMA, Teodoro SELICATO

DirezioneORDINE DEGLI AVVOCATI PRESSO

IL TRIBUNALE DI BRINDISIPalazzo di Giustizia

Viale Liguria, 1 - Tel. 0831/58699372100 BRINDISI

[email protected]@ordineavvocati.br.it

Redazione e pubblicitàEDIZIONI DEL GRIFOvia V. Monti, 18 - Lecce

tel. 0832/394346 - fax 0832/394982 Stampa

Tiemme (ind. grafica - Manduria)

Tiratura n. 1.500 copie

Tutti gli iscritti all'Ordine possono col-laborare alla rivista del Consiglio con articoli su problemi di interesse generale: la Direzione si riserva la facoltà di non pubblicare gli articoli che pervengono. I dattiloscritti non vengono restituiti.

• OPINIONI E DOCUMENTI

- Come formare il giurista di Alarico Mariani Marini 7 1

- Lo Statuto della Camera Penale di Brindisi di Antonio Maurino 79

- La preghiera del giudice di Niccolò Tommaseo 90

- Schema di Decreto Legislativo su antiriciclaggio 91

- Proposte di emendamenti allo schema di decreto legislativo antiriciclaggio 102

- Il possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli di Pier Paolo Zaccaria 111

• NOTE DI STORIA FORENSE

- La "Pratica criminale" nel '700 nel Regno di Napoli (terza parte) a cura di Augusto Conte 125

- Nota storica sui Fori: Bari 132

• CONVEGNI E CONGRESSI

- “La normativa antiriciclaggio e le novità per i professionisti” (Ostuni, 13 maggio 2005) di Alessandra Lapadula 137

- “La riforma del processo civile nella legge 14.05.2005, n. 80” (Brindisi, 1 luglio 2005) di Teodoro Selicato 144- VII Consulta A.STA.F. (Brindisi, 30 settembre - 1 ottobre 2005) di Mario Rapanà 150

- XXVIII° Congresso Nazionale Forense (Milano, 10-13 novembre 2005 / Roma, 8-11 giugno 2006) 154

- I Congressi nella storia dell'avvocatura: il I° Consiglio Nazionale del Sindacato Fascista Avvocati e Procuratori (Roma, 24-27 maggio 1932) 156

• DIRITTO & ROVESCIO a cura di C'È SU UN TOGATO 157

• SAGGISTICA E NARRATIVA FORENSE

- Francesco De Sanctis, “La Giovinezza” di Augusto Conte 161

• RICORDI

- Antonio Urso di Augusto Conte 167

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI BRINDISI

Presidente Avv. Augusto CONTECons. Segr. Avv. Carlo PANZUTICons. Tesor. Avv. Teodoro SELICATO

Consiglieri Avv. Cesare ATTOLINI Avv. Giancarlo CAMASSA Avv. Stella COMITANGELO Avv. Claudio CONSALES Avv. Marcello FALCONE Avv. Dario LOLLI

Avv. Mauro MASIELLO Avv. Antonio MAURINO Avv. Leonardo MUSA Avv. Massimo RENNA Avv. Tommaso RESTA Avv. Angelo ROMA

IN COPERTINA:

LE COLONNE ROMANE

Le colonne, poste sul promontorio che guarda la foce del porto, costituiscono il monu-mento in cui si identifica la città stessa che ne ha fatto elemento centrale del proprio stemma araldico.

Il compendio non è più nella sua interezza dal 1528 allorché la colonna, posta a ponente, crollò a causa di un terremoto.

L’evento fu allora considerato foriero di sciagura, identificandosi le sorti della città con quelle della solidità delle colonne.

I rocchi con il capitello, rimasti a terra fino al 1657, furono promessi dal sindaco di Brindisi Carlo Stea alla città di Lecce per erigere una colonna che sostenesse la statua di Santo Oronzo, al cui patrocinio si attribuì la preservazione della Provincia Salentina dalla peste che infierì, quell’anno, in tutto il regno.

I sindaci che seguirono non furono d’accordo per questa donazione e pertanto si crea-rono contrasti fra Brindisi e Lecce, fin quando il Viceré decise formalmente di trasferire la colonna a Lecce.

Durante il trasporto gli elementi della colonna subirono danni talmente rilevanti da indurre ad una profonda loro riduzione. Il loro diametro risultò così di molto inferiore all’originale e il capitello subì danni irreversibili per cui andò completamente distrutto.

La superstite colonna è sormontata da un capitello attribuibile all’età Severiana, ossia ai primi del III secolo d.C., alto cm 185, decorato nella parte inferiore con foglie d’acanto, in quella superiore con 4 coppie di tritoni e 4 busti di divinità reggenti l’abaco.

Quello che oggi è visibile è solo una copia dell’originale. Il pulvino, che è sul capitello, è alto cm 100 ed è lievemente svasato e decorato con tre ordini di fregi.

La colonna, alta complessivamente m 18,74, ha il fusto composto da otto rocchi. Note come le “terminali della Via Appia”, in realtà il motivo dell’erezione delle colonne rimane imprecisato, così come la loro datazione; sul piano documentario non sono state suffragate le attribuite funzioni di “terminali della Via Appia”, di “faro”, di “memoria delle nozze di Antonio e Cleopatra”.

Rimane l’auspicio che il capitello originario, non ricollocato in sito, possa trovare una più degna sistemazione.

IL MONUMENTO NAZIONALE AL MARINAIO D’ITALIA

Il Monumento Nazionale al Marinaio d’Italia fu eretto nell’area residenziale del Casale quale memoriale dei marinai caduti nel corso del primo conflitto mondiale.

È alto 53 metri e rappresenta un timone. Fu realizzato dall’impresa dell’ing. Simoncini su progetto dell’arch. Luigi Brunati e fu inaugurato, presenti le massime cariche dello Stato, nel 1934.

La cappella sacrario conserva la campana della corazzata Benedetto Brin, affondata nel porto di Brindisi; all’interno vi è la statua della Vergine, opera dello scultore Amerigo Bartoli.

Nel 2002 il Parlamento ha voluto l’istituzione di una giornata in memoria dei Caduti in mare da svolgersi ogni 12 novembre presso il Monumento al Marinaio d’Italia di Brindisi.

EDITORIALE

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EDITORIALE

di AUGUSTO CONTE

L’inizio della ripresa della ordinaria attività forense dopo la pausa feriale, che dovrebbe essere servita a dare un riassetto agli Studi e a ritemprarci e a riconciliarci con momenti di intimità che ci sono normalmente preclusi dall’assolutismo della nostra professione, oltre a costituire occasione per ritrovarci, rappresenta anche momento di riflessione sui prossimi impegni che attendono gli avvocati, come singoli professionisti e come categoria forense, e per tracciare un quadro delle problematiche da affrontare.

Uno dei prossimi appuntamenti riguarda l’entrata in vigore della riforma del processo civile sulla quale l’Ordine ha indetto un primo utilissimo incontro di approccio per saggiare la portata delle maggiori novità, molte delle quali vivamente attese essendo indispensabili per evitare che l’applicazione pratica delle norme procedimentali venga affidata a prassi, più o meno virtuose, mutevoli da sede a sede.

La concentrazione della attività di comparizione e trattazione sul thema decidendum e sul thema probandum, in sostituzione della defa-tigante scansione in più udienze – e che i denigratori, che ritengono la riforma destinata a naufragare, hanno definito “udienza-minestrone”, eccezionalmente e singolarmente preoccupati che gli avvocati non possano spiegare con tutte le garanzie le difese, e che le cancellerie non siano in grado di svolgere tutti gli adempimenti richiesti – pur costituendo ragione di maggiore impegno, rappresenta attuazione di un’aspettativa che, al minimo, ci sottrae dall’angoscia di comunicare agli assistiti che i primi due anni di causa sono serviti solo a conoscerci con le controparti e a saggiare il futuro della controversia; la stessa constatazione può essere rilevata in merito alla norme di raccordo del procedimento di separazione e divorzio con le regole di tratta-zione del rito ordinario e per altre modifiche sulle quali torneremo a

EDITORIALE

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confrontarci.Una delle preoccupazioni, piuttosto, riguarda l’erosione della

giurisdizione a favore di consulenti, nel previsto procedimento di consulenza tecnica preventiva di natura compositiva estesa in materia di crediti derivanti da obbligazioni contrattuali o da fatto illecito e nel quale il ruolo del giudice ha inaridite funzioni “notarili” di emanazio-ne del decreto che attribuisce efficacia di titolo esecutivo al processo verbale di conciliazione.

Peraltro la riforma apre agli avvocati la possibilità di impieghi lavorativi per le operazioni di vendita che richiedono competenza e correttezza, nelle esecuzioni immobiliari, al pari dei notai e dei dottori commercialisti, previa comunicazione di disponibilità al Consiglio dell’Ordine e iscrizione nell’apposito elenco.

Non sempre la rilevanza pubblicistica dell’avvocatura viene impe-gnata in funzioni che costituiscono un ritorno di utilità, venendo, al contrario, molte volte utilizzata solo per assicurare esigenze diverse, come l’iniziativa assunta con il D.L. 21.2.2005, n. 17 in materia di notificazione nel campo penale, che prevedeva la notifica degli atti al difensore in caso di mancata elezione di domicilio – e sul quale è insorto l’Ordine di Brindisi con un proprio deliberato pubblicato nello scorso numero di questa Rivista – e poi mitigato in sede di con-versione con la Legge 22.4.2005, n. 60 che consente al difensore di dichiarare immediatamente all’autorità procedente di non accettare la notificazione, e i preoccupanti adempimenti previsti dalle norme “antiriciclaggio”.

Sulla stessa direttrice si era posto l’art. 17 del D.L. 27.7.2005, n. 144 (pacchetto antiterrorismo) che al comma 4 aveva assurdamente previsto la notifica, sia all’imputato che al difensore, del decreto di citazione dinanzi al Giudice di Pace, presso la locale sede del Con-siglio dell’Ordine, fortunatamente eliminato, appena quattro giorni dopo, con la Legge 31.7.2005, n. 155, di conversione.

Nelle prospettive ordinamentali e procedurali è auspicabile la celere approvazione della modifica alle norme sulle investigazioni difensive che prevede la legittimità per i difensori nello stesso o in procedimenti connessi e collegati, e cointeressati allo svolgimento di investigazio-

Quaderni

EDITORIALE

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ni, di scambiarsi informazioni e di notiziare gli assistiti anche sullo stato delle indagini dell’autorità giudiziaria, superando, al pari della espressa previsione della esclusione per gli avvocati della qualifica di pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio, problematiche che hanno avuto in un recente passato, e hanno tuttora, conseguenze infauste per i professionisti del settore penale e limitative dell’esercizio del diritto di difesa, sempre più inteso come dovere.

L’apertura all’avvocatura dei Consigli Giudiziari, sui quali l’Ordi-ne di Brindisi è intervenuto due anni addietro con propria relazione, pubblicata anche su Rassegna Forense del Consiglio Nazionale, nel corso del convegno nazionale sulla qualità dei servizi tenutosi a Lec-ce, costituisce un aspetto della riforma dell’Ordinamento Giudiziario sicuramente rivelatore di una volontà politica (al di là dei limiti di intervento previsti sulla attività dei magistrati e sulla vigilanza sugli uffici giudiziari) di far partecipe l’avvocatura alla gestione del servizio giustizia in sede distrettuale.

E, allora, è importante e determinante non “abbassare la guardia” e continuare a vigilare, con rinnovato spirito di attaccamento alla professione e di servizio alla avvocatura, su tutto quanto interessa il mondo forense a cominciare da noi stessi, dagli avvocati, dalla nuova concezione del ruolo della nostra professione, così come sarà discusso nel prossimo Congresso Nazionale Forense, a partire dall’accesso, argomento, sul quale ci interrogheremo, al centro della VII^ Consulta Nazionale A.Sta.F. di Brindisi che, per questo aspetto, prelude ai temi congressuali.

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Il conflitto coniugale tra mediazione ed intervento giudiziale

di LUCIANO GUAGLIONE*

Il ruolo della mediazione familiare

La conflittualità coniugale, sempre crescente nella nostra società, come dimostrano le rilevazioni statistiche sui processi di separazione e divorzio, impone una profonda riflessione sulla figura del mediatore familiare e sui rapporti con il mondo giudiziario, soprattutto al fine di chiarire se la mediazione debba avere un ruolo ancillare nei con-fronti della giurisdizione oppure se aspiri a svolgere anche un ruolo alternativo di giurisdizione di conciliazione.

Il modo tradizionale di pensare alla soluzione del conflitto coniuga-le è quello di affidare al diritto ed al giudice il compito di approntare il rimedio, malgrado l’ambito della famiglia coinvolga tali e tante circostanze di natura strettamente emozionale da far apparire quasi inadeguate regole e provvedimenti imposti autoritativamente da un legislatore e da un giudice estranei allo stesso contesto familiare. In fondo, come sapientemente evidenziato da un autorevole sociologo, “quella occidentale è sempre stata la cultura del giudizio, non quella della mediazione. Nella società italiana si costruiscono sempre nuove figure di giudici, cui poi imputiamo tutte le colpe per non aver risolto il conflitto: al giudice chiediamo tutto, anche la felicità e poi ce la prendiamo con lui perché non ce la può dare o non ce l’ha data”1.

La stessa definizione di conflitto, a ben vedere, evoca uno scontro tra poteri esercitati da soggetti diversi, ciascuno dei quali tende inevita-

* Giudice civile presso il Tribunale di Trani.1 Così E. Resta, Il linguaggio del mediatore e il linguaggio del giudice, in Mediares,

1/2003, p. 102.

ARGOMENTI DI ATTUALITÀ FORENSE

Quaderni

ARGOMENTI DI ATTUALITÀ FORENSE

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bilmente a prevalere sull’altro. Pertanto qualsiasi decisione giudiziale, emessa nel contesto familiare – in quanto espressione di un potere statuale sovraordinato alle parti litiganti – tende ad essere percepita dal coniuge soccombente, nella maggior parte dei casi, come “esercizio di potere (una coalizione di potere) tra il giudice e la controparte. La decisione cristallizza le parti nel loro ruolo di vincitori e vinti; dalle decisioni dei giudici nascono nuove rigidità e nuovi antagonismi”2. In tal modo l’operato dei giudici e degli avvocati rischia, troppo spesso, di essere altamente corrosivo in un ambito che, al contrario, richiede il superamento di qualunque asperità. Generalmente, infatti, la conflittualità che ha condotto le parti alla decisione di por fine alla propria esperienza di coppia trova un amplificatore esponienzale nella procedura volta ad ottenere la separazione3.

Ben diversa è la logica che ispira la mediazione familiare, del cui reale significato occorre avere adeguata contezza, al fine di evitare pericolose confusioni con altre forme di mediazione svolte dagli ope-ratori giudiziari (giudici ed avvocati) in funzione del processo.

Se il linguaggio del giudice è quello di chi deve decidere, quando il conflitto non ha altri sbocchi, il ruolo del mediatore è invece quello di occupare uno spazio diverso, di far riemergere le emozioni reci-proche che consentano ai litiganti di riconoscersi come persone e di riappropriarsi della capacità di gestire autonomamente il conflitto4. La mediazione è un percorso (attraverso vari incontri) in cui il terzo imparziale (o più spesso una coppia di mediatori) aiuta i coniugi, su loro sollecitazione, ad elaborare in prima persona gli accordi che meglio rispondano ai bisogni di tutti i membri della famiglia, con

2 Cfr. G. Dosi, Sistema giudiziario, conflittualità familiare e mediazione, in Dir. fam., 1994, p. 771.

3 Cfr. G. Giaimo, La mediazione familiare nei procedimenti di separazione personale e di divorzio. Profili comparatistici, in Dir. fam., 2001, 4, p. 1606 ss.

4 Secondo A. Coppola De Vanna, in Il Progetto Riparazione, Torino, 1998, p. 23, che ha coniato lo slogan “la mediazione senza aggettivi”, l’elemento qualificante di ogni tipo di mediazione è proprio lo specifico ruolo attribuito alle emozioni, al conseguimento della pacificazione per effetto dello scoccare di una scintilla empatica che avvicina i contendenti. V., pure, J.L. Linares, Le emozioni nella separazione coniugale, in M. Andolfi, C. Angelo, M. De Nicheli, Sentimenti e Sistemi, Milano, 1996; F. Canevelli, M. Lucardi, La mediazione familiare. Dalla rottura del legame al riconoscimento dell’altro, Torino, 2000.

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Quaderni10 Quaderni

particolare riguardo agli interessi dei figli. Il mediatore non cerca la verità dei fatti narrati né la responsabilità della crisi, ma mira a restaurare nei coniugi il senso di autostima, di fiducia in sé stessi, e quindi la capacità di dialogare come persone con il loro linguaggio, sì da essere in grado di elaborare un progetto comune. In tal modo la coppia diviene protagonista e responsabile della gestione del conflitto in un’ottica di continuità genitoriale. Gli accordi presi in mediazione costituiscono soluzioni condivise, più soddisfacenti per sé e per la prole, e quindi naturalmente più rispettate nel tempo. Il presupposto di fondo è che nessuno meglio di loro in grado di prendere quelle decisioni che andranno a regolare ed a organizzare la loro vita futura e quella degli altri membri del nucleo familiare.

Il progetto comune può essere funzionale alla riconciliazione vera e propria ovvero alla definizione di condizioni di separazione o divor-zio pienamente condivise. La mediazione si rivolge infatti a coppie in crisi, a coppie separate di fatto, a coppie separate legalmente, a coppie separate da tempo o divorziate.

L’attività di mediazione familiare non può essere evidentemente frutto di improvvisazione: il mediatore è un terzo soggetto imparziale e professionalmente preparato, che aiuta la coppia a stabilire un dialogo costruttivo ed efficace. Al rigore metodologico deve sapersi coniugare l’arte del “sentire”, la capacità di far emergere le emozioni reciproche dei coniugi in conflitto, di recuperare gli spazi psicologici utili per riallacciare precedenti legami5, il tutto in un clima di confidenzialità e riservatezza che mediatore e coppia condividono durante il percorso di mediazione. Questa virtù del “dello stare in mezzo, del condividere e persino dello sporcarsi le mani” illumina la posizione del media-tore, che non è (come un terzo arbitro) freddamente equidistante dai configgenti, ma deve perdere la sua neutralità, per essere equi-vicino ai medesimi, utilizzando il loro linguaggio6.

Il mediatore è responsabile del processo di negoziazione: ha il

5 Cfr. F. Occhiogrosso, Editoriale, in Mediares, 1/2003, p. 26.6 Cfr. E. Resta, Giudicare, conciliare, mediare, in Politica del diritto, a. XXX, n. 4,

dicembre 1999; A. Coppola De Vanna, Dossier: La mediazione mediterranea, in Mediares, 1/2003, p. 176 s.

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compito di guidarlo e dirigerlo, limitandosi a controllare che lo stesso si svolga in maniera corretta (senza sbilanciamenti o abusi di potere di una parte nei confronti dell’altra).

Nella stanza di mediazione la coppia ha la possibilità di scegliere e di negoziare le questioni relative alla propria crisi coniugale, sia negli aspetti relazionali che in quelli economici. Tra gli aspetti relazionali i temi più frequentemente discussi (nella fase di separazione e divor-zio) comprendono: l’affidamento dei figli, l’analisi dei bisogni dei genitori e figli, il calendario delle visite del genitore non affidatario, le vacanze, le scelte educative, ecc. Relativamente agli aspetti eco-nomici, invece risultano oggetto di negoziazione: l’assunzione degli impegni economici per i figli, la determinazione di mantenimento a favore del patner, l’assegnazione della casa coniugale, la divisione dei beni comuni, ecc.

L’attività di mediazione svolta dagli operatori del processo

Le caratteristiche della mediazione familiare, che tende al recupero dell’armonia e del dialogo costruttivo tra i coniugi, collocano eviden-temente il mediatore al di fuori del processo. La scelta di intraprendere un percorso di mediazione è una scelta libera, poiché alcuna norma la impone neppure come filtro precontezioso.

Il modello giudiziario si fonda, invece, per definizione sulla “contrapposizione delle parti” e delega ad un terzo istituzionalmente incaricato (il giudice) la soluzione del conflitto, limitando lo spazio per l’esercizio della soggettività dei protagonisti della separazione. Costoro avvertono la freddezza che li circonda, non solo per lo scarso calore dell’ambiente fisico (aule e suppellettili) in cui spesso si ritro-vano, ma soprattutto per la sensazione di essere ormai emarginati, di non essere più protagonisti della loro vicenda, di non poter libera-mente parlare, di non poter gridare il loro dolore e la loro rabbia, di dipendere esclusivamente dalle iniziative degli avvocati e dai prov-vedimenti del giudice. Non è certo uno spazio dedicato all’esercizio dell’arte del sentire: è un ambiente nel quale il tecnicismo soffoca i

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Quaderni12 Quaderni

sentimenti delle parti.È un terreno scivoloso, sul quale non di rado il conflitto si radica-

lizza; è un luogo di scontro talvolta molto acceso, che impone costi elevati, dal punto di vista emotivo, oltre che economico.

Sottoscrivere la procura ad litem e varcare la soglia del tribunale significa spesso per la parte utilizzare ogni possibilità per far male all’altra, per vendicarsi del dolore che l’esperienza di separazione procura, per soffocare con la rabbia una sofferenza intollerabile ed ingiusta, della quale si ritiene responsabile la controparte. Il panorama è sovente quello di un coniuge ferito, tradito, deluso o abbandonato, che cerca un meccanismo di compensazione, un vantaggio sull’altro, e che per questo è disposto ad accettare l’idea di un percorso processua-le, che duri anche diversi anni, pur di conseguire il risultato prefisso (l’addebito della separazione all’altro coniuge, l’assegnazione della casa, l’affidamento della prole, un assegno più alto, ecc.).

Il giudice interviene in diversi momenti e in diversa composizione: il presidente del tribunale nell’apposita udienza destinata al tentativo di conciliazione ed all’adozione dei provvedimenti provvisori ed urgenti; il giudice istruttore, nelle varie occasioni in cui (durante le udienze che si svolgono innanzi a lui) è tenuto a decidere le istanze di modifica dei provvedimenti interinali proposte dalle parti; il collegio in sede di definizione del giudizio.

Orbene, fino al momento in cui la causa non viene riservata per la decisione finale, il giudice è chiamato pure ad esercitare un ruolo di mediatore (oltre che di risolutore del conflitto coniugale), sia pure in senso improprio ed atecnico: nella sua posizione di terzietà ed equidistanza dalle parti, valorizzando il dialogo diretto con le stesse, può sollecitare a cercare soluzioni condivise da porre a base dei suoi provvedimenti, può svolgere un’attività analoga a quella che il me-diatore vero e proprio svolge nella c.d. fase di pre-mediazione (nel senso di individuare gli specifici problemi da affrontare, stabilire se la coppia è mediabile, verificare che esista da entrambe le parti la reale volontà di giungere ad accordi, stabilire se la conflittualità possa essere contenuta o trasformata positivamente), dopo di che sono le parti che devono liberamente esprimere la volontà concorde di rivolgersi alla

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struttura di mediazione.Questa attività difficilmente riesce ad essere sperimentata con

successo nel corso dell’udienza presidenziale, nella quale – anche per il gran numero di comparizioni fissate in calendario – lo spazio temporale a disposizione di ciascuna coppia è alquanto esiguo.

Eppure, proprio l’udienza presidenziale dovrebbe a mio avviso costituire la sede preferenziale per incoraggiare le parti – malgrado il fallimento del tentativo di conciliazione – ad intraprendere un percorso di mediazione, quanto meno per eliminare gli eccessi di litigiosità e per giungere a definire le condizioni di una separazione consensuale o di un divorzio congiunto: è opportuno, anche in chiave deflativa del carico di contenzioso vero e proprio, che ciò si verifichi proprio nella fase intermedia tra l’udienza presidenziale e la prima udienza innanzi al giudice istruttore.

Ove ciò non sia avvenuto è il giudice istruttore, chiamato spesso ad intervenire con provvedimenti di modifica dell’ordinanza presi-denziale, che deve stimolare le parti (disponendone la comparizione personale, al di là di quella prevista dall’art. 183 c.p.c.) a trovare soluzioni concordate, che meglio si prestano ad osservare spontanea-mente rispetto a quelle imposte dall’esterno, ovvero tentare di avviare i coniugi in mediazione – ove ricorrano i presupposti – rinviando il giudizio in attesa dei risultati dell’esperimento.

Un primo, serio ostacolo a tale attività è costituito dalla conside-razione che – in mancanza di un giudice specializzato che si occupi soltanto delle cause di famiglia – il giudice istruttore è costretto a trattare le controversie di separazione e divorzio nel corso di udienze affollate di fascicoli, avvocati e altri soggetti a vario titolo presenti in aula, quindi in un contesto spazio-temporale tutt’altro che favorevole al dialogo riservato e costruttivo con i coniugi.

Per ovviare a tale inconveniente è opportuno destinare apposite udienze e fasce orarie a tali comparizioni, in modo da creare un clima idoneo allo scopo. Personalmente sono solito fissare le comparizioni personali dei coniugi nella mia stanza, generalmente nella tarda mat-tinata, in modo da assicurare condizioni di riservatezza e di attenzione mirata alla vicenda umana (oltre che giudiziaria sotto l’aspetto tecnico-

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giuridico). In tal modo ciascuna parte si sente considerata e valorizzata come persona, in grado di potersi esprimere con sufficiente libertà: al termine dell’udienza spesso i coniugi manifestano, unitamente ad un tangibile compiacimento per il modo in cui sono stati ascoltati, un senso di ritrovata fiducia nei confronti del giudice e della giustizia.

Un altro grave elemento ostativo alla ricerca di soluzioni condivise è rappresentato dalla presenza di domande di addebito della separa-zione, spesso bilaterali, che accentuano la conflittualità.

La prassi dimostra che proprio nelle situazioni di maggior tensione coniugale i difensori sono soliti articolare numerosi e complessi ca-pitoli di prova orale e indicare una lunga teoria di testimoni chiamati a confermare i fatti dedotti. Non di rado in tali situazioni ho speri-mentato un percorso di differimento, allo stato, della delibazione di tali prove orali, con convocazione a breve dei coniugi innanzi a me, al fine di favorire la definizione di una regolamentazione pattizia delle condizioni di separazione, con rinuncia ai reciproci addebiti (che se rispettivamente provati, condurrebbero al rigetto di entrambe le istanze di addebito esclusivo o ad una pronuncia di separazione per colpa di entrambi i coniugi) e conseguente notevole risparmio di tempi e costi processuali.

Quanto poi alla posizione dell’avvocato, pare abbastanza evidente che egli – una volta officiato della difesa di una parte – può senz’altro assisterla anche nella ricerca di soluzioni concordate, che appaiano a lei vantaggiose, ma non può esercitare il ruolo di mediatore familiare in senso tecnico, difettando dei requisiti di necessaria imparzialità ed equidistanza da entrambe le parti. Aggiungasi che la stanza di media-zione raccoglie l’intimità delle persone, perché il mediatore condivide con la coppia il percorso in modo confidenziale e riservato. Non in-tendo in questa sede discutere dell’opportunità generale di consentire anche all’avvocato – che abbia partecipato ai relativi percorsi formativi e abbia quindi acquisito la specifica professionalità ed il necessario rigore metodologico – di svolgere attività di mediazione familiare (la prassi è in tale direzione); ciò che, invece, deve essere ben chiaro è che, nello specifico, l’avvocato-mediatore di una coppia non può successivamente assumere la difesa tecnica di uno dei due coniugi,

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conoscendo i segreti dell’altro (che potrebbe utilizzare contro di lui), versando egli in una situazione di palese conflitto di interessi.

Gli strumenti processuali a disposizione del giudice

Se la mediazione nasce in area extraprocessuale, è alquanto difficile riuscire ad individuare strumenti adeguati per utilizzarne gli apporti all’interno del processo, allorché i coniugi non abbiano già liberamente scelto di accedere all’opera di un mediatore.

È ben noto che – alla luce della tipologia dei mezzi di prova disci-plinati dal codice di rito e del c.d. sistema misto disegnato dall’art. 115 c.p.c. – il giudice deve porre a fondamento delle sue decisioni le prove offerte dalle parti, potendo attivare eccezionalmente poteri istruttori ex officio nei casi previsti dalla legge.

Nei giudizi di separazione e divorzio è frequente – per attingere elementi di valutazione utili a risolvere le problematiche dei figli mi-nori nei loro aspetti relazionali con i genitori (soprattutto quello non affidatario) – il ricorso, da parte del giudice, all’ausilio di indagini psicologiche tramite servizi sociali o consulenti tecnici d’ufficio, le cui conclusioni sono sovente poste a fondamento dei provvedimenti.

È opportuno che il giudice imponga alle parti un mediatore fami-liare, nominato come c.t.u., con obbligo su quest’ultimo di relazionare circa gli esiti della mediazione stessa? Questo percorso, talvolta spe-rimentato dalla giurisprudenza7, suscita qualche perplessità, perché la mediazione familiare si distingue dalla consulenza tecnica (e specifica-tamente da quella psicologica disposta d’ufficio in materia di minori) sotto vari profili: per la finalità, in quanto la mediazione mira ad aiutare la famiglia mentre la consulenza ad aiutare il giudice (art. 193 c.p.c.) indicando il tipo di affidamento più adatto ed eventualmente il geni-

7 Cfr. Tribunale di Trani, ord. 30 luglio 2002, g.i. dr. G. Pica, che ha disposto “l’intervento di mediatori familiari, sia per evitare l’aggravamento della situazione di disagio e di conflitto fra i coniugi, nell’ottica di cui all’art. 342-ter, secondo comma, cc., e sia per verificare la migliore situazione per i minori coinvolti, al fine di adottare con cognizione di causa ogni eventuale provvedimento al riguardo”.

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tore più adatto a ricevere l’affidamento; per la metodologia, poiché la mediazione è una relazione ternaria basata su colloqui paritari e progetti condivisi tra le parti, mentre la consulenza si svolge sulla base di un programma peritale delineato individualmente dal consulente e si realizza in raccolta dell’anamnesi, colloqui clinici ed eventuale somministrazione di test; per l’impatto psicologico sugli utenti, i quali tendono ad accogliere meglio il mediatore e non il consulente.

Altro percorso meritevole di citazione è quello seguito dal tribunale di Bari, che in uno specifico provvedimento in materia8, ha affermato che “Il tribunale civile ordinario, allorquando deve operare nell’in-teresse dei minori con la latitudine dei poteri di cui all’art. 155 c.c. e dell’art. 6 l. n. 898 del 1 dicembre 1970, rientra nella categoria delle autorità giudiziarie minorili e come tale può servirsi dei centri di mediazione familiare, appartenenti all’ampia categoria dei servizi sociali, che assistono il giudice in qualità di esperti nella negoziazione della crisi coniugale e che, pertanto, sono idonei al compimento, ex art. 68 c.p.c. di atti (ricomposizione del conflitto) che egli non è nelle condizioni oggettive di compiere”.

A tale inquadramento del mediatore tra gli ausiliari atipici del giu-dice ex art. 68 c.p.c. viene mossa la critica di non precisare il ruolo del mediatore familiare, innanzitutto perché già il codice di rito ha dato un esempio di evidente errore tecnico creando una disposizione generale (art. 68) senza specificare l’ambito di applicazione della norma. Inoltre il mediatore familiare è evidentemente diverso dalle altre figure professionali di cui al medesimo articolo, quali l’interprete, il traduttore, lo stimatore, l’esperto: egli non è tenuto al giuramento; è chiamato per un intervento interpersonale e, pertanto, differente dall’ufficio richiesto agli altri ausiliari quanto alla natura dell’oggetto ed alla durata, che dipende dalla volontà degli interessati piuttosto che dall’attività del professionista; deve riferire solo l’esito del suo intervento. La sottoposizione dei mediatori familiari alla disciplina dell’art. 68 c.p.c. comporta, quali uniche conseguenze, che la loro funzione viene in qualche modo ufficializzata e che la liquidazione del

8 Cfr. Trib. Bari, decr. 21 novembre 2000, in Famiglia e diritto, 2001, p. 72.

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loro compenso viene fatta ai sensi degli artt. 52 e 53 disp. att. c.p.c., ossia con decreto che costituisce titolo esecutivo.

Le riserve ed obiezioni sollevate nei confronti dei citati precedenti giurisprudenziali, circa l’inquadramento dei mediatori, conferma le difficoltà di qualificazione e disciplina giuridica dell’intervento degli operatori sociali nei processi in materia di famiglia. Trattasi in ogni caso di apprezzabili tentativi di avviare a soluzioni problematiche aperte, che meriterebbero adeguate risposte a livello legislativo.

Meritano pure di essere ricordate le pronunce di alcuni tribunali minorili9, che hanno imposto ai coniugi un percorso di mediazione come accompagnamento all’affidamento della prole10, a prescindere dall’esistenza tra di essi di una relazione pacifica a livelli accettabili, tenuto conto che l’unico criterio normativo di riferimento (ex art. 155, comma 1, c.c. e art. 6, comma 2, legge n. 898 del 1970) è l’interesse del minore e non l’accordo dei genitori. Invero, per l’interesse del minore, questi giudici minorili ritengono più costruttivo dal punto di vista psicologico e relazionale l’affidamento congiunto e non quello esclusivo ad uno dei genitori, che alla lunga può portare alla derespon-sabilizzazione ed all’allontanamento del genitore non affidatario, rive-landosi così deleterio per la prole. Di qui il rilievo del contributo che l’istituto della mediazione familiare può offrire affinché l’affidamento congiunto non sia un’eccezione ma divenga la norma, come previsto in alcuni progetti di riforma ed in altri ordinamenti stranieri.

I mezzi di composizione delle controversie alternative alla giurisdizione e la soluzione del conflitto coniugale tra pubblico e privato

La crisi in cui versa la giustizia e la crescente litigiosità hanno ali-mentato, soprattutto a partire dagli anni ’90, una forte spinta a cercare

9 Cfr. Trib. min. Perugia, decr. 20 settembre 1996 e 25 ottobre 1996; Trib. Brindisi, ord. 11 gennaio 2001, in Giur. merito, 2001, p. 327.

10 L’istituto è previsto dall’art. 6, comma 2, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo novellato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74).

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meccanismi alternativi di soluzione delle controversie. La mediazione familiare – pur ascrivendosi in senso ampio a tale disegno – si distin-gue sotto vari profili dagli altri mezzi di composizione amichevole (transazione, conciliazione, arbitrato, A.D.R.), soprattutto perché non mira alla soluzione di conflitti, e tantomeno ad una conciliazione, ma tende a ridurre gli effetti indesiderabili di un grave conflitto, ovvero a favorire una tregua tra i coniugi, una ripresa del dialogo tra loro: le parti in lite devono passare dalla condizione di soggetto agitato dalle proprie reazioni emotive all’interno delle dinamiche del conflitto a quella di soggetto agente, elaborando esse stesse – con l’aiuto non vincolante del mediatore – un progetto di regolamentazione concor-data del conflitto.

Una nuova frontiera della mediazione familiare può essere co-stituita da percorsi cui avviare la coppia – prima della separazione – a fronte di comportamenti di un coniuge che indurrebbero l’altro a richiedere dell’autorità giudiziaria con ordini di protezione contro gli abusi familiari, di cui agli artt. 342 bis e 342 ter c.p.c. (che, al secondo comma, espressamente prevede che, il giudice, ove occorra, può disporre l’intervento di un centro di mediazione familiare). In tali evenienze la mediazione familiare può essere chiamata a svolgere anche un ruolo preventivo ed alternativo (o sostitutivo) alla giurisdi-zione, evitando in molti casi che la crisi coniugale diventi irreversibile e sfoci nelle procedure di separazione.

Allorché, invece, la convivenza coniugale è divenuta intollerabile la mediazione familiare non può realizzare la degiurisdizionalizzazio-ne, perché comunque quando i coniugi hanno deciso di separarsi o di divorziare devono ricorrere al giudice. In tali evenienze la mediazione costituisce una possibilità in più, uno strumento moderno che aiuta i coniugi a ristabilire il dialogo anche durante e dopo la separazione, soprattutto nell’interesse della prole. Essa realizza quella cultura di pacificazione sociale che ha portato all’introduzione dell’interroga-torio libero e del tentativo di conciliazione nella prima udienza di trattazione del processo ordinario di cognizione (art. 183 c.p.c.) e all’istituzione del giudice di pace. E contribuisce alla promozione di una nuova forma di giustizia variamente definita “giustizia emoziona-

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le, dei sentimenti, del quotidiano”, che tiene conto non solo dei diritti sanciti legislativamente ma anche dei bisogni affettivi e relazionali, dei reali interessi delle parti e non degli pseudo-interessi spesso rap-presentati nel processo.

In tal senso svolge un importante ruolo complementare rispetto al processo, favorendo soluzioni condivise e, in definitiva, l’accesso a procedure semplificate camerali (separazione consensuale, divorzio congiunto). A differenza di quanto accade nell’esperienza anglosas-sone, nella quale prevale l’idea di una mediazione globale11 che non trascura di trattare alcun aspetto del dissidio che oppone i coniugi, in Italia, viceversa, lo studio e la pratica della mediazione sono preva-lentemente orientati verso la cura esclusiva degli aspetti relativi alla psicologia del conflitto, rimanendo in carico agli avvocati l’assistenza prestata alle parti nel predisporre gli accordi relativi alle questioni patrimoniali (compresa la divisione dei beni) ed all’affidamento dei figli12. A prescindere dalla preferenza per l’uno o l’altro modello13, è bene ribadire la necessità di prestare una particolare attenzione alla formazione ed all’accesso alla professione dei mediatori familiari, in quanto chiamati ad operare in un contesto difficile e delicato quale quello della crisi familiare, sicchè non è pensabile che gli stessi possa-

11 Si parla al riguardo di all issues mediation, sicché costituiscono oggetto di studio, per i futuri mediatori, gli insegnamenti relativi tanto al modo di trattare i coinvolgimenti psichici ed emozionali dei soggetti implicati nella crisi della famiglia, quanto quelli concernenti la cura degli aspetti economici e giuridici naturalmente connessi alla cessazione del rapporto coniugale. Cfr., al riguardo, S. Day Sclater, The limits of mediation, in Family Law, 1995, p. 494. Il modello della mediazione globale è seguito anche in Giappone: cfr. M. Murayama, British and Japanese mediation, in Family Law, 1997, p. 419.

12 In altri termini, la mediazione familiare in Italia è strutturata in due fasi distinte, che fanno capo ad altrettante, diverse professionalità: in primo luogo, il mediatore familiare agi-sce, mediante le sue specifiche capacità di introspezione psicologica, in modo da eliminare l’animosità reciproca e la tensione emotiva che caratterizzano normalmente i coniugi che decidono di porre termine al loro rapporto, prestando, al contempo, una particolare attenzione al recupero di una maniera corretta di svolgere il ruolo di genitore. Soltanto in un momento successivo all’acquisita capacità di riorganizzare le relazioni familiari e ad una rinnovata capacità di comunicazione, le parti potranno stipulare, con l’ausilio di un avvocato, un accordo che riguardi gli aspetti pratici della separazione o del divorzio: cfr. C. Marzotto, La formazione del mediatore familiare. Competenza o nuova professione? In Famiglia oggi, 1997, n. 11, p. 16 ss.; J.M. Haynes e I. Buzzi, Introduzione alla mediazione familiare, Milano, 1996; G. Bartholini, Il consulente di coppia, Bologna, 1976; M. Battaglini, M. Calabrese, F. Marchio, C. Saccu e P. Stampa, Codice della mediazione familiare, Milano, 2001.

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Quaderni20 Quaderni

no arrecare – ai soggetti in essa coinvolti – ulteriori traumi e pregiudizi a causa di una preparazione inadeguata o approssimativa.

Mi sia consentita un’ultima riflessione: la tentazione di parlare di mediazione familiare in generale, come percorso alternativo a quello processuale, ripropone un antico dilemma tra pubblico e privato nella gestione del conflitto coniugale. Se l’ambito familiare costituisce un terreno privatistico per eccellenza, non si può tuttavia pensare di poter ridurre semplicisticamente la lite tra coniugi ad “affare privato delle parti”, essendo in gioco anche valori superiori e diritti indisponibili (quali quelli dei figli), la cui gestione non può essere sottratta a quello dei pubblici poteri – la giurisdizione appunto – che nella garanzia delle posizioni individuali continua pur sempre a trovare l’essenza e la ratio prevalente del proprio ruolo istituzionale14.

Il che conferma la necessità di dover concepire i rapporti tra me-diatori familiari ed operatori del mondo giudiziario (giudice ed avvo-cati) in termini non di esclusività o alternatività di intervento, ma di collaborazione e sinergia tra le diverse competenze e professionalità, al fine di realizzare l’obiettivo comune di una soluzione pacifica ai problemi della coppia in crisi.

13 Il modello di mediazione globale, seguito in Inghilterra ed in Giappone, pare più funzionale al disegno di evitare una moltiplicazione dei costi ed il rischio che riemerga la conflittualità tra i coniugi, i quali si trovino al cospetto dell’avvocato per definire le condizioni da sottoporre all’omologazione del giudice. In tal senso, v. G. Giaimo, La mediazione familiare nei procedimenti di separazione personale e di divorzio. Profili comparatistici, cit.

14 Cfr. E. Roppo, Il giudice nel conflitto coniugale, Bologna, 1981, p. 386.

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La riforma del giudizio di Cassazione come nuova edizione

della Costituzione di Teodosio IIdi CLAUDIO CONSALES*

L’ormai riconosciuto degrado legislativo passa anche attraverso la collocazione normativa delle riforme strutturali atte a creare danni irreversibili al “sistema giustizia” senza probabilmente che lo stesso abbia la consapevolezza di ciò che fa.

Sintomatica è sul punto la riforma proposta sul giudizio di Cassa-zione che sta per diventare legge nell’indifferenza più assoluta degli operatori del diritto e del mondo accademico.

Procediamo con ordine.Il governo ha emanato il 14 marzo 2005 il decreto legge n. 35

avente il seguente titolo: “Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale”.

Il predetto decreto legge si articola in nove capi con i seguenti titoli: il primo: “Sviluppo del mercato interno ed apertura dei mer-cati”; il secondo: “Semplificazione della regolamentazione”; il terzo: “Potenziamento della rete infrastrutturale”; il quarto: “Aumento e razionalizzazione degli investimenti in ricerca e sviluppo”; il quinto: “Sviluppo dell’innovazione della diffusione delle tecnologie”; il sesto: “Rafforzamento della base produttiva”; il settimo: “Modernizzazio-ne dei sistemi di protezione sociale e potenziamento ammortizzatori sociali”; l’ottavo: “Incremento degli investimenti in capitale umano, potenziamento del sistema scolastico e dei sistemi di acquisizione delle conoscenze dei lavoratori”; il nono: “Disposizioni finali”.

* Avvocato del Foro di Brindisi.

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Com’è facile osservare nessun riferimento da parte del governo, diciamo per fortuna, al sistema processuale.

Il pericolo scampato in sede governativa non ha superato purtrop-po le maglie del Parlamento che in sede di conversione del predetto decreto, con la legge n. 80/2005 mentre discuteva di sviluppo di mercato interno, di ammortizzatori sociali e di potenziamento della rete infrastrutturale non ha tralasciato di intervenire sul giudizio di legittimità.

Saranno questi forse gli effetti dell’invasione della scienza inge-gneristica nella scienza giuridica!

Con la predetta legge n. 80/2005 il Parlamento ha quindi delegato il Governo ad adottare entro sei mesi un decreto legislativo che con riferimento al giudizio di legittimità deve attenersi ai criteri e principi direttivi indicati.

Tra questi principi direttivi indicati si legge che il Governo deve: “Disciplinare il processo di Cassazione in funzione nomofilattica, sta-bilendo identità di motivi di ricorso ordinario e straordinario ai sensi dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione, prevedendo che il vizio di motivazione debba riguardare un fatto controverso; l’obbligo che il motivo di ricorso si chiuda, a pena di inammissibilità dello stesso, con la chiara enunciazione di un quesito di diritto…”.

Con la riforma quindi il ricorrente dovrà a pena di inammissibilità chiudere il motivo di ricorso, indicando il quesito di diritto su cui si attende la risposta. In sostanza la Corte di Cassazione in tal modo non è più chiamata ad esprimere un giudizio di legittimità sulla sentenza impugnata ma a rispondere ad un quesito di diritto.

Se poi tale quesito non sarà posto o sarà posto, a parere della Corte di Cassazione, in modo non corretto, il ricorso dovrà ritenersi inammissibile.

L’aberrazione della scelta legislativa è evidente in quanto parte dall’errata premessa che possano esistere principi di diritto come entità astratte sganciate dal caso concreto e statiche nel tempo.

Il diritto regolamenta i rapporti personali, ma nasce dagli stessi rapporti.

Il Giudice quale interprete qualificato della norma giuridica così

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come deve approfondire la norma per trarne tutto ciò che essa anche virtualmente contiene, così deve approfondire il caso concreto cui la norma è da applicare.

Dal rapporto e caso concreto di volta in volta può esprimersi un principio di diritto, che pertanto, come si è già osservato, non è mai un’entità astratta e statica nel tempo.

Se si condivide l’assunto che non esistono principi di diritto sgan-ciati dal caso concreto posto all’esame del Giudice, si deve convenire che è quanto mai arduo, se non impossibile, per il ricorrente in Cas-sazione tradurre i propri rilievi sulla legittimità della sentenza in un quesito di diritto.

È semplicemente assurdo pensare ad un’attività della Suprema Corte come giudice che a domanda risponde, con l’aggravante che se la domanda non è ben formulata, viene pronunciata l’inammissi-bilità del ricorso.

Tutto ciò favorirà la stagnazione dei principi di diritto sganciati innaturalmente dal caso concreto ed il riconoscimento ai Giudici di un insindacabile enorme potere visto che potranno dichiarare il ricorso inammissibile in assenza di una chiara enunciazione del quesito di diritto.

Come si potrà valutare la chiara enunciazione sarà un mistero delegato ai Giudici di Cassazione; l’unica considerazione che si può formulare è che la certezza del diritto verrà a subire un gravissimo danno e che il ricorrente in Cassazione sarà esposto a valutazioni sog-gettive, sganciate dal dato normativo e quindi al più bieco arbitrio.

La riforma in cantiere è quindi il segno dell’autentica decadenza che la giustizia sta vivendo e ricorda non poco la vituperata Costituzione di Teodosio II dell’anno 426, nota anche come legge delle citazioni.

Con tale legge fu fatto obbligo ai Giudici di attenersi nelle loro sentenze esclusivamente alle opinioni espresse da illustrissimi Giure-consulti del passato: Papiniano, Paolo, Ulpiano, Gaio e Modestino con prevalenza da attribuire in caso di discordanti pareri a Papiniano che quindi fungeva da Presidente del così istituito Tribunale dei morti.

Anche il nostro legislatore come Teodosio II evidentemente ritiene che il principio di diritto possa scaturire da una domanda a cui il Giu-

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dice in veste più sacerdotale che di interprete debba rispondere.Ciò che più desta stupore in questa iniziativa legislativa è l’assoluta

ed inerme acquiescenza dell’avvocatura unitamente all’indifferenza, non poco sospetta, della Magistratura.

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Tutela avverso il silenzio-rifiuto e nuove frontiere nella sindacabilità

giurisdizionale della fondatezza della pretesa sostanziale del privato

di GIUSEPPE LUCARINI*

1. Cenni sulla evoluzione del silenzio-rifiuto e della tutela avverso lo stesso: dal Consiglio di Stato n. 429/1922 alla legge n. 80/2005

Con la locuzione “silenzio-rifiuto” ci si riferisce a quella fattispe-cie in cui la PA, a fronte di una istanza1 di un amministrato, rimanga appunto silenziosa, ossia non risponda affatto alla istanza, ed a tale silenzio la legge non ricollega alcun valore provvedimentale tipico (silenzio significativo, nella sua duplice veste di silenzio-assenso e di silenzio-rigetto della istanza del privato, distinto e contrapposto al concetto di silenzio non significativo in cui si concretizza il silenzio-rifiuto).

La tematica del silenzio-rifiuto presenta profili di particolare interes-se specie con riferimento alla tutela a disposizione degli amministrati avverso tale comportamento patologico della Amministrazione.

L’origine storica di tale istituto (e della relativa tutela avverso lo stesso) viene generalmente ricondotta ad una decisione del Consiglio di Stato del 19222 . Da allora, l’istituto in esame ha subìto una graduale e progressiva evoluzione, specie con riferimento al potenziamento della tutela dei privati in un’ottica ispirata al principio costituzionale

* Avvocato del Foro di Brindisi. 1 L’istanza deve essere, secondo la giurisprudenza, “non manife-

stamente infondata”, altrimenti non si configura in capo alla PA il cd. obbligo di provvedere e, conseguentemente, non si forma il silenzio-

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della effettività della tutela giurisdizionale (art. 24-103-113 Cost.).Prima di addentrarci sulle più recenti novità giurisprudenziali e

normative in punto di tutela avverso il silenzio-rifiuto, è opportuno scandagliare sinteticamente le principali tappe della evoluzione di tale tutela, per meglio comprendere la portata dei recenti sviluppi sia giurisprudenziali che normativi.

A partire dalla menzionata decisione del Consiglio di Stato del 1922 e fino alla sentenza della Adunanza Plenaria del 1960 n. 83 , nel processo amministrativo italiano vigeva il dogma della struttura ne-cessariamente impugnatoria dello stesso, in base alla quale l’oggetto del processo non poteva che essere un atto. La giurisprudenza, quindi, a fronte di tale concezione di stampo rigidamente impugnatorio-cadu-catorio del processo amministrativo, elaborò una fictio juris in base alla quale alle inerzie non significative della PA veniva attribuito il significato di rigetto della istanza del privato: così, si poteva “impu-gnare” il silenzio-rifiuto fingendolo e trattandolo alla stregua di un provvedimento amministrativo di rigetto della istanza.

Tale escamotage giurisprudenziale, se indubbiamente aveva il pregio di sforzarsi di coniugare le esigenze di tutela dei privati a fronte dei silenzi patologici della PA con la struttura impugnatoria del processo amministrativo, non fu però mai pienamente accolto dalla dottrina per la semplice considerazione che, a ben vedere, non c’era in realtà alcun provvedimento amministrativo.

Solo a partire dalla menzionata decisione della Adunanza Plenaria del 1960, la giurisprudenza amministrativa iniziò a cambiare rotta scalfendo il dogma della necessaria impugnatorietà del processo am-ministrativo, e statuendo che i ricorsi avverso il silenzio-rifiuto non avevano ad oggetto un atto amministrativo bensì un fatto: la omissione della PA al suo cd. obbligo di provvedere. Lo sgretolamento del dogma della necessaria impugnatorietà del processo amministrativo, iniziato con la menzionata pronuncia del 1960, è nel tempo continuato ed è oggi un dato acquisito anche a livello normativo: il dlgs 80/98, la L. 205/2000 in uno con le SS.UU. n. 500/99, attribuendo al G.A. il potere

rifiuto. Sul punto si veda più approfonditamente oltre.

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di condannare la PA al risarcimento del danno aquiliano, prevedono un processo amministrativo (anche) sul fatto: il fatto illecito (ex art. 2043 cod. civ.) della PA appunto.

Altra tappa del processo evolutivo sia dell’istituto del silenzio-rifiuto che della tutela avverso lo stesso, è da rinvenirsi in un celebre arresto del 1978 della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 10/1978)4 che, aderendo alla tesi del Sandulli in tema di meccanismo di formazione del silenzio-rifiuto, ha ritenuto analogi-camente applicabile l’art. 25 T.U. 3/1957 sugli impiegati civili dello Stato5, ossia il meccanismo della messa in mora della PA da parte del privato istante ai fini della formazione del silenzio-rifiuto. Meccani-smo morto soltanto di recente, ossia con l’entrata in vigore (in data 08.03.2005) della L. 15/2005 di riforma della disciplina generale del procedimento amministrativo (L. 241/90).

Un’ulteriore tappa del processo di progressivo potenziamento della tutela avverso il silenzio-rifiuto è da rinvenirsi nella appena citata

2 Consiglio di Stato, sez. IV, 22 agosto 1922 n. 429. 3 Consiglio di Stato, Ad. Plen., 3 maggio 1960 n. 8, in Giur.it.,

1960, III, 257. 4 Consiglio di Stato, Ad. Plen., 10 marzo 1978 n. 10, in Cons. St.,

1978, n. I, 335. Tale sentenza, a ben vedere, ha una doppia rilevanza nella storia della tutela avverso il silenzio-rifiuto: come vedremo più approfonditamente nel prosieguo di questo lavoro, la menzionata deci-sione non solo introduce un particolare meccanismo per la formazione del silenzio-rifiuto, ma altresì, spinta da esigenze di effettività nella tutela giurisdizionale, afferma che, limitatamente agli atti ammini-strativi vincolati, è ammesso un sindacato giurisdizionale da parte del Giudice Amministrativo sulla fondatezza della pretesa sostanziale del privato che ha formulato una istanza alla Amministrazione. In tali ipotesi, quindi, il giudizio avverso il silenzio-rifiuto estende il proprio oggetto: non più un giudizio sul mero accertamento del cd. obbligo di provvedere e sulla relativa (ed eventuale) violazione dello stesso, ma un giudizio esteso anche a valutare se la pretesa del privato nei con-fronti della PA sia fondata o meno, con possibilità per il GA, in caso di esito positivo del giudizio sulla fondatezza, di attribuire egli stesso,

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L. 241/90 il cui art. 2 stabilisce il principio della generale temporiz-zazione di ogni procedimento amministrativo6: prima di tale legge, infatti, non tutti i procedimenti amministrativi avevano un termine per la definizione degli stessi; non esistendo una disciplina generale del procedimento amministrativo, ci si doveva basare sulle singole normative di settore per i singoli procedimenti, che non sempre pre-vedevano il termine di conclusione degli stessi.

La generale temporizzazione dei procedimenti amministrativi ha però creato un contrasto tra la dottrina e la giurisprudenza in merito alla permanenza o meno del meccanismo della previa messa in mora ex art. 25 TU n. 3/57 ai fini della formazione del silenzio-rifiuto: la prevalente dottrina ha sposato la tesi della automatica formazione del silenzio-rifiuto in conseguenza della scadenza del termine per la definizione del procedimento, senza necessità di renderlo significativo da parte del privato con apposita notifica di atto di messa in mora; la prevalente giurisprudenza, invece, ha abbracciato la opposta tesi della permanenza del meccanismo della messa in mora, attesa la insidiosità della formazione automatica del silenzio-rifiuto che avrebbe potuto danneggiare il privato inconsapevole della formazione dello stesso, a fronte dei termini decadenziali per eccitare la tutela giurisdizionale amministrativa avverso tale figura patologica di silenzio: 60 gg. dalla formazione del silenzio per il ricorso al TAR e 120 gg. per il ricorso straordinario al Capo dello Stato. Tale contrasto è stato solo di recente risolto dal legislatore che, con le modifiche introdotte alla L. 241/90, ha inserito nel corpo dell’art. 2 della stessa il comma 4bis ai sensi del quale “il ricorso avverso il silenzio… può essere proposto anche

in vece della PA, il bene della vita agognato dal privato istante. 5 Ai sensi dell’art. 25 T.U. n. 3/1957: “(diffida). L’omissione di atti o di operazioni, al

cui compimentol’impiegato sia tenuto per legge o per regolamento, deve essere fatta con-statare da chi vi ha interesse mediante diffida notificata all’impiegato e all’amministrazione a mezzo di ufficiale giudiziario.

Quando si tratti di atti o di operazioni da compiersi ad istanza dell’interessato, la diffida è inefficace se non siano trascorsi 60 giorni dalla data di presentazione dell’istanza stessa.

…omissis……omissis…Decorsi inutilmente trenta giorni dalla notificazione della diffida,

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senza necessità di diffida alla amministrazione inadempiente…”7.Con la legge n. 205/2000 di riforma del processo amministrativo,

inoltre, è stato inserito nel corpo della cd. Legge Tar l’art. 21 bis8 che prevede un apposito rito avverso il silenzio-rifiuto, caratterizzato da snellezza e velocità (termini brevi per la proposizione del ricorso e dell’appello, rito camerale, ecc.) secondo la logica che permea tutto l’impianto di tale legge di riforma ispirata ad esigenze (ed al princi-pio) di effettività della tutela giurisdizionale, e sul quale meglio ci soffermeremo tra breve.

A partire dal già menzionato arresto della Adunanza Plenaria del 1978, si è aperta una nuova stagione nell’ambito della tutela avverso il silenzio-rifiuto perché tale decisione, oltre a fissare (come visto nella precedente nota 4) il meccanismo della messa in mora per la forma-zione del silenzio-rifiuto, va oltre ed afferma il principio secondo cui il Giudice Amministrativo può sindacare la fondatezza della pretesa sostanziale del privato istante, e non semplicemente limitarsi ad un

l’interessato può proporre l’azione di risarcimento, senza pregiudi-zio del diritto alla riparazione dei danni che si siano già verificati in conseguenza dell’omissione o del ritardo”.

6 Ai sensi dell’art. 2 L. 241/90, prima della sua modificazione ed integrazione ad opera delle leggi n. 15 e n. 80 del 2005, “1. Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la PA ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso.

2. Le PA determinano per ciascun tipo di procedimento, in quanto non sia già diretta-mente disposto per legge o per regolamento, il termine entro cui esso deve concludersi. Tale termine decorre dall’inizio di ufficio del procedimento o al ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte.

3. Qualora le PA non provvedano ai sensi del comma 2, il termine è di trenta giorni.4. Le determinazioni adottate ai sensi del comma 2 sono rese pub-

bliche secondo quanto previsto dai singoli ordinamenti”. 7 Ai sensi del comma 4 bis dell’art. 2 L. 241/90 “Decorsi i termini

di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell’art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n.1034 e successive modificazioni, può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministra-zione inadempiente fin tanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3. È fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.”. La regola della non necessità della

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giudizio sulla sussistenza del cd. obbligo di provvedere della ammi-nistrazione e sulla sua relativa violazione; tutto questo limitatamente ad atti vincolati della PA per i quali, quindi, si consente al Giudice Amministrativo di sostituirsi alla amministrazione ed attribuire egli stesso il bene della vita cui aspira il privato istante, nel presupposto che la sua istanza sia fondata e che l’atto agognato sia vincolato.

Tale sentenza ha avuto un seguito giurisprudenziale sempre più ampio, ed il suo ragionamento è ispirato da incontestabili esigenze di effettività di tutela giurisdizionale.

Tuttavia, tale orientamento, che era stato esteso da un filone giurisprudenziale fino a comprendere anche gli atti a basso conte-nuto discrezionale, è stato (condivisibilmente) bocciato dalla stessa Adunanza Plenaria con la decisione n. 1/20029 ai sensi della quale è sempre precluso al Giudice Amministrativo (eccezion fatta per le ipotesi di giurisdizione di merito) il sindacato sulla fondatezza della pretesa sostanziale del privato perché ciò comporterebbe un’inam-missibile invasione del Giudice nella sfera riservata alla PA, ossia una violazione del principio della riserva di funzione amministrativa, corollario del più generale principio costituzionale della separazione dei poteri10.

Penultima innovazione (ma solo da un punto di vista cronologico) nella tutela avverso il silenzio-rifiuto, è data dal già brevemente men-

diffida è stata ribadita dalla L. 80/2005 che, modificando l’art. 2 del-la L. 241/90, ha tuttavia ribadito il principio secondo cui il ricorso avverso il silenzio-rifiuto può essere proposto anche senza necessità di diffida alla amministrazione inadempiente.

8 Art. 21 bis L. 1034/1971: “1. I ricorsi avverso il silenzio dell’amministrazione sono decisi in camera di consiglio, con sentenza succintamente motivata, entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle parti che ne facciano richiesta. Nel caso che il collegio abbia disposto un’istruttoria, il ricorso è deciso in camera di consiglio entro trenta giorni dalla data fissata dagli adempimenti istruttori. La decisione è appellabile entro trenta giorni dalla notificazione o, in mancanza, entro novanta giorni dalla comunicazione della pubblicazione. Nel giudizio d’appello si seguono le stesse regole.

2. In caso di totale o parziale adempimento del ricorso di primo grado, il GA ordina all’amministrazione di provvedere di norma entro un termine non superiore a trenta giorni. Qualora l’amministrazione resti inadempiente oltre il detto termine, il GA, su richiesta di parte, nomina un commissario che provveda in luogo della stessa.

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zionato art. 2 L. 241/90, così come modificato dalla legge 15/2005, dapprima, e dalla legge 14 maggio 2005 n. 80, successivamente: tale norma, oltre a prevedere, come visto, la automatica formazione del silenzio-rifiuto, prevede altresì un termine di “impugnazione” annuale dello stesso: una differenza di grande momento rispetto ai tradizionali termini di decadenza precedentemente (e da sempre) utilizzati per impugnare il silenzio-rifiuto (60 gg., come detto, per il ricorso al Tar e 120 per quello straordinario al Capo dello Stato), differenza che consente di trarre ulteriore conferma alla tesi secondo cui il silenzio-rifiuto è trattato alla stregua non (più) di un atto da impugnare ma di un fatto, altrimenti non si spiegherebbe un termine di impugnazione così macroscopicamente diverso da quelli previsti per gli atti amministrativi11.

Con la legge n. 80 del 14 maggio 2005, infine, il legislatore ha apportato ulteriori modifiche alla L. 241/90 ed in particolare ha so-stituito l’appena novellato art. 2 di tale legge con una disciplina che contiene innovazioni di non poco momento: si pensi, ad esempio, alla modifica del termine legale per provvedere che, dai tradizionali trenta giorni è stato triplicato a 90 giorni; si pensi inoltre ed in particolare, alla disposizione contenuta nel nuovo comma 5 dell’art. 2 L. 241/90 secondo cui nei ricorsi avverso il silenzio-rifiuto “il Giudice Ammi-nistrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza”12.

Occorre infine rilevare che nel tempo si è registrata una proli-ferazione di casi di silenzio significativo, ossia di ipotesi in cui il legislatore attribuisce al silenzio della PA il valore di provvedimento amministrativo (di accoglimento o di rigetto della istanza del privato); a tale proliferazione, dovuta in particolar modo all’avvento della L. 241/90, è corrisposta una erosione delle ipotesi di silenzio-rifiuto nel senso che casi che in passato erano di silenzio-rifiuto sono ora diven-tati di silenzio significativo, con tutte le differenze che conseguono

3. All’atto dell’insediamento il commissario, preliminarmente all’emanazione del provve-dimento da adottare in via sostitutiva, accerta se anteriormente alla data dell’insediamento medesimo l’amministrazione abbia provveduto, ancorché in data successiva al termine assegnato dal GA con la decisione prevista dal comma 2”.

9 Tale sentenza è pubblicata, tra le altre, su Foro Italiano, maggio 2002, III, 227 ss; si legge in motivazione che “Sul piano sistematico la scelta operata dal legislatore (di introdurre

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in termini di tutela giurisdizionale.

2. Gli attuali margini per un sindacato del Giudice Ammi-nistrativo sulla fondatezza della pretesa sostanziale del privato (D.P.R. 29/12/2004 su conforme parere del C.d.S. n. 2465/2003 in sede di ricorso straordinario)

Se quella appena delineata al §1 è molto sinteticamente la evolu-zione storica della tutela giurisdizionale avverso il silenzio-rifiuto, passiamo ora ad approfondire le tematiche di maggiore interesse ed attualità e che concernono in particolare il problema della sussistenza di spazi per potere ancora effettuare, da parte del GA, un sindacato sulla fondatezza della pretesa sostanziale del privato istante. Passe-remo poi ad analizzare le novità introdotte dalla L. 15/2005 di rifor-ma della L. 241/90, per esaminare i nuovi problemi che si pongono al riguardo e segnatamente: a) se sussiste un unico rito avverso il silenzio-rifiuto ovvero due riti, uno speciale ed uno ordinario; b) se permane la esperibilità del rimedio del ricorso straordinario al Capo dello stato avverso il silenzio-rifiuto; c) problemi, infine, di riparto di giurisdizione, relativi alla effettiva consistenza giuridica del cd. obbligo di provvedere: se trattasi di obbligazione cui corrisponde un diritto soggettivo al provvedimento ovvero se trattasi di un potere-dovere della amministrazione a fronte del quale si stagliano posizioni di interesse legittimo.

Iniziamo dalla prima problematica indicata, ossia se residuino margini per il GA, dopo l’arresto della Plenaria n. 1/2002, per un sindacato giurisdizionale sulla fondatezza della pretesa sostanziale del privato.

La risposta a tale quesito è positiva, per le ragioni di seguito esposte.

La Plenaria, nel menzionato arresto del 2002, ha affermato che è precluso al GA di sindacare la fondatezza della pretesa sostanziale sottostante, anche in relazione ad atti vincolati, perché ciò comporte-rebbe una ingerenza del GA nella sfera riservata alla Amministrazione ed un tale sindacato (sostiene la Plenaria) non può essere accettato

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perché violativo del principio della riserva di funzione amministra-tiva. E nessuno pregio può (più) darsi alle esigenze di effettività di tutela giurisdizionale, ed al relativo principio, perché queste sono oggi assicurate dalla introduzione di un nuovo e speciale rito avverso il silenzio-rifiuto, rappresentato dall’art. 21 bis L. Tar13. Proprio per esigenze di effettività nella tutela giurisdizionale, infatti, la giurispru-denza, a partire dalla Plenaria n. 10/78, aveva consentito e giustificato la invasione da parte del GA nel merito della funzione amministrativa, dapprima limitatamente agli atti vincolati, poi comprendendo anche quelli a basso tasso di discrezionalità.

Con argomentazioni sagge e pienamente condivisibili, invece, la Plenaria n. 1/2002 riafferma il principio della separazione dei poteri in base al quale il Giudice non può fare l’amministratore. E giustifica il precedente orientamento della stessa giurisprudenza (inaugurato dalla sentenza 10/78) in base al quale si consentiva una intromissione del Giudice nel merito amministrativo, argomentando in termini di carenza di strumenti di tutela che (fino alla L. 205/2000) consentissero una effettività della tutela giurisdizionale, e quindi per “superiori” esigenze di effettività della tutela giurisdizionale.

Pertanto, sulla base di tale recente arresto della Plenaria n. 1/2002, il giudizio avverso il silenzio-rifiuto ha ad oggetto solo la sussistenza del cd. obbligo di provvedere della PA e la sua eventuale violazione (così come avveniva fino alla Plenaria n. 10/78): non può più esten-dersi a sindacare la fondatezza della pretesa sostanziale del privato, neppure in relazione ad atti vincolati14.

Tale sentenza è stata seguita dalla successiva giurisprudenza am-ministrativa (eccezion fatta per due sentenze del 2004 della VI sez. del C.d.S. cui tra breve si cennerà)15. Tuttavia, essa lascia margini al G.A. per compiere, nei processi avverso il silenzio-rifiuto, un l’art. 21 bis legge Tar n.d.r.) si allinea al principio generale che assegna la cura dell’interesse pubblico all’amministrazione e al giudice amministrativo, nelle aree in cui l’amministrazione è titolare di potesta pubbliche, il solo controllo sulla legittimità dell’esercizio della potestà. Questo schema viene superato mediante la attribuzione al giudice del potere di «riformare l’atto o sostituirlo» in via diretta ed immediata, in sede di accoglimento del ricorso (art. 26, comma 2 legge Tar). Tuttavia, proprio perché derogativi del principio predetto, i casi di ingerenza del giudice nella sfera dell’attività pubblicistica della amministrazione sono previsti da esplicite norme autorizzative (art. 6, comma 2 e art. 7 commi 1 e 4 legge Tar). In linea astratta nulla impedisce di individuare altri casi in via interpretativa, sebbene con

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sindacato (anche) sulla fondatezza della pretesa sostanziale del privato, così come chiaramente affermato in una recente decisio-ne del Consiglio di Stato resa in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (parere n. 3465/2003 “ratificato” con decreto del Capo dello Stato del 29.12.2004 n. 18085/3412).

A ben vedere, infatti, in tutti i casi in cui sia possibile sindacare la fondatezza della pretesa sostanziale del privato senza invadere la sfera riservata alla PA, è ben ammissibile siffatto sindacato e pertan-to, limitatamente a tali ipotesi, l’oggetto del giudizio amministrativo (in caso di ricorso avverso il silenzio-rifiuto) non sarà soltanto l’ac-certamento della sussistenza dell’obbligo di provvedere e della sua relativa violazione, ma potrà estendersi a sindacare la fondatezza della pretesa sostanziale del privato nei confronti della amministrazione silenziosa.

Tali ipotesi sono tutt’altro che rare, e possono configurasi in ogni procedura selettiva (procedimenti ad evidenza pubblica e concorsi) quando vi sia una illegittima esclusione di un soggetto partecipante a tali procedimenti.

Il menzionato parere del Consiglio di Stato reso in sede di ricorso straordinario avverso il silenzio-rifiuto, infatti, ha affermato che era fondata la pretesa sostanziale del privato, ossia la richiesta (formulata alla amministrazione procedente da una ATI esclusa da gara d’appalto) di essere riammessa alla gara stessa, previo annullamento d’ufficio dell’atto di esclusione, in virtù dei vizi che inficiavano quest’ultimo ed analiticamente evidenziati dalla istante nella richiesta notificata alla amministrazione procedente.

Il Consiglio di Stato, pertanto, ha non solo rilevato che nella fatti-specie portata al suo giudizio sussisteva il cd. obbligo di provvedere della amministrazione procedente (la Regione Puglia n.d.r.), perché la stessa aveva ricevuto dalla ATI esclusa una formale (e non mani-festamente infondata) richiesta di annullamento d’ufficio dell’atto di esclusione, entro 30 gg dalla ricezione della diffida a provvedere, motivata dalla analiticamente argomentata illegittimità di tale atto16;

il rigore imposto dall’eccezionalità dell’istituto, ma l’analisi dell’art. 21 bis L. 1034/71 anziché fornire elementi persuasivi in tal senso, accredita, come risulta da quanto esposto

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ha altresì rilevato che tale obbligo di provvedere è stato inadempiu-to, non avendo la PA provveduto con un provvedimento espresso e motivato (come impostole dalla L. 241/90, art. 2 e 3) entro il termine fissatogli dal privato (né successivamente); ed ha, infine, anche sin-dacato la fondatezza della pretesa sostanziale della ATI esclusa, ossia ha sindacato (incidentalmente) la legittimità dell’atto di esclusione, sancendone la illegittimità a causa dei molteplici vizi da cui era af-fetto e tutti approfonditamente scandagliati dal Supremo Consesso di giustizia amministrativa.

Pertanto, in tale caso, l’oggetto del giudizio avverso il silenzio-rifiuto non è stato solo l’accertamento della violazione dell’obbligo di provvedere, ma si è spinto oltre, sindacando la fondatezza o meno della pretesa sostanziale del privato, ossia la spettanza del bene della vita. Il tutto, senza sconfinare nella riserva di funzione amministrativa, quindi nel pieno rispetto dei principi e delle coordinate ermeneutiche scolpite dalla Plenaria n. 1/2002.

In casi come quello appena esposto può allora ancora ammetter-si, nei giudizi avverso il silenzio-rifiuto, un sindacato (anche) sulla fondatezza della pretesa sostanziale del privato, non sconfinandosi infatti nella zona riservata alla PA e rispondendo tale tipo di sindaca-to ad esigenze di effettività (rectius) maggiore effettività della tutela giurisdizionale.

È di tutta evidenza infatti che, in una prospettiva risarcitoria, è necessario “togliere di mezzo” l’atto illegittimo lesivo: occorre cioè la declaratoria giurisdizionale della sua illegittimità, sia in una pro-spettiva di risarcimento in forma specifica (id est, riammissione alla gara dell’impresa esclusa), sia in una prospettiva di risarcimento per equivalente pecuniario, essendo la illegittimità dell’atto uno degli elementi indefettibili del danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 cod. civ.. Orbene, è evidente che ottenere la declaratoria dell’illegittimità dell’atto dalla stessa Autorità Giudiziaria adìta con il ricorso avverso il silenzio-rifiuto, consente al privato di non doversi rivolgere ad un

in precedenza, la conclusione opposta.Le stesse considerazioni e la stessa conclusione valgono anche quando il provvedimento

richiesto dal privato abbia, come nella specie, natura vincolata”.

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altro Giudice dopo la declaratoria della (sola) illegittimità del silen-zio, così concentrandosi innanzi ad un unico Giudice ed in un unico processo sia la valutazione della legittimità del silenzio, sia quella sull’atto, con conseguente risparmio di tempi ed economicità dei mezzi giuridici17.

La tesi della sindacabilità della fondatezza della pretesa del privato ha di recente ricevuto l’avallo da parte del legislatore: come già accen-nato nel precedente paragrafo, infatti, con la L. 80/2005 il legislatore, nel sostituire l’art. 2 della L. 241/90 con una nuova disciplina, ha tra l’altro previsto che nei ricorsi avverso il silenzio-rifiuto “il Giudice Amministrativo può conoscere della fondatezza della istanza”.

Alla luce di quanto esposto nel presente paragrafo, non è condi-visibile la opinione dottrinaria di chi18 afferma, dopo la plenaria n. 1/2002, la permanenza di un sindacato giurisdizionale del GA sulla fondatezza della pretesa sostanziale, limitatamente agli atti vincolati ed alle ipotesi di interesse pretensivo. Già la plenaria n. 1/2002, in-fatti, ha chiaramente motivato le ragioni per le quali, anche in caso di attività vincolata, non si possa (più) ammettere il sindacato sulla pretesa sostanziale, ossia il divieto per il GA di invadere la sfera ri-servata alla PA. La Plenaria ha specificato inoltre che la velocità del nuovo rito avverso il silenzio- rifiuto (ex art. 21 bis l. Tar) soddisfa quelle esigenze di effettività di tutela giurisdizionale per le quali fino ad allora si era ritenuto di poter sacrificare il principio della riserva di funzione amministrativa in favore di quello di effettività della tutela giurisdizionale. Le argomentazioni della Plenaria sul punto appaiono esaustive e convincenti, e non può pertanto accogliersi la tesi della

10 Si rinvia al successivo par. 2 per un approfondimento di tale arresto della Adu. Plen. n. 1 /2002 e più in generale per la disamina del problema della sindacabilità giurisdizionale della fondatezza della pretesa sostanziale.

11 Si rinvia al successivo par. 4 per un approfondimento del nuovo comma 4 bis L. 241/90 e delle sue implicazioni.

12 Per il rilievo di quest’ultima innovazione legislativa si veda più approfonditamente il successivo par. 2.

13 Si veda in proposito la precedente nota n. 8.

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sopravvivenza della sindacabilità della fondatezza della pretesa limi-tatamente alle ipotesi di interessi pretensivi ed attività vincolata: le esigenze di effettività della tutela oggi sono adeguatamente soddisfatte, come insegna la Plenaria, e non vi è ragione quindi per continuare a violare il principio della riserva di funzione amministrativa. Inoltre, se si ammette (come tale dottrina tra l’altro ammette) che il nuovo rito avverso il silenzio-rifiuto è compatibile con la tutela cautelare, allora la effettività della tutela avverso il silenzio-rifiuto è piena, reale ed efficace: una ragione in più, allora, per non violare il principio della riserva di funzione amministrativa e per impedire al GA si so-stituirsi alla PA, anche se solo in presenza di attività amministrativa vincolata19.

3. Unicità del rito avverso il silenzio-rifiuto?

Abbiamo visto che con l’art. 2 L. 205/2000, è stato introdotto nel corpo della legge Tar l’art. 21 bis recante la disciplina di un rito speciale avverso il silenzio-rifiuto20.

Caratteristica di tale norma è la velocità della tutela giurisdizionale che essa garantisce avverso tale tipologia di silenzio, in modo da potere rispondere a quelle esigenze di effettività di tutela cui è improntata ed ispirata tutta la L. 205/2000 di riforma del processo amministra-tivo. Si prevede, in particolare, la snellezza tipica del rito camerale: decisione in camera di consiglio (in forma di sentenza succintamente motivata) da emettersi nel termine breve di 30 gg. dalla scadenza di quello previsto per il deposito del ricorso21; la bypassabilità della PA inerte con la nomina di un commissario ad acta, sulla falsariga del giudizio di ottemperanza22; ed il termine breve di 30 gg. per la pro-posizione dell’appello.

14 In relazione al previgente indirizzo giurisprudenziale che am-metteva il sindacato del G.A. sulla fondatezza della pretesa nei casi di attività amministrativa vincolata o a bassa tasso di discrezionalità, afferma la Adunanza Planaria che “sarebbe sufficiente osservare che

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La giurisprudenza ha interpretato tale nuova norma come intesa a tutelare posizioni di interesse legittimo, ed in particolare quelle di tipo pretensivo. In particolare il Consiglio di Stato, con il menzionato parere reso in sede di ricorso straordinario, distingue lo strumento di cui all’art. 21 bis come deputato alle ipotesi “ordinarie” di silenzio-rifiuto, ossia quelle in cui vi è una completa assenza di qualsivoglia manifestazione provvedimentale della PA inerte; dalle ipotesi in cui, invece, (come quella decisa dal Consiglio di Stato con il menzionato parere) oltre al silenzio-rifiuto vi sia anche un provvedimento ammi-nistrativo (nella specie l’atto di esclusione della impresa dalla gara): in quest’ultimo caso (in cui, come visto, si consente un sindacato anche sulla fondatezza della pretesa) non si applicherebbe il rito speciale ex art. 21 bis, ma quello ordinario (molto più lento)23.

La giurisprudenza successiva alla introduzione del rito di cui all’art. 21 bis, ed in particolare il parere del Consiglio di Stato che si sta esaminando, sembra quindi avere delineato una doppia tutela avverso il silenzio-rifiuto: una tutela speciale attraverso lo strumento di cui all’art 21 bis per i casi di silenzio “assoluto”, ossia di assenza di qualsivoglia manifestazione provvedimentale della PA, ed una

l’indicato indirizzo della giurisprudenza, del quale possono com-prendersi le ragioni e condividersi le finalità, non può che cedere rispetto alla normativa sopravvenuta (id est l’art. 21 bis legge Tar n.d.r.) che definisce in modo compiuto la tutela giurisdizionale ac-cordata al privato nei confronti del comportamento omissivo della amministrazione” .

15 Consiglio di Stato, sez. VI, sentenze n. 2367 e 2368 del 22.04.2004 (est. Cons. F. Caringella).

16 Come già visto sub nota 1 cui si rinvia, la giurisprudenza ritiene infatti che sorge il cd. obbligo di provvedere della PA allorquando la stessa riceva una istanza che non sia manifestamente infondata.

17 Per ragioni di completezza sistematica è necessario precisare che il presente lavoro è limitato, quanto agli aspetti risarcitori, a quelli “in forma specifica” ex art. 21 bis legge Tar, norma tra l’altro compatibile con la tutela cautelare.

La complessità della tematica relativa al risarcimento per equivalente pecuniario rende opportuna una trattazione autonoma di tale aspetto, anche in considerazione delle proble-matiche attualmente al vaglio della Adunanza Plenaria.

In linea generale e necessariamente incompleta si può però dire in

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ordinaria per le ipotesi in cui vi è un provvedimento amministrativo (in aggiunta al silenzio-rifiuto).

La ratio di tale impostazione (e quindi della distinzione tra un rito speciale ed uno ordinario) si fonda sulla struttura dell’art. 21 bis legge Tar, asseritamene incompatibile con un sindacato esteso (oltre che al silenzio) anche ad un atto amministrativo: la tesi giurisprudenziale del doppio rito avverso il silenzio-rifiuto (recepita dal parere del Consiglio di Stato) argomenta proprio in termini di incompatibilità strutturale dell’art. 21 bis con casi in cui si debba sindacare (anche) la legittimità di un atto amministrativo: la velocità del rito, si afferma, sarebbe infatti incompatibile con un esame (oltre che sulla sussistenza dell’obbligo di provvedere) anche sulla legittimità di un atto amministrativo; tale norma sarebbe stata introdotta, quindi, solo per fronteggiare le ipo-tesi di silenzio “assoluto” e solo con queste sarebbe strutturalmente compatibile.

Tali argomentazioni, tuttavia, non appaiono convincenti e la tesi del doppio rito avverso il silenzio-rifiuto non può essere condivisa.

Si osserva innanzi tutto che la asserita incompatibilità tra la strut-tura dell’art. 21 bis e la sindacabilità di un atto, è una affermazione non vera o, comunque, non provata: i termini (brevi) previsti da tale norma, infatti, non appaiono incompatibili con la possibilità per il Giudice di esaminare (anche) un atto amministrativo, atteso che è la stessa norma che prevede la possibilità di una attività istruttoria con il conseguente slittamento dei termini per decidere che, peraltro, sono soltanto ordinatori.

Dunque, è il presupposto di partenza della tesi della sussistenza di un doppio rito avverso il silenzio-rifiuto (ordinario o speciale ex art. 21 bis) che appare fragile se non addirittura errato.

Occorre evidenziare infatti che dalla lettera dell’art. 21 bis non si rinviene alcuna distinzione tra ipotesi di silenzio in presenza di atti e di silenzio in assenza di questi: la norma in esame ha piuttosto una portata generale e comprensiva di ogni ipotesi di silenzio-rifiuto; una distinzione di tal fatta, dunque, appare arbitraria, non giustificata e comunque priva di riscontro normativo.

Il ritenere non applicabile l’art. 21 bis a quelle ipotesi di silen-

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zio-rifiuto in presenza di atti determinerebbe inoltre la inaccettabile conseguenza di tutelare in maniera diversa l’interesse pretensivo del privato a fronte del diverso tipo di silenzio-rifiuto: nel caso di silen-zio “assoluto” (ossia in assenza di atti sottostanti), la tutela sarebbe veloce ed efficace attraverso lo strumento dell’art. 21 bis; viceversa, nella ipotesi di silenzio “non assoluto” (ossia in presenza di un atto sottostante), il privato avrebbe una tutela minore perché molto più lenta (anni) attraverso il rito ordinario.

Una disparità di trattamento che non appare giustificata: essendo la L. 205/2000 ispirata, infatti, ad esigenze di effettività della tutela, ecco che interpretare l’art. 21 bis nel senso di non applicarlo a tutte le ipotesi di silenzio, significherebbe interpretarlo in modo difforme dalla ratio sia della legge n. 205/2000 sia dello stesso art. 21 bis; se la ratio di tutta la legge 205 è quella di potenziare la effettività della tutela, allora occorre interpretare le sue norme in modo conforme a tale ratio.

La stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (la n. 1/2002 più volte citata), inoltre, afferma chiaramente che “l’articolazione precettiva (dell’art. 21 bis n.d.r.), al contrario, definisce una disciplina unitaria e indifferenziata, valida in tutti i casi in cui l’amministrazione si sottragga al suo dovere di adottare un atto amministrativo esplicito” e pertanto la stessa Plenaria sembra propendere per la unicità del rito avverso il silenzio-rifiuto.

Ad ulteriore conferma di tale tesi si osserva infine che la recente riforma dell’art. 2 L. 241/90, nel disporre che “decorsi i termini di cui ai commi 2 e 3, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell’art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971 n. 1034… può essere proposto…” sembra prevedere una volta per tutte che per ogni ipotesi di silen-zio-rifiuto, l’unico rito azionabile è quello ex art. 21 bis Legge Tar. Tale norma24, infatti, riferendosi alle ipotesi di silenzio-rifiuto che si configurano “decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3” della norma stessa, in realtà abbraccia tutte le ipotesi di silenzio-rifiuto, e per esse prevede la tutela ex art. 21 bis. Tale norma, quindi, lega tutte le ipotesi di silenzio-rifiuto all’art. 21 bis.

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4. Permane la tutelabilità avverso il silenzio-rifiuto attraverso lo strumento del ricorso straordinario al Presidente della Repub-blica?

Tra le rilevanti modifiche introdotte dalla legge n. 15/2005 alla disciplina generale del procedimento amministrativo, vi è quella già segnalata della previsione di un termine annuale per la “impugnazio-ne” del silenzio-rifiuto25.

Sino alla entrata in vigore di tale nuova disposizione, il ricorso avverso il silenzio-rifiuto era trattato alla stregua di un ricorso impu-gnatorio, quantomeno per il termine decadenziale di impugnazione che era quello previsto per la generalità degli atti amministrativi: ossia 60 gg (dalla formazione del silenzio) per il ricorso innanzi al TAR e 120 gg per quello straordinario al Capo dello Stato.

Pertanto, la circostanza di essere la tutela giurisdizionale avverso l’inerzia nata in un contesto di necessaria impugnatorietà del prov-vedimento, aveva comportato la ovvia conseguenza di trattare tale tutela come quella di un qualsiasi atto, e quindi con gli stessi termini decadenziali per la esperibilità del ricorso e gli stessi strumenti di tutela (id est anche ricorso straordinario)26.

Il progressivo sgretolamento del dogma della necessaria impugna-torietà del processo amministrativo, con particolare riferimento alle ipotesi di tutela avverso il silenzio-rifiuto, è culminato nella nuova disposizione che prevede (art. 2 comma 4 bis L. 241/90)27 il termine decadenziale annuale per la proposizione del ricorso, un termine dunque, macroscopicamente diverso da quello per la impugnazione degli atti amministrativi.

questa sede che la tutela risarcitoria per equivalente pecuniario nelle ipotesi di silenzio-rifiuto (certamente configurabile attesa la generale risarcibilità dell’interesse legittimo) si sostanzia essenzialmente nel cd. danno da ritardo.

18 F. Caringella, in “corso di diritto amministrativo” terza ed., pag. 1323 ss.

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Tale disposizione è il frutto di un compromesso tra le due tesi che si sono contrapposte a partire dalla introduzione della L. 241/1990 e sino alla recente modifica della stessa: la tesi della automatica for-mazione del silenzio-rifiuto (alla scadenza del termine di conclusione del procedimento); e la tesi di chi, invece (la prevalente giurispru-denza) propendeva per la non automatica formazione dello stesso per il pericolo che, scadendo il termine di impugnazione (60 o 120 gg.) il privato perdesse l’opportunità della tutela giurisdizionale per non essersi accorto tempestivamente che si era formato il silenzio.

Oggi, con la nuova disposizione, da un lato si prevede la automatica formazione del silenzio, dall’altro, opportunamente, si allunga (ad 1 anno) il termine decadenziale per la proposizione del ricorso avverso lo stesso, precisando che nelle more non vi è consumazione del potere amministrativo di provvedere.

Detto questo, lo scollamento di tale tutela dal tradizionale doppio termine di impugnazione (giorni 60 per il ricorso al Tar e giorni 120 per quello straordinario), porta a concludere che quest’ultimo strumento di tutela non è più azionabile. Infatti, tale disposizione appalesa una volta per tutte che l’oggetto del processo avverso il silenzio-rifiuto non è un atto ma un fatto; mentre il ricorso straordinario è limitato alla impugnativa di atti e, segnatamente, di quelli definitivi. La nuova disposizione consente di potere concludere che il ricorso avverso il silenzio-rifiuto non è di tipo impugnatorio, non ha ad oggetto un atto. Pertanto, il ricorso straordinario, presupponendo indefettibilmente un atto definitivo, non è più esperibile come mezzo di impugnazione avverso il silenzio-rifiuto.

Oggi, dunque, l’unico mezzo di tutela giurisdizionale avverso il silenzio-rifiuto è rappresentato dal ricorso al TAR, anche in sede cautelare, con l’eventuale appello innanzi al Consiglio di Stato.

Sino ad un recente passato, invece, ossia fino alla entrata in vigore delle modifiche alla L. 241/90, era possibile “impugnare” il silenzio-rifiuto direttamente innanzi al Consiglio di Stato attraverso lo strumen-

19 Tale tesi dottrinale della sopravvivenza post plenaria 1/2002 di un sindacato sulla fondatezza della pretesa sostanziale limitatamente

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to del ricorso straordinario (così come avvenuto nel caso deciso con parere del 2003 dal consigliere V. Borea), con il vantaggio di ottenere direttamente una decisione giurisdizionale28 definitiva.

5. Aspetti in tema di riparto di giurisdizione

Anche in relazione al silenzio-rifiuto si è posto il problema di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario (giudice dei diritti) e giudice amministrativo (giudice dell’interesse legittimo, salvi i casi, sempre più frequenti, di giurisdizione esclusiva o per “blocchi di materie”).

Si è posto, più precisamente, il problema della natura giuridica della posizione di colui che formula una istanza (non manifestamente infon-data) ad una PA: alla tesi dell’interesse legittimo al provvedimento si è andata contrapponendo quella del diritto soggettivo allo stesso, con evidenti conseguenze in tema di riparto di giurisdizione.

La tesi prevalente fino ad un recente passato era quella dell’in-teresse legittimo al provvedimento, ai sensi della quale a fronte di una istanza non manifestamente infondata di un privato, la PA ha un potere-dovere di provvedere, comunemente ed atecnicamente deno-minato obbligo di provvedere.

La tesi del diritto soggettivo, minoritaria anche se presente sia in ambito dottrinale che nella giurisprudenza di merito29, sembra oggi de-finitivamente superata dall’arresto n. 1/2002 della Adunanza Plenaria che si esprime in termini di “dovere (e quindi di potere-dovere) delle amministrazioni di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso nei casi in cui esso consegua obbliga-toriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio”30.

Anche il più volte menzionato parere del Consiglio di Stato reso in sede di ricorso straordinario, implicitamente ma chiaramente ritiene alla ipotesi di attività vincolata al cospetto di un interesse pretensivo, è stata avallata da due recenti sentenze della VI sez. del C.d.S. (esten-sore Cons. Caringella), in relazione alle quali valgono le medesime considerazioni critiche espresse nel corpo del presente testo.

20 Per il testo dell’art. 21 bis legge Tar si rinvia alla precedente

ARGOMENTI DI ATTUALITÀ FORENSE

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nota n. 8 sub. par. 1. 21 Trattasi, tuttavia, di termine soltanto ordinatorio. 22 Non si tratta, però, di un autentico giudizio di ottemperanza:

quest’ultimo, infatti, diversamente dalla ipotesi in esame, presuppo-

che a fronte di una istanza non manifestamente infondata del privato (richiesta di annullamento d’ufficio dell’atto di esclusione dalla gara) si appunti una posizione di interesse legittimo al provvedimento (ossia ad una risposta) che radica la giurisdizione del Giudice Am-ministrativo.

La giurisprudenza successiva alla decisione n. 1/2002 sembra quindi pacificamente (e condivisibilmente) orientata nel senso del-l’interesse legittimo al provvedimento e ritiene che il nuovo rito avverso il silenzio-rifiuto (l’art. 21 bis legge Tar) non sia applicabile anche per tutelare di posizioni di diritto soggettivo, ma solo quelle di interesse legittimo.

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La lanterna magicadi MASSIMO RENNA*

“…la lanterna magica è una piccola macchina ottica che fa vedere su una parete bianca,immersa nell’oscurità, spettri e mostri così terrificanti da far credere a chi non ne conosca il segreto che questo accade per magia…”.

(ANTOINE FURETIERÉ, 1690)

Fino a poco tempo addietro, meno di cento anni, la possibilità di isolarsi, di nascondersi, ovvero di “non essere visto” era a portata di mano. Bastava spegnere la luce o nascondersi nell’ombra per riacqui-stare la propria riservatezza o forse, oso dire, la propria identità.

Ma oramai, tutto questo non è più possibile: gli ultimi cento anni sono stati, grazie al progredire magmatico dell’elettronica e delle co-municazioni, quanto di più massificante ed alienante la mente umana abbia potuto escogitare nel trasformare la riservatezza dell’individuo in uno strumento spesso sacrificabile a fini diversi, quasi sempre spac-ciati per superiori, di volta in volta chiamati benessere economico, sicurezza nazionale, interesse collettivo o comunque appellati con luoghi comuni, che una analisi, spesso non necessariamente appro-fondita, manifesta come vuoti loghi di una sovrastruttura superiore che ci siamo costruiti da soli attorno e da cui forse non riusciamo più ad uscire, restandone ingabbiati.

La mente corre a romanzi come George Orwel 1984, o Fahreneith 451, che solo pochi decenni fa erano utopiche storie e romanzesche interpretazioni del futuro, ma, come diceva Giulio Verne “…quello

* Avvocato del Foro di Brindisi.

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che un uomo ha solo immaginato, un altro uomo sicuramente realiz-zerà…” e quindi forse i grandi teleschermi di Orwel o i pompieri e gli elicotteri che controllano la cittadina pensata da R. Bradbury non sono forse oramai fantasia.

Certo con forme ed occhi diversi e con mezzi meno appariscenti, ma proprio per questo più pericolosi, un grande fratello ci controlla ed è sicuramente più potente di quanto immaginato nei primi tenta-tivi romanzeschi, perché è difficile combattere ciò che non si vede e perché di esso, non v’è traccia.

Questo articolo quindi non vuole essere una approfondita ricerca sull’argomento ma un semplice spunto per riflettere; perché chi pensa, valuta e sceglie ha una possibilità di salvezza e di autocontrollo, chi non si fa domande è destinato ad essere oggetto.

Quante volte siamo usciti da casa la mattina presto e respirando l’aria fresca abbiamo apprezzato la bellezza della passeggiata in solitudine, nella illusoria convinzione che essa è ancora una scelta dell’uomo moderno!

Basta però riflettere un attimo per rendersi conto che così liberi realmente non si è e non siamo noi a decidere, quasi mai, la nostra solitudine o la nostra compagnia. Si pensi a come siamo schedati, conosciuti e scannerizzati ogni giorno e si dedurrà con angoscia che forse “…lassù qualcuno ci guarda…”.

Chi ci sorveglia, ci cinge ogni mattina in un caldo abbraccio e ci chiede in cambio di agio e comodità il controllo su gran parte della nostra vita, forse prende anche ciò che non gli è stato né promesso né dovuto.

Basta pensare che nella nostra giornata di vita quotidiana il mo-nitoraggio della nostra vita è continuo: accendendo la televisione, disinserendo un antifurto satellitare dell’auto, usando una carta di credito, pagando col telepass autostradale, usando il GPS in auto, facendo una telefonata, passeggiando per il centro cittadino sotto il freddo controllo di telecamere di sicurezza, ritirando una carta premio in un supermercato, ricevendo la propria busta paga, siamo monitorati, controllati e visti: senza parlare, poi, degli enormi registri governativi ed anagrafici che ogni sede, sottosede o filiale pubblica o privata detiene.

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Certo, qualcuna dirà: “…è il prezzo che si deve pagare per benes-sere e tranquillità…”! Ma è davvero così o forse il meccanismo si sta pervertendo a poco a poco, poiché la domanda che sorge è sempre la stessa: chi controlla il controllore?

Un patto stretto nel lontano 1948 ci controlla, ad esempio, in ogni movimento. Cinque stati (Usa, G.B., Australia, Nuova Zelanda e Canada), con cinque grandi basi Ukusa che registrano i movimenti e le comunicazioni che pervengono da 25 satelliti geostazionari In-telstat.

Ogni telefonata, fax, e-mail o comunicazione di qualsiasi tipo, da qualunque parte del mondo prevenga o sia destinata e purché avvenga via etere, viene intercettata dal sistema Echelon, che la mo-nitorizza, ne seleziona i passaggi interessanti e li trasmette ai centri di decodificazione e sicurezza delle Intellingence degli Stati del patto. Il sistema è potentissimo e sostanzialmente semplice: nei sistemi computerizzati vengono inserite dai servizi dei governi interessati le parole chiavi ritenute “sospette” (le keywords possono comprendere nomi di persone, di navi, di organizzazioni di paesi e di argomenti, ma anche semplici espressioni o codici) ed il sistema, le intercetta al volo attraverso l’uso di dizionari precodificati che la traducono nel linguaggio definito standard da Echelon e le archiviano.

Il problema è così grave che la stessa Unione Europea si è posta delle domande, pur rimanendo, però ad’ oggi impantanata in questioni a metà tra il burocratico e la sicurezza.

Forse non tutti sanno, però, che anche quando si naviga su Internet non si è mai soli. Vi sono mezzi leciti ed illeciti, esperiti da Enti go-vernativi e privati che ci chiudono in una tagliola a nostra insaputa.

Due sono i più noti responsabili del controllo occulto “privato” sulla rete: i cookies e le cimici web.

I primi (la cui traduzione è biscottini) sono spie sostanzialmente passive che vengono caricate sui computers durante la navigazione dal sito che si attraversa ed inviati attraverso banners pubblicitari, con la conclusione che il nuovo accesso al sito viene monitorato attraverso il riconoscimento dell’utente (del numero di volte che lo attraversa, delle sue abitudini, consuetudini, preferenze, ecc. ecc.), ma sono rimuovibili

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e riconoscibili, mentre le seconde sono anche più pericolose.Esse, infatti, a differenza dei primi sono dinamiche, i sistemi anti

cookies non sono in grado di identificarle, sono invisibili (paragonabili alla grandezza di un punto sullo schermo) e pertanto accedono senza essere notate e si annidano dove non è possibile monitorarle, se non dalle società che le immettono sulla rete.

“…Il rischio è che se qualcuno visita un sito…nel momento stesso in cui sito viene caricato, prima ancora che compaia sul monitor, da qualche parte nel mondo viene registrato il fatto che quella persona ha visitato il sito. È questo il male che le cimici web si portano dietro…”.

(IRA ROTHKEN, Avvocato dello studio Rothken di San Rafael, California)

Non convincono le rassicurazioni delle società di gestione che dichiarano e giurano di essere vincolate al segreto, e che ciò serve solo per veicolare il navigatore verso quello che lo interessa con maggiore rapidità. Le cimici web si annidano dappertutto anche nella posta elettronica.

Per esempio una società può inviare per email delle cimici le quali indicheranno, quante volte si spedisce un messaggio, a chi, con che frequenza e con il rischio di rintracciare ogni utente che apra il mes-saggio stesso, identificandone ID in codice.

“Una specie di monossido di carbonio per la privacy su In-ternet”.

(da The New York Times on the Web del 12/07/2000).

Ma si può fare di più: pare siano disponibili a quattro soldi (così come per i telefoni spia su un noto articolo di “Panorama” di qualche mese addietro) sullo stesso web programmini sabotatori e spia.

“…spiare in casa altrui attraverso la rete internet è oggi alla portata di qualsiasi hacker con medie conoscenze informati-che…”.

(SANDRO TARICONE, esperto di informatica).

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Il pericolo è immanente con ogni connessione sia essa ISDN, ADSL o analogica.

Si invia al computer che si vuole spiare un messaggio e-mail con allegata, per esempio, una allettante offerta di viaggio a prezzi stracciati. La vittima predestinata apre l’allegato, vede l’offerta di viaggio, ma senza accorgersene installa in automatico un programma nascosto, che legge il numero di identificazione del computer e lo rispedisce al mittente per e-mail. Il numero noto come IP (Internet Protocol) è formato da quattro triplette cioè 12 cifre separate a tre a tre da un punto.

Conosciuta la porta di comunicazione si Internet, il malcapitato è alla mercè dell’hacker. Questi farà di tutto: leggerà la posta elettro-nica della vittima, potrà addirittura mettere in moto gli Hardware del malcapitato (ad esempio aprire lo sportellino del lettore CD) o potrà addirittura “leggere” a distanza cosa si sta digitando sulla tastiera, o “vedere” cosa visualizza il monitor e, se si ha una web-cam o un mi-crofono inseriti, vedere e sentire ciò che accade intorno al computer del malcapitato utente.

Fin qui i rischi su Internet a iniziativa dei privati, e come tali forieri di gravi responsabilità civili e penali per gli hackers interessati che, se scoperti, potrebbero avere seri problemi con la giustizia.

Ma quando l’intrusione è governativa, la cosa non è forse più grave? E chi la sanziona?

In USA, ad esempio, la situazione oramai sta degenerando.L’agenzia di stampa Reuters rese noto, il 12/12/2001, che l’FBI

aveva chiesto ai providers di installare nelle loro reti dispositivi tecno-logici capaci di leggere segretamente le e-mail di persone indagate.

Negli States sotto il governo Bush è stato varato l’USA PATRIOT ACT (emanato nell’ottobre 2001) che ha radicalmente ampliato al-l’inverosimile l’ambito di sorveglianza elettronica del Governo su Internet.

L’art. 216 della legge permette all’FBI di catturare la più ampia pos-sibile informazione da Internet, esaminare gli indirizzi IP, senza alcun obbligo di mantenere riservate tali notizie, senza dimostrare neanche la necessità di giustificato motivo (probable cause) e con poteri della

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magistratura di verifica e controllo significatamente ridotti.Il Patriot Act utilizza il sistema “Carnivore” (DCS 1000) ovvero

macchine che vengono installate dal governo americano presso gli ISP al fine del controllo completo dell’utente.

In base alla stessa legge gli agenti FBI, muniti di ordine di per-quisizione inaudita altera parte, possono entrare in case private o in uffici, in assenza degli occupanti, forti della “sneak and peek provi-sion” del Patriot Act, inserire nel computer dell’indagato lo “sniffer keystroke logger” (meglio conosciuto come lanterna magica), al fine di registrare ogni pressione di tasto, spiare l’hard disk, salvare “il tutto”, in modo che quando torneranno, sempre abusivamente e di nascosto, il materiale sarà asportato e scaricato all’insaputa del mal-capitato, con ogni altro documento utile: fotografie, messaggi non inviati, ogni annotazione personale e riservata. E di tanto la FBI non dovrà rendere conto a nessuno. Poiché un mero termine ordinatorio di 90 giorni impone l’informazione all’indagato: termine derivato da interpretazione del Ministero della Giustizia americano e prolungabile praticamente all’infinito!

Non deve ingannare neache la giustificazione della sicurezza nazionale.

Così ci riferisce N. Walter Palmieri (- Avvocato in New York, Mon-treal - articolo del 18/11/2004 facilmente reperibile sul sito www.interlex.it) il quale sostiene che tali attività esercitate ad ampio spet-tro da parte della polizia federale e senza dare giustificazioni precise tantomeno alla magistratura.

Ed in Italia? Intanto la mancanza di regole è stata usata in passato, a dire il vero, per operazioni anticrimine, che probabilmente l’entrata in vigore della L. 196/03 non può più permettere.

La legge impone che le compagnie telefoniche e gli Internet Provi-ders distruggano i dati di traffico relativi ad un utente dopo sei mesi, estendibile a trenta in caso di indagini della magistratura.

È chiaro che sono in gioco due interessi contrapposti, ma anche due filosofie di vita.

Lo Stato da una parte impegnato in una cruenta lotta contro i reati più gravi, non ultimi terrorismo e mafia, dall’altro il diritto alla privacy

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definitivamente consacrato nella predetta L. 193/96.Se è vero che bisogna accettare delle limitazioni in cambio di pace

e benessere, appare ovvio però che necessità forte trasparenza in chi quelle informazioni raccoglie, le cataloga e poi le usa.

Poiché di tale attività deve fare contezza pubblica al cittadino, perché solo ciò che è pubblico in uno stato democratico alla fine è controllabile.

Il problema è quindi delle garanzie, non delle azioni. Se non si controlla o non si limita il controllore, e comunque non gli si chiede contezza del suo operato, si corre il rischio di delegare ad un potere, il più delle volte sconosciuto ed incondizionato, la propria vita e la propria riservatezza.

ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

Presentazione della Fondazione dell’Avvocatura della Provincia di Brindisi

Inaugurazione dei corsi della Scuola Forense di Brindisi

L’8 luglio 2005 presso la Biblioteca dell’Ordine il Consiglio ha presentato la Fondazione della Avvocatura della Provincia di Brin-disi e ha inaugurato i corsi della Scuola di Formazione Forense. Nel corso della Cerimonia è stata distribuita la pubblicazione conte-nente lo Statuto della Fondazione, che è stato illustrato dal Presidente, il Programma e il Calendario dei Corsi; il Presidente ha svolto la relazione sui criteri direttivi e sulle linee guida dei corsi, sulle aree e moduli sui quali gli stessi sono strutturati.

La prolusione è stata tenuta dall’Avv. Ugo Operamolla, Coordi-natore della Fondazione dell’Avvocatura Italiana presso il Consiglio Nazionale Forense.

Alla manifestazione hanno presenziato il Prefetto di Brindisi, il Questore, il Comandante del Gruppo dei Carabinieri, il Comandante della Guardia di Finanza.

Nel corso della stessa si è tenuta la tradizionale Cerimonia della Consegna dei Tesserini ai Praticanti, con la partecipazione di Avvocati e Familiari dei nuovi iscritti.

Comunicazioni agli iscritti

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ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

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Il Consiglio informa gli iscritti che le Cancellerie della Corte di Appello di Lecce hanno la possibilità di evadere le richieste di copie di sentenza, civili e penali, allo stato senza certificazione di conformità, con mezzo telematico.

Nell’istanza di copia è necessario specificare che la richiesta sia recapitata via e-mail e indicare l’indirizzo di posta elettronica a cui la copia deve essere inviata.

La richiesta può essere inoltrata ai seguenti indirizzi:cancelleria.penale.ca.lecceagiustizia.itcancelleria.civile.ca.lecceagiustizia.itcancelleria.lavoro.ca.lecceagiustizia.it

* * *

La Legge 14.5.2005, n. 80, contenente modifiche al Codice di Procedura Civile ha novellato il R.D. 18.12.1941, n. 1368, (Dispo-sizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie), introducendo con l’art. 3ter, gli artt. 169bis e seguenti che assegnano ai notai, agli avvocati, ai dottori commercialisti e agli esperti contabili il compito di provvedere alle operazioni di vendita dei beni mobili iscritti nei pubblici registri e dei beni immobili.

L’art. 179ter assegna al Consiglio dell’Ordine il compito di comuni-care ogni triennio al Presidente del Tribunale gli elenchi degli avvocati disponibili a provvedere alle operazioni di vendita e prevede che agli elenchi, oltre alla indicazione dei nominativi, vanno allegate “la schede formate e sottoscritte da ciascuno dei predetti professionisti, con cui sono riferite le specifiche esperienze maturate nello svolgimento di procedure esecutive ordinarie e consorsuali”.

L’elenco è quindi formato dal Presidente del Tribunale che lo trasmette, unitamente a copia delle schede informative, ai giudici dell’esecuzione.

L’attività connessa alle operazioni di vendita richiede il rispetto del termine e delle direttive stabilite dal giudice dell’esecuzione, la cui inosservanza è sanzionata con la revoca della delega e, al termine

ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

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di ciascun semestre, con la cancellazione dall’elenco.I Colleghi interessati possono attivarsi per la compilazione delle

schede, in previsione della proponenda disponibilità all’inserimento nell’elenco.

* * *

Brindisi 22/06/2005

ALL’UFFICIALE GIUDIZIARIO

PRESSO IL TRIBUNALE DI

BRINDISI

AGLI UFFICIALI GIUDIZIARI DI

FASANO

FRANCAVILLA F.NA

MESAGNE

OSTUNI

ILL.MO SIGNOR

DOTT. VINCENZO FEDELE

PRESIDENTE DEL TRIBUNALE DI

BRINDISI

Oggetto: disponibilità buste per le notifiche.

Mi è stato ripetutamente segnalato da Colleghi che l’Ufficio Noti-ficazioni presso il Tribunale di Brindisi si rifiuta di consegnare buste e cartoline indispensabili per le notifiche a mezzo posta, con pregiudizio in caso di atti urgenti.

Ho potuto anche verificare la affissione di due “comunicati” con i quali si invitano gli Avvocati a munirsi di buste e avvisi.

La problematica è stata da me verbalmente già segnalata da tempo, ma si rinnova periodicamente.

Mi preme richiamare l’attenzione dell’Ufficio all’indirizzo, e per

Quaderni

ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

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ogni opportuna conoscenza anche degli Uffici periferici, sull’art. 2 Legge 20/11/1982 n. 890 (G.U. 04/12/1982 n. 334) confermato da D.Lgs. 30/06/2003 n. 196 secondo il quale “gli Ufficiali Giudiziari per la notificazione degli atti a mezzo servizio postale e per le comunica-zioni a mezzo di lettera raccomandata connesse con la notificazione di atti giudiziari, fanno uso di speciali buste e moduli, per avvisi di ricevimento, entrambi di colore verde, di cui debbono fornirsi a propria cura e spese, conformi al modello prestabilito dall’Ammini-strazione postale”.

Sarò grato se per il futuro vorrà assicurare che il disservizio la-mentato sia eliminato, anche in considerazione della fattiva e utile collaborazione che gli Avvocati da sempre prestano redigendo a propria cura sia gli indirizzi su buste e cartoline che le notificazioni sull’originale e sulla copia degli atti, agevolando in tal modo sia il lavoro dell’ufficio che la speditezza delle operazioni, in favore sia del personale che degli Avvocati e, soprattutto della collettività degli utenti del servizio.

Grazie e cordialitàIl Presidente

Avv. AUGUSTO CONTE

* * *.

Brindisi 18.08.2005

GENT.MO SIG. DOTT.VINCENZO DELLA CORTE

SINDACO DI FRANCAVILLA FONTANA

Oggetto: parcheggio uffici giudiziari.

Illustre Sindaco,Le segnalo nell’interesse della categoria forense, degli utenti della

giustizia e degli stessi operatori presso il Tribunale di Brindisi – Se-zione distaccata di Francavilla Fontana il grave disagio determinato dalla impossibilità di parcheggiare le auto nel piazzale antistante gli

ATTIVITÀ DEL CONSIGLIO

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uffici giudiziari.È stato riscontrato che l’area che dovrebbe essere destinata a par-

cheggio, con la utilizzazione in via temporanea a tale servizio, viene sostanzialmente utilizzata come deposito di autovetture dalle prime luci della giornata fino al primo pomeriggio, e quindi in concomitanza con l’attività giudiziaria e forense.

Senza voler minimamente interferire con le Sue prerogative e con i diritti di altri utenti, ritengo di doverLe sottoporre la questione onde Lei possa con equilibrio e saggezza fornire, a chi ha bisogno di depositare i veicoli per l’intero arco della giornata lavorativa, gli stru-menti urbanistici alternativi atti a soddisfare l’esigenza, consentendo che gli avvocati e tutti gli utenti della giustizia non siano costretti a invadere le adiacenze del palazzo di giustizia, con disagi anche per i residenti.

Certo di un Suo intervento risolutore, Le invio i più cordiali sa-luti, anche a nome del Consiglio dell’Ordine e dell’intera categoria forense.

Il PresidenteAvv. AUGUSTO CONTE

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La Commissione di Studio per le Pari Opportunità

Un’occasione da non sottovalutare

di M. STELLA COMITANGELO*

Il 10.04.1991 (in epoca ormai lontana!) veniva emanata la legge n.125 denominata “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro” con lo scopo principale, fra gli altri, di favo-rire l’occupazione femminile e di realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel mondo del lavoro anche mediante l’adozione di misure, definite per l’appunto “azioni positive per le donne”, atte a rimuovere gli ostacoli che, di fatto, impedivano (e continuano ad impedire) la realizzazione di pari opportunità fra i due sessi.

V’è da dire che la legislazione sia nazionale sia europea in materia di pari opportunità tende a superare i tradizionali termini in cui è stato impostato il rapporto di uguaglianza e specificità fra i sessi nell’ambito professionale: l’obiettivo perseguito non è solo quello di garantire e promuovere situazioni giuridiche o di fatto identiche ma creare quelle condizioni tali da consentire a soggetti ontologicamente diversi, in quanto appartenenti a sessi diversi, la possibilità di esprimere piena-mente le proprie rispettive potenzialità.

Ed il legislatore ha non solo statuito la legittimità delle azioni positive ma ne ha anche incentivato l’esecuzione con agevolazioni finanziarie, nella convinzione che il miglioramento della qualità del lavoro femminile costituisca un pubblico interesse.

A distanza di quasi quindici anni dalla legge n.125 appare legittimo * Avvocato del Foro di Brindisi. Componente Commissione per le Pari Opportunità

presso il CNF.

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porsi un interrogativo: le pari opportunità sono ancora “utopia”?Forse sì. Tuttavia qualche passo avanti è oggi certamente visibile a comincia-

re proprio dalle iniziative assunte dalla classe forense che ha recepito detta normativa facendone proprio il messaggio e muovendo i primi passi nella direzione ivi indicata.

Infatti, nel mese di febbraio del 2003, il Consiglio Nazionale Forense ha promosso l’istituzione della Commissione di Studi per le Pari Opportunità.

L’esigenza è stata dettata sia dall’accoglimento dei segnali, chiari e crescenti, provenienti dalla nostra categoria professionale, sempre più popolata da donne, sia dall’applicazione della normativa nazionale ed europea che, come già detto, promuove con sempre maggiore frequen-za e precisione la realizzazione delle pari opportunità nel lavoro.

In ottemperanza al disposto della legge n.125 (oltre che allo spi-rito che la anima) la Commissione si prefigge in primis di realizzare l’“uguaglianza sostanziale” (non solo formale) fra uomini e donne nell’esercizio della professione, rimuovendo gli ostacoli che di fatto ne impediscono l’attuazione, perseguendo l’obiettivo di individua-re e compiere le azioni positive tese a favorire le pari opportunità nell’accesso e nello svolgimento dell’attività professionale da parte delle donne.

Per centrare detto obiettivo è apparso tuttavia indispensabile partire da un percorso di ricerca e di monitoraggio che analizzasse la condi-zione femminile all’interno della categoria professionale, accertando le problematiche di genere già esistenti che talora si manifestano in maniera differente anche sotto il profilo territoriale.

L’istituita Commissione di Studi per le Pari Opportunità ha quindi costituito al proprio interno tre cc.dd. “gruppi di lavoro” allo scopo di operare in maniera più fattiva e puntuale e tentare di vedere rea-lizzati (entro i limiti consentiti dalla nostra cara, vecchia burocrazia) i propri obiettivi.

Un primo gruppo si occupa di eseguire l’attività di monitoraggio, di analizzare la situazione delle libere professioniste in Italia ed in Europa nonché di approfondire le problematiche previdenziali,

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curando quindi i rapporti e le relazioni con la Cassa Forense. Elabo-rato il programma di lavoro, l’indagine sulla situazione delle donne nell’avvocatura italiana è già in corso di svolgimento mediante il rilevamento dei dati relativi alla situazione delle donne avvocato sia sotto il profilo personale sia professionale, la definizione del ruolo e delle responsabilità assegnate alle donne all’interno degli studi profes-sionali e la raccolta delle loro ipotesi di lavoro in merito a prospettive ed aspettative legate alla professione legale.

Un altro gruppo di lavoro è impegnato nello studio, nell’indi-viduazione e (ove possibile) nell’esecuzione delle cc.dd. “azioni positive”.

Il terzo si occupa infine delle relazioni (non sempre facili) con le Istituzioni (tutte, indistintamente!): fra i primi obiettivi la sottoscri-zione di un protocollo d’intenti fra il Consiglio Nazionale Forense ed il Ministero per le Pari Opportunità avente ad oggetto la promozione di attività di studio e di ricerca sulle problematiche di genere e sulle pari opportunità nell’ambito dello svolgimento dell’attività forense.

Fra l’altro è stato già elaborato un progetto sinteticamente indicato con l’acronimo “SFIDA” ossia “Sviluppo al Femminile: l’Impresa e le Donne Avvocato” con lo scopo di creare un sistema di informazione e supporto alle donne avvocato per favorire, sostenere e consolidare la costituzione di studi legali a conduzione femminile o a prevalenza femminile. L’operazione è strutturata come sistema formativo indi-rizzato alle professioniste che appartengono a studi legali di cui sono esclusive titolari ovvero a studi associati o condivisi da più professio-nisti nei quali vi sia una prevalenza numerica degli elementi femminili mediante la trasmissione di competenze relative alla cultura d’impresa ed ala gestione imprenditoriale dell’attività professionale.

Ed ancora.La Commissione si è prefissa di promuovere ed, in ogni caso, di

sollecitare la costituzione di Commissioni (o Comitati) per la Pari Opportunità presso i singoli Consigli degli Ordini degli Avvocati.

Tanto allo scopo di fornire, anche localmente, alle colleghe ed alle praticanti un servizio d’informazione e di consulenza su proble-matiche attinenti la specifica situazione professionale. Ma anche per

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promuovere iniziative culturali di sensibilizzazione in merito alla parità uomo-donna e diffondere così le cc.dd. “buone prassi” per favorire sia l’accesso alla libera professione sia la permanenza delle donne nella professione legale, rimuovendo gli eventuali ostacoli che possono comunque limitare l’attività e nel contempo anche per promuovere la rimozione dei comportamenti discriminatori fra gli appartenenti ai due sessi.

Senza dimenticare l’opportunità (quanto mai proficua) che i Co-mitati locali potrebbero rappresentare per le donne praticanti e per le donne avvocato anche in relazione alla possibilità di scambiare informazioni e suggerire soluzioni in relazione ad esempio alle con-dizioni, all’organizzazione ed alla distribuzione del lavoro all’interno degli studi professionali oppure alla formazione ed all’avanzamento professionale e non ultimo anche al trattamento economico (anche questa è spesso una “nota dolente”).

Al precipuo fine di sensibilizzare tutti gli Ordini, presentare ed introdurre le tematiche affrontate e da affrontare nell’immediato fu-turo, il 30 aprile 2005 si è tenuto nella sede della Commissione presso il Consiglio Nazionale Forense un incontro cui sono stati invitati a partecipare tutti i rappresentanti dei Consigli degli Ordini.

V’è da dire che il successo (anche per il numero dei partecipanti) nonchè l’unanime favor che ha accompagnato tutta l’iniziativa fanno ben sperare per il futuro.

Ed è noto – senza che ciò appaia un atto di presunzione – che l’attività professionale richiede una dedizione allo studio ed all’appro-fondimento in cui le donne hanno sempre manifestato una maggiore dedizione e capacità rispetto al “genere maschile”.

Del resto non va sottaciuto che il notevole incremento delle iscri-zioni agli albi professionali registrato nel nostro paese negli ultimi anni ha comportato un aumento esponenziale del numero delle donne che si dedicano alla professione, più o meno, a tempo pieno.

A tale contesto non rimane certamente estranea l’avvocatura ita-liana che all’interno del mondo professionale riveste una posizione di leadership.

Le donne avvocato in Italia costituiscono una quota considerevole

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degli iscritti.Se però si esaminano le composizioni dei diversi albi e registri

balza evidente che la percentuale delle praticanti iscritte al Registro dei praticanti supera il sessanta per cento del totale.

Detta percentuale subisce una netta riduzione e scende a meno del quaranta per cento se si considerano le iscrizioni delle donne all’albo degli avvocati.

Ma non basta. Se si osservano l’organizzazione degli studi professionali e la

posizione delle donne avvocato al loro interno si deve purtroppo concludere che gli studi a conduzione femminile rappresentano una realtà ancora insignificante nel nostro paese.

Senza dimenticare che, in generale, all’interno degli studi ed anche nelle associazioni professionali le donne avvocato ricoprono spesso ruoli a dir poco marginali se non addirittura meramente subordinati.

E la situazione del Foro di Brindisi è perfettamente allineata al dato nazionale.

Alla data del 13 settembre c.a. le praticanti iscritte sono 490 a fronte di un totale pari a 900 (le abilitate sono addirittura in numero di 110 rispetto ad 81 uomini) mentre le donne avvocato sono 425 a fronte di 566 colleghi.

Il dato crolla vertiginosamente quando si confrontano i dati relativi all’albo speciale degli avvocati abilitati al patrocinio dinanzi alla Corte di Cassazione in cui figurano 190 uomini a fronte di solo 17 donne!

È vero: la situazione attuale non appare certamente incoraggiante né può essere ancora tollerata.

La dinamicità e la costante trasformazione della composizione di genere dell’avvocatura convive con profonde e costanti contraddizioni fra le quali non va sminuita l’assenza di un’attenta preparazione che favorisca l’accesso al lavoro autonomo da parte delle donne avvocato rimuovendo gli ostacoli di natura ambientale e culturale.

In altre parole, per ragioni, ahinoi, non solo storiche, nelle donne avvocato non sono ancora radicate nè la formazione “manageriale o imprenditoriale” né la c.d. propensione al rischio: il timore nei con-fronti dell’impresa propria o associata relega la professionista ad un

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ruolo secondario o addirittura subordinato ad un altro professionista di sesso maschile.

Ed allora perché non tentare di migliorare lo status quo e pensare, ad esempio, alla possibilità anche per la donna avvocato di astenersi dall’attività lavorativa per il periodo corrispondente al congedo di maternità, senza subire danni economici o patrimoniali irreversibili? O, ancora, perché non proporre un correttivo all’interno del sistema degli studi di settore che tenga in debita considerazione le differenze di genere nel calcolo reddituale degli studi professionali di avvocati donne che secondo le statistiche risultano guadagnare quasi la metà dei colleghi uomini? E perché non ipotizzare anche un aumento del-l’indennità di maternità (i figli e la maternità costituiscono un diritto non una patologia!)?

Forse non tutti sanno che è addirittura possibile ottenere finanzia-menti nazionali ed europei per la realizzazione di tali azioni positive che nell’ambito specifico della nostra categoria professionale possono sostanziarsi in corsi di formazione specifici o di riorganizzazione del tempo di lavoro per favorire il percorso professionale.

In conclusione, appare chiaro che occorre procedere inderogabil-mente con la realizzazione di “azioni positive”, con iniziative tese a favorire l’occupazione delle donne anche in professioni dove sono sottorappresentate, a promuoverne la carriera superando quelle con-dizioni di lavoro che possano ostacolarla e nel contempo favorendo l’accesso e soprattutto la persistenza delle donne nella libera profes-sione, creando così sia il tanto sospirato equilibrio fra responsabilità familiari e professionali sia una migliore e più equa ripartizione di responsabilità fra i due sessi.

E la strada da percorrere per raggiungere una mediazione effettiva fra vita professionale e vita familiare tale da consentire la maturazione di un giusto livello di partecipazione civile democratica alle donne è certamente ancora lunga e tortuosa.

Nel nostro “piccolo” a Brindisi potremmo forse ben cominciare proprio con l’istituzione presso il nostro Foro di un Comitato per le Pari Opportunità (in Puglia è presente solo presso il Consiglio del-l’Ordine degli Avvocati di Bari dove è stato costituito addirittura nel

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1998, primo in Italia) per passare finalmente dalle semplici parole a qualche fatto di maggiore consistenza.

Sarebbe una bella “SFIDA”!

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Effetti e problematiche della prescrizione dei contributi previdenziali

di DARIO LOLLI*

Questione tuttora controversa, il cui dibattito è attualmente in corso in seno al Comitato dei Delegati, è quella relativa alla prescrizione del credito contributivo della Cassa ed in particolare sulle conseguenze derivanti dall’applicazione al settore degli enti previdenziali priva-tizzati delle norme sulla prescrizione contenute nell’art. 3 co. 9 lett. B) della l. 08.08.95 n. 335 che, secondo la più recente interpretazione giurisprudenziale avrebbero modificato anche l’art. 19 l. 20.09.80 n. 576 che disciplina specificatamente la prescrizione dell’obbligo contributivo nei confronti della Cassa Forense.

Come è noto, le norme della l. 576/80 disciplinano la prescrizio-ne come decennale e fissano la decorrenza del termine a far tempo dalla conoscenza dell’imponibile da parte della Cassa mentre la l. n. 335/95 fissa un termine quinquennale che opera di diritto con nullità dei pagamenti dei contributi prescritti.

Il primo aspetto che va rilevato è che questa disciplina che sem-brerebbe giovare all’iscritto nel momento in cui viene chiesto il pagamento dei contributi, si ritorce però a suo danno nel momento della maturazione del diritto a pensione perché gli anni per i quali non vi è la regolarità contributiva non possono essere dichiarati efficaci ai fini del calcolo dell’anzianità e della determinazione della misura della pensione.

* Avvocato del Foro di Brindisi - Delegato alla Cassa Forense per il Distretto di Lec-

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In buona sostanza l’applicazione dell’art. 3 l. 335/95 non consen-tirebbe più di sanare in ritardo le omissioni contributive e quindi di far riacquistare efficacia agli anni rispetto ai quali il pagamento dei contributi non era stato regolarmente eseguito.

Di fatto il problema della prescrizione in passato non si è mai posto, sia perché in origine la Cassa ha sempre operato pretendendo il paga-mento dei contributi non tempestivamente corrisposti, sospendendo la liquidazione della pensione sino alla corresponsione del dovuto, sia perché successivamente alla entrata in vigore della l. 335/95 si è interpretata la disposizione dell’art. 3 l. cit. ritenendo applicabile alla previdenza forense esclusivamente il comma 12 della norma in parola che attiene specificatamente agli equilibri di bilancio relativi agli Enti Previdenziali privati ed all’arco temporale delle misure per assicurare la stabilità delle rispettive gestioni.

Si riteneva pertanto regolata la prescrizione dei contributi esclu-sivamente dall’art. 19 l. n. 576/80.

Questo assetto è mutato radicalmente a seguito della interpretazione giurisprudenziale intervenuta, che ha invece ritenuto applicabile la disposizione relativa alla prescrizione quinquennale anche agli Enti previdenziali privatizzati, sostenendo che da un lato il Legislatore ha inteso dettare una disciplina uniforme della prescrizione a tutto il settore dei rapporti previdenziali e dall’altro che la mutazione della natura giuridica delle Casse professionali non abbia modificato il carattere pubblicistico dell’attività né il rapporto iscritti/Ente, “che resta assoggettato alle stesse regole della previdenza obbligatoria con le particolarità previste dalla stessa l. 335/95 (vds. Cass. 12.01.02 n. 230, Cass. 26.07.02 n. 11116, Cass. 01.07.02 n. 9525, Cass. 27.06.02 n. 9048).

La conseguenza della impostazione della prescrizione in termini di irrinunciabilità, perché il suo regime sarebbe sottratto alla disponi-bilità delle parti in un sistema previdenziale avente spiccato carattere pubblicistico, ha portato poi la stessa giurisprudenza ad escludere che possa sussistere “diritto soggettivo dell’assicurato a versare contri-buti previdenziali prescritti” (Cass. 16.08.01 n. 11140 e giur. citata in precedenza).

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Naturalmente ciò comporta, per converso, una perdita di presta-zioni.

Il principio è ribadito in una recentissima pronuncia della Suprema Corte (Cass. Lav. 24.03.05 n. 6340) laddove si esclude “l’automatismo delle prestazioni previdenziali nel rapporto tra lavoratore autonomo ed ente previdenziale con la conseguenza che il mancato versamento dei contributi obbligatori impedisce di regola la stessa costituzione del rapporto previdenziale e, comunque, la maturazione del diritto alle prestazioni…. Né la prospettata diversità di trattamento… si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza… in considerazione della diversità di situazione esistente tra lavoratore subordinato – al quale non possono essere imputate omissioni contri-butive del proprio datore di lavoro – e lavoratore autonomo (e segna-tamente libero professionista) che – in dipendenza dell’inapplicabilità dell’automatismo – subisce soltanto le conseguenze pregiudizievoli dell’inadempimento di obbligazioni contributive a proprio carico”.

A completare il quadro aggiungasi quanto ritenuto dalla giurispru-denza in merito alla applicabilità del termine quinquennale previsto dalla legge n. 335/95 con specifico riferimento alla Cassa Forense, come si accennava in precedenza, a smentire la tesi da questa soste-nuta della specialità della legge n. 576/80 e della peculiarità delle previdenza dei liberi professionisti.

“L’art. 3, comma nono, della legge n. 335 del 1995, prevedendo che le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono in dieci anni per quelle di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie – termine ridotto a cinque anni con decorrenza 1 gennaio 1996 (lettera a) – in cinque anni per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria (lettera b), ha regolato l’intera materia della prescrizione dei crediti contribuitivi degli enti previdenziali, con conseguente abrogazione, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi, per assorbimento, delle previgenti discipline differenziate, sicché è venuta meno la connotazione di specialità in precedenza sussistente per i vari ordinamenti previdenziali, quale quello forense, per il quale l’art. 19 della legge n. 576 del 1980 stabiliva il termine prescrizionale

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di dieci anni. (Cass. civ., sez. lav., 09.04.03 n. 5522).Ne deriva allora che l’intervento della prescrizione del diritto-ob-

bligo del pagamento dei contributi, se da un lato pone la Cassa nella impossibilità di esigere il pagamento delle somme dovute e prescritte, dall’altro incide sulla sussistenza del requisito della effettiva e regolare contribuzione ai fini della maturazione del trattamento pensionistico, sul quale sembra perciò avere una negativa ricaduta anche la parziale evasione contributiva.

In tal senso infatti si sono orientate le decisioni del C.d.A. anche con riferimento agli anni privi di integrale contribuzione, i quali vengono esclusi dal computo dell’anzianità contributiva ai fini della matura-zione del trattamento e, se ricadenti questi nel periodo di riferimento, ai fini del calcolo della pensione, il reddito professionale relativo agli anni de quibus viene considerato come pari a zero.

Sono comunque allo studio misure correttive che consentano di temperare la rigidità dell’istituto, ed in tal senso un pregevole lavoro della Commissione Problemi Interpretativi è stato licenziato ed è all’esame del Comitato dei Delegati.

La Commissione ha esposto peraltro lo stato del contenzioso in materia di prescrizione che presenta diverse sfaccettature, con pro-nunce tuttora contraddittorie perché:a) da un lato vi sono le cause avverso l’applicazione dell’istituto

della prescrizione che ha influito sul trattamento previdenziale, contenziosi in cui il professionista agisce per il riconoscimento di anni esclusi, per i quali si sono avute decisioni di segno con-trario;

b) dall’altro invece vi sono i procedimenti avverso i recuperi san-zionatori per omessi versamenti contributivi, recuperi scaturiti dai controlli incrociati con i dati fiscali e di natura diversa. Anche in questo caso le pronunce di segno opposto continuano ad alter-narsi, così come l’interesse del professionista che eccepisce in giudizio la intervenuta prescrizione della pretesa contributiva.

Come si vede la questione della durata e della decorrenza del ter-mine di prescrizione, lungi dall’essere risolta, assume invece rilievo non secondario e l’assetto della giurisprudenza contribuisce purtroppo

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a creare confusione ulteriore circa l’interpretazione di disposizioni la cui applicazione dovrebbe andare de plano perché in questa materia vi è una fondamentale esigenza di certezza.

Invece non mancano pronunce di merito che ritengono, per esem-pio, l’inapplicabilità della l. n. 335/95 agli enti privatizzati (Trib. Roma 29651/02, n. 13289/03; Trib. Napoli 6675/03) ed altre che ritengono tuttora in vigore la l. n. 576/80 sul punto, perché non abrogata dalla successiva che regolava la previdenza pubblica (Cass. 5522/03; Trib. Roma 21103/03, n. 1010/04; Trib. Brindisi n. 657/04; Trib. Catania n. 143/03).

Altro profilo poi alla decorrenza del termine di prescrizione.Ai sensi dell’art. 19 co. 2 l. n. 576/80 la prescrizione dei contributi

dovuti alla Cassa decorre dalla data di trasmissione delle dichiarazioni dei redditi e volumi d’affari dovuti dagli iscritti agli Albi o alla Cassa (mod. 5).

Anche stavolta l’apparente linearità della norma trova ostacolo nella sua applicazione in un orientamento giurisprudenziale (Cass. 9525/02 pronunciata in ipotesi di mancata presentazione della autodi-chiarazione alla Cassa professionale dei geometri) che ritiene che “il credito contributivo ha una esistenza autonoma che prescinde dalla richiesta di adempimento fattane dall’Ente di previdenza e nasce al momento in cui matura il periodo lavorativo cui esso è riferito. È da questo momento che decorre dunque la prescrizione.” (Vds anche Cass. Lav. 24.03.05 n. 6340).

Ne deriva dunque che, secondo questo principio, la mancata presentazione del mod. 5 non impedirebbe il decorso del termine di prescrizione, con ulteriori problemi operativi anche relativi alla determinazione del credito contributivo in mancanza di autodichia-razione.

Da ultimo vi è il problema della dichiarazione infedele, ipotesi nella quale, secondo le argomentazioni sostenute dalla Cassa in applicazione della norma dell’art. 2941 n. 8 c.c. la prescrizione resta sospesa “tra il debitore che ha dolosamente occultato l’esistenza del debito ed il creditore, finchè il dolo non sia stato scoperto” e cioè quando il de-bitore tenga una condotta dolosamente improntata all’occultamento

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della posizione debitoria, ovvero ometta di cooperare con il creditore all’accertamento del credito, pur essendo tenuto a farlo.

Anche sul punto a fronte di decisioni favorevoli (Vds ad es. Trib. Pavia sez. lav. 10.12.2003 n. 224 in Prev. Forense 1/2005) che riten-gono decorrere il termine di prescrizione, nel caso di dichiarazione infedele, dal momento in cui la Cassa acquisisce conoscenza effettiva dell’imponibile contributivo, se ne pongano altre di segno contrario (Corte App. Bologna 13.07.04) che ritengono che l’applicazione del-l’art. 2941 n. 8 c.c. presuppone non solo che il debitore abbia svolto attività soggettivamente diretta ad occultare l’esistenza dell’obbliga-zione, ma anche tale comportamento abbia determinato una situazione tale da precludere al creditore di far valere il proprio diritto, ciò che contrasterebbe con i poteri di accertamento della Cassa, la cui attività inquisitoria non sarebbe preclusa dalla condotta dell’iscritto.

La pronuncia non tiene conto comunque delle oggettive difficoltà che incontra l’Ente Previdenziale nell’ottenere dall’Amministrazione Finanziaria i dati fiscali nell’ambito del termine prescrizionale.

Da tutto quanto innanzi appare evidente che la questione “prescri-zione” costituisce tuttora una problematica che va affrontata a tutto campo e non solo dal punto di vista dell’interpretazione ed applicazio-ne delle norme, ma anche sotto il profilo degli strumenti operativi che consentano di verificare e regolarizzare le singole posizioni facendo in modo che il termine prescrizionale non si compia.

È già in atto, come sappiamo, una generalizzata revisione contri-butiva delle posizioni previdenziali sia circa il ritardo o omesso invio del mod. 5 che quanto alle omissioni contributive o le difformità tra dichiarato e versato.

È stata approvata e definita la normativa sul condono previdenzia-le, ma il sistema della revisione va riattivato e potenziato, il sistema dei controlli incrociati va reso effettivamente operativo specie se si ritenga che il termine di prescrizione è quinquennale e non decennale, e ciò anche a tutela degli iscritti, i quali si vedrebbero al momento del pensionamento penalizzati nel riconoscimento dell’anzianità contributiva.

È poi allo studio per le posizioni pregresse rispetto alle quali si

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ritenga intervenuta la prescrizione (e sul punto il lavoro dell’apposita Commissione è portato all’esame del Comitato per le relative modifi-che regolamentari) una soluzione costituita dalla proposta di istituire una “speciale contribuzione”, consistente nell’ammettere l’iscritto ad un pagamento che consenta da un lato di rendere efficaci ai fini pensionistici gli anni nei quali si è verificata l’omissione e dall’al-tro tutelare gli equilibri economici dell’Ente attraverso la copertura della riserva matematica corrispondente alla intervenuta omissione contributiva, cioè mediante il versamento di una somma commisurata all’onere a carico della Cassa derivante dall’erogazione della maggior quota di pensione.

In tal modo la prospettiva sarebbe anche quella di eliminare in contenzioso sul punto.

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Come formare il giuristadi ALARICO MARIANI MARINI

1. Nessuno ha mai posto in dubbio che l’insegnamento teorico del diritto impartito nelle università non sia sufficiente a formare il giurista pratico, sia esso magistrato o avvocato.

Capire molte belle regole, scriveva nel ‘700 Kant, riferendosi anche al giudice, non lo preserva dall’errore nell’applicarle “se non è stato sufficientemente addestrato per questo giudizio mediante esempi e pratica diretta”.

Dopo qualche decennio, Federigo Del Rosso, nell’introduzione al suo bel libro sulla logica del diritto civile privato, ribadiva che gli studi giuridici nell’accademia, necessari alla “cognizione dei diritti”, non insegnano tuttavia a farli valere, se dalla scienza del diritto non si guida il giovane giurista nella palestra del foro.

Questa consapevolezza ha prodotto nei primi ordinamenti delle professioni di avvocato e di giudice l’introduzione di una fase di addestramento professionale mediante la pratica negli studi legali e l’uditorato negli uffici giudiziari.

Studio del diritto e addestramento alla pratica costituivano quindi il percorso per formare il giurista; un sistema che, anche ammesso che fosse allora idoneo (o soltanto considerato tale dalle classi notabili di appartenenza dei professionisti della legge), ha poi rivelato i suoi limiti. È infatti dubitabile che uno studio puramente teorico della scien-za giuridica, seppure integrato da marginali esperienze addestrative, peraltro compiute in assenze della conoscenza degli strumenti per in-

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* Avvocato del Foro di Perugia - Consigliere Nazionale Forense

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terpretare e applicare il diritto, fosse in grado di produrre una effettiva formazione professionale nella società del primo Novecento.

Ma la stessa acquisizione del sapere scientifico, irrigidita su mo-delli tradizionali resistenti all’innovazione, è entrata rapidamente in crisi nella seconda metà del secolo, quando più pressante si è fatto il processo di trasformazione della società e più complessa la realtà dei rapporti economici e sociali ai quali la cultura del diritto è stata chiamata a dare risposte adeguate.

Sebbene incalzata dai ritmi travolgenti di un tale sviluppo la ri-flessione del mondo accademico su questi problemi appare segnata da irrealistica lentezza, se ancora oggi in quel mondo ci si interroga su quale sia il ruolo dell’università nella formazione del giurista in seno alla società contemporanea.

È quanto risulta dal Convegno celebrato all’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, i cui atti sono ora pubblicati in un volume dedicato, appunto, alla “Formazione del giurista”, e articolato in vari argomenti, dalla formazione di base, a quella del giudice, dell’avvo-cato, del notaio e dell’amministratore pubblico.

2. Nella relazione introduttiva al convegno Natalino Irti compone un suggestivo e realistico affresco delle fasi storiche attraversate dalle Facoltà giuridiche, il cui quadro centrale rappresenta il tempo di oggi di una accademia ove il sapere giuridico è declinato a sapere tecnico che “assume il valore di prestazione, vendibile ad altri e acquistabile da altri”.

La scienza giuridica, scacciata dall’università, si ritrova oggi al-trove, in élites del sapere, e dunque lontana da quanti si candidano ad esercitare le professioni legali.

Il sapere e con esso la figura tradizionale unitaria del giurista clas-sico hanno ceduto al sapere tecnico; l’università scorge così il suo futuro di scuola di saperi di tecnici, frazionari e specialistici, destinati ad assorbire anche la funzione che era propria delle “scuole” post-universitarie. Il rapporto oggi è infatti tra sapere tecnico e impieghi applicativi, cosicchè “università e scuole sono in verità due gradi o momenti di una sola ed unica scuola, la scuola del saper fare”. Ed è

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partendo da questa realtà che, nella diagnosi di Irti, l’università deve interrogarsi sulla sua identità.

Le relazioni svolte al convegno da autorevoli docenti e da magistrati e avvocati rivelano anch’esse il disagio di chi nell’università vive o ha vissuto una transizione verso un futuro non ancora definibile nei generici abbozzi di nuovi modelli didattici, e nelle professioni legali sperimenta la mancanza di una formazione culturale di base che in-troduca alle competenze professionali. Emergono, purtuttavia, risvolti contraddittori: l’anelito al cambiamento si intreccia irresistibilmente alla valorizzazione dell’esistente.

Così, alla rivendicazione dell’attualità dell’insegnamento delle discipline storiche viene contrapposta l’interdisciplinarietà del ruolo del giurista nella realtà del mercato globalizzato e del commercio internazionale; ma è comune un diffuso malessere per la consape-volezza della insufficienza del sapere giuridico oggi impartito nelle aule universitarie, la cui rigidità sopravvive nonostante i tentativi di specializzazione e di apertura all’uso dei casi pratici e al diritto comu-nitario e internazionale, come si legge nella relazione di Guido Alpa, un giurista che vive l’università ed è anche immerso nei problemi della professione di avvocato.

Due aspetti di un tale confronto, soprattutto, sollecitano l’attenzione di chi vive la professione dell’avvocato navigando a vista tra lacune formative, realtà economico-sociali e ordinamentali in continuo dive-nire, e l’impaludamento in un sistema di giustizia nel quale è sempre più arduo trovare vie d’uscita.

Colpisce in primo luogo negli interventi una visione della forma-zione del giurista pratico, avvocato e giudice, ancora esclusivamente legata alla specifica funzione dell’università, all’interno della quale le si vorrebbe trovare spazio, ma non si sa come (la professione no-tarile sopravvive nei suoi chiusi circuiti al riparo da impatti brutali con la realtà).

Qualunque esito abbia quella che Irti prospetta, seppure con qualche speranza, come la “trasfigurazione” della università, il sapere tecnico che essa si candida (o vorrebbe candidarsi) ad impartire costituirà infatti pur sempre una fase fondamentale ma non esaustiva per la

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formazione del professionista legale.Sembra inoltre riduttivo, se non poco realistico, immaginare che

la fase post-universitaria debba essere circoscritta alle “modalità di impiego” di ciò che si è appreso nella facoltà giuridica, una espres-sione in cui la tecnica del giurista scade a una sorta di manualità del diritto.

Lo studio del diritto e le discipline e le tecniche per applicarlo sono terreni continui, ma non sovrapponibili, e i livelli di specia-lizzazione e gli indirizzi professionali imposti dalla società di oggi non sono riducibili ad un insegnamento che, per quanto frazionato e speciale, nei suoi segmenti non può abbracciare pragmaticamente tali molteplicità e complessità, ma ne può soltanto validamente gettare le basi comuni.

Nella tecnica del giurista l’addestramento pratico rappresenta infatti un aspetto del tutto accessorio rispetto alle discipline e ai metodi per applicare il diritto: non serve sapere come “è fatto” un atto di cita-zione o un ricorso, se non si sa ricostruire e narrare il fatto, ricercare la regola applicabile e ragionare su entrambi.

Del resto emerge da alcuni interventi al Convegno, da un lato, l’esigenza di integrare la didattica con nuove discipline, come la teo-ria e la tecnica dell’argomentazione, l’informatica giuridica, l’analisi economica del diritto, e, dall’altro, la indispensabile funzione di una scuola post-universitaria di formazione per le professioni legali.

Ed è a questo riguardo che emerge l’ulteriore rilievo di una in-sufficiente valutazione del rapporto tra facoltà giuridiche e scuole di formazione.

Queste ultime appaiono collocate in un ruolo sostanzialmente marginale e ancillare e comunque privo di spazi adeguati all’interno del processo di formazione del giurista pratico del quale invece rap-presentano un tratto essenziale.

È comunque positivo che la funzione formativa delle scuole post-universitarie sia riconosciuta e che non venga ridotta, come purtroppo avviene nella realtà, con una certa dose di cinismo da parte degli universitari e dei professionisti legali che vi operano, a mero corso di preparazione all’esame di abilitazione o per l’ammissione al concorso

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per uditore giudiziario.È questa anche l’handicap che affligge, ad esempio, le scuole foren-

si organizzate dagli Ordini, nelle quali vi è resistenza a comprendere che il problema non consiste nel soddisfare l’esigenza contingente di agevolare il percorso all’abilitazione e neppure di fornire un servizio ad una esigua minoranza di giovani volenterosi: chi è motivato a fre-quentare una scuola facoltativa ha infatti meno bisogno di formazione di chi non lo è.

In una parola vi è difficoltà a considerare la formazione del giuri-sta pratico come fase post-universitaria dotata di una propria dignità culturale e tecnica.

Certo, studi universitari del diritto e formazione del giurista sono entrambi malati, diagnosticare la malattia non significa curarla.

3. Il punto è stabilire cosa si intende per formazione del giurista pratico, tenendo presente che istruzione e formazione sono processi interdipendenti ma distinti nelle funzioni e negli obiettivi.

La funzione della formazione va ricercata soprattutto nel tipo di rapporto tra professioni legali e società, quale è imposto dalle realtà economico-sociali indotte dalla globalizzazione dei mercati, dalla liberalizzazione dei servizi legali nell’area comunitaria e dall’ecce-zionale afflusso di iscritti agli albi nell’unica professione legale priva di restrizioni all’accesso qual è l’avvocatura.

Alla richiesta di requisiti di elevata qualità tecnica e culturale e di correttezza nell’esercizio della professione legale, che riecheggia nei discorsi degli esperti da oltre un decennio (già alla fine degli anni Novanta l’OCSE aveva elaborato dati drammatici sulla insufficienza dell’istruzione universitaria per un positivo inserimento nelle profes-sioni, aggravata dalla mancanza di sistemi formativi adeguati), uni-versità e professioni non soltanto non sono state in grado di prevedere tempestivamente tale evoluzione, ma sono ancora incerte sui rispettivi ruoli e sono rimaste in balia degli inconcludenti tentativi di riforma di una classe politica rivelatasi ancor oggi refrattaria a valutare il ruolo delle professioni nella gestione dell’economia e dello sviluppo: l’ultimo esempio è l’abortito tentativo di inserimento di una riforma

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professionale nel decreto sulla competitività.Si è cosi creato un vuoto tra l’attuale sistema dell’istruzione uni-

versitaria e della tradizionale “pratica” di studio da un lato, e le attuali esigenze della professione legale dall’altro, che non ha impedito che dal 1990 (quando gli avvocati in Italia erano cinquantamila) ad oggi affluissero negli albi degli avvocati oltre centodiecimila nuovi laureati in giurisprudenza per la maggior parte privi di adeguata preparazione e di consapevolezza delle responsabilità che l’esercizio professionale comporta.

In questo quadro appare velleitaria e superficiale l’interpretazione del ruolo del professionista legale secondo cui la formazione dovrebbe essere affrontata esclusivamente in funzione della efficienza del mer-cato (termine evocato con notevole ambiguità, come in questi ultimi anni hanno dimostrato molti clamorosi esempi che hanno imposto all’attenzione generale il problema dell’etica nell’impresa).

In realtà quella del giurista non è affatto, né deve essere, una profes-sione al servizio del mercato, ma deve incarnare soprattutto un ruolo di tutela della collettività e dei singoli cittadini nell’esercizio delle sperimentazioni delle discipline e delle tecniche per l’applicazione del diritto. Si tratta della conoscenza e della capacità di utilizzare il metodo giuridico, l’argomentazione, la teoria della prova, il linguag-gio giuridico e le tecniche dell’esprimersi, la psicologia applicata al processo, le tecniche di lettura e comprensione di dinamiche sociali ed economiche inedite; della capacità di esercitare la negoziazione e la mediazione, gli strumenti offerti dal diritto comunitario, e della conoscenza degli ordinamenti giudiziario e professionale e dell’etica professionale che non si esaurisca in quelle poche spicciole nozioni che oggi sono impartite nei corsi delle attuali scuole universitarie e forensi e che poco significano ai fini della preparazione ad assumere effettive responsabilità morali e sociali.

Una tale formazione consentirebbe al giovane giurista di applicarsi concretamente alla analisi delle fonti, di utilizzare le tecniche inter-pretative, ed i metodi della ricerca giurisprudenziale e dottrinale, di compiere autonomamente gli approfondimenti imposti dal progredire dell’esperienza giuridica, e di disporre anche con originalità delle

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tecniche di costruzione degli atti difensivi, di formulazione e di va-lutazione delle prove, e così via.

In una parola si tratta di formare una cultura professionale che comprenda capacità, competenze e abilità tecniche e pratiche, e re-sponsabilità etiche e sociali nel processo e fuori del processo.

Francia e Germania, per fare due esempi di formazione impostata su sistemi diversi ma entrambi autonomi e differenziati rispetto agli studi universari, hanno da anni sperimentato modelli i quali, forse, avrebbero da tempo meritato maggiore attenzione.

4. È vero che al Convegno della “Sapienza” in alcuni interventi si è prospettata l’opportunità che discipline quali il ragionamento giuridico, l’informatica giuridica, l’analisi economica del diritto, la responsabilità sociale del giurista vengano già affrontate nelle aule universitarie.

Indicazioni importanti, giacché tali insegnamenti rappresentereb-bero le basi per ulteriori sviluppi sperimentali di tali nozioni nella fase di formazione per comprendere e realizzare ciò in cui consiste esercitare una professione legale.

È il caso di ricordare che su questo terreno l’avvocatura ha da qualche anno iniziato una concreta sperimentazione con l’istituzione del Centro per la formazione e l’aggiornamento professionale degli avvocati da parte del Consiglio Nazionale Forense; il Centro ha ela-borato proposte per una didattica e una metodologia della formazione dell’avvocato ad uso delle scuole di formazione organizzate dagli Ordini, ma anche per l’aggiornamento permanente degli avvocati.

Dall’anno 2000 in decine di seminari e di convegni ai quali hanno attivamente partecipato anche docenti universitari, e in una serie di pubblicazioni i temi e i metodi di una formazione del giurista pratico sono stati trattati e sviluppati, e su di essi si è cercato di indirizzare la didattica delle scuole forensi organizzate dagli Ordini.

Quanto alle scuole universitarie di specializzazione per le profes-sioni legali i decreti ministeriali che hanno definito l’organizzazione e l’ordinamento didattico ne hanno sin dall’inizio segnato una sorte che ben poco si attaglia all’ambizioso e problematico obiettivo di una

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formazione comune per avvocati, magistrati e notai.In esse, gli avvocati e i magistrati, che ne rappresentano la com-

ponente minoritaria negli organi direttivi, si sono rapidamente omo-logati agli indirizzi della guida accademica, cosicché nulla di nuovo si è sinora prodotto ai fini di quella svolta formativa che sembrava fosse negli auspici del legislatore del 1997 e che i decreti attuativi di esclusiva fattura ministeriale hanno immediatamente neutralizzato.

Ma occorre anche riconoscere che poco si è fatto nel parallelo bi-nario delle scuole forensi, sia per il concorrere di vari fattori negativi, quali la scarsità di mezzi finanziari, di strutture materiali, di formatori preparati a tale compito, sia a onor del vero, per una resistenza delle stesse istituzioni dell’avvocatura ad impegnarsi a fondo e con convin-zione su una operazione di rinnovamento della cultura professionale, e grazie ad essa di difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della professione legale rispetto ai rulli compressori dei cosiddetti poteri forti e del mercato: conservare l’esistente, si sa, è assai più facile e meno rischioso che costruire il futuro.

È così che oggi, su terreni diversi, entrambi gli esperimenti in gran parte mancanti riflettono aspetti della stessa crisi del diritto nella società contemporanea.

Università e professioni legali si interrogano ora sul da farsi, quando ormai i tempi del “saper fare” sono ormai già scoccati.

Certo, qualcosa si muove, e il lavoro svolto nell’avvocatura, con molti universitari attratti da un innovativo progetto di collaborazione per costruire una formazione del giurista pratico che completi l’in-segnamento del sapere (o saper fare) accademico, rappresenta una premessa suscettibile di concreti sviluppi.

Perciò avremmo registrato con interesse una maggiore apertura da parte degli accademici riuniti a convegno per discutere del modo di formare il giurista, ed anche da parte di avvocati e magistrati più sollecitati dal contingente e dal “particolare” che stimolati da un progetto per il futuro.

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Lo Statuto della Camera Penale di Brindisi

di ANTONIO MAURINO*

La Camera Penale di Brindisi, una delle prime in Italia ad essere costituita, ha sempre svolto nell’ambito giudiziario del nostro Circon-dario, un ruolo attivo a tutela della funzione difensiva e a garanzia dei diritti di tutte le parti processuali, e si è inoltre distinta a livello nazionale per la assidua presenza e partecipazione alla vita della Unione delle Camere Penali Italiane.

Lo Statuto, recentemente approvato, porta a compimento l’attività svolta dal Consiglio Direttivo in carica e rappresenta lo strumento destinato a regolare la vita associativa negli anni a venire. Esso co-stituisce, per i principi cui si ispira e per le regole che detta, quanto di più moderno e liberale possa essere assicurato agli iscritti, rispetto al cui numero è dimensionato.

Il richiamo all’attuazione del “giusto processo”, la tutela del pre-stigio e del rispetto della funzione difensiva, il rafforzamento della formazione culturale professionale e deontologica sono alcune delle finalità che la nostra Camera Penale intende perseguire e che lo Statuto pone a suo fondamento.

Altri punti qualificanti dello Statuto sono la istituzione del Collegio dei Probiviri, organo di garanzia, e la previsione di cause di ineleg-gibilità e incompatibilità per i componenti il Consiglio Direttivo al fine di assicurare il ricambio nel rinnovo delle cariche e, quindi, la più larga partecipazione degli iscritti al livello dirigenziale.

Nel porgere un pubblico ringraziamento ai Colleghi Augusto Con-te, Ennio Masiello e Ladislao Massari, componenti la commissione incaricata di predisporre la bozza dello Statuto, e a tutti gli altri che con entusiasmo e passione hanno fornito il loro contributo per la

* Avvocato del Foro di Brindisi – Segretario della Camera Penale.

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stesura definitiva, formuliamo l’auspicio che a maggiori e più estese responsabilità si accompagni da parte di tutti l’impegno a mantenere lo spirito e la tradizione di colleganza, indipendenza e probità propria del Foro penale.

CAMERA PENALE DI BRINDISI“Oronzo Melpignano”

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STATUTO

Art. 1Costituzione

1. L’Associazione denominata Camera Penale “Oronzo Melpigna-no”, costituita in Brindisi, ha sede presso il Palazzo di Giustizia e aderisce all’Unione delle Camere Penali Italiane.

2. L’Associazione non ha fini di lucro e ha durata illimitata; qualun-que iniziativa essa assuma costituisce attuazione dei propri fini, nonché di quelli di tutela professionale e morale degli iscritti.

Art. 2Finalità

1. Scopi dell’Associazione sono quelli di:a) promuovere e coordinare ogni possibile iniziativa diretta alla

tutela della funzione difensiva, del ruolo e della dignità del di-fensore nel procedimento penale, in ossequio al principio sancito dal 2° comma dell’art. 24 della Costituzione Italiana che implica e determina: -l’essenzialità, l’imprescindibilità e l’inalienabilità della funzione difensiva e del ruolo del difensore in ogni fase, stato e grado del procedimento; -la realizzazione di una parità di posizione tra accusa e difesa e di un effettivo contraddittorio davanti ad un giudice terzo;

b) stabilire rapporti di collaborazione con altre associazioni od altre organizzazioni nazionali ed internazionali che perseguono gli stessi fini;

c) raccogliere e divulgare ogni possibile informazione sulla tutela della funzione difensiva nel procedimento penale;

d) valorizzare l’etica del penalista nei suoi rapporti con i Colleghi, con i Magistrati, con gli assistiti, con la Stampa e con tutte le Istituzioni;

e) fornire ogni possibile apporto alla formazione, alla modifica, alla interpretazione, coerente con i principi indicati al punto a),

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di atti normativi, regolamentari ed organizzativi che comunque si pongano in relazione con i diritti e le prerogative difensive e con la funzione del difensore nel procedimento penale;

f) promuovere studi ed iniziative che si prefiggono lo scopo di mi-gliorare la giustizia penale e la professionalità dell’Avvocato;

g) sostenere le riforme dell’ordinamento giudiziario e più in gene-rale dell’ordinamento processuale penale, volte a perseguire la realizzazione di un “giusto processo”, nell’ambito dei principi di tutela dei diritti fondamentali dell’Uomo:

2. Per il raggiungimento delle finalità sociali la Camera Penale “Oronzo Melpignano” di Brindisi potrà curare l’edizione di riviste e pubblicazioni, organizzare convegni, incontri e dibattiti, anche con istituzioni forensi e con altre associazioni, aventi finalità non incompatibili con le proprie.

Art. 3Partecipanti

1. Possono aderire all’associazione gli Avvocati iscritti nell’Albo e negli Elenchi professionali del Circondario del Tribunale di Brindisi, i quali esercitino, in maniera anche non continuativa, la loro attività nel campo penale.

2. Possono, altresì, aderire, senza diritto di voto e di elettorato attivo e passivo, i Praticanti Avvocati iscritti nel Registro.

Art. 4Organi Statutari dell’Associazione

1. Organi statutari sono:a) l’assemblea Generale;b) il Consiglio Direttivo;c) il Presidente;d) il Collegio dei Probiviri.

Art. 5L’Assemblea

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1. L’Assemblea Generale degli Associati è formata da tutti i soci iscritti e costituisce organo sovrano della Camera Penale.

2. Gli Associati si costituiscono in Assemblea Ordinaria almeno una volta l’anno per la approvazione del bilancio di previsione o di quello consuntivo e per ogni altra deliberazione; hanno diritto al voto i soci in regola, al più tardi entro il giorno precedente l’Assemblea, con il pagamento della quota associativa annuale al 31 dicembre dell’anno precedente; non sono ammesse deleghe.

3. L’Assemblea designa i Delegati ai congressi Nazionali dell’Unio-ne Camere Penali Italiane.

4. L’Assemblea Ordinaria si riunisce entro il mese di marzo di ogni biennio per l’elezione dei componenti del Consiglio Direttivo; il giorno della convocazione della Assemblea Ordinaria è stabilito dal Consiglio Direttivo.

5. L’Assemblea può riunirsi in via straordinaria: a) tutte le volte che il Consiglio Direttivo lo ritenga opportuno; b) quando almeno un terzo degli Associati ne faccia richiesta formale al consiglio Direttivo, indicando le questioni da sottoporre all’assemblea; in questa ultima ipotesi la data di convocazione dell’Assemblea Straordinaria non può essere fissata dal Consiglio Direttivo oltre il quindicesimo giorno dalla richiesta.

6. I lavori dell’Assemblea devono essere verbalizzati in apposito registro e le verbalizzazioni sottoscritte dal Presidente e dal Se-gretario.

Art. 6 Il Consiglio Direttivo. Ineleggibilità e incompatibilità

1. L’Associazione è retta da un Consiglio Direttivo che viene eletto dall’Assemblea; è composto da cinque Associati e dura in carica due anni; i suoi componenti non sono rieleggibili per più di due bienni consecutivi.

2. I componenti sono incompatibili con cariche in altre associazioni o Istituzioni Forensi.

3. Il Consiglio Direttivo provvede nella sua prima riunione ad eleg-gere tra i propri componenti un Presidente, un Vice Presidente,

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un segretario e un Tesoriere; a parità di voti è eletto il Consigliere più anziano per iscrizione all’Albo degli Avvocati.

4. Il Consiglio Direttivo ha il compito di attuare le finalità della Camera Penale, di partecipare alle riunioni e convegni indetti in sede nazionale, nonché di intervenire a tutela degli interessi pro-fessionali degli Associati allorquando il prestigio degli Avvocati penalisti sia o possa essere leso o offeso.

Art. 7Il Presidente

1. Il Presidente ha la rappresentanza dell’Associazione di fronte a terzi ed in giudizio.

2. Egli dà esecuzione alle deliberazioni assunte dal Consiglio Di-rettivo e dall’Assemblea Generale, partecipa alle riunioni del Consiglio Nazionale dei Presidenti dell’UCPI.

3. Il Presidente è sostituito, in caso di assenza o impedimento, dal Vice Presidente. È coadiuvato dal Segretario che ha il compito di custodire la documentazione, curare la corrispondenza, disporre le convocazioni, di redigere i verbali delle riunioni del Consiglio Direttivo e dell’assemblea Generale. Il Presidente è, altresì, coa-diuvato dal Tesoriere che sovraintende alla gestione finanziaria ed esegue le delibere concernenti atti di gestione, curando la contabilità ed i relativi adempimenti.

Art. 8Il collegio dei Probiviri

1. Il collegio dei Probiviri è costituito da tre componenti eletti tra gli associati e dura in carica due anni.

2. I Probiviri giudicano sui ricorsi presentati dagli associati in merito alle elezioni, decidono i reclami avverso i dinieghi di iscrizione alla associazione e avverso le cancellazioni o espulsioni e diri-mono le controversie, come previsto dall’art. 21.

3. Le delibere sono assunte a maggioranza dei componenti.Art. 9

Convocazione e svolgimento dell’Assemblea

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1. La convocazione dell’Assemblea, con relativo Ordine del giorno, avviene mediante affissione dell’avviso di convocazione otto giorni prima della data fissata, presso la sede della Camera Penale e presso i locali del Tribunale di Brindisi.

2. L’assemblea è presieduta dal Presidente della Camera Penale o, in caso di sua assenza o impedimento, dal Vice Presidente, il quale chiamerà il Consigliere segretario a redigere il verbale.

3. L’Assemblea si ritiene valida in prima convocazione con la pre-senza della maggioranza assoluta degli associati e, in seconda convocazione, a distanza di due ore prima, con qualunque numero di intervenuti.

4. Le deliberazioni dell’assemblea sono a disposizione degli asso-ciati presso il Segretario.

5. In caso di votazione per il rinnovo delle cariche il voto è segreto e lo scrutinio è compiuto pubblicamente dal Presidente dell’as-semblea, assistito dal Segretario e da due scrutatori nominati dall’Assemblea.

Art. 10Elezione del Consiglio Direttivo e dei Probiviri

1. Alla carica di componente del Consiglio Direttivo e del Collegio dei Probiviri risultano eletti gli associati che hanno riportato il maggior numero di voti; a parità di voti è eletto l’associato con maggiore anzianità di iscrizione all’Albo o Elenco degli Avvo-cati.

2. Gli associati devono esprimere, a pena di nullità della scheda, un numero di preferenze pari ai componenti da eleggere.

3. In caso di morte, dimissioni, ineleggibilità o incompatibilità vengono indette nuove elezioni per il posto vacante.

4. Nel caso in cui contemporaneamente venga meno la maggioranza del Consiglio Direttivo e/o del Collegio dei Probiviri si procede a nuove elezioni dell’intero organo.

5. Tutti gli associati sono elettori, purchè non si siano iscritti nei trenta giorni precedenti la convocazione e siano in regola con il pagamento della quota sociale come previsto al comma 2 dell’art.

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5, ed eleggibili, fatti salvi i casi di ineleggibilità e incompatibi-lità.

Art. 11Comunicazione dei deliberati assembleari

1. Le deliberazioni dell’Assemblea degli associati, ove questa ne ravvisi l’opportunità, sono comunicate alle autorità, agli Enti ed agli Organismi interessati al contenuto delle stesse e possono es-sere portate, nei modi idonei, anche a conoscenza del pubblico.

Art. 12Convocazione e svolgimento del Consiglio Direttivo

1. Le riunioni del Consiglio Direttivo sono valide con la presenza di almeno tre componenti; sono presiedute dal Presidente, o in sua mancanza o impedimento dal Vice Presidente.

2. Il Consiglio Direttivo decide a maggioranza dei voti dei presenti. Esso si riunisce:

a) su deliberazione a maggioranza dello stesso Consiglio. In tal caso il Consiglio Direttivo può riconvocarsi per una successiva riunione stabilendo alla conclusione dei lavori l’Ordine del Gior-no, che si ha in tal modo per comunicato a tutti i componenti del Consiglio Direttivo, anche se assenti;

b) a richiesta formale del Presidente, del Vice Presidente o di almeno tre componenti; in tal caso il Consiglio deve riunirsi senza ritardo e comunque nei dieci giorni successivi a quello della richiesta; i richiedenti devono precisare nella richiesta l’argomento che intendono sia trattato.

3. I lavori del Consiglio Direttivo devono essere verbalizzati dal Segretario in apposito registro e le verbalizzazioni sono sotto-scritte dal Presidente e dal Segretario.

Art. 13Ammissione dei Soci

1. La qualità di socio si assume a domanda, con deliberato del Consiglio Direttivo adottato a maggioranza dei componenti;

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sulla domanda di iscrizione la delibera è assunta senza ritardo e viene comunicata entro cinque giorni al richiedente; se entro trenta giorni dalla comunicazione non viene corrisposta la quota sociale per l’anno in corso, in Consiglio Direttivo delibera le revoca della iscrizione.

2. Fino al pagamento della quota sociale il nuovo iscritto non ha diritto di voto nella Assemblea degli associati.

3. Avverso il diniego di iscrizione è ammesso reclamo al Collegio dei Probiviri che decide senza ritardo con maggioranza di due terzi.

Art. 14Quota Associativa

1. La quota associativa annua è corrisposta entro il 31 marzo di ogni anno da ciascun iscritto nella misura stabilita dal Consiglio Direttivo.

2. Previa formale messa in mora a mezzo lettera raccomandata o via fax, il Consiglio Direttivo delibera la esclusione degli iscritti che non regolarizzino il pagamento delle quote sociali entro trenta giorni dalla richiesta.

Art. 15Perdita della qualità di Socio

1. Cessa di far parte della Camera Penale con provvedimento del Consiglio Direttivo:

a) l’associato che presenta le dimissioni al Consiglio Direttivo;b) l’associato non in regola per almeno tre annualità con il paga-

mento della quota sociale;c) l’associato che si pone in contrasto con gli scopi dell’Associa-

zione.2. L’espulsione è deliberata a maggioranza con provvedimento

motivato del Consiglio Direttivo ed è comunicato all’interessato, a mezzo lettera raccomandata, entro cinque giorni.

3. L’associato può, in tutti i casi di cancellazione o espulsione, ricorrere entro trenta giorni dalla comunicazione al Collegio dei

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Probiviri; il ricorso ha effetto sospensivo.4. Il Collegio dei Probiviri, a maggioranza dei suoi componenti,

decide sul ricorso entro trenta giorni.5. L’associato può chiedere al Collegio dei Probiviri di essere

ascoltato, personalmente o con l’assistenza di altro associato.

Art. 16Il Presidente Onorario

1. Su proposta del Consiglio Direttivo, l’Assemblea a maggioranza dei due terzi dei partecipanti al voto può eleggere tra i passati Presidenti un Presidente Onorario a vita, con funzioni onorifiche, quale figura emblematica dell’Avvocatura Penale.

Art. 17Gratuità degli incarichi

1. Le cariche sociali sono ricoperte a titolo gratuito.

Art. 18Patrimonio dell’Associazione

1. Le entrate dell’Associazione sono costituite:a) dalle quote socialib) dai contributi, elargizioni, donazioni, lasciti a qualunque titolo

disposti a favore della Associazione stessa.

Art. 19Chiusura dell’esercizio sociale

1. L’esercizio sociale si chiude il 31 dicembre di ogni anno2. I soci possono prendere visione del bilancio preventivo o con-

suntivo fino a cinque giorni prima dell’Assemblea Generale annuale.

Art. 20Scioglimento dell’associazione

1. In caso di scioglimento dell’associazione, l’Assemblea deciderà sulla destinazione del relativo patrimonio, tenendo comunque presenti le finalità della stessa, secondo le norme del Codice

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Civile.

Art. 21Soluzione delle controversie

1. Le eventuali controversie tra soci, e tra questi e l’Associazione e i suoi Organi saranno demandate alla competenza del Collegio dei Probiviri che giudicherà ex bono et aequo, a maggioranza dei componenti.

Art. 22Modifiche Statutarie

1. Le modifiche al presente Statuto sociale sono proposte a maggio-ranza del Consiglio Direttivo ovvero da un terzo degli iscritti alla Camera Penale e sottoposte alla approvazione dell’Assemblea degli associati.

2. L’Assemblea degli associati discute le proposte di modifica e le approva con voto favorevole della maggioranza dei due terzi dei partecipanti al voto.

Art. 23Norma Transitoria

1. Le ipotesi di ineleggibilità e incompatibilità, relative ai compo-nenti del Consiglio Direttivo in carica al momento della entrata in vigore del presente Statuto, sono prese in considerazione limitatamente ad un solo biennio.

Art. 24Entrata in vigore

1. Il presente Statuto entra in vigore dalla data della sua approva-zione.

Approvato dalla Assemblea della Camera Penale di Brindisi l’1/7/05

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La preghiera del giudice

“Fate, o Dio, che fra le contradizioni e le ire loquaci e le frodi e le fallacie degli uomini, io possa discernere il vero: che nella severità specialmente io non passi i limiti della legge, che mai lo sdegno non mi turbi il giudizio; che neppure i colpevoli sieno da me maltrattati più di quel che bisogna a farli migliori.“Fate ch’io ami di mansueto e sereno amore la giustizia, e segua in essa le diritte vostre vie, non le torte degli accor-gimenti umani; e che quando la mia coscienza mi avvisa che non posso punire, io abbia il coraggio di dire: “Non trovo male alcuno in quest’uomo”.“Fate, o Dio, che la mia vita si serbi irreprensibile, e non somigli a parete imbiancata, fradicia dentro; che con le sentenze del pari e con le opere io dia onore a voi”.

NICCOLÒ TOMMASEO

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Schema di Decreto Legislativodi attuazione della direttiva 2001/97/CE, recante modifi-ca della direttiva 91/308/CEE del Consiglio, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

VISTI gli articoli 76 e 87 della Costituzione;

VISTA la direttiva 91/308/CEE del Consiglio relativa alla pre-venzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite;

VISTO il decreto legge 3 maggio 1991, n. 143, recante provvedi-menti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio, convertito dalla legge 5 luglio 1991, n. 197;

VISTA la legge 6 febbraio 1996, n. 52, recante disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - legge comunitaria 1994 e, in particolare, l’articolo 15;

VISTO il decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 125, recante norme in materia di circolazione transfrontaliera di capitali, in attuazione della direttiva 91/308/CEE;

VISTO il decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 153, recante dispo-sizioni ad integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CEE;

VISTO il decreto legislativo 25 settembre 1999, n. 374, relativo all’estensione delle disposizioni in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita ed attività finanziarie particolarmente suscettibili di utilizzazione a fini di riciclaggio, a norma dell’articolo 15 della legge 6 febbraio 1996, n. 52;

VISTA la direttiva 2001/97/CE del Parlamento europeo e del

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Consiglio del 4 dicembre 2001, recante modifica della direttiva 91/308/CEE;

VISTA la legge 7 febbraio 2003, n. 14, recante disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee - legge comunitaria per il 2002 e, in particolare, l’articolo 1, commi 1 e 3;

VISTA la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del…

ACQUISITI i pareri delle competenti commissioni permanenti della Camera e del Senato della Repubblica;

VISTA la deliberazione del Consiglio dei Ministri adottata nella riunione del…

SULLA proposta del Ministro per le politiche comunitarie e del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con i Ministri degli affari esteri, della giustizia, dell’interno e delle attività produttive;

EMANA

il seguente decreto legislativo

Articolo 1Definizioni

1. Nel presente decreto legislativo l’espressione:a) “autorità di vigilanza di settore” indica le autorità preposte,

ai sensi della normativa vigente, alla vigilanza o al controllo dei soggetti indicati nell’articolo 2, comma 1, dalla lettera a) alla lettera n);

b) “amministrazioni interessate” indica le autorità competenti al rilascio delle autorizzazioni o licenze, alla ricezione delle dichiarazioni di inizio attività, ovvero alla tenuta di albi o registri dei soggetti indicati nell’articolo 2, comma 1, dalla lettera a) alla lettera o), ovvero i consigli nazionali per i soggetti indicati nell’articolo 2, comma 1, lettere q) e r);

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c) “UIC” indica l’Ufficio italiano dei cambi;d) “testo unico bancario” indica il decreto legislativo 1° set-

tembre 1993, n. 385, e successive modificazioni;e) “testo unico dell’intermediazione finanziaria” indica il de-

creto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58;f) “legge antiriciclaggio” indica il decreto-legge 3 maggio

1991, n. 143, convertito dalla legge 5 luglio 1991, n. 197, e successive modificazioni.

Articolo 2Ambito di applicazione

1. Gli obblighi dall’articolo 3 del presente decreto si applica-no:

a) alle banche;b) a Poste Italiane S.p.A.;c) agli istituti di moneta elettronica;d) alle società di intermediazione mobiliare (SIM);e) alle società di gestione del risparmio (SGR);f) alle società di investimento a capitale variabile (SICAV);g) alle imprese di assicurazione;h) agli agenti di cambio;i) alle società fiduciarie;j) alle società che svolgono il servizio di riscossione dei tribu-

ti;k) agli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale pre-

visto dall’articolo 107 del testo unico bancario;l) agli intermediari finanziari iscritti nell’elenco generale pre-

visto dall’articolo 106 del testo unico bancario;m) ai soggetti operanti nel settore finanziario iscritti nelle sezioni

dell’elenco generale previste dagli articoli 113 e 155, commi 4 e 5, del testo unico bancario;

n) alle società di revisione iscritte nell’albo speciale previsto dall’articolo 161 del testo unico dell’intermediazione finan-ziaria;

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o) ai soggetti che esercitano, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 25 settembre 1999, n. 374, le attività ivi indicate;

p) alle succursali italiane dei soggetti indicati alle lettere pre-cedenti aventi sede legale in uno Stato estero nonché le succursali italiane delle società di gestione del risparmio armonizzate;

q) ai soggetti iscritti nell’albo dei ragionieri e dei periti com-merciali, nel registro dei revisori contabili e nell’albo dei dottori commercialisti;

r) ai notai e agli avvocati quando, in nome o per conto di propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare e quando assistono i propri clienti nella pro-gettazione o nella realizzazione di operazioni riguardanti:

• il trasferimento a qualsiasi titolo di beni immobili o attività economiche;

• la gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni;• l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito

e conti di titoli;• l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione,

alla gestione o all’amministrazione di società;• la costituzione, la gestione o l’amministrazione di società,

enti, trust o strutture analoghe;

2. Gli obblighi di segnalazione delle operazioni sospette e le disposizioni contenute negli articoli 3, 3-bis e 10 della legge antirici-clag-gio si applicano:

a) ai soggetti indicati nel comma 1;b) alle società di gestione accentrata di strumenti finanziari;c) alle società di gestione dei mercati;d) agli uffici della pubblica amministrazione.

3. Gli obblighi di segnalazione previsti dalla legge antiriciclaggio non si applicano ai soggetti indicati nell’articolo 2, comma 1, lettere q) e r), per le informazioni che essi ricevono da un loro cliente o ottengono riguardo allo stesso, nel corso dell’esame della posizione

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giuridica del loro cliente o dell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza del medesimo in un procedimento giudiziario o in relazione a tale procedimento, compresa la consulenza sull’eventualità di intentare o evitare un procedimento, ove tali informazioni siano ricevute o ottenute prima, durante o dopo il procedimento stesso.

Articolo 3Obblighi di identificazione e

di conservazione delle informazioni

1. Gli obblighi previsti nell’articolo 13 del decreto-legge 15 di-cembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15, come sostituito dall’art. 30, comma 1, della legge 1à marzo 1990, n. 55 e poi dall’art. 2, comma 1, della legge antiriciclaggio, si applicano ai soggetti indicati nell’articolo 2, comma 1 del presente decreto.

2. Il Ministero dell’economia e delle finanze, sentiti l’UIC, le competenti autorità di vigilanza di settore e le amministrazioni interes-sate, avendo riguardo alle peculiarità operative dei soggetti obbligati, all’esigenza di contenere gli oneri gravanti sui medesimi e alla tenuta dell’archivio nell’ambito dei gruppi, stabilisce con regolamento il contenuto e le modalità di esecuzione degli obblighi di cui al presente articolo e le modalità di identificazione in caso di instaurazione di rapporti o di effettuazione di operazioni a distanza.

Articolo 4Abilitazione

1. I soggetti indicati nell’articolo 2, comma 1, dalla lettera a) alla lettera j), e le relative succursali italiane sono abilitati, nei limiti delle proprie attività istituzionali, ad effettuare le operazioni di trasferimento previste dall’articolo 1 della legge antiriciclaggio.

2. Il ministero dell’economia e delle finanze, sentito l’UIC, deter-mina con decreto le condizioni in presenza delle quali gli enti indicati nell’articolo 2, comma 1, lettere k), l) e m) e le relative succursali

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italiane, possono essere abilitati dallo stesso Ministero dell’economia e delle finanze ad effettuare le operazioni di trasferimento di cui al comma 1.

Articolo 5Collaborazione tra autorità

1. In deroga all’obbligo del segreto d’ufficio, le autorità di vigi-lanza di settore collaborano, anche mediante scambio di informazioni, con l’UIC al fine di agevolare le rispettive funzioni.

2. In deroga all’obbligo del segreto d’ufficio, l’UIC può scam-biare informazioni e collaborare con analoghe autorità di altri Stati che perseguono le medesime finalità, anche a seguito di protocolli d’intesa.

3. Le amministrazioni interessate e gli organismi locali delle professioni interessate forniscono all’UIC le informazioni e le altre forme di collaborazione richieste.

4. Le autorità di vigilanza di settore, le amministrazioni interessa-te e gli organismi locali delle professioni interessate informano l’UIC delle ipotesi di omissione delle segnalazioni di operazioni previste dall’articolo 3 della legge antiriciclaggio, rilevate nei confronti dei soggetti di cui all’articolo 2.

Articolo 6Modifiche e abrogazioni di disposizioni legislative

1. Nel comma 1 dell’articolo 1 della legge antiriciclaggio sono soppresse le parole “di cui all’articolo 4”.

2. Il comma 2 bis dell’articolo 1 della legge antiriciclaggio è sostituito dal seguente comma “2-bis. Il saldo dei libretti al portatore non deve essere superiore a Euro 12.500 per capitale ed interessi capitalizzati. I libretti con saldo superiore a Euro 12.500 di capitale ed interessi capitalizzati, esistenti alla data di entrata in vigore della presente disposizione, devono essere estinti dal portatore entro cen-toventi giorni dalla medesima data”.

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3. Nel comma 1 dell’articolo 3 della legge antiriciclaggio sono soppresse le parole “di uno dei soggetti di cui all’articolo 4, indipen-dentemente dall’abilitazione a effettuare le operazioni di trasferimento di cui all’articolo 1”.

4. Nel comma 4 dell’articolo 3 della legge antiriciclaggio, alla lettera c) le parole “di cui all’articolo 4 in ordine alle segnalazioni trasmesse” e, alla lettera d), le parole “di cui all’articolo 4” sono so-stituite dalle parole “tenuti alle segnalazioni”.

5. Nei commi 1, 4 e 5 dell’articolo 3-bis della legge antiriciclag-gio sono soppresse le parole “di cui all’articolo 4”.

6. All’articolo 5 della legge antiriciclaggio sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1 le parole “una sanzione amministrativa pecu-niaria fino al 40 per cento” sono sostituite dalle parole “una sanzione amministrativa pecuniaria dall’1 per cento al 40 per cento”;

b) al comma 5 le parole “una sanzione pecuniaria fino alla metà del valore dell’operazione” sono sostituite dalle parole “una sanzione amministrativa pecuniaria dal 5 per cento fino alla metà del valore dell’operazione”;

c) al comma 6 le parole “del divieto di cui all’articolo 3, comma 7” sono sostituite dalle seguenti “del divieto di cui all’articolo 3, comma 8”;

d) dopo il comma 6 è aggiunto il seguente comma: “6 bis. La violazione della prescrizione di cui all’articolo

1, comma 2 bis, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria pari al 40 per cento del saldo”;

e) al comma 8 le parole “Si applicano le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689, ad esclusione di quelle contenute nell’articolo 16” sono sostituite dalle parole “Si applicano le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689. L’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689, si applica solo per le violazioni dell’articolo 1 della legge il cui importo non sia superiore a Euro 250.000,00. Il pagamento in misura ridotta

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non è esercitabile da chi si è già avvalso della medesima fa-coltà per altra violazione dell’articolo 1 della presente legge, il cui atto di contestazione sia stato ricevuto dall’interessato nei 365 giorni precedenti la ricezione dell’atto di contesta-zione concernente l’illecito per cui si procede”.

7. Le autorità di vigilanza di settore, le amministrazioni inte-ressate, l’UIC e la Guardia di Finanza accertano in relazione ai loro compiti di servizio, e nei limiti delle loro attribuzioni, violazioni della legge antiriciclaggio e provvedono alla contestazione ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689;

8. Nell’articolo 1è della legge antiriciclaggio sono soppresse le parole “di cui all’articolo 4”.

9. L’articolo 4, comma 4, del decreto legislativo 25 settembre 1999, n. 374 è sostituito dal seguente:

“4. Gli obblighi di identificazione e di registrazione si appli-cano ai soggetti che esercitano l’attività indicata nell’articolo 1, comma 1, lettera i), anche per le operazioni di acquisto o di cambio di “fiches” o altri mezzi di gioco di valore pari o superiore a 1.000 Euro. Si osservano le disposizioni del-l’articolo 3-bis della legge n. 197/1991 e dell’articolo 16 del regolamento di esecuzione del T.U.L.P.S., approvato con regio decreto 6 maggio 1940, n. 635”.

10. Nel comma 2 dell’articolo 150 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 la parola “intermediari” è sostituita dalla seguente: “soggetti”.

11. Nel comma 4 dell’articolo 155 del testo unico bancario sono soppresse le parole “e gli articoli 2, 3 e 4 del decreto legge 3 maggio 1991, n. 143, convertito con modificazioni della legge 5 luglio 1991, n. 197”.

12. Sono abrogati:• gli articoli 3, comma 9; 4, commi 1 e 2; 5, commi 2 e 3; 11

della legge antiriciclaggio;• gli articoli 4, commi 1, 2, 7 e 8; 6, comma 3, del decreto

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legislativo 25 settembre 1999, n. 374;• l’articolo 150, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n.

388;

Articolo 7Sanzioni amministrative

1. I soggetti indicati nell’articolo 2 che, in relazione ai loro compiti di servizio, e nei limiti delle loro attribuzioni, hanno notizia di infrazioni alle disposizioni di cui all’articolo 1 della legge antirici-claggio ne riferiscono entro trenta giorni al Ministero dell’economia e delle finanze per la contestazione e gli altri adempimenti previsti dall’articolo 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689. In caso di infrazioni riguardanti assegni bancari, assegni circolari, libretti al portatore o titoli similari, le segnalazioni devono essere effettuate dalla banca che li accetta in versamento e da quella che ne effettua l’estinzione.

2. La violazione dell’obbligo di comunicazione previsto dal comma 1 del presente articolo è punita con una sanzione pecuniaria amministrativa dal 3 per cento al 30 per cento dell’importo dell’ope-razione.

3. Per la violazione dell’obbligo di segnalazione di operazioni sospette previsto dall’articolo 3 della legge antiriciclaggio, i verbali di contestazione sono trasmessi anche all’UIC che fornisce un parere al Ministero dell’economia e delle finanze;

4. I soggetti indicati nell’articolo 2 che violano gli obblighi informativi previsti dall’articolo 3, comma 4, della legge antiriciclag-gio e dell’articolo 8, comma 5, del presente decreto, gli obblighi di segnalazione di dati previsti nell’articolo 5, comma 10, della legge antiriciclaggio, nell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 25 settembre 1999, n. 374, nonché nelle rispettive disposizioni di attua-zione sono puniti con sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 500 a Euro 25.000.

5. Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto del prov-

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vedimento di sospensione adottato ai sensi dell’articolo 3, comma 6, della legge antiriciclaggio è punito con una sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 5.000 a Euro 200.000.

6. All’irrogazione delle sanzioni previste dai commi 2, 3, 4 e 5 del presente articolo provvede, con proprio decreto, il Ministero dell’economia e delle finanze, udito il parere della Commissione pre-vista dall’articolo 32 del testo unico delle norme di legge in materia valutaria, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1988, n. 148. Si applicano le disposizioni della legge 24 no-vembre 1981, n. 689, ad esclusione di quelle contenute nell’articolo 16.

7. Ai fini della ripartizione delle somme riscosse per le sanzioni amministrative previste dalla legge antiriciclaggio si applicano i criteri sanciti dalla legge 7 febbraio 1951, n. 168.

Articolo 8Disposizioni transitorie e finali

1. I soggetti indicati nell’articolo 2 adottano adeguate procedure volte a prevenire e impedire la realizzazione di operazioni di riciclag-gio in particolare istituendo misure di controllo interno e assicurando un’adeguata formazione dei dipendenti e dei collaboratori.

2. Gli intermediari richiamati nella legge antiriciclaggio rientrano tra i soggetti di cui all’articolo 2, commi 1 e 2, del presente decreto.

3. Nell’articolo 13 comma 1, del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15, come sostituito dall’articolo 30, comma 1, della legge 19 marzo 1990, n. 55, e poi dall’articolo 2, comma 1, della legge antiriciclaggio, il riferimento ai soggetti in esso indicati è sostituito ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del presente decreto.

4. Il Ministero dell’economia e delle finanze, sentiti l’UIC e le competenti amministrazioni interessate, al fine di assicurare omo-geneità di comportamenti stabilisce con regolamento le norme per

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l’individuazione delle operazioni di cui all’articolo 3 della legge antiriciclaggio da parte dei soggetti indicati nell’articolo 2, comma 1, lettere q) e r).

5. L’UIC adotta disposizioni applicative sentite le competenti autorità di vigilanza di settore e le amministrazioni interessate. Per lo svolgimento di approfondimenti sul piano finanziario, l’UIC può acquisire dati, notizie e documenti presso i soggetti indicati nell’ar-ticolo 2.

6. L’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689 si applica anche ai procedimenti amministrativi relativi alla violazione dell’arti-colo 1, commi 1, 2 e 2 bis della legge antiriciclaggio, il cui importo non sia superiore a Euro 250.000, per i quali, alla data di entrata in vigore del presente provvedimento, non sia ancora stato emesso il relativo decreto ovvero lo stesso sia stato impugnato ai sensi dell’articolo 32 del Decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1988, ma non sia stata emessa sentenza passata in giudicato. Tale facoltà potrà essere esercitata entro 120 giorni dall’entrata in vigore del presente decreto. È escluso da tale facoltà che si è già avvalso del pagamento in misura ridotta per altra violazione dell’articolo 1 della legge antiriciclaggio, il cui atto di contestazione sia stato ricevuto dall’interessato nei 365 giorni precedenti la ricezione dell’atto di contestazione concernente l’illecito per cui si procede”.

7. È fatta salva l’efficacia degli atti posti in essere, ai sensi del-l’articolo 5, comma 2, della legge antiriciclaggio, prima dell’entrata in vigore del presente decreto.

8. Le disposizioni emanate in attuazione di norme abrogate o sostituite continuano a essere applicate, in quanto compatibili, fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati ai sensi dell’articolo 3, comma 2, dell’articolo 4, comma 2, e dell’articolo 8, comma 4, del presente decreto.

9. Dall’attuazione del presente provvedimento non devono de-rivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato.

Proposte di emendamenti allo schema

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di decreto legislativo antiriciclaggioFormulate congiuntamente dal Consiglio Nazionale Fo-rense, Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, Consiglio Nazionale Ragionieri, Consiglio Nazionale del Notariato

1. La consultazione dei Consigli nazionali

Come emerso nella riunione preparatoria del 24 settembre, il testo del decreto predisposto dai competenti uffici dell’amministrazione del Tesoro contiene due riferimenti a successive emanande fonti regola-mentari. Trattasi dell’art. 3, comma 5;

“Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentito l’UIC, tenuto conto della specificità dei soggetti obbligati, stabilisce con decreto il contenuto e le modalità di esecuzione degli obblighi di identificazione e di registrazione1 e le modalità di identificazione in caso di instaura-zione di rapporti o di effettuazione di operazioni a distanza”;

nonché dell’art. 8, comma 4:“Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentito l’UIC, stabilisce

le linee di indirizzo per l’individuazione delle operazioni di cui all’art. 3 della legge antiriciclaggio da parte dei soggetti indicati nell’art. 2, comma 1, lett. r)” (=notai e avvocati).

In entrambi i casi, appare opportuno formalizzare un riferimento alla doverosa consultazione dei Consigli nazionali professionali in-teressati. Nel merito non sono emerse contrarietà in occasione della riunione dello scorso 24 settembre.

Gli emendamenti proposti sono i seguenti:all’art. 3, comma 5:

• “Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentiti l’UIC, e i Consigli nazionali delle professioni interessate, tenuto conto della specificità dei soggetti obbligati, stabilisce con decreto il contenuto e le modalità di esecuzione degli obblighi di identificazione e di registrazione1 e le modalità di identificazione in caso di instaurazione di rapporti o di

1 Per gli obblighi di registrazione, vedi oltre, par. 2.

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effettuazione di operazioni a distanza”;all’art. 8, comma 4:

• “Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentiti l’UIC, e i Consigli nazionali delle professioni interessate, stabilisce le linee di indirizzo per l’individuazione delle operazioni di cui all’art. 3 della legge antiriciclaggio da parte dei soggetti indicati nell’art. 2, comma 1, lettere q) e r)”.

Apparirebbe invece equivoco un riferimento alla nozione di “am-ministrazione interessata”, che, ai sensi dell’attuale art. 1, può indicare anche (o in alcuni casi solo) i Consigli locali degli ordini.

Potrebbe invero essere cambiata la definizione di amministrazione interessata, ma la ampia formulazione usata dall’art. 1 può essere utile ad altri fini, nell’economia del testo proposto, e in ogni caso la soluzione qui prescelta appare come la più idonea ad evitare frain-tendimenti.

2. La questione degli obblighi di registrazione

Di maggiore momento la questione degli obblighi di registrazio-ne.

La pretesa di gravare i professionisti di un obbligo di registrazione, oltre che di segnalazione, non appare infatti trovare alcun fondamen-to nel testo della direttiva, che piuttosto riferisce a tali soggetti solo obblighi di identificazione (cfr. art. 1, comma 3, che modifica l’art. 3 della direttiva 91/308/CEE), e di segnalazione (art. 1, comma 5, che modifica l’art. 6 della direttiva 91/308/CEE). La questione, già posta in occasione della riunione scorsa, non può essere evidentemente risolta con il richiamo operato dall’amministrazione del Tesoro al considerando n. 15 della direttiva, e ciò non solo per la valenza non normativa che va riconosciuta ai considerando (a conferma di ciò, si consideri il considerando n. 17, che non a caso è direttamente “normato” nel testo della direttiva, all’art. 1, comma 5, che modifica

1 Per gli obblighi di registrazione, vedi oltre, par. 2.

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l’art. 6, comma 3, 2^parte, della direttiva 91/308/CEE) ma soprattutto perché il considerando in questione si riferisce genericamente a tutti gli obblighi previsti dalla direttiva in relazione non solo alle profes-sioni, ma anche ad altre attività (es.: agenti immobiliari, attività di commercio di preziosi, case da gioco, ecc. ecc.).

Ne risulta che l’art. 3 dello schema di decreto legislativo, recante “Obblighi di identificazione e registrazione” debba essere modificato per evitare equivoci in ordine al sorgere di impropri obblighi di regi-strazione, in capo ai professionisti, oltre che di segnalazione e identi-ficazione. Se obblighi di registrazione sono previsti per altri soggetti diversi dai professionisti (come ad esempio i Consigli dell’ordine, l’UIC, od altri), il riferimento a tale attività può essere mantenuto solo aggiungendo all’articolo un comma 6 dal seguente tenore:

• 6. L’obbligo di registrazione non si applica ai soggetti di cui alle lettere q) e r) dell’art. 2, comma 1.

3. La funzione di “filtro” degli ordini locali

Con riferimento specifico alla professione di avvocato, appare del tutto coerente con la tradizione ordinistica nazionale recepire il dispo-sto della direttiva previsto sia dal considerando n. 20, sia, soprattutto, dall’art. 1, comma 5 (che modifica l’art. 6, comma 3, 1^ parte della direttiva 91/308/CEE) in ordine alla possibilità degli Stati membri di indicare negli organi di autogoverno della categoria i destinatari delle segnalazioni, e di prevedere forme di collaborazione tra questi e le autorità responsabili per la lotta al riciclaggio. Tale procedura sarebbe più rispettosa dell’obbligo di riservatezza che grava sui professionisti, ed in particolare sugli avvocati, come meglio vedremo al punto 4, in ordine al tema del segreto professionale. Val la pena inoltre rilevare che – come risulta dall’allegato tabulato – tale procedura è già stata seguita dalle leggi di attuazione interna di Danimarca, Francia, Ger-mania, Grecia e Regno Unito.

Si propone pertanto di aggiungere all’art. 2, un comma 4 dal se-guente tenore:

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• 4. I soggetti di cui alla lettera r del comma 1 del presente articolo, con esclusione dei notai, effettuano le segnalazioni previste dalla legge antiriciclaggio fornendo apposita comu-nicazione ai rispettivi Consigli degli ordini.

Di conseguenza nella norma che riguarda la collaborazione tra autorità (art. 5, comma 2), si propone il seguente emendamento:

• 2. Le amministrazioni interessate ei Consigli dell’ordine di cui all’art. 2, comma 4 forniscono all’UIC le informazioni e le altre forme di collaborazione richieste.

4. Il segreto professionale

La questione di maggiore spessore concettuale dell’intera nor-mativa è certamente quella della sua compatibilità con l’obbligo (penalmente, e anche fiscalmente sanzionato) di rispettare il segreto professionale, che grava su tutti i professionisti coinvolti, ma che per gli avvocati assurge ad un canone di condotta funzionalmente connesso all’integrità del diritto di difesa (art. 24 Cost.), diritto fondamentale dell’uomo.

In questo senso particolare preoccupazione desta il rinvio ad una fonte regolamentare che possa stabilire “le linee di indirizzo per l’individuazione delle operazioni di cui all’art. 3 della legge antiri-ciclaggio da parte dei soggetti indicati nell’art. 2, comma 1, lett. r”, come recita l’art. 8, comma 4. Potrebbe l’avvocato violare il segreto professionale in ottemperanza all’obbligo di effettuare operazioni specificate in una fonte secondaria quale un decreto ministeriale? In altre parole, è sufficiente una fonte regolamentare a consentire all’avvocato di derogare a prescrizioni dettate da norme di legge, per lo più connesse ad un diritto fondamentale (perché non vi è chi non veda che una protezione efficace del segreto professionale è misura necessaria all’effettività e alla pienezza del diritto di difesa)?

In particolare, la clausola di salvaguardia con la quale il Tesoro ritiene di poter ovviare al problema (cfr. art. 3, comma 3) appare insufficiente, giacché restringe indebitamente il novero delle attività

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Quaderni106 Quaderni

considerate, specie se si confronta la dizione usata con la corri-spondente formula di cui alla direttiva, che comprende invero, oltre all’attività giudiziale, anche la consulenza legale, e non solo quella connessa al procedimento (come recita l’art. 3, comma 3), ma anche quella relativa all’esame della posizione giuridica di un cliente (come invece dice la direttiva, all’art. 1, comma 3, che modifica l’art. 6 del-la direttiva 91/308/CEE). Le due nozioni di consulenza legale sono manifestamente diverse, tanto che il considerando n. 17 reca una precisazione interpretativa di evidente interesse: giacché comprende anche lo studio della “posizione giuridica del cliente”, “la consulenza legale è soggetta al vincolo del segreto professionale a meno che il consulente giuridico partecipi alle attività di riciclaggio dei proventi illeciti, che la consulenza sia fornita ai fini di riciclaggio o l’avvocato sia a conoscenza che il cliente chiede consulenza giuridica ai fini del riciclaggio dei proventi illeciti”.

Non sembra inoltre esservi traccia, nello schema di decreto, di una norma di recepimento dell’art. 1, comma 8 delle direttiva, che sostituisce l’art. 9 della direttiva 91/308/CEE, e fissa una misura di protezione che invece apparirebbe assolutamente necessaria, in funzione delle osservazioni fin qui svolte: “La comunicazione in buona fede… da parte degli enti… o delle persone cui si applica la presente direttiva… non costituisce violazione di eventuali restrizioni alla comunicazione di informazioni imposte in sede contrattuale o da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, e non comporta responsabilità di alcun tipo per gli enti o le persone ovvero per i loro dipendenti o amministratori”.

Appare inoltre opportuno esonerare il professionista che effettua la segnalazione dall’obbligo di informarne il cliente, come anche la direttiva consente (cfr. art. 1, comma 7, della direttiva che introduce un comma secondo all’art. 8 della direttiva 91/308/CEE).

Alla luce delle considerazioni offerte si propongono pertanto i seguenti emendamenti, entrambi ricalcati da specifiche disposizioni della direttiva:

- all’art. 2, comma 3;• 3. Gli obblighi di segnalazione… non si applicano… per

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le informazioni su clienti conosciute o ottenute nel corso dell’esame della posizione giuridica del loro cliente, del-l’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza dei medesimi in un procedimento giudiziario, compresa la consulenza sull’opportunità di intentare o evitare un pro-cedimento, ove tali informazioni siano ricevute o ottenute prima, durante o dopo il procedimento stesso;

- aggiungere all’art. 2, un ulteriore comma 5 (si ricordi che è stato proposto anche un nuovo comma 4, per il quale vedi sopra par. 3):

• 5. La comunicazione in buona fede effettuata dai soggetti di cui al comma precedente non costituisce violazione di eventuali restrizioni alla comunicazione di informazioni imposte in sede contrattuale o da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, e non comporta responsa-bilità di alcun tipo.

In ogni caso il professionista che abbia effettuato la segna-lazione prevista dalle disposizioni precedenti non è tenuto ad informare di tale fatto il proprio cliente.

Roma, 9 ottobre 2003.

Roma, 26 ottobre 2004

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Quaderni108 Quaderni

ILL.MO PROF.DOMENICO SINISCALCO

MINISTRO DELL’ECONOMIA

ROMA

e, p.c.: ILL.MO ON. DOTT. SILVIO BERLUSCONI

PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

PALAZZO CHIGI

ROMA

Illustre Signor Ministro,con il decreto legislativo 20 febbraio 2004, n. 56 il legislatore

italiano ha fornito un primo parziale recepimento della direttiva 2001/97/CE in materia di prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi da attività illecite (la cd. seconda “direttiva antiriciclaggio”).

In occasione della definizione della normativa di rango primario, una proficua interlocuzione tra tutte le amministrazioni interessate e le categorie professionali coinvolte ha consentito di addivenire ad una disciplina rigorosamente orientata verso le condivisibili finalità della direttiva europea, ma nel complesso coerente con l’impianto normativo vigente per l’esercizio delle libere professioni di avvocato, notaio, dottore commercialista, ragioniere commercialista e consu-lente del lavoro. Tale impianto normativo , come ribadito anche dai pareri parlamentari resi in occasione dell’approvazione del decreto legislativo, ed in particolare dal parere delle riunite Commissioni 2^ (Giustizia) e 6^ (Finanze e Tesoro) del Senato della Repubblica, reso in data 18 dicembre 2003, si fonda sul vincolo fiduciario tra cliente e professionista, a presidio della tutela della pubblica fede e dell’af-fidamento della clientela, in funzione di protezione degli interessi pubblici connessi a corretto esercizio delle professioni.

Il Suo Ministero sta conducendo in queste settimane i lavori preparatori per l’adozione del regolamento di attuazione del decreto legislativo n. 56/2004.

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A pochi giorni dalla scadenza del termine previsto per l’adozione del regolamento, nessuna richiesta formale di parere è tuttavia perve-nuta ai Consigli nazionali delle professioni interessate, nonostante il decreto legislativo preveda il parere obbligatorio di tali enti.

Dobbiamo pertanto rilevare che non è accettabile la conclusione dell’istruttoria e l’emanazione del regolamento in mancanza a tutt’oggi della richiesta forma e di tale parere.

Le delegazioni dei Consigli nazionali, inoltre sono state ascoltate una sola volta, e per giunta tutte separatamente, mentre hanno in gran parte una visione comune delle questioni coinvolte.

Voglia pertanto considerare, Sig. Ministro, la necessità di procedere alla formalizzazione della richiesta di parere, per consentire l’esercizio della funzione consultiva prevista dalla normativa di rango primario, nonché l’opportunità di una convocazione immediata e congiunta delle delegazioni dei Consigli nazionali, onde addivenire ad un opportuno chiarimento.

Con l’occasione ribadiamo la piena disponibilità delle professio-ni a condividere le finalità della lotta ai fenomeni criminali oggetto della normativa in corso di adozione; gli ordini professionali, anche in funzione della natura soggettiva di diritto pubblico, sono sempre più di frequente chiamati a svolgere funzioni di pubblico interesse, e la doppia fedeltà alla legge e agli interessi della clientela è iscritta indelebilmente nell’identità culturale delle professioni libere.

Chiediamo però che gli indirizzi restino nell’alveo della disci-plina comunitaria mentre il testo provvisorio fornito dagli uffici del ministero, e soprattutto le dichiarazioni dei funzionari ministeriali in occasione dell’unica riunione alla quale i Consigli sono stati chiamati (separatamente, lo ribadiamo) ad intervenire si pongono per molti aspetti in contrasto e fuori dei limiti della direttiva e dello stesso d.lgsl. n. 56/2004;

Chiediamo inoltre che gli indici di sospetto dai quali dipende l’ob-bligo della segnalazione siano definiti con chiarezza, e che in ogni caso i nuovi obblighi non decorrano che dalla definizione chiara ed inequivocabile dei suddetti indici. Ne va del principio di certezza del diritto, bene collettivo di interesse primario, garanzia di libertà dei

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cittadini e delle loro attività patrimoniali.

Confidiamo che il presente atto sia tenuto nella debita considera-zione, e con l’occasione porgiamo cordiali saluti.

Il Presidente del Consiglio Nazionale Forense

Prof. AVV. GUIDO ALPA

Il Presidente del Consiglio Nazionale dei Consulenti del lavoro

Dott. ALFIO CATALANO

Il Presidente del Consiglio Nazionale del Notariato

Dott. PAOLO PICCOLI

Il Presidente del Consiglio Nazionale dei Ragionieri

Dott. RAG. WILLIAM SANTORELLI

Il Presidente del Consiglio nazionale dei Dottori commercialisti

Dott. ANTONIO TAMBORRINO

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Il possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli

Presupposti e rilievi di incostituzionalitàdi PIER PAOLO ZACCARIA*

Fra le ipotesi contravvenzionali destinate a prevenire la commis-sione di delitti contro il patrimonio, rilevante è quello del “possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli”, di cui all’art. 707 del c.p. Si tratta di un reato discusso poiché parte della dottrina lo reputa ormai uno strumento ottocentesco di difesa sociale e, tenuto conto dell’inoffensività della condotta, sarebbe del tutto inadeguato a con-trastare le nuove dimensioni della criminalità non essendo, tra l’altro, necessariamente rapportabile ad uno “stato” o ad una “condizione personale”. La disposizione appare, poi, investita da alcuni rilievi di incostituzionalità, tuttavia respinti dalla Corte Costituzionale con la recente sentenza del 23 giugno - 7 luglio 2005, n. 265.

1. Natura del reato e interesse tutelato

L’articolo 707 c.p., nel punire chiunque, essendo stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concer-nenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti od aprire o a forzare serrature, dei quali non giustifichi l’attuale destinazione, appartiene alla generale categoria dei reati c.d. “senza offesa” entro cui si sogliono classificare numerosi gruppi di illeciti, variamente definiti e tutti accomunati – secondo autorevole dottrina – da “un’ombra di incostituzionalità, oltre che di impopolarità”, per contrasto con il principio di offensività, in ragione dell’eccessivo grado di anticipazione della tutela del bene giuridico-penale1 ”.

Nell’ambito di questo gruppo di illeciti, “il possesso ingiustificato * Praticante Avvocato del Foro di Brindisi. 1 Mantovani «Diritto penale», Milano, 2001

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di chiavi alterate o di grimaldelli” rientra, tra i c.d. “reati di pericolo” costituiti da quelle fattispecie incriminatici riguardanti comportamenti che, sebbene non siano lesivi di alcun interesse, lasciano presumere l’avvenuta commissione non accertata o la futura commissione di reati. Infatti, l’essere colto in possesso di chiavi false o grimaldelli, così come l’essere colto in possesso non giustificato di valori – di cui si occupava l’abrogato art. 708 c.p., dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale – o di documenti concernenti la sicurezza dello Stato (art. 260, n. 3 c.p.), sono tutte forme di anticipazione del-la tutela penale dei beni giuridici ad uno stadio addirittura anteriore alla messa in pericolo, giacché incriminano comportamenti che solo “indirettamente” espongono a pericolo l’integrità del bene: essi, in realtà, finiscono con sanzionare una condotta che crea non tanto un pericolo per la lesione del bene, ma soltanto un pericolo di una situa-zione pericolosa per il bene, comprimendo i principi costituzionali non solo di materialità e di offensività, ma anche della responsabilità penale personale, della presunzione di non colpevolezza e di difesa. Non commette, pertanto, il reato in questione, per assoluta deficienza del pericolo, colui che venga sorpreso nel momento in cui sta sbaraz-zandosi in modo inequivocabile di strumenti atti allo scasso, essendo evidente che l’agente non intende più utilizzarli per scopi delittuosi.

Il possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli rientra, inoltre, anche nella sottospecie dei c.d. “reati ostativi”, ossia di quelle incriminazioni, lontanamente arretrate, che non colpiscono compor-tamenti offensivi di un bene ma tendono a prevenire il realizzarsi di azioni effettivamente lesive o pericolose, mediante la punizione di atti che sono la premessa idonea per la commissione di altri reati.

Essi coprono una sfera di atti anteriori allo stesso tentativo punibile, poiché sono in sé equivoci, potendo sfociare in vari delitti ma anche in atti del tutto irrilevanti.

Occorre ricordare che, nel testo originario, l’art.707 c.p. faceva riferimento anche a chi era stato condannato per mendicità, a chi era stato ammonito ai sensi degli artt. 1 e 2 della L. 27 dicembre 1956 n.1423, o sottoposto a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta2. Con sentenza del 02.02.1971 n.14, rifacendosi alla

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precedente sentenza del 19 luglio 1968 n.110 relativa all’art.708, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.707 limitatamente alla parte che faceva riferimento alle con-dizioni suddette.

2. L’elemento oggettivo e la condizione soggettiva

L’elemento oggettivo della norma è l’attualità del possesso. Oc-corre, cioè, che l’agente venga colto in flagranza. Il possesso di cui parla l’articolo in esame va inteso in senso lato, e cioè come disposi-zione materiale esercitabile in concreto e di fatto dall’imputato sugli oggetti indicati. Occorrerebbe, pertanto, che il soggetto sia sorpreso in un contesto di contatto con le cose, le quali, dunque, dovranno o essere portate sulla persona o tenute comunque presso l’agente, in modo che lo stesso possa farne subito uso, senza doverle prelevare in altro luogo, ancorché contiguo. In conformità a tale ordine di idee, la Cassazione ha ritenuto di dover annullare una condanna inflitta per la contravvenzione ex art. 707 c.p. ad un soggetto che era stato trovato in possesso di una ricevuta di un deposito bagagli cui corrispondeva una borsa contenente arnesi atti allo scasso3. È stato osservato, co-munque, che l’attualità del possesso degli strumenti atti allo scasso non presuppone un rapporto di contiguità fisica costante con gli stessi, sicché l’elemento materiale di detta contravvenzione ricorre anche quando gli oggetti vengano rinvenuti non sulla persona del soggetto ma nella sua abitazione o in un luogo ove egli possa accedere e riporre le proprie cose, con conseguente possibilità di disporne e di farne uso in ogni momento. Pertanto, risponderà del delitto in esame anche colui che deduca di non essere stato colto nel possesso degli strumenti da scasso perché trovati, in sua assenza, nel proprio garage4. La giurisprudenza più recente ritiene, comunque, non indispensabile la flagranza, reputando sufficiente che l’agente abbia la disponibilità degli oggetti e la possibilità di un utilizzo immediato e attuale. Pro-

2 cfr. artt. 215 e 216 c.p. 3 Cassazione penale sez. V, 1 luglio 1999, n. 10475. 4 Cassazione penale sez. IV, 9 ottobre 1996, n. 9331.

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prio su tale rapporto di immediatezza, e solo su esso, la legge fonda la presunzione di un’imminente utilizzazione degli strumenti mede-simi. Così, in applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione ha ritenuto configurabile il reato nell’ipotesi di ritrovamento degli strumenti, consistenti in oltre cento chiavi per serrature di automobili, di abitazioni e una punta di diamante, nel corso di una perquisizione domiciliare, nell’appartamento ove il soggetto stabilmente dimorava5. La contravvenzione ricorrerebbe, inoltre, quando il rinvenimento degli oggetti indicati avvenga, oltre che nell’abitazione dell’agente, in un locale accessorio all’abitazione del prevenuto (Cassazione penale sez. II, 28 aprile 1994), o nella di lui autovettura ed alla sua presenza. In quest’ultimo caso, a nulla rileverebbe la circostanza che l’autovettura non sia intestata agli imputati e appartenga a terzi. Infatti, come più volte ha sostenuto la Suprema Corte, l’art.707 c.p. non richiede che le cose o gli oggetti atti allo scasso siano di proprietà dell’agente, essendo sufficiente che essi siano in suo possesso, inteso, come già detto, come qualsiasi detenzione che conferisca la semplice disponi-bilità materiale (Trib. di Brindisi, sez. distaccata di Ostuni, sentenza del 24.03.2000, n. 148/00).

Premesso che per chiave s’intende lo strumento costruito apposi-tamente per mettere in azione il congegno d’una chiusura, la chiave è alterata o contraffatta quando si appalesi come falsa, ossia formata o acquisita appositamente per aprire illegittimamente una o più serrature o che sia in grado, per sua stessa formazione, di aprire tutte le serrature di un determinato genere. Sono, poi, idonei ad aprire serrature, oltre alle chiavi, anche altri strumenti, che agiscono mettendo in movimento un congegno di chiusura senza forzarlo,come ad es. i grimaldelli o un uncino comune, un filo di ferro, un chiodo, uno stecco. Quanto agli strumenti atti a forzare serrature, vengono in considerazione tutti i mezzi che possono servire a distruggere, demolire o scassare purché idonei ad esercitare tale effetto sopra «serrature», e non solo su altri ripari. È peraltro indifferente che siano atti a cagionare il forzamento immediatamente e mediatamente su serrature. Sono perciò compresi

5 Cassazione penale., sez. I, 25 luglio 2001, n. 30930.

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tra i detti strumenti i cacciaviti, le leve, gli scappelli, i succhielli, i trapani, le seghe, gli apparecchi con fiamma ossidrica ecc. Gli esplosivi non contenuti in strumenti, ancorché siano atti a forzare (introdu-cendoli nelle confessure e facendoli esplodere), non sono compresi nell’art. 707 c.p. perché non sono strumenti

Trattandosi di contravvenzione punibile a titolo di dolo, e non di colpa, l’agente deve essere consapevole del possesso.

Ai fini della sussistenza della ipotesi contravvenzionale enunciata dall’art.707, la condizione soggettiva di essere stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio costituisce presupposto logico-giuridico del reato e non esige una pluralità di condanna, essen-do sufficiente anche una sola condanna passata in giudicato, sebbene il legislatore, parlando di «motivi di lucro», utilizzi il plurale.

Una persona può dirsi «condannata» per un reato soltanto quando la relativa sentenza sia divenuta irrevocabile a norma dell’art. 648 c.p.p. Le condanne alle quali si ha riguardo sono esclusivamente quelle pronunciate o riconosciute nel nostro Stato. Le condanne riportate all’estero, che non siano state riconosciute in Italia a norma dell’art. 12 c.p., non possono avere giuridica considerazione. Le cause estintive del reato o della pena non hanno efficacia di eliminare la condizione personale in discorso, se non sono tali da abolire, oltre che le pene principali e accessorie, anche gli altri effetti penali della condanna, come ad es. la riabilitazione.

I motivi di lucro sono quelli per i quali il delinquente si riprometta un vantaggio patrimoniale qualsiasi, e non un diverso profitto. Così, trattandosi di precedente condanna, occorre accertare se questo delitto sia stato commesso per fine di lucro ovvero per un profitto diverso dal lucro6 .

3. L’onere della prova

6 Mancini, «Trattato di diritto Penale», Vol X, UTET. 7 Micheli, «Reati di sospetto vecchi e nuovi: cronaca di una morte annunciata», in Riv.

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La disposizione di cui all’art. 707 c.p. pone a carico del detentore – per le sue qualità personali – l’onere di dare la prova che gli oggetti rinvenuti in suo possesso sono destinati ad un uso legittimo. La dottri-na7 sottolinea come l’art. 707 c.p. finisca con il violare il principio della presunzione di innocenza, riconosciuto costituzionalmente, poiché il legislatore non contempla la difficoltà di provare la destinazione o la provenienza dei beni dell’imputato, introducendo una presunzione di colpevolezza in relazione ai reati che si ritiene siano stati commessi o ai reati che si avrebbe l’intenzione di commettere.

In relazione al riferimento al requisito della “mancanza di giusti-ficazione dell’origine dei beni”, tuttavia, l’orientamento prevalente in giurisprudenza nega che, nel caso dell’art. 707 c.p., l’imputato debba provare la provenienza o la destinazione delle cose possedute, ma richiede solo un’attendibile spiegazione da parte sua, spettando pur sempre all’accusa di dimostrare l’inattendibilità delle spiegazioni stesse; in sostanza, la norma in questione non prevede un’inversione dell’onere della prova, ma un mero onere di allegazione a carico del-l’imputato. Così, i C.C. della stazione di Fasano (BR) hanno ritenuto sufficiente per essere deferire all’autorità giudiziaria, per la contrav-venzione di cui all’art. 707 c.p., colui che, essendo stato condannato per delitti determinati da specifici motivi di lucro (furto), veniva colto in possesso di arnesi da scasso8, rinvenuti debitamente nascosti, che, non risultando titolare di officine meccaniche, non aveva giustificato il possesso e la provenienza di detto materiale. Tutto ciò, considerata la personalità dell’individuo, gravato da diversi precedenti penali, faceva emergere gravi indizi di colpevolezza. Di conseguenza, colui che si trova nella condizione prevista dall’art. 707 c.p. è tenuto a provare, per esimersi dalla sanzione penale, non già di essersi legittimamente pro-curato l’arnese da scasso, bensì di destinarlo ad uso lecito attualmente,

trim. dir. pen. dell’econ.,1994, pag. 53). 8 Nello specifico, venivano considerati tali le centraline antifurto usate per mettere

in moto le auto protette da allarme, un cavo con morsetto di collegamento in metallo, un punteruolo metallico, una chiave metallica, un giratubi metallico e due cavi per batteria di autovettura.

9 Cassazione penale sez. II, 14 giugno 1996, n. 6929

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ossia in quel momento in cui ne è colto in possesso. Il legislatore, in sostanza, esige dal possessore una spiegazione appagante circa l’uso che egli intende fare – immediatamente – dell’arnese da scasso, e la spiegazione non può ritenersi appagante quando si accampi una destinazione improbabile e, comunque, futura. La norma, poi, non fissa, alcun limite temporale entro il quale tale giustificazione deve essere fornita né, tantomeno, richiede che ciò possa legittimamente avvenire solo al momento della sorpresa in flagranza, come se fosse preclusa qualsiasi possibilità di successiva utile deduzione difensi-va. In conseguenza, spetterà al Giudice di merito valutare se la prova della legittimità della detenzione degli oggetti predetti, comunque fornita, sia stata o meno raggiunta e, specialmente nelle ipotesi di tardiva discolpa, motivare adeguatamente le ragioni del suo convin-cimento9. In mancanza di una probativo liberatoria plena, per ragioni anche non dipendenti dall’imputato del reato de quo, lo stesso potrà essere chiamato a risponderne.

4. L’art. 707 c.p. e il furto aggravato

Preliminarmente, occorre evidenziare che l’assorbimento della contravvenzione di cui all’art. 707 c.p. nel furto si verifica qualora il possesso ingiustificato degli strumenti indicati dall’art. 707 c.p. risulti strettamente collegato all’uso degli stessi fatto dall’agente per la com-missione del furto, e quindi per le sole ipotesi di impiego effettivo delle attrezzature da scasso nell’azione delittuosa e di detenzione attuatasi esclusivamente con l’uso momentaneo necessario all’effrazione. In particolare il rapporto di cui sopra deve essere escluso ogni volta che gli arnesi atti all’effrazione, trovati in possesso del soggetto attivo, sia-no tali da assumere autonoma rilevanza giuridica (Cassazione penale sez. V, 7 maggio 1998, n. 2842). Nel caso di furto tentato, in cui gli arnesi da scasso non siano stati utilizzati, non si ha il concorso della contravvenzione poiché il riferimento degli arnesi (pure rapportato al tempo ante factum) deve essere riguardato, unitamente agli altri

10 Cassazione penale sez. II, 16 aprile 1999, n. 9644.

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elementi significativi emersi come parte degli atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il delitto. Dopo la consumazione del delitto, indipendentemente dall’uso di strumenti del genere in questione, il concorso è ipotizzabile quando vi sia frattura temporale e spaziale fra la consumazione del delitto e la sorpresa in flagrante possesso degli arnesi, poiché la condotta contravvenzionali, svincolata dal delitto, riprende la sua autonomia. Nel caso in cui gli arnesi atti allo scasso siano effettivamente serviti per la commissione del furto, e il loro possesso sia stato limitato all’uso momentaneo necessario per l’effrazione senza protrarsi per un ulteriore arco di tempo giuri-dicamente apprezzabile, si verifica l’assorbimento della contravven-zione nel delitto di furto aggravato, giacché, come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza, solo in tale ipotesi il collegamento tra i due illeciti, sussistente in termini di immediatezza e di strumentalità, dà vita ad una fattispecie complessa e rende operante il principio di specialità. A tal fine, è necessario che non ci sia una frattura temporale e spaziale tra la commissione del furto e l’accertamento del posses-so degli arnesi atti allo scasso, ma ciò non è sufficiente, dovendosi ritenere il concorso materiale tra il delitto di furto aggravato ai sensi dell’art. 625 n. 2 c.p. e la contravvenzione di cui all’art. 707 c.p. ogni qualvolta gli arnesi, atti ad aprire o a forzare una serratura, trovati in possesso dell’agente, siano tali e tanti da assumere una autonoma giuridica rilevanza, eccedente quella della apparente correlazione con la consumazione del furto. In particolare, il nesso di immediatezza e strumentalità tra il possesso degli arnesi atto allo scasso ed il loro uso, che giustifica l’assorbimento della contravvenzione nel furto aggravato dalla violenza sulle cose, si verifica quando:

1) gli strumenti siano stati effettivamente usati per la commissione del furto;

2) il loro possesso sia stato limitato all’uso momentaneo necessario per l’effrazione;

3) non vi sia stato distacco temporale e spaziale tra la com-missione del furto e l’accertamento del possesso degli arnesi;

4) tali arnesi non siano di natura e quantità tali da assumere una rilevanza giuridica autonoma rispetto all’ambito di consumazione

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del delitto circostanziato (Cassazione penale sez. II, 15 aprile 1998, n. 6955).

5. Il concorso di persone, la pena e la confisca degli strumen-ti

In tema di possesso di chiavi alterate e grimaldelli, è sufficiente, ai fini della configurabilità del concorso nel reato, la consapevole dispo-nibilità, concreta ed immediata, da parte di più persone, degli arnesi predetti, essendo irrilevante l’originaria appartenenza di questi ad uno solo dei correi e dovendosi, viceversa, dare rilievo alla possibilità di questi di servirsene ovvero di aiutare il proprietario a servirsene10 . Occorre evidenziare che la giurisprudenza ammette la possibilità del concorso ad opera di chi non versi nelle condizioni soggettive e oggettive richieste dall’art. 707 c.p.. In particolare, anche colui che è incensurato ma si accompagni a soggetti che sappia essere state condannate per uno dei reati commessi ai sensi dell’art. 707 c.p., ed abbia la consapevolezza degli oggetti detenuti da quest’ultimo per la possibilità che ha di servirsene o di aiutarlo.

La pena prevista per il reato contravvenzionali di cui all’art. 707 c.p. è dell’arresto da sei mesi a due anni. A tal proposito, la norma potrebbe apparire incostituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24 e 25 della Cost. laddove la sanzione dell’arresto ivi prevista contrasterebbe con quella minimale di giorni cinque per il disposto dell’art. 25 c.p.

Con la sentenza di applicazione della pena va ordinata la confisca degli oggetti sequestrati all’imputato per il reato di cui all’art. 707 c.p. Ed infatti, la criminosità e la pericolosità della cosa, che ne impongano la confisca ex art. 240 comma 2 c.p., non costituiscono un carattere della cosa in sè ma derivano dalla relazione tra questa e il soggetto. Essa, pertanto, quand’anche non possa in sè definirsi intrinsecamente criminosa, deve essere confiscata tutte le volte che la sua detenzione da parte dell’agente, al quale dovrebbe essere restituita, costituisce reato (Cassazione penale sez. IV, 16 aprile 1996, n. 4601).

11 Angioni , «Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico», Milano, 1983.

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6. L’art. 707 c.p. e i profili di incostituzionalità

Il legislatore penale, attraverso l’applicazione del principio di proporzione, deve tendere al contemperamento tra la realizzazione dei diritti fondamentali del reo, da una parte, e la tutela di determinati beni giuridici, dall’altra.

Il principio di proporzione dovrebbe rappresentare un criterio di verifica dei fattori che influiscono sull’an e sul quantum della punibi-lità11. Questo principio viene considerato di rilievo costituzionale sulla base dell’art. 13 della Cost., in quanto i sacrifici del bene della libertà personale devono essere proporzionati al perseguimento di interessi di rango costituzionale; dell’art. 25 comma 2 della Cost., in quanto il legislatore ha l’obbligo di stabilire un divario non spropositato tra il minimo e il massimo nell’indicazione del disvalore del fatto; e dell’art. 27 comma 3 della Cost., poiché la sproporzione del sacrificio della libertà personale non consente la realizzazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27 comma 3 della Cost12.

I reati di sospetto sono stati oggetto di numerose censure di in-costituzionalità (alcune delle quali accolte dalla Consulta) e, con sentenza del 2 novembre 1996 n. 370, la Corte Costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 707 C. P., in relazione agli artt. 3, 25 e 27 Cost., poiché la norma descrive un fatto in sé pericoloso per il bene tutelato, combinandosi nella condotta di possesso l’elemento oggettivo (gli oggetti atti allo scasso) e quello soggettivo (la pericolosità dei soggetti condannati per determinati reati contro il patrimonio). In effetti, i com-portamenti tipizzati dall’art. 707 C.P. sarebbero caratterizzati da una pericolosità astratta poiché si puniscono in chiave preventiva attività anteriori a quelle preparatorie di un delitto, ma i dubbi di legittimità permangono sotto il profilo dei principi della colpevolezza (articoli 3 e 27, commi 1 e 3, Costituzione), di materialità e di offensività (articolo 25, comma 2, Costituzione).

Alla base dell’art. 707 c.p., vi è una presunzione di pericolosità,

12 Corte cost. 28.7.1993, n. 343, in Giur. Cost. 1993, pag. 2668.

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fondata unicamente sulla qualifica soggettiva di condannato, che po-trebbe comportare il rischio di una diversificazione di trattamento, da parte dell’ordinamento penale, tra i condannati per determinati delitti rispetto ad altri soggetti responsabili anche di più gravi reati.

Infatti, facendosi dipendere la punibilità dalla presunta pericolosità dell’indagato, si corre il rischio di affermare la colpevolezza di taluno per la sua condotta di vita, enunciandosi una sorta di responsabilità oggettiva penale, in contrasto con il disposto dell’art. 25 della Cost., che stabilisce il principio di responsabilità per il fatto commesso, e dell’art. 27 comma 1 della Cost., che stabilisce il principio di respon-sabilità per fatto proprio del colpevole.

In primo luogo, il comportamento dedotto nella fattispecie di cui all’articolo 707 c.p. rileverebbe, sotto l’aspetto penale soltanto per quella particolare categoria di soggetti, rappresentata da chi sia stato “condannato per delitti determinati da motivi di lucro, o per contrav-venzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio”; per chiunque altro, invece, la medesima condotta è perfettamente lecita.

Di conseguenza, un simile assetto risulterebbe irragionevole e, dunque, in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, sotto il pro-filo del principio di uguaglianza nella misura in cui fa dipendere la punibilità del soggetto non dal fatto in sé, bensì da elementi a questi del tutto estranei e, dunque, rispetto ai quali non può muoversi alcun rimprovero “colpevole” all’imputato, in palese violazione, altresì, con il principio di colpevolezza così come estrinsecato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze 364/1988 e 1085/1988.

Si deve soggiungere, poi, che in quanto reato di sospetto, l’artico-lo 707 c.p. fa carico al soggetto imputato di dovere “giustificare” il possesso di certe cose: l’onere della prova della destinazione lecita della cosa è invertito incombendo sul sospettato. In tal modo, si registrerebbe un’anomala regola di giudizio che imporrebbe al giu-dice, nel dubbio, di presumere l’illegittima destinazione e, dunque, di pronunciare sentenza di condanna, in violazione al principio co-stituzionale della presunzione di non colpevolezza e del diritto alla difesa consacrati, rispettivamente, nellart. 24 della Cost. e nell’art.

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27 comma 2 della Cost., sotto il profilo del diritto al silenzio ed alla non collaborazione.

In secondo luogo, l’articolo 707 contrasterebbe, poi, con il principio di materialità dell’illecito penale enucleabile dall’articolo 25, comma 2, Costituzione (laddove parla di “…fatto commesso…”). La norma richiede una condotta esteriore, ossia il possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli, di per sé sensorialmente percepibile; tale fatto materiale non è, però, punito come tale bensì solo come indiziante, anche in connessione con determinate condizioni personali, di reati non accertati o ancora da compiere. Più che sanzionare condotte, dunque, in realtà si puniscono stati soggettivi, intesi come relazioni statiche (il possesso, la detenzione) tra persone e cose, trasgredendo alla ratio garantista sottesa al moderno diritto penale del fatto, che vieta la punibilità della nuda cogitatio o dei semplici modi di essere della persona.

La Corte Costituzionale ha costantemente negato il contrasto del-l’articolo 707 c.p. con il principio di materialità del reato, nell’assunto che tale contravvenzione identifica comunque una condotta presuppo-sta di cui l’attuale possesso non sarebbe che una conseguenza (Corte Costituzionale, sentenza 14/1971).

Di contro, è stato evidenziato come, parlare di “possesso” come conseguenza materialistica di una condotta-presupposto è, una pura fictio tendente a valorizzare il sostrato fisico-materialistico di un fatto (il possesso) che esiste ma che è punito solo perché annesso vi è un mero stato personale che farebbe presumere reati contro il patrimonio da compiere.

Occorre evidenziare come, di recente, la Consulta ha ribadito come lo status personale di condannato per taluni delitti non possa legittimare la sanzione penale. Basti considerare la sentenza 354/2002, che ha dichiarato incostituzionale l’articolo 688 comma 2 c.p. (ove si puniva con l’arresto da tre a sei mesi il fatto di ubriachezza manifesta commesso da chi avesse già riportato “una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale”) le cui motivazioni, mutatis mutandis, possono essere fatte proprie anche per l’articolo 707 c.p. Infatti, statuisce la Corte, “l’avere riportato una precedente

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condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità indi-viduale, pur essendo evenienza del tutto estranea al fatto-reato, rende punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro sogget-to, non assume alcun disvalore sul piano penale. Divenuta elemento costitutivo del reato di ubriachezza, la precedente condanna assume le fattezze di un marchio, che nulla il condannato potrebbe fare per cancellare e che vale a qualificare una condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non configurerebbe illecito penale. Il fatto poi che il precedente penale che viene in rilievo sia privo di una correlazione necessaria con lo stato di ubriachezza, rende chiaro che la norma incriminatrice, al di là dell’intento del legislatore, finisce col punire non tanto l’ubriachezza in sé, quanto una qualità perso-nale del soggetto che dovesse incorrere nella contravvenzione di cui all’articolo 688 Cp. Una contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti di una sorta di reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto a presidio di questa Corte (sentenza 263/2000 e 360/1995). Tale limite, desumibile dall’articolo 25, comma 2, Costituzione, nel suo legame sistematico con l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la qualità del condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non costituiscono illecito penale”.

Analoghe considerazioni possono essere fatte per quanto con-cerne il reato di cui all’art. 707 c.p. Sotto un concorrente profilo, la disposizione de qua, nel trasfondere irragionevolmente in elemento costitutivo del reato fatti per i quali è già intervenuta una condanna irrevocabile, vanificherebbe il principio della finalità rieducativa della pena, consacrato nell’art. 27 comma 3 della Cost. assegna alla pena.

Con la sentenza n. 265 del 23 giugno – 7 luglio 2005, la Corte Costituzionale ha ritenuto di dover respingere le censure di incosti-tuzionalità avanzate in merito all’art. 707 c.p., precisando comunque come “la particolare configurazione della contravemzione in esame lascia aperta la possibilità che si verifichino casi in cui alla conformità

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del fatto al modello legale non corrisponde l’effettiva messa in peri-colo dell’interesse tutelato”. Spetterà, quindi, al Giudice, chiamato ad applicare la norma, l’onere di “operare uno scrutinio particolarmente rigoroso circa la sussistenza del requisito dell’offensività in concreto, verificando la specifica attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o forzare serrature, valutando – soprattutto quando gli strumenti di cui l’imputato è colto in possesso non denotino di per sé tale univoca destinazione – le circostanze e le modalità di tempo e di luogo che accompagnano la condotta, dalle quali desumere l’attualità e la con-cretezza del pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio”. Per la Corte, la possibilità di condurre in sede di applicazione della norma in esame un incisivo controllo circa la sussistenza del requisito dell’offensività in concreto (quale criterio interpretativo-applicativo affidato al Giudice, tenuto ad accertare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene tutelato dall’interesse) unita all’indi-viduazione della materialità della condotta incriminata e dell’interesse tutelato dall’art. 707 c.p. dimostra l’infondatezza delle censure solle-vate in riferimento all’art. 25. comma 2 della Cost, rimanendo privi di autonomo rilievo gli ulteriori profili di incostituzionalità, aventi portata sussidiaria e conseguente, dedotti con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 13, 24 secondo comma e 27 della Costituzione.

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La “Pratica criminale” nel ‘700 nel regno di Napoli

TERZA PARTE

a cura di AUGUSTO CONTE*

L’iniziativa di disporre ordinatamente in un Trattato di “Pratica Criminale” edito da “Vincenzi Pauria in Napoli nel 1755, con le sue stesse addizioni” assunta dall’Avvocato Domenico Moro, costituiva all’epoca una necessità per qualificare professionalmente gli Avvocati e i Magistrati e per formare i praticanti, e un utile sistema schematico per gli Operatori; oggi rappresenta una inaspettata fonte cui attingere per la storia del processo penale nella sua concreta attuazione.

Quando cominciò a regnare Carlo III° di Borbone, come riferisce anche Pietro Colletta nella sua Storia del Reame di Napoli, oltre alle problematiche determinate dalla coesistenza di undici legislazioni “…l’antica Romana, la Longobarda, la Normanna, la Sveva, l’Angioina, l’Aragonese, l’Austriaca spagnola, l’Austriaca tedesca, la Feudale, la Ecclesiastica, la quale governava le moltissime persone e gli sterminati possessi della Chiesa, la Greca nelle consuetudini di Napoli, Amalfi e Gaeta, ed altre città un tempo rette da ufficiali dell’impero di Oriente, così come le consuetudini di Bari e di altre terre traevano principio dalle concessioni longobarde. Le molte legislazioni s’impedivano, mancava guida o imperio alla ragione dè cittadini, al giudizio dei magistrati…”, era incontrollabile l’accesso alla Avvocatura.

Lo stesso Pietro Colletta riferisce che “…qualunque della plebe con toga in dosso dicevasi avvocato ed era ammesso a difendere i di-

* Avvocato del Foro di Brindisi.

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ritti e le persone dè cittadini: e però che all’esercizio di quel mestiere pieno di guadagni non si richiedevano studii, esami, pratiche, lauree moltiplicava tuttodì la infesta gente dè curiali”.

Questo giudizio del Colletta non esclude però l’esistenza di seri studi risalenti fin dai primi del 1700, come vedremo in seguito ricor-dando l’Avvocato Alfonso Maria de Liguori, alla cui menzione non possiamo sottrarci nella trattazione del processo nel ‘700.

Continua Pietro Colletta: “Essendo il disordine maggiore né codici e nei magistrati, doveva essere prima opera di Carlo comporre novello codice che togliesse dalla napoletana giurisprudenza l’ingombro di undici legislazioni”.

Il problema non fu risolto (come spesso avviene negli affari riguar-danti la giustizia) perché si giunse con aggiungerne “…una dodice-sima, più adatta invero alle circostanze del popolo, ma imperfetta e incompiuta quanto le precedenti”.

Infatti Carlo III° non riuscì ad abbattere i principi che alimentava-no la feudalità, la nobiltà, le protezioni del clero, i privilegi: sicchè la giurisprudenza civile non mutò, anche se il procedimento civile migliorò in quanto fu introdotto anche un Tribunale di Commercio (composto da otto giudici, di cui tre magistrati, tre baroni esercitati alla materia commerciale, due commercianti, e presieduto da un pre-sidente scelto tra i nobili).

Le leggi criminali invece furono, come si è già visto, sollecitate dalla frequenza di delitti e dalla loro crudeltà, per cui difettava una giusta e sapiente proporzionalità nell’applicazione delle pene: Pietro Colletta riferisce che “…nella sola città di Napoli numerava il censo giudiziario trentamila ladri, gli omicidi, le scorrerie, i furti violenti abbandonavano nelle provincie, gli avvelenamenti nelle città (nei quali prevalevano le donne), tanto che il re creò un magistrato, la Giunta dè Veleni, per discoprirli e punirli”.

Secondo il Colletta “di nulla migliorò il procedimento criminale; restando in uso il processo inquisitorio, gli scrivani, la tortura, la tas-sazione degli indizi, le sentenze arbitrarie, il comando del principe”. (Su quest’ultimo argomento torneremo a proposito del “giudizio del truglio”, l’antesignano del “patteggiamento”).

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In verità il giudizio di Pietro Colletta (non tenero con i Borbone) non sembra del tutto condivisibile e tanto si desume proprio dalle puntuali regole del processo indicate dall’Avvocato Domenico Moro che, almeno formalmente, e considerata l’epoca, lasciano intravedere l’applicazione di garanzie, almeno sicuramente formali, e un effettivo esercizio del diritto di difesa e il rispetto del fondamentale principio di proporzionalità della pena al reato, fin dal momento della conte-stazione del delitto (oltre a quanto sarà in seguito illustrato, abbiamo visto nelle precedenti parti le attribuzioni della difesa, l’accesso agli atti del processo, la “discovery” degli atti di indagine, la formazione del fascicolo del difensore, le norme deontologiche che dovevano rispettare gli avvocati, in particolare il dovere di verità e il divieto dell’uso di espressioni sconvenienti e offensive, che hanno un senso solo se inserite in un processo di stampo accusatorio e con le garanzie di difesa).

Tornando alle regole processuali, la “pratica” del processo pre-vedeva che dopo l’istruttoria (l’informazione criminale) si doveva cominciare il processo contro il Reo o i Rei individuati nel corso della istruttoria.

Erano previste due maniere di avvio del processo: uno contro il Reo assente e l’altro contro il Reo presente. Poichè l’assenza com-portava la condanna indicata nell’atto di citazione, regole minuziose disciplinavano la notifica e la dichiarazione di contumacia.

L’Autore precisa che assente non è il Reo che vive lontano dal luogo di residenza o del commesso delitto, ma quello che è assente nel giudizio, evidentemente per la sua scelta; elenca tre tipi della citazione emessa dal Giudice che costituisce la chiamata a comparire dinanzi a lui: la citazione ad deponendum, ad informadum e ad capitalia: ciascuna corrisponde alla qualità del delitto contestato.

È prevista anche la citazione ad forjudicandum che costituisce una “monizione” precedente alla sentenza di condanna, che dalla descrizione appare essere una sorta di decreto penale di condanna.

Sono poi descritte le citazioni per edictum o per proclama (che non costituiscono forme autonome di contestazione introduttive del giudizio, ma tipi di notificazioni a Rei di domicilio incerto o a una mol-

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titudine di Rei, simile alla nostra citazione per pubblici proclami).Passando alla trattazione dei diversi tipi di citazione, quella ad

deponendum introduce le cause nelle quali è incerta la rilevanza cri-minale o la sussistenza del fatto contestato o quelle che pur avendo natura criminale riguardano reati di lieve entità che non comportano pene corporali afflittive.

La citazione contiene il decreto che la ordina, con la descrizione del “titolo del processo” (ad esempio: “Sulla turbativa del possesso del territorio di Mevio, a querela di quest’ultimo”) che renda noto al Reo la ragione della citazione; la formula del decreto realizza un vero e proprio capo di imputazione, che viene contestato con la spedizione della citazione ad deponendum.

Tutte le citazioni criminali contengono le espressioni perentorie, nel senso che non si darà luogo a ripetizione della citazione e alla concessione di altro termine a comparire e personaliter in quanto la comparizione deve essere personale ad deponendum super his, cioè sulla contestazione.

La citazione ad deponendum redatta in originale e copia viene a nome del Governatore della Corte consegnata dall’Attuario al Giurato o Servente perché la notifichi al Reo personalmente, eventualmente indicando i testimoni presenti, se possibile, o almeno nella sua casa, affiggendone copia alla porta, lasciando se possibile copia alla mo-glie, al padre, al figlio o altro congiunto, e restituisca l’originale con l’atto di notifica.

Se non viene notificata nei sei mesi la citazione perde di efficacia (“non vale”); la data di comparizione è per il primo giorno “giuridico” successivo alla notifica se il Reo ha la sua abitazione nello stesso luo-go; se abita in altro luogo gli sarà dato un termine che comodamente consenta di comparire.

La prima contumacia può essere dichiarata solo dopo il trascor-rere dell’intero termine concesso nella citazione, così come stabilito “…dall’invittissimo nostro Re Carlo Borbone (che Iddio feliciti per sempre) con suo regal diploma sotto il dì 25 marzo 1738” con il seguente testo, tradotto dall’Avv. Moro dallo spagnolo in italiano: “S. M. ha risoluto (esaminando questo punto) che da ora in avanti le

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contumacie si abbiano a incusare al giorno seguente, dopo che sarà spirato il termine contenuto nella citazione: e che questo nuovo sta-bilimento non arrechi verun pregiudizio alla Cause sinora trattate”; sempre che il giorno successivo allo spirare del termine non fosse di festa, di precetto o di Corte (cioè non vi fosse attività della Corte), “altramente sarebbe nullità, come cosa contro la disposizione della legge del Rito della Gran Corte”.

Il giorno in cui si notifica la citazione, che non deve cadere in giorno festivo non viene computato nel numero dei giorni concessi al Reo.

Trascorsi tre giorni dal primo, anche se giorni di festa o precetto (perché “in ogni giorno può il Reo camminare per presentarsi”) viene dichiarata l’ultima contumacia, sempre che il giorno dopo i tre giorni, sia “giuridico” e cioè “si regga la Corte”.

Prima di dichiarare la contumacia il Reo viene chiamato da un inserviente che secondo il suo uso ad alta e intellegibile voce ne pronuncia il nome: “Ci fosse qua Tizio!”; in caso di mancata risposta viene dichiarata la contumacia e applicata la pena contenuta nella ci-tazione; pertanto si poteva non solo esigere la pena sui suoi beni, ma anche carcerare il Reo, considerato il disprezzo del Giudice “che l’ha chiamato, e l’ha aspettato, e pur non ha voluto il Reo ubbidire”.

E questo si verifica come eccezione alla regola secondo la quale la citazione ad deponendum si spedisce per delitti “leggeri” che non comportano pene corporali afflittive, perché a volte la citazione si spedisce per delitti che comportano le indicate pene ma per i quali sussistano indizi deboli e non a tortura; “colla contumacia gl’indizj, ch’eran leggeri, si fanno a tortura”.

L’impedimento a comparire, giustificato da un parente o amico escusatore non comporta la revoca della contumacia (anche se la giustificazione viene allegata prima del provvedimento, come è pratica dei Tribunali); ferma restando la contumacia che, in concreto non arreca pregiudizio ove il Reo si presenti, sarà concesso un ter-mine a comparire, purché il Reo non sia stato visto o sia detenuto dove è stata allegata l’assenza. La “calunnia” circa la giustificazione comporta la carcerazione e la pena della contumacia (che, come si è visto, è considerata, così come anche nel processo civile, e anche

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nella successiva legislazione franco-borbonica dove costituiva “anne-scenza” alla domanda, come una ammissione di responsabilità). “Se per qualche reo citato dalla Gran Corte si alleghi, che sia andato in Roma; e perciò si concedano quindici giorni di dilazione; e a capo di uno o più giorni si scuopre, che stia in Napoli; si carcera, e non può evitar la pena della contumacia, se non sia Napoletano; perché viene a scoprirsi, che calunniosamente si allegò l’assenza”.

L’Avvocato Moro invita le Corti Baronali a non essere ritrose nel concedere dilazione agli escusatori, salvo che apertamente non si conosca “la calunnia”, e suggerisce, ad evitare appello che parte dal-l’escusatore, di concordare, facendolo sottoscrivere dall’escusatore, il termine di dilazione.

La “calunnia” è evidente quando la notifica è personale, tranne l’allegazione di infermità o carcerazione; l’infermità è accertata con l’accesso diretto della Corte assistita da un medico, se il Reo risiede sul posto; altrimenti l’infermità deve essere accertata da un medico del luogo lontano, con relazione giurata dinanzi alla Corte del territorio e autenticata dal giudice.

La carcerazione va provata dall’escusatore con la produzione di documento autentico.

La citazione per edictum viene effettuata nei casi in cui il Reo non sia “cittadino” o non abbia abitazione nel luogo del commesso delitto, o sia fuggito dopo lo stesso.

Supposta la citazione ad deponendum il Nuncio o Servente deve notificarla al Reo; ove con la relazione riferisca “con giuramento” che fatte le ricerche il Reo non è stato trovato, o perché non ha casa nello stesso paese, né quale sia la sua dimora, l’Attuario della Corte fa fede della relazione, richiede a maggior cautela altra “fede” del-l’Università (L’Ente Amministrativo Territoriale) con la quale si attesta che il Reo non ha abitazione nella sua Terra e non si sappia ove la tenga, e viene emanata la citazione per edictum, con cui è riprodotta la precedente citazione, comprese le sottoscrizioni, i successivi atti di fede, l’attestazione dell’Attuario e, affinchè il Reo non possa allegare l’ignoranza della Causa, copia dell’atto completo: il tutto è affisso alla porta della Corte, nella pubblica piazza della Terra con una ulteriore

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relazione in calce alla citazione per edictum. Al Reo viene assegnato il termine di trenta giorni per comparire ove

il citando sia cittadino del Regno, di sessanta ove sia “forestiere”.Le citazioni per edictum non sono frequenti perché il non reperire il

reo ordinariamente avviene per chi sia estero del Regno e si allontani da questo. Se vi è conoscenza che il Reo abita in altro paese del Regno le Corti Baronali mandano le citazioni in quelle ove sia l’abitazione del Reo (o presso la Corte Regia se vi segga), richiedendo la notifica con l’ortatoria: formula che spiegava le ragioni per le quali, non es-sendo stata individuata la dimora del Reo il Governatore della Corte spediva la citazione, con la solita ortatoria, chiedendo che il Servente della Corte destinataria notificasse, alla presenza di testimoni e con gli stessi criteri innanzi descritti, la citazione ad deponendum.

Tale pratica derivava dalla regola che non consentiva al Giudice di citare o carcerare il Reo in aliena giurisdizione senza il permesso della Corte del luogo in cui si debba notificare la citazione o carcerare il Reo.

La citazione per proclama è sostanzialmente contenuta in quella per edictum e consiste nelle altre voci aggiuntive che il Servente della Corte prima di affiggere la citazione per edictum dà nei luoghi pubblici e in quelli normalmente frequentati dal Reo.

In seguito saranno esaminate le forme di citazioni per i delitti gravi.

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Nota storica sui Fori: Bari*

Dal 1923 la Corte d’Appello delle Puglie non esiste più. È rimasta sulle mura dello scuro edificio l’iscrizione, rimpetto alla magnificenza della Cattedrale di Trani, sporgentesi nel mare come nave che tenda all’oriente. Dall’ottobre del 1923 funziona in Bari la Corte d’Appello e da quel giorno nei corridoi e nelle aule risonanti già delle allegre grida della giovinezza studiosa, s’affollarono clienti ed avvocati.

Rimane il ricordo, e nell’animo di quelli che vissero i primi anni della professione in Trani, il rimpianto della quieta vita cittadina, rotta solo dall’emozione dei grandi processi.

E nella Corte di Trani se ne celebrarono di famosi, e nelle aule del severo palagio risuonarono le voci dei più grandi oratori d’Italia. Da Mancini a Crispi, da Ferri ad Alimena, da Pessina a Rosano, tutti passarono per la Corte di Trani, lasciando della loro eloquenza ricordi incancellabili.

E fra essi, i nostri, che erano pari a quei sommi per dottrina ed eloquenza.

Da Lucera venivano Dandolo, Amica-relli, Nicoletti; da Lecce Flascasovitti e Rubichi; da Taranto, Perrone; da Bari, De Nicolò, Balenzano, Suppa, ed a Trani si incontravano con quegli che fu l’espres-sione più alta dell’avvocatura penale: Giuseppe Alberto Pugliese.

Generazione meravigliosa di uomini, che avevano dottrina di giuristi, cultura letteraria, eloquenza affascinante, ed

* Con la pubblicazione della nota storica sui Fori pugliesi, tratta dall’Almanacco Giurdico Forense Italiano del 1932, Ed. “La Italiana”, Roma, l’Ordine Forense di Brindisi rende un omaggio agli avvocati degli Ordini di Bari, Lecce, Taranto, Foggia, Trani e Lucera, uniti con Brindisi nell’Unione Regionale degli Ordini di Puglia.

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avevano bontà squisite, e tenerezze paterne verso noi giovani che li ammiravamo e li amavamo.

Spenti tutti… o vinti dagli anni, o colpiti nella parola, o strappatisi alla vita in momenti di sconforto o di ribellione…

Vivono ancora, e vivano per cento anni ancora, a Trani, Ferdinando Lam-bert chiuso oramai nei suoi ricordi, ed a Taranto Alessandro Criscuolo, miracolo di attività luminosa, che nasconde sotto la biondezza inalterabile dei capelli la sua età e serenamente e giovanilmente affronta la discussione di una causa, dice una conferenza, detta un epigrafe, e dirige il Comitato locale della “Dante Alighieri”.

Quelli che son venuti dopo, si sono dispersi. Molti da Trani hanno emigrato a Bari: moltissimi da Lucera a Foggia. Restano nelle città che furono le sedi dei collegi, gli innamorati della quieta vita, i nostalgici dei ricordi, od i rifuggenti dall’ansioso ritmo dell’attività di Bari che va diventando una grande città.

Ed in Bari oramai s’incentra la vita giudiziaria delle Puglie.Lecce s’è distaccata: vive di una vita a sé. Non udremo più frequen-

temente il dolce parlare dei nostri colleghi di laggiù, che par si com-piacciano loro stessi della fluidezza della loro eloquenza: raramente riudremo Antonio dell’Abbate, il classico oratore che così degnamente conserva la lampada trasmessagli da Rubichi, Flascassovitti, i fratelli Massari così diversi di temperamento tra loro, De Simone, Di Pietro, tanti altri amici nostri.

Taranto invece ha voluto rimanere con Bari, ed alla Corte di Bari fan quindi capo quattro Tribunali.

La vita giudiziaria adunque s’incentra in Bari. Anche le riviste là. A Trani nacque e per lunghi anni visse la “Rivista di Giurisprudenza” che diretta da Giuseppe Alberto Pugliese fu l’orgoglio della nostra città, emulò le più grandi riviste italiane, impose tra l’altro, il concetto dalla folla delinquente. Visse contemporaneamente ad un giornale

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letterario e storico, “La Rassegna Pugliese” che diretta da Giovanni Beltrani, fu la palestra meravigliosa in cui da Raffaele De Cesare a Giustino Fortunato, i più eccelsi uomini del Meridionale affermarono le loro virtù ed il loro sapere.

Poi venne fuori – in Trani stessa – la “Corte di appello” che messa su dall’indimenticabile Attilio Perrone, strappato alla vita nel fulgore della sua ascensione professionale, morì con lui.

E continua le sue pubblicazioni in Bari il “Foro delle Puglie” che diretto dall’Avv. Raimondi che è un tarantino, è vigilato amorosamen-te del Commendator Camassa, Presidente della Sezione di Lecce, e dall’Avv. dell’Olio.

Ed ancora: “La Corte di Bari” cui accudiscono amorosamente Spinelli e Pinna, e la “Giustizia del Lavoro” in cui il Consigliere Sette raccoglie con cura le decisioni della Magistratura del Lavoro.

E nelle aule si avvicendano gli avvocati che vivono a Bari e quelli che vengono dai Tribunali dipendenti dalla Corte, in un ritmo calmo, tranquillo, in un’attività intensa, ma straniata dalla vita tumultuosa e possente della città.

Oh! la passione che agitava Trani, che agitava Lucera, allora quando si sapeva che v’era un processo grande, e che era venuto da lontano un grande avvocato. La vita delle due città si incentrava là, presso la Corte od il Tribunale, nell’ansia di udire l’oratore, e di seguire lo svolgimento del processo, di saperne l’esito.

A Bari no: città già grande, che vive una vita di commercio e di industria, che non può attardarsi ad ascoltare la parola di un avvocato, che si contenta di leggere i resoconti sul giornale locale.

Ed intorno agli avvocati il cui nome suona altissimo in Italia si riuniscono solo i giovani colleghi che vogliono apprendere, od i di-scepoli che amano constatare come si può essere mirabile professore nelle aule universitarie ed avvocato mirabile in quelle giudiziarie. La folla resta estranea.

A meno che il processo non abbia scossa l’anima popolare, ed allora la folla preme, s’addensa, tumultua, applaude, trascina in trionfo la donna che ha colpito a morte… l’ultimo dei suoi amanti. Le scene son sempre le stesse, in tutte le città d’Italia, in tutte le città del mondo.

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Vigilano sulla Corte due altissimi e preziosissimi magistrati:

Di Lella, il Primo Presidente, è dei nostri: è nato a Carpino, nel Gargàno: ha della nostra terra la bontà vera, so-stanziale: è capo autorevole e giusto, è magistrato coltissimo e di intuito giuri-dico meraviglioso: qualità che ci fanno dubitare egli possa essere ancora per molto della nostra Corte. È chiamato ad altre e più alte mansioni.

Procuratore Generale è Muggia: un piemontese innamorato dell’Italia Meridionale. Fu a Trani per parecchi anni e vi lasciò amicizie e ricordi cari: fu a Napoli procuratore del Re e ne venne via tra il rammarico di tutti: ora è a Bari da parecchio ed ha anche qui conquistato tutti.

Intorno a questi capi, una schiera di magistrati ottimi, che vivono nelle migliori relazioni con il foro.

Certo non v’è, né vi può essere tra magistrati ed avvocati l’inti-mità affettuosa che v’era tra loro a Trani, a Lucera. Nelle due città che avevano tradizioni giudiziarie antichissime, v’era una fraternità di vita, voluta dai continui, giornalieri contatti e dalla conoscenza personale inevitabile ed intima. Ma v’è il rispetto reciproco, e v’è la stima reciproca.

Anche perché a Bari le Commissioni reali sono presiedute da avvocati, anzia-ni, la cui vita è stata sempre di lavoro, e che conoscono tutti i doveri che a noi incombono, e che dovrebbero fare la della nostra professione una missione altissima.

Così i nuovi Codici la cui rigidezza avrà spaventato i mestieranti ed i paro-lai, stanno avendo applicazione serena e giudiziosa, nel quotidiano lavoro e nella

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cooperazione sentita della magistratura e del foro.Quotidiano lavoro: perché la Corte di Appello di Bari lavora.

Quattro udienze civili alla settimana: cinque udienze penali e queste con ruoli sempre ponderosi.

Ma il nostro foro penale e per gli ammaestramenti antichi e per virtù propria, ha il senso della misura, non dice che quello che è necessario e, salvo poche eccezioni che sono il tormento e lo spauracchio del Presidente Panunzio, a nessun difensore saranno applicate – ne son sicuro – le disposizioni del 2° capoverso dell’art. 668 P. Penale.

E qui dovrei forse parlare dei giovani avvocati che seguendo la tradizione dei nostri grandi maestri, tengono alto il lustro della Corte di Bari.

Non ne parlo: temo di incorrere in omissioni, temo di subire l’in-fluenza di simpatie ed antipatie, e di non essere sereno. I nomi dei migliori vanno sulle bocche di tutti: gli altri sono fatalmente selezio-nati, ed aspettano la legge… sulle pensioni. L’aspetto del resto anche io che dopo un quarantennio di lavoro, ho diritto al riposo.

Allora forse, nel futuro almanacco, scriverò dei giovani e di quelli che ancora si credono giovani.

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“La normativa antiriciclaggio e le novità per i professionisti”

Ostuni, 13 maggio 2005

di ALESSANDRA LAPADULA *

Il 13 maggio scorso presso il Grand Hotel Masseria Santa Lucia – Marina di Ostuni, l’Unione Giovani Dottori Commercialisti di Brindisi ha organizzato un convegno dal titolo “La Normativa An-tiriciclaggio e le novità per i professionisti”. Illustri relatori, quali il Procuratore Nazionale Antimafia Dott. Pierluigi Vigna, il Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia Dott. Francesco Mandoi, il Vice Presidente del Consiglio Nazionale Forense Avv. Eugenio Cricrì e il Comandante del Nucleo Polizia Valutaria Guardia di Finanza Col. t.S.T. Dott. Bruno Buratti, hanno dibattuto su quelle che sono le novità introdotte dal Decreto Legislativo del 20 febbraio 2004 n. 56, decreto di attuazione della direttiva 2001/97/CE.

A questo importante evento hanno partecipato gli Ordini professio-nali della provincia di Brindisi coinvolti nella normativa: Avvocati, Notai, Dottori Commercialisti, Ragionieri Commercialisti e Consu-lenti del Lavoro.

Il decreto, oltre ad aver riformato il Testo Unico sulle norme di contrasto al riciclaggio di denaro “sporco”, ha introdotto radicali innovazioni: l’ampliamento dei soggetti tenuti agli obblighi di cui all’art. 3: l’obbligo di identificazione e di conservazione delle infor-mazioni, nonché quello di segnalazione di operazioni sospette di tutti i soggetti indicati al comma 1 dell’art. 2 dalla lettera a), alla lettera

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* Dottore commercialista in Brindisi.

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t). Fra i soggetti sono annoverati i professionisti iscritti nell’albo dei ragionieri e dei periti commerciali, nel registro dei revisori contabili, nell’albo dei dottori commercialisti e nell’albo dei consulenti del lavoro oltre i notai e gli avvocati quando, in nome e per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare e quando assistono i propri clienti nella progettazione o nella realizzazione di operazioni riguardanti il trasferimento di beni mobili, la gestione di strumenti finanziari, l’assistenza o la consulenza nell’apertura e/o gestione di rapporti bancari, il conferimento di capi-tali per la costituzione, gestione e amministrazione di una società.

Ad aprire i lavori è stato il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi Dott. Giuseppe Giannuzzi che ha focalizza-to quelle che sono le importanti novità che ha apportato il decreto 56/2004.

Due le novità importanti: l’ampliamento della sfera dei reati pre-supposti e l’allargamento ai soggetti tenuti alla denuncia dei fatti in sospetto di attività illecita. Nell’intervento il Procuratore Giannuzzi

Un momento della Conferenza

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ha posto l’attenzione sul fatto che “l’obbligo di denuncia” è rivolto unicamente alle categorie professionali regolarmente iscritte in albi di ordini o collegi, lamentando che la limitazione di tale obbligo da parte del decreto, oggetto del dibattito, solo ad alcune figure professionali, crea una specie di “zona franca” per tutti quei soggetti che non ap-partenendo a nessun ordine professionale, potranno agire liberamente senza adempiere a nessun obbligo di denuncia. Preoccupazione del Procuratore Giannuzzi è che il professionista, nell’esercizio dei propri doveri e nell’ottemperare anche agli obblighi imposti da detto decre-to, venga poi accusato di rivelazione di segreto professionale di cui all’art. 662 del codice penale, come per l’avvocato.

Dopo la interessante premessa del Procuratore Giannuzzi, il So-stituto Procuratore Nazionale Antimafia dott. Francesco Mandoi, ha posto l’attenzione innanzitutto sulle finalità delle norme portanti del

Da sinistra: Dott. Marco Botrugno (Presidente Unione Giovani Dottori Commer-cialisti di Brindisi); l’Avv. Eugenio Cricrì (Vice Presidente Consiglio Nazionale Forense); il Dott. Piero Luigi Vigna (Procuratore Nazionale Antimafia); il Dott. Francesco Mandoi (Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia); il Col. t.S.T. Dott. Bruno Buratti (Comandante Nucleo Speciale Polizia Volontaria Guardia di

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decreto che sono a difesa del nostro mercato contro una possibile inva-sione di capitali illeciti di provenienza oltre che italiana anche estera. Inoltre si è soffermato sulla pericolosità delle mafie estere, che, avendo grande disponibilità di danaro, tentano di riciclarlo o investendo in attività industriali italiane o attraverso transazioni finanziarie.

D’accordo con le considerazioni del procuratore Mandoi, il Co-lonnello Bruno Buratti, definisce anch’egli il riciclaggio un fenomeno globale che non riguarda solo il Nostro Paese ma rapporti con i Paesi esteri, di conseguenza la nostra normativa recepisce istanze e preoc-cupazioni che nascono da fonti di diritto internazionale; dopo di che, argomenta sugli obblighi che faranno capo ai professionisti e a tutti coloro che sono chiamati a fornire collaborazione attiva, ponendo l’attenzione non tanto sui problemi di natura organizzativa, quanto sulle responsabilità di chi è chiamato a fare queste segnalazioni, che divengono oltre che di responsabilità oggettiva anche di natura san-zionatoria. Inoltre precisa che le disposizioni del decreto non sono tese a combattere l’evasione fiscale, ma è finalizzata a colpire fenomeni di riciclaggio, quindi la segnalazione va fatta quando il sospetto è riferito al riciclaggio e non all’evasione.

Il Procuratore Vigna afferma che sicuramente questa normativa crea una situazione di rigetto a tutti i soggetti chiamati a dover effettuare le segnalazioni, ma deve subentrare la razionalità nella valutazione di ciò che la normativa vuole raggiungere, difatti lo scopo è di contrastare il riciclaggio e tutelare i soggetti obbligati alla segnalazione.

Non a caso la normativa, individua determinati soggetti all’obbligo della segnalazione, soggetti che sono legati da un particolare rapporto con lo Stato, ad esempio il notaio è un pubblico ufficiale, l’avvocato, il commercialista il ragioniere sono iscritti ad un albo ad un ordine e hanno un obbligo di far osservare le regole fondamentali dello Stato. E’ necessario che la norma abbia dei criteri precisi.

L’Avvocato Cricrì contrasta il Procuratore Vigna, ammettendo che i professionisti sono iscritti ad un ordine professionale e hanno un codice deontologico di comportamento, che se non seguito si è percettibili di sanzioni, ma punto fondamentale e che ad eccezione dei notai, gli avvocati, i commercialisti e tutti gli altri ordini non sono

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dei pubblici ufficiali.Quindi se lo Stato chiede l’intervento da parte dei professionisti pri-

vati, lo Stato e il legislatore hanno il dovere di enunciare esattamente quali sono le regole da seguire, perché questa legge il professionista può diventare un delatore.

A tal proposito nel corso del suo intervento il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi, Avv. Augusto Conte ha suggerito che ai Consigli degli Ordini venga assegnata una funzione di “filtro”, che possa tutelare gli iscritti e la collettività.

Il sostituto procuratore Mandoi, conclude il convegno asserendo che tutte le norme hanno un carattere preventivo oltre che sanziona-torio e di conseguenza pone un quesito a tutti gli ordini presenti: “ Questa normativa è utile o no?”. Risponde con una considerazione: che la normanitiva ha una funzione di barriera e di deterrenza, ponendo il libero professionista in una situazione di tutela nei confronti di chi dovesse sottoporgli una richiesta di un affare illecito in quanto sa-prebbe che ci sono degli organi preposti ad un eventuale disvelamento delle intenzioni criminose verso l’Autorità giudiziaria.

Riprendendo una problema che più volte è stato posto durante il dibattito, riguardo alla tutela del professionista nel momento in cui è chiamato ad adempiere alla segnalazione, il Sostituto procuratore propone una soluzione analoga a quella escogitata dalla Direzione Na-zionale Antimafia nelle indagini effettuate attraverso un meccanismo che serve a distaccare il soggetto denunciante di qualsiasi sospetto e che quindi, non costituisce notizia di reato e non lo costituirebbe nemmeno se il soggetto denunciante fosse il libero professionista. Infatti, prosegue Mandoi, la notizia di reato o dell’attività di rici-claggio è costituita dagli accertamenti sul fatto compiuti dalla Polizia Giudiziaria.

Ritengo che la normativa abbia la sua validità al fine di contrastare la lotta al riciclaggio di proventi illeciti, provenienti sia dall’Italia che dall’estero.

Il timore che questa normativa possa mortificare e sovraccaricare il professionista di responsabilità ed ulteriore adempimenti, non deve prendere il sopravvento su quelli che sono i principi della nostra

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Il Dott. Giuseppe Giannuzzi (Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi)

Un momento della Conferenza

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Costituzione. Sicuramente il nostro Legislatore provvederà a salvaguardare il

professionista e al contempo raggiungere l’obiettivo di contrasto al crimine organizzato.

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“La riforma del processo civile nella legge 14.05.2005 N.80”

Brindisi, 1 luglio 2005Biblioteca Forense

Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi Palazzo di Giustizia

di TEODORO SELICATO*

Il Presidente dell’Ordine degli Avvocati della Provincia di Brindisi, Avv. Augusto Conte, introduce il dibattito ponendo subito in evidenza l’aspirazione degli operatori del diritto ad avere dei “processi semplifi-cati”, al fine di conferire certezza oltre che al diritto sostanziale anche a quello processuale, quest’ultimo caratterizzato, fino ad oggi, da una pluralità di riti e di competenze dell’Autorità Giudiziaria. Evidenzia, il Presidente, l’opportunità che alla riforma del Codice si accosti quella delle strutture e del personale della Giustizia e fa rilevare che a fronte di molti aspetti indiscutibilmente positivi, come i principi di concentrazione e oralità nel nuovo processo di cognizione, le deleghe agli avvocati per le vendite nell’esecuzione, l’apposizione di un limite alla discrezionalità nella gestione del processo e la semplificazione di comunicazioni e notificazioni, vi sono anche i rischi di trovarci di fonte a vere e proprie deleghe della funzione giurisdizionale, ad esempio in favore di consulenti del giudice, come potrebbe accadere nel riformato processo cautelare. Terminata l’introduzione, l’Avv.Conte cede la parola al Prof.Giampiero Balena, docente dell’Univer-sità degli Studi di Bari.

Il Professore passa subito a sottolineare l’excursus del nuovo Codice, sin dall’originario decreto n.35 che modificava pochissime

* Avvocato del Foro di Brindisi.

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disposizioni, per poi ricordare le numerose novità introdotte con la legge di conversione, fino a giungere al rapido esame delle novità dell’ ”ultima ora”, costituite dai circa 50 emendamenti presentati, solo alcuni giorni prima di questo dibattito, in Commissione Giustizia del Senato e che interessano, ad esempio, l’esigenza di una motivazione specifica nel caso di compensazione delle spese di lite, il regime della intimazione testimoniale, l’inibitoria della sentenza di primo grado da parte del Giudice d’Appello, ma anche e soprattutto la forse eccessiva semplificazione, talvolta improvvisata e incoerente, dei modi e dei tempi di notificazioni e comunicazioni. Non manca di valutare positi-vamente uno degli aspetti che definisce tra i “più felici” della riforma, ossia quello della trattazione della causa: snellita e caratterizzata dalla oralità, concentra in un’unica occasione processuale gli adempimenti prima diluiti in almeno quattro udienze e prevede maggiore elasticità nell’interrogatorio libero delle parti e nell’esperimento del tentativo di conciliazione, non più obbligatorio. Ma fa risaltare anche il rischio che tale maggiore speditezza imprima una accelerazione inopportuna anche a cause che richiedano maggiore approfondimento.

Il Prof.Giuseppe Trisorio Liuzzi, docente nell’ Università degli Studi di Foggia, mette in rilievo il grande spazio finalmente dedicato alla riorganizzazione del processo esecutivo, valutando come decisa-mente positiva, pur se non esente da ombre, la riforma apportata dal nuovo codice di procedura civile. L’estensione del novero dei titoli esecutivi previsto dal nuovo art. 474 c.p.c., tra cui le scritture private autenticate aventi ad oggetto somme di denaro e gli atti pubblici per l’esecuzione per consegna e rilascio, è la principale novità introdotta sul punto dalla riforma, alla quale si aggiungono l’ampliamento dei poteri dell’Ufficiale Giudiziario, l’attualizzazione della pubblicità con il tanto sospirato ricorso ad internet, la delega delle vendite immobi-liari non solo ai notai ma anche ad avvocati e dottori commercialisti e le importanti innovazioni in punto di pignoramento, che soprattutto nella nuova formulazione dell’art.499 c.p.c. non mancano di sollevare dubbi sulla par condicio creditorum. Dubbi che si aggiungono a quelli generati dal novellato art. 512 c.p.c. e, quindi, dalla risoluzione delle controversie in sede di distribuzione, da effettuarsi oggi mediante or-

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dinanza e non più con sentenza, e a quelli originati dall’art.546 c.p.c. per la espropriazione presso terzi, non più illimitata nel suo ammontare ma ridotta al valore del credito precettato, aumentato della metà. Al termine dell’intervento, non manca di apprezzare positivamente, in quanto ispirato dal buon senso, il nuovo art.611 c.p.c. che contempla non solo le spese vive del processo esecutivo ma anche quelle della difesa tecnica, e la maggiore tutela per il debitore, assicurata sia dal-la nuova stesura dell’art. 615 c.p.c., che consente a quest’ultimo di richiedere ed ottenere non solo la sospensione della esecuzione ma anche dell’efficacia del titolo esecutivo, e sia dalla possibilità, con il di lui consenso, di poter sospendere concordemente la procedura esecutiva per un tempo massimo di 24 mesi, così come previsto dal-l’art. 624 bis c.p.c. .

L’intervento del Dott.Luciano Guaglione, Giudice del Tribunale di Trani, riguarda la riforma del processo cautelare. Il Magistrato prende le mosse dal buon modello unitario già offerto sul punto dal Legi-slatore del 1990, per poi rammentare la microriforma apportata dagli artt. 23 e 24 del D.lgsv.n.5/03, limitatamente al settore societario, al processo cautelare, fino a giungere alla L.80/05 che rimodella, proprio sulla base del diritto societario, il procedimento cautelare uniforme. Esamina quindi l’art. 669 quinquies, rilevando come la riforma abbia consacrato una portata oramai costituzionale del diritto alla tutela cautelare, pressoché irrinunciabile, anche in presenza di clausola compromissoria per arbitrato irrituale, per poi discutere della riforma più importante della tutela cautelare, rappresentata dall’art.669 opties. La strumentalità del procedimento cautelare rispetto al giudizio di merito ed il rapporto di dipendenza necessaria del primo dal secondo, evidenzia il relatore, si spezza per la prima volta nel rito societario per poi crollare definitivamente nella L. 80/05: l’attuale riforma consente all’utente della giustizia di potersi accontentare del risultato conseguito nel procedimento a cognizione sommaria, il cui provvedimento, pur non equiparabile alla forza della cosa giudicata, è esecutivo e spiega efficacia sine die, sino a quando cioè sopraggiunga una sentenza con-traria al provvedimento, ma pur sempre eventuale e non più necessaria. Tuttavia, come evidenzia il relatore, alcune perplessità, in futuro cer-

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tamente da affrontare in sede dottrinaria e giurisprudenziale, sorgono proprio per l’individuazione sia della tipologia provvedimentale per la quale viene meno questa strumentalità e che viene espressamente tipizzata dal Legislatore nei provvedimenti ex art. 700 c.p.c., negli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sen-tenza di merito previsti dal Codice civile e dalle leggi speciali e nei provvedimenti emessi a seguito di denuncia di nuova opera o di danno temuto ai sensi dell’art.688 c.p.c., e sia dei soggetti a cui spetterebbe la relativa opera di qualificazione di detti provvedimenti. Conclude l’intervento chiarendo che se da un lato il legislatore della riforma ha ampliato la possibilità di revoca e modifica del provvedimento cautelare, dall’altro ha ristretto l’utilizzo dell’istituto, quanto meno fino a quando è possibile esperire il reclamo.

La unificazione dei procedimenti di separazione e divorzio, final-mente codificata dal legislatore del 2005, come osserva la Dott.ssa Adriana Doronzo, Consigliere della Corte d’Appello di Bari, nella pratica era già assicurata, grazie anche alla relativa attività interpre-tativa di dottrina e giurisprudenza, dalla L. 74/87. Il Magistrato passa quindi ad esaminare la nuova disciplina, che uniforma il codice di rito ai principi del diritto internazionale privato, ed evidenzia che elemento di novità per la separazione giudiziale è rappresentato dal primo comma dell’art. 706 c.p.c. che, sia per la separazione che per il divorzio, prevede la competenza del Tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi, ovvero di quella attuale del coniuge convenuto, non mancando di rilevare che in assenza di espressa pre-visione normativa, in caso di separazione consensuale trova tuttora applicazione il criterio di cui all’art.4 della legge sul divorzio. Segnala, tra le recenti innovazioni, la pedante prescrizione per il contenuto minimo del ricorso per separazione e la disciplina dei tempi di emis-sione del decreto presidenziale successivo al deposito del ricorso, che di fatto potrebbe consentire un allungamento dei tempi di fissazione dell’udienza in rapporto a quelli poi effettivamente riscontrati nei vari Tribunali, senza tralasciare il vero e proprio diritto del convenuto al deposito, presumibilmente anche senza l’ausilio di un difensore, di memorie difensive e documenti, nonché il definitivo chiarimento ad

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opera del legislatore, contenuto nell’art.707 c.p.c., della necessità, salvo rinuncia del coniuge, dell’assistenza del difensore nell’udienza presidenziale. Interessante, inoltre, l’analisi del relatore circa la pos-sibilità di reclamare l’ordinanza presidenziale e i provvedimenti del giudice istruttore (questione strettamente connessa al già analizzato cedimento della strumentalità del provvedimento cautelare rispetto giudizio di merito) e circa la competenza a decidere su detto reclamo, se cioè essa vada riconosciuta in favore del Tribunale in composizione collegiale o della Corte di Appello. Da ultimo, segnala la complessità dell’ordinanza ex art.708 c.p.c. che, oltre a dover prevedere i provve-dimenti nell’interesse dei coniugi e della prole, dovrà assegnare sia il termine necessario alla notifica dell’ordinanza stessa al coniuge non comparso che quello per l’integrazione del ricorso introduttivo con una memoria (assimilabile per contenuto alla citazione), nonché la designazione del giudice istruttore e all’avvertimento rivolto al convenuto dei termini entro cui costituirsi. Infine, osserva il relatore che l’art. 709 bis, con riferimento alla fase pendente innanzi al giu-dice istruttore, opera un espresso richiamo al giudizio a cognizione ordinaria e che solo al Presidente sarebbe funzionalmente consentita la possibilità di esperire tra i coniugi il tentativo di conciliazione.

Conclude i lavori il Prof. Franco Cipriani, Ordinario di Diritto Processuale Civile Università di Bari, il quale pone inizialmente l’attenzione su di un problema di carattere più generale, rappresentato dal fatto che nel nostro Paese la strada di accesso alla giustizia viene modificata con eccessiva frequenza. Esprime, tuttavia, un giudizio decisamente positivo sulla riforma, con un diretto riferimento allo snellimento del rito ordinario e alla relativa riduzione dell’originario alto numero delle udienze introdotto con le precedenti riforme del ’90 e ’95, pur evidenziando che alcuni passaggi del nuovo codice di rito dovranno sottostare all’intervento chiarificatore di dottrina e giurispru-denza. Riflette, il Professore, sul principio di concentrazione del pro-cesso ordinario e fa rilevare che, nel caso in cui il convenuto presenti nel corso dell’ (unica) udienza un corposo impianto difensivo, l’attore dovrà necessariamente poter contare su di un rinvio con salvezza dei diritti di prima udienza, anche se la riforma ha drasticamente ridotto

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il numero delle udienze, e ciò sulla scorta dell’insegnamento della Corte Costituzionale. La riforma del processo esecutivo, sottolinea il professore, non mancherà di scatenare la corsa ai sequestri per poter vantare il diritto di intervenire nell’ese-cuzione, e l’abolizione dell’ob-bligo di introdurre il giudizio di merito dopo la concessione del provvedimento cautelare e la nuova disciplina del reclamo, come già illustrato dal Dott. Guaglione, fanno venir meno la strumentalità del provvedimento a cognizione sommaria. In punto di separazione e divorzio, infine, il relatore concorda con la Dott.ssa Doronzo sulla indispensabili-tà dell’assistenza di un difensore per il coniuge convenuto che intenda produrre una memoria difensiva, come pure sulla reclamabilità dei provvedimenti ex art. 708 c.p.c., precisando, tuttavia, che in tale ul-tima ipotesi la competenza a decidere dovrebbe essere del Tribunale in composizione collegiale, con esclusione, tra i componenti, del giudice che ha emesso il provvedimento reclamato, anche nel caso in cui dovesse trattarsi dello stesso Presidente.

È in corso di pubblicazione il supplemento di “Quaderni” con la trascrizione delle relazioni.

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VII Consulta A.STA.F.

Brindisi, 30 settembre - 1 ottobre 2005

di MARIO RAPANÀ*

Un aspetto positivo della Associazione nazionale della stampa forense, e quindi dei numerosissimi direttori delle testate forensi e dei loro collaboratori, e sono tanti ormai gli avvocati con l’hobby del giornalismo, è di non nascondere la testa sotto la sabbia.

Vuoi sul piano giornalistico, vuoi sul piano culturale, l’Astaf ha affrontato e continua ad affrontare la realtà giuridico-forense sollecitando la responsabilità dei vertici di categoria a ricercare soluzioni possibili.

Ne sono testimonianza i contenuti delle riviste associate ma soprat-tutto i risultati positivi conseguiti dalle Consulte che ogni anno, tra settembre e ottobre, organizziamo in Italia e con le quali, in un rituale confronto tra magistrati, avvocati e giornalisti, abbiamo approfondito tematiche di interesse generale proponendo anche idee per risolver-le. Siamo giunti alla settima Consulta che celebriamo a Brindisi nei giorni 30 settembre e 1 ottobre, ospiti dell’Ordine forense presieduto dal collega Augusto Conte, convinto assertore della comunicazione a mezzo stampa e direttore di una prestigiosa rivista, I Quaderni.

Il tema è suggestivo e di grande attualità in quanto riguarda in ge-nerale le professioni e in particolare una scottante realtà, l’accesso alla professione: “Medioevo o Rinascimento nelle professioni. Accesso e… numero chiuso: ipocrisia o realismo?”.

* Presidente ASTAF.

Avv. Mario Rapanà

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L’Associazione pone all’attenzio-ne di validi relatori e di responsabili dell’avvocatura, della magistratura e del giornalismo una problematica che coinvolge tutte e tre le categorie professionali, con una provocazio-ne specifica, e cioè che cosa fare di fronte a una massa di laureati, oggi difficilmente gestibile, che intendono svolgere una di queste professioni.

Il problema riguarda in particolare l’avvocatura. Come è stato denunciato su importanti quotidiani italiani gli avvocati hanno superato il tetto di 150 mila, evidenziando quel malessere di cui livello associazionale e istitu-zionale siamo consapevoli, cioè una scarsissima preparazione e una non conoscenza di quella deontologia che sono alla base della credibilità professionale.

Il numero chiuso può essere una soluzione? L’interrogativo è stato posto in più occasioni nel corso di specifici dibattiti sul tema sia nel-l’Organismo unitario sia nel Consiglio nazionale forense e soprattutto nelle associazioni più rappresentative quali l’Anf e l’Aiga, le camere penali e civili. Ma non c’è stato il coraggio di andare fino in fondo per dare una risposta concreta. L’interrogativo certamente pone un problema di coscienza, in quanto non è semplice per chi crede nei valori assoluti propri della nostra Costituzione accettare un principio del genere. Purtroppo siamo arrivati a un punto tale che non è più possibile continuare nell’ipocrisia.

Rivoluzionare il corso di laurea in giurisprudenza e l’introduzione delle scuole di specializzazione saranno sufficienti a garantire i cit-tadini da quanti decidono di fare della professione una questione di sopravvivenza?

La VII Consulta di Brindisi deve dare una risposta concreta e fare una scelta di campo: questo è l’obiettivo dell’Astaf.

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IL PROGRAMMA DELLA VII CONSULTA

Venerdì 30 settembre 2005

Ore 11,00 Incontro direttori Testate Forensi

Ore 16,00 Indirizzi di saluto Avv. Augusto CONTE - Presidente Ordine Avvocati Brindisi Avv. Guido Alberto SCOPONI - Presidente Onorario ASTAF Dr. Vincenzo FEDELE - Presidente Tribunale Brindisi Dr. Umberto PAGANO - Presidente Corte d’App. Lecce

Ore 17, 00 Apertura Lavori Avv. Mario RAPANÀ - Presidente A.STA.F Dr. Sandro PETRONE - Giornalista RAI

Relazioni Prof. Avv. Guido ALPA - Pres. C.N.F. Dr. Fabio ROIA - Sostituto Proc. Gen. Milano Dr. Gino FALLERI - Vicepresidente Ordine Giornalisti Lazio

Ore 18,00 Interventi Programmati Dr. Lucio ASCHETTINO - D.R. “La Magistratura” Avv. Ermanno BALDASSARRE - ASTAF Avv. Leonardo CARBONE - Presidente Cam. Civile Picena Dr. Mario COFFARO - Il Messaggero Dr. Carmine DE PASCALE - Guida al Diritto Dr.ssa Claudia MORELLI - Italia Oggi Dr. Valerio FRACASSI - Pres. ANM Sez. LE Avv. Alarico MARIANI MARINI - CNF Avv. Sergio ROSSI - Ordine Avv. LT

Ore 20,00 Chiusura dei lavori

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Sabato 1 ottobre 2005

Ore 09,00 Tavola Rotonda

Moderatori: Avv. Maurizio DE TILLA - Pres. Cassa Naz. Forense Dr. Roberto MARTINELLI - Giornalista

Partecipano: Avv. Giuseppe BASSU - Segretario Naz. CNF Dott. Lorenzo DEL BOCA - Pres. C.N.O.G. Avv. Pier Giorgio LOI - Segr. Naz. A.N.F. Avv. Salvatore GRIMAUDO - Presidente U.N.C.C. Avv. Michelina GRILLO - Pres. O.U.A. Avv. Mario PAPA - Presidente AIGA Dott. Michele PARTIPILO - Presidente Ord. G. Puglia Avv. Ettore RANDAZZO - Presidente U.N.C.P. Dott. Ciro RIVIEZZO - Pres. Ass. Nazionale Magistrati Dr. Felice SALVATI - Pres. Ass. Stampa Puglia Dott. Franco SIDDI - Presidente Fed. Naz. Stampa Italiana

Hanno aderito Sen. On.le Giovanni BATTAFARANO - Pres. Com. Lav. e Prev. Sociale) Sen. Avv. Ettore BUCCIERO - Pres. Com. Spec. Infanzia e Minori Dr. Gianni FIRERA - Console in Italia per l’Albania Dr. Francesco GIORGINO - Giornalista RAI On. Avv. Luigi VITALI - Sottosegretario Ministero della Giusti-zia

Chiuderanno i lavori con le conclusioni

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XXVIII° Congresso Nazionale Forense

Milano, 10 - 13 novembre 2005Roma, 8 - 11 giugno 2006

Il Presidente del Consiglio Nazionale Forense Prof. Avv. Guido Alpa ha convocato il XXVIII° Congresso Nazionale Forense che si svolgerà in due Sessioni: la prima a Milano il 10-13 novembre 2005 e la Seconda a Roma l’8 -11 giugno 2006, con il titolo: “Amministrare la Giustizia: Gli avvocati per governare il Cambiamento”.

Nel corso della Prima Sessione sono previsti tre argomenti di dibattito:

1) La rinnovata concezione della professione forense, con sot-totemi su: accesso: numero programmato; percorsi formativi e verifica della professionalità e delle specializzazioni; organizzazione degli studi, qualità, efficienza e nuove tecnologie; quale deontologia per quale avvocato, il processo disciplinare; la professione nel confronto con l’Europa e i contesti sovranazionali; specificità della prestazione professionale e tendenze alla “mercificazione” dell’attività.

2) Tutela dei Diritti e composizione dei conflitti nel percorso di integrazione europea, con sottotemi su: la disciplina dei “servizi professionali”: concorrenza, pubblicità, tariffe, deontologia, privacy, antiriciclaggio; il processo civile; la tutela penale nel contesto sovra-nazionale; servizi al cittadino e nuovi spazi professionali: ADR, class actions, proprietà intellettuali, privacy, risanamento imprese, attività riservate; la costruzione di un nuovo comune di riferimento.

3) Settore Giustizia: crisi irreversibile? Le proposte dell’Av-vocatura, con sottotemi su: l’improduttività del sistema, le aspettative dell’utenza, analisi e proposte; ordinamento giudiziario, magistratura

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onoraria, la giustizia e il territorio, le criticità del sistema; moderniz-zazione delle strutture (tribunali, uffici giudiziari in genere, carceri) e dei procedimenti, l’utilizzo delle tecnologie; tempi della Giustizia e garanzie processuali, tentazioni di fuga dalla giurisdizione, unifica-zione e semplificazione dei riti, unicità della giurisdizione; il valore aggiunto dell’Avvocatura.

Nel corso della Seconda Sessione sono previsti quattro argomenti di dibattito:

1) Amministrazione della Giustizia: attualità della giurisdizione pubblica, bilanciamento dei poteri e modello democratico.

2) Mutamenti del contesto sociale (terrorismo, immigrazione, società multietnica) e rispetto della legalità; le risposte possibili.

3) Il ruolo sociale dell’Avvocato.4) Riassetto del settore Giustizia, e programma di legislatura.In entrambe le Sessioni i lavori congressuali avranno come argo-

menti e ordine di trattazione la determinazione degli indirizzi politici, formulazione di proposte e approvazione di progetti e mozioni sui temi congressuali; modifiche statutarie; determinazione in ordine alle risorse finanziarie per l’attuazione dei deliberati congressuali.

Al termine si svolgeranno le elezioni e la proclamazione dei Com-ponenti dell’assemblea dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura.

L’Ordine di Brindisi partecipa con sei delegati eletti dalla Assem-blea, oltre al Presidente.

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I Congressi nella storia dell’avvocatura

Il I° Consiglio Nazionale del Sindacato Fascista Avvocati

e Procuratori

Roma, 24 - 27 maggio 1932

Con l’intervento di numerosi delegati dei 124 direttori d’Italia, fu tenuto a Roma dal 24 al 27 maggio il I° Consiglio degli avvocati e procuratori fascisti, per discutere intorno al seguente ordine del giorno: a) relazione economica, conto consuntivo e bilancio preven-tivo; b) relazione morale; c) elezione del segretario del Sindacato; d) elezione di nove membri del Direttorio del Sindacato; e) elezione di tre revisori dei conti; f) discussione sui seguenti argomenti: 1. “L’av-vocato nel Regime fascista” (rel. Avv. Aldo Vecchini); 2. “La funzione dell’avvocato nell’ordinamento corporativo” (rel. On. Dino Alfieri); 3. “Il patrocinio dinanzi la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali” (rel. Avv. Mario Venditti); 4. “Gli amministratori giudiziali” (rel. Avv. Raoul Levis); 5. “Convocazione di un Congresso giuridico nazionale fascista in occasione del XIV centenario delle Pandette” (rel. Avv. prof. Gaetano Grisostomi-Marini); 6. Proposte di modificazioni dello statuto del Sindacato nazionale.

I lavori furono inaugurati da S.E. Rocco e chiusi da S.E. Bottai.Il nuovo direttorio risultò composto come segue: segr. naz. prof.

avv. G. Grisostomi-Marini; membri: on. D. Bertacchi (Piemonte), on. A. Caprino (Sardegna), senatore E. De Nicola (Campania), avv. S. Fabbri (Lombardia), on. S. Fera (Toscana), avv. A. Musatti (Ve-neto), avv. G. Orlando (Sicilia), on. F. Ungaro (Puglie), on. G. B. Madia (Calabria); revisori: avv. A. Orlandi, on. V. Pellizzari e avv. G. Tirasacchi.

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a cura di C’È SU UN TOGATO*

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto valido il “riconosci-mento di tipo olfattivo” effettuato dalla parte offesa che aveva indi-cato, come elemento utile alla identificazione dell’indagato di rapina aggravata dall’uso di armi in un supermercato, un odore nauseabondo, un forte ed originale caratteristico lezzo proveniente dal rapinatore con il quale si era trovato faccia a faccia.

La Suprema Corte si è occupata della vicenda a seguito di ricorso del P.M. avverso la decisione del Tribunale del riesame che aveva annullato l’ordinanza coercitiva emessa nei confronti dell’imputato e, successivamente, dopo il ricorso di questi avverso il provvedimento dello stesso Tribunale del riesame che aveva confermato l’originaria ordinanza applicativa della misura.

Con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso dell’imputato la Corte di Cassazione ha confermato che l’odore costituisce un elemento distintivo di valore e di significato e ha dato credito alla memorizza-zione del “fetore” del rapinatore che, peraltro, era alla sua seconda esperienza delittuosa nei confronti della stessa vittima.

Nel nostro sistema sicuramente quella olfattiva costituisce una prova atipica, ma in alcuni Paesi a particolari procedimenti di rilievo degli odori lasciati sul luogo del delitto, viene attribuito valore pro-batorio scientifico, in quanto l’odore viene riconosciuto, similmente all’olfatto umano, da una apparecchiatura elettronica.

Viene alla mente Ferdinando I°, Re delle Due Sicilie, che nel 1821 * Avvocato del Foro di Brindisi (anagramma).

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al terribile e cupo Ministro di Polizia, il Principe di Canosa, dei nobili Capece-Minutolo (notoriamente conservatore e di metodi decisi) per reprimere i carbonari e i fiancheggiatori, tra i quali intellettuali libe-raleggianti e avvocati che si preparavano a difenderli nelle aule della Vicarìa, il palazzo di Castelcapuano (quelli che il nipote Ferdinando II° nel periodo pre e rivoluzionario del 1848 chiamerà “paglietti e pennaruli”), disse, nel suo napoletano vivace come quello dei lazzari: “Canò, ora che stiamo a Napoli, tu mi hai da frapporre un muro, tale da separare i buoni dai fetenti, e non intendo per fetenti solo coloro che hanno male operato; sono fetenti quelli che già “dal fieto” dalla puzza che mandano ti sembrassero tali”.

* * *

È compatibile l’esercizio della professione forense con quella di musico di strada purchè quest’ultima attività non richiami la qualità professionale di avvocato del concertista.

È quanto ha stabilito una Corte di Appello francese annullando la decisione del Consiglio dell’Ordine di appartenenza che aveva censurato il comportamento dell’avvocato (una collega) applicandole la sanzione della sospensione di mesi sei, per avere suonato la fisar-monica nella piazza di un paese, vicino a quello di residenza, avendo a fianco una custodia di violino nella quale i passanti depositavano le offerte.

Con il ricorso l’avvocatessa aveva spiegato che i suoi erano con-certi gratuiti, senza alcun rapporto con la professione forense, e che le elargizioni costituivano apprezzamenti degli ascoltatori per gli stessi, e non gesti di mendicità lesivi dell’onore e della dignità.

Il Procuratore Generale aveva sostenuto che l’appartenenza a un ordine professionale comporta un’etica rigorosa essendo gli avvocati, come i magistrati, obbligati a osservare l’onore e la dignità del corpo giudiziario; tanto più che l’Ordine degli Avvocati è una istituzione di diritto pubblico che persegue scopi di interesse generale, e deve quindi controllare le condizioni in cui svolge la professione.

La Corte ha riconosciuto che l’esercizio della professione di av-

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vocato esclude attività pubbliche e private dalle quali possa derivare offesa alla dignità, e nello specifico quella di sollecitare la generosità del pubblico suonando musica nelle strade, dando l’impressione, per chi sia edotto sulla professione di avvocato del suonatore, che la professione forense sia poco brillante e non sufficiente ad assicurare una esistenza dignitosa e decente.

Tale giudizio arreca offesa alla professione legale che ha l’esclusiva della rappresentanza in giudizio in difesa dei cittadini.

Però, afferma la Corte, l’avvocato non indossava la toga mentre suonava sollecitando la generosità attraverso l’uso dell’astuccio di violino aperto con alcune monete all’interno; la concertista suonava la fisarmonica senza portare segni esteriori identificativi della attività forense.

In tal maniera non ha leso la dignità della professione forense e deve quindi essere assolta dagli addebiti disciplinari.

* * *

La Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata per due volte nello stesso processo per stabilire definitivamente che costituisce violenza privata, ai sensi dell’art. 610 C.P. parcheggiare in doppia fila bloccando l’autovettura del denunciante e opponendo il rifiuto all’invito alla rimozione dell’auto in sosta, costringendo la persona offesa a subire un comportamento non liberamente voluto.

Dopo l’annullamento di una precedente sentenza di assoluzione la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza di condanna dell’imputato alla pena di quindici giorni di reclusione applicata dalla Corte di Appello in sede di rinvio, ritenendo mani-festamente infondato il secondo ricorso avendo la Corte territoriale applicato correttamente il principio di diritto, enunciato in sede di annullamento della prima pronuncia assolutoria, secondo il quale il reato di violenza privata deve ritenersi integrato in base ad ogni con-dotta idonea a costituire una coazione della parte offesa, privandola della libertà di determinarsi a agire in piena autonomia.

* * *

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L’immagine del personaggio di “Ferribotte”, apprendista scassina-tore di casseforti dell’incommensurabile “maestro” Totò sottoposto a regime di sorveglianza (“Maresciallo, si lavicchia”), non può essere usata da una formazione politica a scopo di propaganda contro la fazione avversa.

Il G.U. del Tribunale di Roma ha accolto il ricorso ai sensi dell’art. 700 Cpc dell’interprete Tiberio Murgia, emanando un decreto, inaudita altera parte, poi confermato con successiva ordinanza, con il quale ha inibito la utilizzazione e la diffusione dei manifesti riproducenti il fotogramma cinematografico con l’immagine del noto attore.

Ha ritenuto il giudice che la cessione al produttore cinematografico dello sfruttamento dell’opera è limitato alla promozione e commercia-lizzazione, senza che l’attore perda il diritto alla propria immagine; e, pertanto, ai sensi della Legge 633/1941 occorre il consenso della per-sona ritratta non essendo giustificata dalla notorietà la pubblicazione quando arrechi pregiudizio alla reputazione dell’interessato (che può apparire come appartenente alla parte politica che usa l’immagine, condividendo la critica alla fazione avversa, alla quale nel manifesto viene attribuito un “audace colpo”).

Il giudice ha rilevato che il dato personale della immagine è anche tutelato dall’art. 23 del Codice della Privacy e che la pubblicazione del ritratto, essendo esclusa qualsiasi attinenza tra l’intento politico e la persona dell’attore Tiberio Murgia, richiedeva il consenso al trattamento del dato, validamente prestato, per iscritto e previa infor-mativa, in maniera libera e in riferimento a uno specifico trattamento chiaramente individuato.

Diritto senza Rovescio!

SAGGISTICA E NARRATIVA FORENSE

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SAGGISTICA E NARRATIVA FORENSE

FRANCESCO DE SANCTIS La Giovinezza

Guida Editori – Napoli giugno 1983

di AUGUSTO CONTE

Molti anni dopo, trovandomi in una libreria di fronte all’autobiogra-fia del periodo giovanile del fonda-tore della critica letteraria moderna, mi sarei ricordato dell’accorato invito del mio professore di italiano di Liceo a leggere La Giovinezza di Francesco De Sanctis, e avrei ac-quistato il volume scoprendo che al giovane di Morra Irpina alla ricerca di un avvenire si erano poste due al-ternative: la carriera forense o quella sacerdotale.

Invece le circostanze della vita lo condussero a “configurare un nuovo tipo di intellettuale, non più il paglietta, né il prete di paese, ma l’uomo di cultura attivo nel tentare modi e contenuti più efficaci di fare scuola, che non escludesse tuttavia dai propri interessi anche quello più specificamente politico di pro-porsi intermediario tra le arretrate popolazioni del Sud e un apparato statale rapidamente evolutosi da regionale a unitario”, come sintetizza Gennaro Savarese che ha curato l’edizione.

SAGGISTICA E NARRATIVA FORENSE

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De Sanctis iniziò a dettare (per problemi di vista) le memorie alla nipote Agnese nel 1881, e fino alla morte, avvenuta il 30 dicembre 1883, completò i Ricordi solo fino al 1843, quando all’età di ventisei anni (era nato il 28 maggio 1817) aveva già fondato la scuola napo-letana, sull’esempio di quella del suo Maestro il marchese Basilio Puoti, in cui si apprendeva e si discuteva, da parte di giovani che successivamente si distingueranno in ogni campo e specie in quello letterario, di lingua, di stili, di retorica, di lirica, dei generi narrativi, utilizzando le fonti letterarie fin dalle origini della lingua italiana.

Ricorda che si avviò agli studi di diritto, e siccome era troppo af-follata la scuola di don Niccola Giglio da Teano, professore di diritto all’Università e Ministro di Grazia e Giustizia sotto i Borboni, lo zio Carlo, che teneva scuola di lettere a Napoli, lo avviò con il cugino Giovannino alla scuola dell’Abbate Garzia, un vecchio frate seco-larizzato, nella quale non si tenevano “conferenze” ma si ponevano una serie di domande e risposte alle quali partecipavano tutti, solo che i più pronti, anche se ignoranti, soverchiavano gli altri allievi togliendogli la parola.

De Sanctis continuò per suo conto gli studi filosofici avendo fin da giovanissimo una “febbre di lettura che lo divorava”; e fece bene perché confessa che non fu possibile mettersi in capo la procedura; la lettura delle massime e sentenze dei Digesti gli servì più che altro per rinvigorire la conoscenza del latino; meglio andò con lo studio del Codice Civile.

Verso il termine degli studi legali, per le necessità economiche della famiglia, e per la fortuita assenza di un maestro, iniziò l’insegnamento, cominciando dalla Storia Sacra: fu l’inizio della scoperta della sua vocazione dal quale partì la realizzazione della scuola.

Il cugino Giovannino De Sanctis passò a far pratica presso un av-vocato “commerciale”, divenendo poi magistrato a Lucera, dove morì; mentre “Ciccillo che tomo tomo fa il suo cammino”, come dicevano in famiglia, cominciò la sua carriera continuando a frequentare come “Eletto” la scuola di Basilio Puoti; “ma tutta la giornata era spesa a spiegare grammatiche e rettoriche e autori latini e greci, a dettar temi…”, anche se nutriva un po’ di gelosia per il cugino che s’era

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avviato per il foro. Fare il maestro di scuola a De Sanctis “sonava cosa miserabile nella mente piena di Demostene e di Cicerone, e sognavo trionfi con la toga addosso, come antico romano”: infatti siccome al primo piano dell’immobile che andò ad occupare l’amico Enrico Amante, dopo che il cugino Giovannino rimase presso una parente, abitava Luigi Isernia, avvocato amico di casa Puoti, pensava ancora “di poter fare la pratica forense, giacchè quel grillo non m’era ancora uscito di capo”.

E infatti cominciò la pratica presso l’avvocato don Luigi Isernia il quale dopo avergli fatto capire che da lui non avrebbe mai neppure ricavato “tre calli” (la dodicesima parte di un grano) lo presentò a un avvocato famoso e danaroso, tale don Domenico che abitava in via Costantinopoli, del quale all’epoca della dettatura della biografia De Sanctis non avrebbe più ricordato il cognome.

Recatosi presso di lui fece un’impaziente anticamera di circa tre ore; finalmente sbucò da una stanza il “signor” Domenico con “bocca ridente” e “splendore di orologio e catenella” che gli disse di andare allo Studio, perché il suo giovane gli avrebbe detto quello che dove-va fare, voltandogli subito le spalle. Il giovane di Studio gli indicò alcune carte da copiare; “Ciccillo”, abituato a discettare nelle scuole letterarie e a competere e primeggiare tra fior di professori, abbassò il capo e copiò; ma ritenendosi qualcosa di grosso, poco meno che un Cicerone in erba, uscì invelenito, commentando fra sé: “E questo vuol dire fare l’avvocato? Non ne voglio più sapere”. “E feci il giu-ramento di Annibale, e non vidi più né processi, né tribunali. Toltami così questa fisima dell’avvocheria , i miei studi di lettere presero un nuovo sapore, e mi ci strinsi di più, come a naturali compagni per tutta la mia vita. Raccontai il fatto al marchese Puoti, che ne rise assai, e mi volle dimostrare ch’io era nato professore”.

Ma non si liberò degli avvocati, come per Tommaso Maria Ja-danza del quale, spinto da alcuni amici che gli volevano procurare una moglie, cominciò a frequentare la casa per corteggiare la figlia Caterina “dottora” di storia greca e romana, tutta suo padre, “perciò un po’ bruttina”.

L’avvocato Jadanza passava tutto il giorno in Tribunale a far liti

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“il più spesso per conto proprio. Passava per uomo ricco, ma viveva con modestia e quasi con trascuratezza”.

De Sanctis quasi si convinse, a torto, spinto dagli amici, di essere innamorato di Caterina; don Tommaso, coadiuvato dalla moglie, cercava di invogliarlo a nozze fino al punto che per allettarlo gli mise sotto il naso una carta in cui erano riportati tutti i feudi di famiglia; il marchese Puoti, al quale “Ciccillo” mostrò la carta sospettosamente gli disse: “Adagio! Fosse una canzone, ce ne intenderemmo tu ed io; ma è roba d’avvocati e potrebb’essere una canzonatura, e saremmo canzonati tu ed io”. Il Puoti chiese quindi consiglio al fratello Giam-marco, alto magistrato e uomo retto, il quale chiamato dopo qualche giorno Francesco De Sanctis gli disse: “Sentite, don Francesco, non so se vi farà piacere o vi spiacerà, ma la verità è una, e come uomo di coscienza ve la debbo dire. Tutte queste possessioni sono come i ca-stelli di Spagna, che talora ci vengon in sogno. Qualcosa c’è in questa carta, ma niente è liquido, niente corre liscio; qui c’è un semenzaio di liti perpetue, che non ne vedranno la fine i figli dei figli, come dice il vostro Tasso. Don Tommaso ci gavazza dentro e ci s’imbrodola, perché nato fra le liti, e ci ha un gusto matto. Ma voi, caro don Francesco, col vostro Tasso e col vostro Dante, cosa vorrete farne di tutta questa roba litigiosa? Finirete che gli avvocati si mangeranno tutto e vorranno il resto. Dunque lasciate stare, non è cosa per voi”. Nel restituirgli la carta aggiunse: “Se poi amate quella creatura, l’è un altro affare; ma non c’entro più io. Però, se il vostro cuore dice di sì, meglio pigliarla sola, che in compagnia di tutte queste liti”.

De Sanctis non ci dice come andarono a finire le cause di don Tommaso, che insistette nel dire che la lite è cosa ottima che consente grandi guadagni, apparendo a “Ciccillo” come un “paglietta imbro-glione”; racconta, invece che per non sembrare scortese non di colpo, ma a poco a poco, si allontanò da Caterina, che non amava.

L’autobiografia non va oltre il 1843 e quindi non sappiamo dalla viva voce di De Sanctis ciò che veramente avvenne quella mattinata napoletana del 15 maggio 1848 dalle parti del Mercatello quando “un giovanottone baffuto e colorito, da buon provinciale di montagna”, con una mantellina a quadri (come ce lo descrive Campolieti ne “Il

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Re Bomba”, pagg. 317 sgg.), letterato di finissimo gusto e non un po-litico, essendo maniacalmente attratto solo da fatti letterari, trentenne, destinato a diventare dopo l’Unità d’Italia Ministro della Pubblica Istruzione (anche se Petruccelli della Gattina, descritto come perso-naggio linguacciuto, dirà di lui: “De Sanctis sa di politica quanto gli uscieri della Camera”), capitato in mezzo agli antiborbonici, rimediò arresti, esilio e carcere in Castel dell’Ovo.

Nella autobiografia non vi è cenno di atteggiamenti liberaleggianti o sovversivi nella sua scuola; vi sono solo alcuni sfumati “passaggi” allorquando parlando della venerazione per Giacomo Leopardi (che aveva conosciuto quando il poeta aveva fatto visita alla Scuola di Basilio Puoti) detta alla nipote: “Le canzoni patriottiche ci parevano miracoli di genio, ci aggiungevamo i nostri sottintesi”; potendo questi ultimi riferirsi a idee libertarie e unitarie. E, a proposito delle letture di autori che si facevano nella scuola di Puoti, di alcuni riferisce che “erano autori scomunicati e infrancescati che pur si leggevano, ma in gran segreto, come si fa dei libri proibiti. Non è che non trovasse a ridire sopra altri autori meno sospetti…” per cui si può pensare che in qualche modo nella scuola elementi rivoluzionari si insinuassero e che discussioni “politiche” connesse a spunti letterati ve ne fossero, specie per le letture di contenuto sociale (come quelle di Victor Hugo).

Ma De Sanctis dichiara la paura della polizia, come racconta a pro-posito della convocazione che gli fu fatta a seguito della denuncia di un commissario che occupava l’appartamento sottostante alla scuola, nella quale a un certo punto, sulla spinta di un nuovo allievo greco, invalse l’uso di fare anche danza, anche se “Ciccillo” era tutto d’un pezzo e non aveva grazia e la sua aria di professore non si conciliava con il valzer saltante; la polizia gli chiese il permesso della scuola e la laurea, che non aveva.

L’amministratore del padrone di casa intervenne componendo la questione.

De Sanctis si seppe comunque adattare alla detenzione in celle sospese sul mare, impegnando il tempo ad apprendere il tedesco, al punto che, secondo il suo costume di maniaco delle letture, studiò Hegel e gli Hegeliani, riassunse la logica del filosofo Heideberg, tradusse i due volumi di Storia Generale della Poesia di Rosenkranz

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e pagine del Faust.E secondo Benedetto Croce trovava il tempo per prendere in giro

(la parola usata dal filosofo è un’altra!) i carcerieri sottoponendogli l’indovinello “Sempre vince, sempre vince / e, perdendo, vince an-cor…”; i carcerieri si disperavano alla ricerca della soluzione che non potevano per la loro ignoranza trovare: De Sanctis trionfante svelava la soluzione “la libertà” ridendo con aria di superiorità e lasciando a noi la convinzione che i principi liberali erano parte integrante della sua enciclopedica cultura filosofica e letteraria che gli consentì di

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I sentimenti della memoria dei Colleghi scomparsi, con il trascor-rere del tempo diventano dolorosi e struggenti, ma la rassegnazione li rende più appassionati e teneri.

Così è per l’Avv. Antonio Urso che ci ha lasciati da quasi quattro anni, dopo avere esercitato per circa trenta anni la professione a Ceglie Messapica.

Tonino, come preferiva essere chiamato, avendo svolto attività lavorativa era giunto poco più tardi alla laurea; quel 3 dicembre 1966, siccome svolgevo la pratica a Bari, assistetti alla seduta di laurea. La maggiore maturità e consapevolezza dei compiti che gli venivano dalle esperienze di lavoro gli consen-tirono, in breve tempo, di immettersi nell’esercizio attivo, avendo ottenuto il patrocinio dinanzi alle Preture fin dal dicembre 1966, data della iscrizione nel Registro dei Praticanti (come era previsto dall’Ordinamento Professionale all’epoca vigente) e di svolgere la pratica in modo da superare, alla prima sessione utile, l’esame di Stato; e, quindi, si iscrisse all’albo dei Procuratori (secondo la distinzione dell’epoca) presso l’Ordine Forense di Brindisi il 2 aprile 1976, (per poi passare all’Albo degli Avvocati il 13 maggio 1976); Presidente

Antonio Ursodi AUGUSTO CONTE

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dell’Ordine Forense era l’Avv. Armando Attolini e del Tribunale, dinanzi al quale prestò il giuramento per l’immissione nelle funzioni, il dott. Angelo Asciano.

Antonio Urso nell’esercizio della professione applicava, per affrontare e risolvere le questioni a lui affidate, “il senso pratico del diritto”, come egli stesso era solito dire, adeguando le regole al bisogni di concretezza e utilità che gli prospettava le gente che a lui si rivolgeva.

Le sue caratteristiche di affabilità e senso di umanità nei rapporti con il popolo di Ceglie lo condussero ad assumere cariche elettive nelle pubbliche amministrazioni, e per un certo periodo rivestì anche le funzioni di Vice-Sindaco della Città.

Tonino amava le lunghe conversazioni, tra amici e con i Colleghi, che una ventina di anni addietro si svolgevano immancabilmente nella piazza principale del paese, dove convergevano quasi tutti gli Studi professionali (una decina appena), anche per la vicinanza con la Pretura (e l’Ufficio di conciliazione), sede principale degli affari giudiziari dell’epoca, civili e penali.

Perduta quella consuetudine per l’assenza di un centro degli affari, per il crescente numero degli avvocati, per la decentrazione degli Studi legali e delle sedi giudiziarie, le “conversazioni” erano più sporadiche e avvenivano in occasione di incontri professionali negli Studi.

Tutti quanti percepivamo che con il mutamento dei tempi, cam-biavano i “costumi”, il modo di vivere, e anche quello di operare di noi avvocati che a quell’epoca non avevamo i codici deontologici di guida al “come” svolgere la professione, venendo i comportamenti tramandati attraverso la pratica e l’esercizio attivo della professione, nel solco della tradizione forense.

Ma Tonino continuava a trarre piacere dal conversare, rimanendo compiaciuto e soddisfatto, per quello che dava e riceveva, costituen-do per lui un modo istintivo di comunicare e “stare” con gli altri, e componente essenziale della sua persona.