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130 Rassegna bibliografica
Relazioni internazionali
AA. VV., Politica internazionale, a cura diL. Bonanate, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. XVII-488, lire 20.000.
Le più diverse impostazioni potevano adottarsi in un’opera che, bene o male, tende a proporsi come punto di riferimento per chi voglia accostarsi alla problematica della politica internazionale. Luigi Bonanate, uno dei maggiori artefici della diffusione in Italia delle categorie interpretative della politicai Science americana nel campo delle relazioni internazionali, ha, in quanto curatore del volume, operato una scelta diretta a conciliare i due principali « tagli » di accostamento esistenti, quello storiografico « tradizionale » (pur con tutte le diversità esistenti tra le diverse scuole e autori) e quello politologico-internazionalistico di marca statunitense : secondo l’espressa intenzione del curatore (p. 8) in tal modo il volume assume la funzione di elemento di passaggio da una tradizione culturale consolidata ad una ben più giovane impostazione di ricerca. Date le premesse, ci si potrebbe aspettare che una forte dualità caratterizzasse tutta la pubblicazione, formata da ventidue saggi diversi. Non è proprio così, ché l’aspetto metodologico innovativo nell’accezione sopra sottolineata viene confinato fin dall’inizio nei soli cinque saggi redatti da Bonanate, e poi appare davvero prevalente nel lavoro, sia pure centrale, dedicato al Sistema internazionale. Tale ampio scritto è ricco di notazioni interessanti ma — non diversamente dall’impostazione politologica americana nel settore internazionalistico, da cui prende le mosse e mutua molte posizioni — non ci pare riesca a proporre un metodo di accostamento alla problematica internazionale superiore agli approcci tradizionali. Il ricorso a ipotesi e modelli generalizzanti e ad una « logica sistematica » non appare in grado di superare la frammentarietà delle singole azioni politiche : se ciò dipenda dall’ancora giovane età dell’impostazione in esame della disciplina, o se invece sia la stessa pretesa ad essere velleitaria, non può essere discusso in questa sede. Limitiamoci ad osservare come il nuovo tipo di accostamento si lasci a volte prendere la mano da discutibili intenti sistematici, al punto da rischiare o inutili fumisterie o scoperte dell’acqua calda. I criteri di spiegazione adottati a volte
appaiono altresì evanescenti. Bonanate ad es. spiega (p. 360) il successo della creazione di un regime socialista a Cuba, diversamente da quanto poi capitò in Cile, sostenendo che il primo caso si rivelò compatibile con il sistema internazionale nel 1959, mentre il secondo non lo fu nel 1973: di fronte a un’affermazione simile, non accompagnata da altre indicazioni, come sottrarsi all’impressione che il desiderio di verificare empiricamente le sistematizzazioni operate abbia finito per far scambiare semplici constatazioni per spiegazioni? Più oltre (p. 362) Bonanate precisa il suo pensiero affermando che in Cile Unidad Popular non ha avuto « la forza per scardinare il governo internazionale », ma ciò rimanda a sua volta ad altri interrogativi sul perché quello non abbia potuto avvenire, e così si ricade in un approccio non sostanzialmente diverso da quello tradizionale di far la storia delle relazioni internazionali, basato sui rapporti di potenza... Troppo severa appare quindi la condanna della storia diplomatica, in parte pur rinnovatasi negli ultimi decenni; piuttosto deludente, inoltre, si rivela l’analisi del rapporto politica estera/politica interna, forse perché anche su tale tema l’analisi politologica non ha ancora raggiunto alcun accordo (p. 373); ecc.Le proprie qualità di studioso Bonanate meglio le rivela negli altri saggi dell’opera. In quello su Strategia fa seguire ad una rilettura di Clausewitz — le cui osservazioni teoriche e metodologiche egli considera ancora fondamentali — l’illustrazione dei successivi sviluppi militari, fino a prendere in considerazione la geopolitica e le teorie sulla guerra di guerriglia. Nelle brevi monografie, in buona misura collegate tra loro, su Disarmo, Guerra fredda e Questione atomica, Bonanate in modo brillante ed equilibrato fornisce di ciascuna questione un quadro sia descrittivo sia interpretativo: particolarmente interessante è l’illustrazione dell’evoluzione della storiografìa sulla guerra fredda, fenomeno del quale l’A., conformemente alle proprie opzioni metodologiche, tende a sottolineare l’inevitabilità « strutturale » nel sistema internazionale creatosi nel 1945.Gli scritti degli altri autori hanno un’impostazione storiografica per lo più tradizionale e fanno il punto ciascuno su un’importante questione. Enzo Collotti rivisita il Congresso di Berlino (1878) richiamando l’attenzione non soltanto sulla tradizionale prospettiva diplomatica (di cui, ci pare, egli
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pur finisca per sposare le principali acquisizioni) bensì sull’uso politico che Bismarck ne fece ai fini della politica interna tedesca (l’azione antirussa e invece filoaustriaca favorì ad es. il riavvicinamento dei cattolici al governo) e pure sui suoi effetti economici successivi (penetrazione delle ferrovie a capitale anche tedesco nel bacino danubiano- balcanico). Dall’episodio del Congresso Collotti trae inoltre lo spunto per una discussione del significato dell’esperienza bismar- ckiana nella storia tedesca, analisi che viene realizzata attraverso l’esame di alcune opere recenti della storiografia delle due Germanie. L’ampliamento del’ tema ai fattori « non-diplomatici » della politica estera e l’allargamento della prospettiva alla più ampia vicenda tedesca dei secoli XIX e XX sono comunque costretti in un arco di pagine troppo esiguo per permettere di formulare su tali questioni un giudizio inoppugnabile: certo indicano un terreno su cui sarebbe auspicabile in Italia si lavorasse di più.Opera ancora di Collotti è la monografia sulla Seconda guerra mondiale, che si presenta come un attento riesame delle fonti edite diplomatiche e militari, della memorialistica, e dell’evoluzione di una storiografia fortemente influenzata dalla disequilibrata disponibilità delle fonti oltre che da molti altri elementi. Particolarmente stimolante appare l’illustrazione della storiografia « revisionista » statunitense, la quale prende le mosse dagli esiti della guerra fredda. In tale ambito sarebbe stato forse opportuno soffermarsi, oltre che sulla problematica dei « cedimenti » di Roosevelt verso l’URSS negli anni del conflitto, anche sulle discusse responsabilità deH’amministrazione americana riguardo alla determinazione bellica del Giappone. Altresì, pur senza sottovalutare i problemi di spazio tipografico presentati dall’elevata messe di questioni connesse alla seconda guerra mondiale, sarebbe stato utile dedicare più di un breve cenno alla diversa « qualità » ideologica — con tutte le implicazioni pratiche che comportò — che il conflitto ebbe dal 1939 al ’41, prima cioè dell’attacco tedesco all’URSS.Varie categorie interpretative, da quella puramente diplomatica a quella legata alla problematica dell’imperialismo sono impiegate da E. Apih, con molto equilibrio, per delineare efficacemente le caratteristiche e le tappe della Questione balcanica. D. Ardia riprende il tema già trattato da Apih e da Collotti nel saggio sul Congresso di
Berlino, e lo estende ai territori asiatici e nordafricani dell’impero ottomano: la sintesi, accanto alla tradizionale messa a fuoco del tema, ricorre utilmente anche alla categoria della modernizzazione per lumeggiare alcuni aspetti della Questione d’Orien- te. Connesso in parte al precedente saggio per quanto riguarda la discussione della continuità delle vicende nell’area dall’800 ad oggi è il lavoro di G. Valahrega su Vicino Oriente-, pregevole è la disamina delle tendenze storiografiche attuali al riguardo (euro-americane e arabe, nelle loro diverse correnti) e, anche per la pacatezza con cui viene esposto, apprezzabile è lo sforzo di mettere in evidenza i condizionamenti dell’accostamento occidentale (questione su cui è invece facile esagerare) allo studio di temi nei quali molto alto è spesso il coinvolgimento affettivo, ideologico, ecc. Sempre collegato al Medio Oriente è lo scritto sul Petrolio, opera di G. Luciani, il quale illustra la questione dal punto di vista sia tecnologico sia diplomatico-politico. Il saggio, che ha un’impostazione problematica, sottolinea molti interrogativi e i vuoti della storiografia e pubblicistica sul tema; peccato si limiti esclusivamente all’area araba del petrolio, mentre anche altre regioni del mondo dovevano essere prese in considerazione (non è da dimenticare infatti, per fare un solo es., che il Venezuela è stato a lungo uno dei maggiori produttori mondiali, e che ebbe pure un ruolo decisivo nella creazione dell’OPEC nel 1960). R. Monteleone, autore della voce Imperialismo, più ampia delle altre, ha adottato un taglio soprattutto descrittivo : tale impostazionepare avergli preso a volte la mano, ché il saggio, pur interessante, non ha quell’incisività che forse sarebbe stata necessaria per cercare di definire un fenomeno certo esistente ma tanto difficilmente isolabile; lo scritto rischia a più riprese di trasformarsi in una storia generale degli ultimi cento anni, con tutte le problematiche che in essa confluiscono. Un esame più specifico del fenomeno, specie in rapporto alla storiografia, si trova in Colonialismo: la questione, di G. Calchi Novati, e in Colonialismo: recenti sviluppi del dibattito, di A.M. Gentili. Poiché gran parte della stessa problematica e della medesima letteratura è affrontata da entrambi gli autori, non avrebbe guastato una certa coordinazione tra i due scritti; la rassegna delle tesi esistenti sul tema è comunque pregevole, e Calchi Novati sottolinea l’esigenza di continuare a
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ricercare spiegazioni unificatrici del fenomeno coloniale. Spiace un po’ che l’analisi si rivolga per lo più all’Africa negli anni classici del colonialismo, e trascuri quindi sia altri espansionismi coevi (russo, giapponese, ecc.) sia una discussione del fenomeno negli anni successivi (piuttosto esigui sono i riferimenti agli esperimenti, viceversa interessanti, tentati da Francia, Olanda, Portogallo ecc. nel secondo dopoguerra). Simile rimpianto suscita anche il saggio di A. Agnelli su Questione nazionale: l’autore tratta il tema con il rigore e l’ampiezza culturale già evidenziate nei suoi scritti maggiori, ma come già in quelli prende in considerazione soltanto la problematica dell’Europa centrale fino alla prima guerra mondiale. Peccato che non giunga ad abbordare le caratteristiche della questione nazionale in Europa negli anni successivi, o magari quelle incandescenti della stessa oggi, fuori del continente europeo. Tale problematica manca pressoché del tutto nell’opera, e anche nel saggio in cui poteva eventualmente rispuntare — Conflitto cinosovietico, di E. Collotti Pischel — risulta assente: letto in tale ottica, risulta anzi sorprendente che l’autrice applichi il termine « ribellione » alla insurrezione tibetana del 1959. La voce in questione prende comunque soprattutto in esame il tema dal punto di vista della lotta ideologica, e le rimangono estranee molte altre implicazioni del termine nelle interpretazioni date allo stesso da sovietici, statunitensi e cinesi; l’interessante disamina si ferma purtroppo di fatto intorno alla metà degli anni ’60, dato il limitato spazio concesso agli ultimi sviluppi internazionali.Il tema della Prima guerra mondiale è affidato allo storico britannico A.J.P. Taylor, il quale riprende necessariamente molte delle conclusioni già esposte nel proprio volume sull’Europa delle grandi potenze : il noto storico, portata a termine la sintesi critica delle varie questioni, indica come siano ancora aperti molti problemi, tra cui quello, tanto dibattuto, delle origini del conflitto. Di altrettanto prestigio, è l’autore del saggio sul Congresso di Vienna, J.B. Duroselle. Ad una parte descrittiva, che concede ampi squarci alle vicende napoleoniche, egli fa seguire una parte problematica dedicata ai temi oggetti di dibattito tra gli storici e i politici. Se l’indicazione dell’autore è che uno dei pochi temi su cui appare ancora possibile indagare è il ruolo giocato dai problemi economici nei lavori del Con
gresso, una delle note più positive del saggio rimane altresì quella di richiamare l’attenzione — unico in tutta l’opera in esame — sull’importanza del « materiale umano » nella politica internazionale, cioè sulla figura degli statisti.Infine, completano il volume i saggi dedicati rispettivamente alla I, II e III Internazionale: opera di A. Arru, F. Andreucci,M. Flores, tali monografie ben illustrano il tema ma si esauriscono tutte in una « storia interna » alle vicende del movimento operaio e socialista che ha ben poco a che vedere con la politica internazionale, e del tutto oscuro rimane il « salto di qualità » — pur avvertito da Bonanate nell’/n- troduzione (p. 4) — compiuto con l’entrata sulla scena politica delle masse. Se nei suddetti saggi manca il legame tra tema specifico e la più generale vicenda politica internazionale, un’analoga impressione suscita per lo più il volume nel suo complesso : ogni singola voce appare utile, ma l’opera non costituisce — né del resto, secondo il curatore, voleva esserlo (v. p. 8) ■—- un valido strumento per introdursi nel campo in oggetto.
ALDO ALBÒNICO
H. JAMES b u rg w y n , Il revisionismo fascista. La sfida di Mussolini alle grandi potenze nei Balcani e sul Danubio 1925-1933, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 298, lire 10.000.
Viene pubblicato direttamente in Italia un lavoro nato come tesi di dottorato negli Stati Uniti e poi ampliato e rivisto. L’opera si presenta come un approfondito studio della politica estera fascista verso l’area danubiano-balcanica nel periodo che va dal trattato di Locamo alla vigilia dell’insediamento di Hitler al potere. Le complesse vicende del periodo sono seguite con attenzione, e un’analisi serrata abbraccia la mutevole azione mussoliniana verso l’Austria, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia e gli altri paesi dell’area, spesso anche in rapporto alla politica francese e britannica. Costruito per lo più sulle fonti diplomatiche edite, il lavoro tende a svilupparsi nell’ambito delle cancellerie; per quanto riguarda l’impostazione di fondo, essa non si discosta da un generico orientamento antifascista, e le oscillazioni di Mussolini e la sua sopravvalutazione delle possibilità italiane nel gioco della politica internazionale sono ampiamente sottolineate e stigmatizzate dall’A. Meno
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condivisibile è la sicurezza con cui Burg- wyn liquida come non consona agli interessi italiani la generale tendenza ad interessarsi dell’area sudorientale europea, mentre lo stesso non rivolge alcuna critica alla Francia per un’analoga politica e tende anzi costantemente a sottovalutare il ruolo della diplomazia di Parigi all’interno della Piccola Intesa. Da rilevare altresì la tendenza dell’A. a sovrastimare l’importanza ideologica quale movente della condotta di Mussolini: su questo punto e in generale sul valore del « revisionismo » il volume avrebbe forse potuto giovarsi di un più attento confronto con parte della storiografia recente sul tema (R. De Felice, G. Rumi ecc.), mentre per quanto riguarda l’illustrazione degli avvenimenti un maggior impiego della pubblicistica coeva, italiana e dei paesi in oggetto, avrebbe aperto l’opera a panorami politici, ideologici ed economici ben più ampi. Nonostante i rilievi suddetti, il lavoro nel complesso si segnala sempre come interessante e vari elementi di novità presentano alcuni capitoli (massime quello dedicato alla ricostruzione degli aiuti mus- soliniani ai movimenti irredentisti balcanici e specie ai terroristi macedoni). Nella ben curata traduzione italiana a volte stona qualche incongruenza (Mussolini premier, p. 23; partito « agrario » bulgaro al posto di partito contadino, così che si ha « agrari con simpatie comuniste », p. 101; ecc.).
ALDO ALBÒNICO
jer zy w. b o r e js z a , Il fascismo e l’Europa orientale. Dalla propaganda all’aggressione, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 306, lire18.000.
È un segno positivo che l’editoria italiana abbia curato in due anni, tra il 1979 e quello in corso, la pubblicazione del libro di Burgwyn sul revisionismo fascista nell’area balcanica e ora lo studio del polacco Borejsza. Le due opere, oltre all’apporto che possono dare alla stentata produzione italiana sui nostri rapporti in età contemporanea con l’Europa orientale vanno tenuti sotto gli occhi in opportuna coincidenza con l’uscita del recente nuovo volume del Mussolini di R. De Felice: destinato anche, e sperabilmente, a riaprire un più fruttuoso dibattito sulla politica estera dell’Italia fascista. Lo studio di Borejsza, basato su un ampio materiale documentario (molti gli apporti di prima mano) e sul relativo esauriente corredo di letteratura, non si limita ad ana
lizzare il rapporto propaganda fascista ita- liana-nascita e sviluppi di movimenti fascisti e regimi autoritari nell’Europa orientale. L’autore, attraverso la considerazione degli specifici strumenti di persuasione/consenso esportati da Roma oltre frontiera, vuol dare un’interpretazione complessiva della spinta espansionista italiana in quella parte d’Europa. Viene poi stabilito un confronto con l’intervento concorrenziale nazista.Non sottovalutiamo certamente le limitazioni di varia natura che oppongono gli archivi (specialmente quelli italiani): il giudizio di più lungo periodo offre il vantaggio di aiutarci a superare i limiti di settorialità e di astrazione insiti nello studio delle « propagande ». Eppure avremmo preferito un taglio monografico che approfondisse tutta una serie di elementi conoscitivi in ordine a problemi e situazioni. Ad esempio, sulla stampa di varia periodicità (contenuti tematici, gruppi redazionali, indici di diffusione) e sull’uso e gli obiettivi dei nuovi media, come nel caso dei cicli oratori radiofonici o della presenza della cinematografia italiana nei vari paesi (non legata necessariamente alle ragioni più immediate di partito). Così avremmo desiderato una più ricca articolazione di alcune realtà regionali (quelle pure riuscite in abbozzo dei paesi baltici, della Polonia, della Bulgaria). Del resto l’autore è consapevole della necessità che altri lavori esaminino compiutamente gli strumenti di penetrazione dei fascismi « e- sportati » e di quelli autoctoni.Spesso — per l’arco prescelto della periodiz- zazione, forse, e per la disparità dei materiali presi in esame — l’esposizione di B. risulta disorganica. Nemmeno ci convincono le « proposte di analisi tipologica » sul fascismo che l’autore avanza. Inevitabilmente, nell’economia di un lavoro come questo, colpisce la genericità di osservazioni quali « la forza di attrazione del fascismo risiede nella sua propoganda economica e sociale, comunque demagogica » (p. 33). Oppure, a spiegare sempre quella « forza d’attrazione » : « Non bisogna neppure ignorare la forza d’urto che ebbero la sia pur temporanea scomparsa della disoccupazione, la diffusione dell’istruzione, l’intrapresa di lavori pubblici, la bonifica delle paludi, la fondazione di nuove città » (p. 23). Contraddittorio il giudizio accolto sulla « moderazione » di Grandi dal momento che si riconoscono poi le premesse e gli effetti pratici delle posizioni assunte e dei servizi resi al fascismo e a Mussolini da
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un ministro degli Esteri tutt’altro che alternativo (e qui ci sembrano pienamente convincenti gli elementi conoscitivi e i giudizi offerti da Burgwyn sulla diplomazia di Grandi).Oltre ai dati specifici di ricerca destinati allo studioso, il libro invita comunque un pubblico più vasto ad una conoscenza non superficiale dell’assieme del fenomeno fascistico in tanta parte d’Europa. Immaginiamo che il lettore italiano farà autentiche scoperte seguendo l’autore nei meandri delle destre europee (si pensi a quel filo nero antisemita che va dall’Austria alla Grecia, per citare due paesi tanto diversi. Oppure alle varie « dittature dei re », alle tormentate vicende romene, fino al lontano ambiente politico finlandese).Il giudizio di B. diviene tanto più calzante quando la ricostruzione stabilita dall’autore tiene concretamente conto dell’assunto : « il fascismo educò la destra europea a tenere in maggior conto gli umori delle masse... esso fece conoscere nuovi metodi di lotta e nuove tecniche di colpi di stato » (p. 261). Ci pare esauriente e particolarmente utile la parte che prende in esame l’attività dei fasci all’estero (con alcuni notevoli apporti documentari) e quella dedicata ai Caur. La figurina a tutto tondo che ne esce di Co- selschi, avventuriero minore che attraverso i suoi traffici e i suoi misfatti approda indenne sulle sponde dell’Italia repubblicana, induce ad una considerazione più precisa. Il moltiplicarsi, cioè, di canali paralleli nella propaganda fascista all’estero — quella grande « agitazione » (fa bene l’autore a mettere almeno in dubbio 1’« estraneità » vantata del personale agli Esteri da tante spazzature!) che pare muoversi a vuoto — mostra anche la debolezza complessiva di una trama, ma mette soprattutto in rilievo la funzione mediatrice che lo stato-regime italiano viene ad assumere tra gruppi privati, corporazioni di interessi, istanze di partito. È una connotazione ancora una volta « moderna » del fascismo che merita di essere rilevata anche sul versante della propaganda.
TEODORO SALA
David k . f ie l d h o u s e , Politica ed economia del colonialismo. 1870-1945, Bari, Laterza, 1980, pp. 217, lire 4.500.
L’autore di questo saggio, uno fra i più noti studiosi di storia del colonialismo, è
conosciuto al lettore italiano soprattutto per il suo Economics and Empire. 1830-1914, tradotto col titolo L’età dell’imperialismo. 1830-1914 (Bari, Laterza, 1975). Il notevole contributo di conoscenze offertoci dalla sua produzione storiografica è stato quasi sempre affiancato da una critica della concezione marxista dell’imperialismo, a cui egli ha spesso opposto una visione che potremmo definire « pragmatica », che sollecitava a guardare ai « fatti » storici che vanno sotto la voce di « età dell’imperialismo » senza essere condizionati da troppo rigidi schemi teorici. E sebbene nella sua produzione più recente vi fosse stata una « rivalutazione » dell’aspetto economico dell’imperialismo, questo si configurava come un mero « fattore » addizionale, giustapposto ad altri « fattori » che nell’insieme e nel loro reciproco intrecciarsi costituiscono la complessità della storia. Non a caso egli sembrava condividere l’opinione di Popper secondo cui « dalla storia non si può ricavare alcuna generalizzazione su cui basare utilmente le azioni future » (cfr. m . ba rr a tt b r o w n , L’economia dell'imperialismo, Bari 1977, p. 7). A quali eccessi questa concezione possa condurre è dimostrato dal nuovo denso saggio tradotto per Laterza dove, come già in opere precedenti e come lo stesso autore ammette, la nozione di imperialismo è utilizzata in modo relativamente ristretto, per indicare « la dinamica della formazione degli imperi coloniali » (p. 8).L’A. afferma di voler porre in discussione « tre preconcetti », ossia che esistessero « alternative concrete all’epoca in cui il processo coloniale si andava verificando, preferibili a questo [...] che gli aspetti negativi di cui ci si lamenta fossero, da parte degli imperialisti intenzionali e... infine che i suoi effetti fossero in ogni caso deplorevoli » (p. 13). Per raggiungere questo risultato egli prende in rassegna quelli che a suo parere sono i « prò » e i « contro » del colonialismo giugendo alla conclusione salomonica che esso « non merita né le lodi né le critiche che gli sono state fatte », poiché « anche se fece relativamente poco per sconfiggere le cause della povertà 'nelle colonie, non le rese neppure povere per la prima volta » (p. 195). Il colonialismo fu, a parere dell’A., uno sviluppo in gran parte « accidentale » e in nessun modo può essere considerato responsabile del « sottosviluppo » delle colonie, le cui cause profonde vanno invece ricercate nella loro « intrinseca povertà ».
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Gli argomenti addotti dall’A. a sostegno di questa tesi appaiono assai deboli e poco persuasiva è la netta separazione ch’egli opera nel testo fra aspetti « politici » — intesi soprattutto in senso giuridico-ammini- strativo —- e aspetti « economici », la quale più che dettata da esigenze analitiche riflette una precisa concezione. È sufficiente fare qualche esempio per dare un’idea del modo di procedere dell’A. nel suo ragionamento. Egli ammette, per es., che « prima del 1945 le potenze coloniali non compirono alcun passo per incoraggiare l’industrializzazione in nessuno dei loro possedimenti e che sotto vari aspetti la loro politica economica la scoraggiava » (p. 172), ma aggiunge subito dopo, quasi ad equilibrare la compromettente ammissione, « che d’altra parte, nessun governo imperiale si spinse tanto oltre da proibire addirittura... la creazione di industrie nelle colonie» (p. 172): come se le politiche economiche adottate dalle metropoli non ottenessero nella sostanza gli stessi effetti di una esplicita proibizione! Per FA., invece, questa assenza di sviluppo industriale fu dovuta alla « mancanza di talento imprenditoriale » degli indigeni, alla « scarsità di capitali a lungo termine » (ma non era questo un effetto della politica coloniale delle metropoli?) e così via. Analogamente, mentre egli conferma che le potenze coloniali sono state « troppo inclini a incentivare la coltivazione di prodotti utili per le economie metropolitane » facendo sì che ne risultasse quello che « i marxisti chiamano sviluppo non uniforme » (p. 171), sottolinea subito dopo come «resta... aperta la questione se qualsiasi altro tipo di sviluppo economico... avrebbe potuto risolvere i problemi economici di queste regioni intrinsecamente povere » (p. 171), volendo suggerire non solo che non potevano esistere alternative al colonialismo ma che, soprattutto, esso fu il male minore.La rassegna dei « pro » e dei « contro », quasi tutti così concepiti, potrebbe continuare a lungo. Ma al di là delle argomentazioni specifiche è l’intero modo di procedere che sembra ispirarsi ad una concezione per la quale la storia non è da comprendere criticamente nella sua intima unità enei suo i sv ilu p p i ed effe tti, m a sem plice- m en te d a « a ssu m ere » in se ste ssa in fo rm a a v a lu ta tiv a , q u asi co n g erie d i fa tti, d i « f a t to r i », leg a ti t r a lo ro in m o d o spesso acc id en ta le , c h e sfugge ad og n i c o m p re n
sione ra z io n a le . AnGEL0 Montenegro
Gia m p ie r o ca rocci, L’età dell’imperialismo, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 326, lire5.000.
Se si studiasse la fortuna della nozione di « imperialismo » in Italia, l’elemento che salterebbe maggiormente agli occhi sarebbe probabilmente lo squilibrio tra la forte ideologizzazione e la superficiale disinvoltura con cui se ne fa uso, da una parte, e la povertà della produzione storiografica relativa al periodo storico indicato come « età dell’imperialismo », dall’altra. Sintomatico di questo squilibrio è la mancanza in Italia di opere d’insieme paragonabili a quelle prodotte all’estero, alle quali si è quasi sempre dovuto ricorrere.Basterebbe questa considerazione a farci apprezzare il tentativo di uno storico d’ispirazione marxista come Carocci di affrontare l’intero periodo storico in un volume di ampia sintesi, che vuole essere una verifica di assunti metodologici maturati nel corso di un’esperineza di studio ormai più che decennale, attraverso un confronto critico, largo e spregiudicato, con la migliore letteratura intemazionale prodotta sull’argomento. Del resto la bibliografia pubblicata in appendice al volume, che ha i caratteri di un vero e proprio saggio bibliografico, dà la misura dell’ampiezza dell’informazione, da cui egli sa trarre gli elementi essenziali, utilizzandoli secondo un ordine logico e cronologico ben meditato. Facendo proprie le considerazioni svolte da uno studioso non marxista come Fieldhou- se, l’A. sottolinea come il cosiddetto « fattore economico » vada considerato più che come « causa immediata » dell’imperialismo, come un « prerequisito », inteso « nel senso che la sua presenza favorisce l’imperialismo » (p. 8). Politica ed economia sono troppo inestricabilmente intrecciate per stabilire a priori un ordine gerarchico di « fattori » cui ricondurre i complessi fenomeni storici. Ugualmente unilaterale — sostiene ancora FA. — sarebbe poi voler ridurre l’imperialismo a pura politica estera, poiché questa è sempre legata « oltre che alla situazione internazionale, a quella interna... dei singoli stati e paesi » (p. 9). È anzi proprio l’intreccio di economia, società, politica e cultura sempre « più funzionale all’imperialismo... sempre più causa e conseguenza di questo» (p. 11), a conferire all’età dell’imperialismo un carattere « epocale » ben distinto. Su questa base l’A. ribadisce la periodizzazione 1870-1914. E sebbene egli
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sottolinei l’importanza concettuale della distinzione fra imperialismo formale, inteso come conquista territoriale, e imperialismo informale, concepito come mera penetrazione economica, ne mette in evidenza anche i pericoli intrinseci, come quello di confondere 1’« età deH’imperialismo » propriamente detta con gli anni dell’espansione commerciale inglese, sviluppatasi in un contesto di libera concorrenza prima del 1870. Carocci riconosce bensì in questa politica le « origini lontane », « il quadro generale che rende possibile, o quanto meno facilita grandemente, l’imperialismo» (p. 11), ma respinge la tendenza di alcuni studiosi a retrodatare di oltre un cinquantennio gli inizi dell’« età dell’imperialismo ».Dalla traduzione di questi assunti metodo- logici in ricostruzione viva, in ricerca di nessi e relazioni fra politica estera e politica interna, fra economia, politica e società, emerge una visione d’insieme misurata e persuasiva. Questa sarebbe stata forse rafforzata da una considerazione più approfondita del ruolo svolto dalle « ideologie » e dalla « cultura » dell’imperialismo. È questo l’aspetto che sembra meno integrato nella ricostruzione generale (sintomatico che in relazione all’imperialismo tedesco non sia mai menzionato Treitschke). Non è spiegato, ad esempio, perché 1’« opinione pubblica » venga assumendo per la prima volta in questi anni importanza decisiva come elemento di pressione sui governi in direzione di un’espansione territoriale e quali furono le conseguenze che il fattore « consenso » ebbe sulle scelte politiche e sulla formazione e diffusione di ideologie espansionistiche.L’osservazione tuttavia rimane marginale rispetto al quadro generale presentatoci, con il quale l’A. dimostra una sicura padronanza dei problemi ed equilibrio di giudizio, non senza aperture problematiche e indicazioni di lacune, con il sopporto di uno stile asciutto e serrato che è una delle caratteristiche di tutti i suoi scritti.
ANGELO MONTENEGRO
Fra nc esc o su r d ic h , Esplorazioni geografiche e sviluppo del capitalismo nell’età della rivoluzione industriale. I. Fasi e caratteristiche dell’espansione coloniale. II. Espansione coloniale e organizzazione del consenso, Firenze, La Nuova Italia, 1980, lire 8.000.
Con questi due volumi la sezione Geografia
della collana Strumenti, diretta da Massimo Quaini, giunge alla tredicesima pubblicazione. Entrambi articolati in Introduzione, Bibliografia, Fonti, Scritti di storici, cercano di tradurre in forma concreta uno degli scopi principali di questa sezione, che vorrebbe offrire « strumenti di lavoro non solo per la ricerca ma anche in funzione di una nuova didattica comprensiva di tutte le iniziative di scolarizzazione ».Nella sua ampia introduzione l’A. tende a individuare la causa prima, strutturale del colonialismo nel crescente bisogno di espansione economica e commerciale provocato dalla cosiddetta « rivoluzione industriale », sviluppatasi in modo impetuoso nei principali paesi europei nella seconda metà del secolo XIX. Derivò principalmente da questo bisogno la spinta che condusse le grandi potenze ad ingaggiare una lotta violenta per l’accaparramento dei territori lasciati fino a quel momento « liberi » in Asia e in Africa. Una delle espressioni più tipiche di questa corsa alle colonie fu rappresentata dal- l’intensificarsi delle attività d’esplorazione di cui furono protagonisti missionari, militari, geografi e avventurieri d’ogni risma, sotto gli auspici di diverse organizzazioni colo- nialiste e con il sostegno finanziario degli stati interessati.Questa interpretazione economica del nesso fra « rivoluzione industriale » e colonialismo si riflette particolarmente nella scelta delle fonti presentate, consistenti in massima parte di scritti di protagonisti dell’espansione coloniale, nei quali è posta in luce « l’esplicita consapevolezza... dello stretto legame esistente tra esigenze dell’economia capitalistica di quegli anni e l’ondata di iniziative espansionistiche che la caratterizzarono » (v. I, p. 6). Questo taglio conduce talvolta l’A. a stabilire relazioni un po’ troppo meccaniche tra economia e colonialismo e a sottovalutare altri aspetti di questo fenomeno, sebbene egli non neghi in linea di principio l’importanza dei fattori di « natura eticopolitica, psicologica, ideologica, ecc. ».Molto opportuna ci sembra la scelta di dedicare il secondo volume al tema dell’organizzazione del consenso, che fu uno degli aspetti più nuovi e rilevanti del moderno colonialismo e che rivelò l’importanza crescente che l’opinione pubblica venne acquistando come elemento di condizionamento delle scelte politiche dei governi europei. Derivò soprattutto da questa consapevolezza la nascita in quegli stessi anni delle Società geografiche, degli Istituti coloniali e dei
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Congressi geografici internazionali, che insieme concorsero attivamente alla elaborazione e diffusione di motivazioni « scientifiche » e « umanitarie » delle conquiste territoriali, cercando di giustificarne gli aspetti più truci.
ANGELO MONTENEGRO
Gian Gia c o m o m ig o n e , Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell'egemonia americana in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980, lire 13.000.
Alcuni anni fa, lo storico americano J.P. Diggins ci aveva dato nel saggio tradotto per l’editore Laterza, L’America, Mussolini e il fascismo, uno squarcio assai interessante degli atteggiamenti dell’opinione pubblica, della classe dirigente e della diplomazia americana verso raffermarsi e il consolidarsi del fascismo. Con altre opere dello stesso tenore, apparse in Italia e in America, lo studio del Diggins lasciava nel lettore una certa insoddisfazione sia per il taglio prevalentemente giornalistico che lo sostiene, sia per la vaghezza di un preciso quadro di riferimento in cui collocare le vicende dei rapporti Stati Uniti-fascismo. Con il denso e puntuale saggio di Migone, articolato in quattro capitoli dedicati rispettivamente a Gli Stati Uniti e l’avvento del fascismo in Italia, La politica economica degli Stati Uniti nei confronti dell’Italia, Gli Stati Uniti di fronte alla grande crisi, Roosevelt e l’Italia fascista, dalla conferenza economica di Londra alla guerra d’Etiopia (1933-1936), e preceduto da un’ampia introduzione su Le origini dell’egemonia americana in Europa, la questione dei rapporti Stati Uniti-fascismo si disancora, per così dire, dall’immediata incoerenza e dai diversi interessi e valutazioni che possono riflettersi nel giudizio giornalistico, e si sostanzia di una coerente linea politica di intervento economico-finanziario perseguita dagli Stati Uniti nei confronti dell’Italia fascista.E non si tratta, si badi bene, di una linea di intervento economico-finanziario aprioristicamente presupposta e scontata, trattandosi di esaminare rapporti tra paesi capitalistici di diverso rilievo e peso economico in campo europeo e mondiale; ma di una linea induttivamente ricavata dalla miriade di documenti diplomatici, economici, finanziari che l’autore ha potuto consultare nei loro naturali istituti. All’autore va pertanto
riconosciuta una non comune capacità di analisi e di lettura del documento, unita ad una logica stringente e sempre controllata nel ridurre ad una coerente visione la complessa e articolata questione dei rapporti tra Stati Uniti e fascismo.Ma pare evidente che se il risultato della ricerca di Migone è quello di aver mostrato, al di là di differenziazioni e contrasti che pur ci sono nella classe dirigente americana circa i modi e i tempi di intervento in Italia, coerenza di propositi e continuità di intenti prima insospettati della politica estera americana verso l’Italia fascista da parte delle diverse amministrazioni, repubblicane o democratiche; la politica americana di intervento economico-finanziario ha un obiettivo più ampio e più vasto, sia spaziale che temporale : l’Italia rappresenta un « caso » del generale fenomeno delle origini dell’egemonia americana in Europa, le cui prime manifestazioni si hanno appunto all’indomani della prima guerra mondiale di fronte ad un’Europa sconvolta dal caos monetario e da problemi di ordine economico e sociale.Per la prima volta nella storia, l’America si presenta all’Europa come grande nazione creditrice, un apparato produttivo cresciuto enormemente sia quantitativamente che qualitativamente, un reddito interno in continua espansione, ceti economici e classe dirigente preoccupati di mantenere attivi vecchi mercati e di assicurarsene di nuovi perché timorosi del prodursi di una divaricazione tra offerta e domanda. Un capitalismo dunque che, avendo sperimentato durante la guerra quanto possa giovargli l’uso dello stato per la regolamentazione dell’anarchia economica e per reprimere le rivendicazioni operaie, affida la propria capacità espansiva alla forza economica, indipendentemente dal tipo di regime che veniva a sostenere o a favorire. Ed è una forza economica che per espandersi e affermarsi ha bisogno di pace e di ordine, di stabilità sociale e di garanzie nello spostamento dei propri capitali.Queste condizioni corrispondenti all’esigenza del capitalismo americano di espandersi in Europa, anch’essa bisognosa di ordine e di stabilità di fronte all’onda rivoluzionaria bolscevica, meglio di altri regimi le offre il fascismo, e in particolare quello italiano i cui rapporti, per un lungo tratto di tempo, subiranno scarse e non sostanziali incrinature. Anzi agli occhi dei capitalisti e della classe dirigente americana, esso rappresenta
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il regime ideale da esportare in altri stati onde permettere una facile- e indolore penetrazione della propria forza economica. All’interno di questo quadro, dominato dal ruolo nuovo, di dominio e di egemonia, che il capitalismo americano intende esercitare, e dalla esigenza dell’Europa di utilizzare capitali freschi per la propria ricostruzione, avviene rincontro tra Stati Uniti e fascismo. Al di là di quelle che sono le complesse e tortuose vicende della diversa impostazione della soluzione dei debiti e delle riparazioni di guerra che si intrecciano tra gli Stati europei fra i quali la Germania doveva rappresentare il perno della ripresa europea voluta dal capitale americano, merita qui di venir segnalato il tipo e il modo del rapporto che si istituisce tra Stati Uniti e fascismo. Privilegiando, in attesa che l’intera Europa ritorni alla pace e all’ordine, il fascismo italiano come terreno ideale della propria penetrazione, il capitalismo americano impone all’Italia un vero e proprio rapporto di dipendenza: il riconoscimento all’Italia della capacità contributiva in relazione al pagamento del debito di guerra e il conseguente controllo, da parte americana, dei limiti entro i quali essa può aggirarsi, ne sono l’esplicazione più concreta e trasparente. Un altro fatto può essere ancora addotto: la Banca Morgan, vera domi- natrice del mercato finanziario americano, è non solo la mutuante esclusiva che blocca ogni tentativo di ricerca di altri possibili finanziatori per l’Italia, ma anche la consigliera, ascoltata e onnipresente, non solo su questioni strettamente finanziarie, ma anche su un più ampio ventaglio di rapporti: da quelli diplomatici a quelli dei contatti e relazioni con l’opinione pubblica americana. Ma rapporto di dipendenza non significa subordinazione completa alla direttiva americana: Mussolini, col suo fiuto animalesco, intuisce l’intento pacificatore del capitalismo americano, ne sfrutta gli obiettivi di stabilizzazione a fini interni, economici (stabilizzazione della lira) e politici (prestigio del regime derivante dall’inserimento dell’Italia nel mercato americano). Ma direi che Mussolini intuisce qualcosa di più di Volpi e di Beneduce a proposito del disegno egemonico del capitale americano in Europa: in discussione, per lui, non è questo disegno, che viene accettato; ma la cautela e la titubanza con le quali la classe dirigente americana cerca di attuarlo. Di qui la porta che Mussolini si lascia sempre aperta, cioè la possibilità di scegliersi l’al
leato o di cambiarlo a seconda delle opportunità politiche. D’altra parte ancora la crisi del ’29, come ha rilevato G. Kolko, non ha prodotto l’ossessiva paura che yn evento di tal fatta non debba mai più prodursi per l’economia americana, né il mercato finanziario e monetario inglese è in via di liquidazione e né gli istituti di governo del capitale sono dominati interamente dagli americani, come avverrà, invece, nel secondo dopoguerra.Sarà infatti l’esperienza degli anni Trenta, la « liquidazione » dell’esperienza roosevel- iiana, in particolar modo la tendenza a frantumare questioni di politica economica interna e internazionale, a imprimere al capitalismo americano una capacità aggressiva e una abilità di manovra degli istituti finanziari e monetari internazionali tuttora sconosciute, perseguendo il disegno dell’egemonia europea e, per certi versi, mondiale del capitale. Su questo complesso e attuale problema del mondo contemporaneo il saggio di Migone, del quale molte parti siamo stati costretti a tralasciare, ha richiamato opportunamente l’attenzione con una analisi quanto mai precisa e puntuale.
GIAMPAOLO PISU
claudia d a m ia n i, Mussolini e gli Stati Uniti 1922-1935, Bologna, Cappelli, 1980, lire 7.500.Lo studio della Damiani, studio che si inserisce in tutto un filone di ricerche intraprese da storici italiani e stranieri e dirette a cogliere la consistenza dell’appoggio americano al fascismo, cerca di toccare, come precisa l’autrice, tutti gli aspetti dei rapporti fra Roma e Washington sul piano diplomatico, politico, economico e sociale. 11 lavoro, come si dice ancora, trascura l’interscambio culturale fra i due paesi, in quell’epoca peraltro relativamente modesto, a parere della Damiani, ed è basato sulla consultazione diretta di documenti diplomatici e politici, anche inediti, sia italiani che statunitensi e britannici, e sulla lettura di buona parte della storiografia esistente in materia, nonché della stampa dell’epoca.Il compito che la Damiani si è preposta non è dei più semplici o di facile attuazione perché, su una serie di interrogativi che i rapporti Stati Uniti-fascismo pongono agli studiosi e che la stessa Damiani non manca di rimarcare (appoggio del capitale americano al fascismo, impresa di Corfù e atteg
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giamento americano, delitto Matteotti e questione dei rapporti tra Stato italiano e la Sinclair Oil Company, cattolici americani e Concordato, economia « fascista » e New Deal), le risposte della storiografia sono ancora allo stato fluido e punti di ancoraggio sicuro tardano ancora a venire. Così, tanto per fare un esempio, non mi pare si possa tranquillamente affermare, come fa la Damiani, in tema di rapporti economici tra i due paesi, che : « In effetti, il sistema corporativo, ancorché negazione di ogni libertà democratica (con le leggi sul lavoro dell’aprile ’26 e la Carta del Lavoro del 1927 era lo Stato a manovrare i salari ed era stato soppresso ogni diritto sia di sciopero che di serrata) e di ogni principio del libero mercato (erano le corporazioni a stabilire i costi di produzione e i prezzi di vendita) aveva consentito all’Italia di uscire dalla crisi economica mondiale assai più rapidamente che non agli Stati Uniti »; oppure che, all’indomani del ’29, cessata ogni sudditanza, implicita o esplicita di Roma nei confronti di Washington, « sotto alcuni aspetti sembrava quasi che una funzione di leadership fosse stata assunta dall’Italia, cui gli Stati Uniti si erano, pure con alcune differenze fondamentali, in parte ispirati per il loro programma di rilancio economico » (p. 259).Problemi di questa portata comportano indagini più accurate e punti di .riferimento più precisi per ciò che concerne la nuova dinamica che il capitalismo americano sperimenta all’indomani del ’29, che non mi pare la Damiani tenga sufficientemente presente. Ma, a parte questi rilievi che non toccano la consistenza e l’utilità del lavoro per il contributo che dà al chiarimento degli interrogativi prima posti, la Damiani procede con piglio svelto e felice a delineare le vicende dei rapporti tra i due Stati tra il 1922 e il 1935.In particolare viene dato rilievo all’incontro dell’ambasciatore Child e Mussolini che rivela il peso attribuito al capitale americano, dal duce, per la sua funzione di stabilizzazione politica che avrebbe svolto in Italia e per l’inserimento di quello italiano nel mercato internazionale, monetario e finanziario. E ancora il rilievo che lo stesso Mussolini dava alla stampa, per l’immagine pacifista e restauratrice .di antichi valori che il fascismo cercava di costruirsi tra gli americani e la colonia italiana, al vasto territorio americano, per la questione della ripresa dell’emigrazione italiana.
Su questo aspetto dei rapporti tra i due Stati e su quello della politica estera fascista, la Damiani ,si sofferma con la dovuta attenzione. Per il primo aspetto, l’autrice, dopo aver preso in esame le leggi americane sull’emigrazione e averne messo in rilievo gli aspetti discriminatori verso quella italiana e le gravi ripercussioni sulla bilancia dei pagamenti, avanza l’ipotesi che esse segnarono una svolta nella politica emigratoria del regime da « far presumere che nel Johnson Act trovi, se non i suoi presupposti, quanto meno una formale giustificazione il successivo espansionismo fascista ».Per il secondo aspetto, quello della politica estera, il quadro che ci si prospetta è abbastanza mosso e articolato, anche se in tutto l’arco di tempo considerato, non si rinviene una reale presa di posizione di rottura o di denuncia da parte americana: dall’impresa di Corfù, alla questione del petrolio albanese, al primo e vero proprio esperimento di provocazione bellica di uno Stato dittatoriale nei confronti degli Stati democratici, quale in realtà è stata la guerra d’Etiopia, l’America è attenta a non forzare i rapporti di amicizia con l’Italia e a mostrare una particolare benevolenza verso gli « estrosi atti » della politica estera fascista, il che, se probabilmente è accettabile quanto scrive la Damiani che da parte degli Stati Uniti non ci sia stato un aperto appoggio al fascismo in quanto tale, pone non irrilevanti problemi, come ha notato Migo- ne, sui limiti dell’ideologia e del regime democratico americano.Altri punti che meritano di venir segnalati, nel quadro della politica internazionale delineata dalla Damiani, sono la vicenda dei debiti e delle riparazioni di guerra dalla quale si ricava, oltre alla diversa impostazione che Mussolini e Grandi davano alla questione (connessione o meno tra debiti e riparazioni), la probabile insistenza di Grandi per guadagnare l’appoggio americano in funzione dell’espansionismo fascista giustificato con riferimenti alla politica immigratoria degli Stati Uniti; le considerazioni sui rapporti tra finanza americana e riva- lutazione della lira, al quale proprio l’autrice ritiene azzardato affermare che questa si ispirasse unicamente ai « desiderata » di Wall Street, anche se, al limite, non può escludere un condizionamento sull’Italia da parte della politica di stabilizzazione monetaria internazionale patrocinata da Washington; e infine alcune brevi note sulla « fac
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cenda » Sacco e Vanzetti, sulla propaganda filofascista in America e sul New Deal di Roosevelt e il modello corporativo: e sono brevi note che completano opportunamente il quadro dei rapporti tra Italia e Stati Uniti che la Damiani ci ha dato.
GIAMPAOLO PISU
Mario m a r g io c c o , Stati Uniti e PCI, Roma- Bari, Laterza, 1981, pp. 314, lire 20.000.
« Per spiegare la nostra ossessione con il comuniSmo e in particolare, oggi, con P “aggressione comunista in Asia”, dobbiamo risalire, credo, a una caratteristica radicata e sempre presente nel pensiero americano: la convinzione che il Vecchio Mondo è corrotto e che il Nuovo è puro... L’idea di una cospirazione comunista internazionale, che gran parte degli americani non hanno abbandonato, si incastra a meraviglia in questo schema di perfidia del Vecchio Mondo e di virtù del Nuovo. E così vi si adatta benissimo la nostra abitudine di coprire con un manto di moralità le guerre che facciamo. Abbiamo la tendenza, forse più che non la maggioranza dei popoli, a trasformare le nostre guerre in crociata. La guerra contro il Messico rientrava nella mistica del Destino Manifesto. La guerra ispano-americana era una crociata per liberare Cuba dalla tirannide spagnola. La prima guerra mondiale fu per noi una crociata: la democrazia doveva trionfare, senza più minacce alla sua esistenza, nel mondo intero. La seconda guerra mondiale poi aveva per noi obiettivi morali più evidenti, credo, che non qualsiasi altra guerra dell’epoca moderna. E la nostra partecipazione adesso al conflitto vietnamita è sempre più rivestita dal manto della moralità; si tratta, semplicemente, di una guerra per fermare l’aggressione comunista. E, con una razionalizzazione perfetta, proprio questo obiettivo di bloccare l’aggressione comunista fornisce ed esaurisce l’“interesse vitale” che noi abbiamo in quella zona: a guardare bene infatti il nostro interesse vitale non è altro che quello di fermare il comuniSmo ». Questa lunga citazione, che è parte di una testimonianza del decano degli storici americani di scuola liberale, Henry Steele Com- mager, resa davanti alla Commissione esteri del Senato il 27 febbraio 1967, sui mutamenti dell’atteggiamento americano sulla politica estera, può benissimo fare da guida per intendere i motivi di fondo che sono
stati, e ancora lo sono, alla base dei rapporti tra Stati Uniti e Pei. Nell’esame di questi, ora ricostruiti pazientemente dal saggio in questione a partire dal 1943 fino al 1981, con una particolare attenzione agli anni del centro sinistra, giova sottolineare infatti, a parere di Margiocco, l’immagine che del comunismo si viene costruendo nella mentalità americana, una volta tramontata la grande alleanza antifascista. Il comunismo come negazione radicale dei valori della democrazia americana e più ampiamente della civiltà liberale, è immagine che prende consistenza nella coscienza americana a partire dal 1917 e persiste, pur con diverse e a volte anche sostanziali sfumature dettate da avvenimenti contingenti, da allora fino ai nostri giorni. Se così è, dunque, parlare dei rapporti tra Stati Uniti e Pei, vuol dire parlare del modo come gli americani hanno visto il Pei, quasi una storia dell’anticomunismo americano visto attraverso il caso italiano, e descrivere quali mutamenti ci sono stati o meno nell’arco
.di questi ultimi quarant’anni.Margiocco, che ha studiato e insegnato negli Stati Uniti ed ha potuto attingere a documenti finora da altri non utilizzati rivelandoci episodi del tutto sconosciuti, quali la tentata invasione dell’Albania da parte di un grosso commando di cinquecento fuorusciti albanesi organizzati dalla Cia per rovesciare il regime di Enver Hoxha o la precauzione presa dal Pei, in piena guerra coreana, di mettere in salvo i suoi massimi dirigenti con un aereo da turismo che avrebbe dovuto pilotare Giulio Seniga, in caso di gravi misure restrittive della libertà, ci dà di questo anticomunismo un quadro quanto mai vivace e persuasivo. Agli occhi dell'opinione pubblica americana, della diplomazia e della Cia, il Pei non è un partito legittimo italiano, ma un gruppo legato a interessi di una potenza straniera. In quanto tale, ad esso va applicata la politica generale che vale per l’Unione Sovietica e per il movimento comunista internazionale, cioè quella del « contenimento » dell’espansionismo sovietico prima e poi quella del roll back, della cacciata indietro delle orde sovietiche e del comunismo internazionale. Naturalmente una teorizzazione così drastica della politica estera americana, se non voleva, a lungo andare, assumere toni viscerali e cristallizzarsi in pure formule propagandistiche, divenire cioè una politica puramente difensiva e statica, doveva trovare in partiti politici italiani''gli strumenti
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dinamici che traducessero in atti concreti la politica riformatrice portata avanti dal Pei. La De prima e il centro sinistra dopo si rivelano impari a questo compito, dando segno, specialmente la prima, di una concezione puramente privatistica del potere, mentre il Pei si consolida a livello di amministrazioni locali e di organi centrali dello stato. Il tentativo di spostare il corpo elettorale del Pei verso la « democrazia » non riesce, anzi questo aumenta sempre più. Il che impone, pur essendo l’Italia nell’ottica americana la parte periferica dell’impero, una riconsiderazione del Pei in quanto tale e della politica finora seguita nei suoi confronti.Naturalmente alla base di questa nuova attenzione per il Pei, non c’è solamente il perdurare e l’aumentare della sua forza organizzativa e politica, ma una serie di mutamenti decisivi in campo europeo e mondiale: dalla sconfitta militare americana nel Vietnam, al Cile di Allende, ai mutamenti di regime in Spagna, Portogallo, Grecia, alla crisi dei rapporti tra Cina e Russia e all’emergere di una nuova impostazione dei rapporti tra partiti comunisti e Unione Sovietica, e infine alle elezioni italiane del ’75 e del ’76, sono una serie di fatti che mettono fine al vecchio anticomunismo, alla crociata contro il Pei e danno luogo ad un interesse per la sua storia e per la sua ramificazione nella società italiana da parte, in modo particolare, delle sfere intellettuali e di organismi quali il Dipartimento di Stato e la Cia.Ma apertura al dialogo, all’incontro, tra esponenti politici o intellettuali americani e studiosi e rappresentanti comunisti italiani in sedi e in occasioni diverse, non significa riconoscimento della legittimità del Pei all’ingresso nel governo del paese: su questo punto c’è una sostanziale coerenza tra le diverse articolazioni della politica estera seguita dall’amministrazione americana da Kennedy a Carter. La formula di Kissinger — non interferenza, non ingerenza, non indifferenza —; o quella di Carter — aspettare, vedere — pur facendo trasparire che il problema dei comunisti al governo era problema interno alle forze politiche italiane, anche se gli Stati Uniti non potevano disinteressarsene, nascondeva sempre la riserva che, prima che quel fatto dovesse sciaguratamente verificarsi, si dovessero rivitalizzare in tutti i modi le forze moderate e dichiaratamente anticomuniste. L’anticomunismo restava, e resta, a parere dell’au
tore, elemento costante della politica americana verso il Pei. Il che ci pare, pur con le dovute differenziazioni avvenute nella politica americana verso il Pei e che Mar- giocco ha puntualmente esaminato e messo in luce, giudizio da condividere. Così come ci pare di poter condividere l’ironia dell’autore verso la risonanza che il dirigente comunista è pronto a dare del suo viaggio nell’America di Colombo (al ritorno o scrive articoli o il diario che immancabilmente pubblica o il libro) e il rimprovero e la scarsa cautela nel commento e nella lettura dei discorsi presidenziali o di altri responsabili della politica estera americana circa la presunta « apertura » verso il Pei al governo.
GIAMPAOLO PISU
L. sh o u p -w . m in t e r , Imperiai Brain Trust. The Council on Foreign Relations and United States Foreign Policy, Monthly Re- view Press, New York and London, 1977.
Dopo la prima guerra mondiale, la complessità dei problemi internazionali che le delegazioni di tutti gli stati partecipanti alla Conferenza della pace furono chiamate a risolvere contribuì a far avvertire con forza l’insufficienza di personale specializzato e l’inadeguatezza di conoscenze in tutte le delegazioni degli stati rappresentati, comprese quelle americana e inglese, pur considerate le più « attrezzate » per risolvere tali problemi. Fu proprio all’interno di queste ultime due delegazioni che maturò l’idea di fondare istituti specializzati nello studio delle relazioni internazionali che, operando col governo, potessero svolgere un’opera di sensibilizzazione e informazione dell’« opinione pubblica » su tali questioni. Fu così che nacquero istituti per lo studio delle relazioni internazionali come l’inglese Royal In- stitute of International Affairs e l’americano Council on Foreign Relations. Sulla scia di questi due istituti furono successivamente intraprese analoghe iniziative in altri paesi europei ed extra-europei. Quale sia stato il ruolo di queste istituizoni nella formazione delle scelte di politica estera dei governi dei rispettivi paesi, quale il contributo da essi offerto nello stimolare lo studio delle relazioni internazionali, da chi fossero diretti e quale influenza reale essi abbiano avuto sulla formazione dell’« opinione pubblica », sono problemi generalmente esclusi dalla considerazione della storiografia, che
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muovendosi in questo campo sul solco tracciato dalla tradizionale « storia diplomatica », ha trascurato di indagare sui nessi tra politica interna e politica estera, non accordando che una scarsissima attenzione ai meccanismi di formazione delle scelte di politica estera.Per queste ragioni ci sembra tanto più meritevole di segnalazione un volume come quello di L. Shoup-W. Minter, definito non senza un pizzico di compiaciuta esagerazione nella premessa di W. Domhoff, « uno dei più importanti lavori della sociologia storica marxista... sul capitalismo degli Stati Uniti nel x x secolo » dal ’68 ad oggi (p. v ii). Argomento del volume è infatti l’influenza esercitata dal Counc.il on Foreign Relations sulla formazione della politica estera americana. Nonostante l’impossibilità di utilizzare le carte dell’archivio del Council, gli autori, basandosi su una estesa letteratura, un largo numero di archivi privati e documenti inediti conservati presso i National Archives di Washington, sono riusciti a ricostruire puntualmente le relazioni tra il Council, che conserva ancora oggi lo status di istituto privato, e i vari governi americani dai tempi di F.D. Roosevelt ad oggi, ottenendo risultati di grande interesse e imprescindibili per chiunque voglia occuparsi di politica estera americana.Dopo aver tracciato brevemente la storia del Council, gli autori ne analizzano la composizione sociale, sottolineando il prevalere in esso dei maggiori rappresentanti dell’oligarchia finanziaria di New York. La prima rilevante iniziativa sulla quale esso si impegnò, in stretta collaborazione col Dipartimento di stato, fu l’elaborazione del War and Peace Studies Project, che prese avvio già nel settembre del 1939 e che doveva servire inizialmente a stabilire le misure che il governo doveva adottare per far fronte alla nuova situazione creatasi con lo scoppio della guerra. Con questo progetto, condotto da vari gruppi di studio non senza l'apporto finanziario delle più importani Foundations americane, furono tracciate le linee di una strategia globale di intervento entro cui furono attuate le scelte più significative di politica estera in guerra e nel dopoguerra: dalla partecipazione al conflitto degli Stati Uniti alla sistemazione del problema tedesco, dalla crisi di Cuba alla politica condotta nel sud-est asiatico. In tutti questi decisivi eventi le iniziative adottate dai vari governi hanno coinciso, nella linea seguita, con il tipo di
orientamenti prevalsi nel Council, i quali, non a caso, avevano sempre preceduto, espressi in forma di relazioni redatte da gruppi di studio o di articoli pubblicati sulla autorevole « Foreign Affaire », tali iniziative. Gli autori documentano altresì il peso decisivo avuto nelle varie amministrazioni, chiamate a intervenire su problemi di grande rilievo internazionale, di personaggi che, mentre ricoprivano alte cariche governative, figuravano come membri attivi e altolocati del Council, legati direttamente o indirettamente a quella oligarchia finanziaria e multinazionale personificata dall’attuale presidente dell’istituto americano, David Rocke- feller, presidente della Chase Manhattan Bank. Quando sul finire degli anni sessanta, si cominciò a prendere atto che l’ordine mondiale così come era stato concepito nel « War and Peace Studies Project » era entrato irreversibilmente in crisi, si sentì il bisogno di studiare approfonditamente le trasformazioni intervenute nel sistema di rapporti internazionali per poter programmare una politica di lungo periodo che servisse da punto di riferimento per i successivi decenni. Ed è appunto questa la funzione attribuita a qudllo che è stato chiamato il « Progetto ’80 », frutto di un vasto lavoro di ricerca, non ancora concluso, di diversi gruppi di studio organizzati entro il Council col compito di definire le caratteristiche di un nuovo ordine mondiale e del ruolo che in esso sarà chiamata a svolgere la potenza americana.Lo sforzo di documentare come il Council non sia che il rappresentante della parte più « internazionalista » del capitalismo americano e il canale attraverso cui « i settori più importanti della classe dominante » hanno parte preponderante nella formazione della politica estera americana (p. 278), induce gli autori a privilegiare il problema del rapporto tra Council e governo e a relegare ai margini la problematica relativa all’influenza del potente istituto americano sul versante dell’« opinione pubblica » e dell’organizzazione del consenso. Questo approccio svolto secondo criteri sociologici e intenti militanti (p. X), se giova a rendere più efficace e stringente la tesi sostenuta, conduce gli autori a sottovalutare eccessivamente le differenziazioni interne, ideologiche e politiche, tra i vari gruppi di intellettuali, i quali, pur operando nell’ambito del Council, hanno spesso vistosamente manifestato opinioni contrastanti sulla stessa rivista dell’Istituto « Foreign Affaire ». Il volume ha
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tuttavia il merito di avvicinarsi al problema della politica estera americana attraverso una via assai diversa da quelle tradizionalmente percorse: una via della cui fecondità i risultati conseguiti rappresentano una istruttiva testimonianza.
ANGELO MONTENEGRO
Wil l ia m a p p l e m a n W il l ia m s , Le frontiere dell’impero americano. La cultura dell’espansione nella politica statunitense, Bari, De Donato, 1978, pp. 310, lire 4.200.
Il volume raccoglie cinque saggi scritti da Williams tra il 1952 e il 1969 e pubblicati su riviste di dibattito politico-culturale di assai diverso orientamento (dalla democratica « The Nation » all’anarco-libertaria « Liberation », da « The American Socia- list » a « Science and Society », dalla neoradicale « Studies on thè Left » all’immancabile « Monthly Review »); due saggi destinati al pubblico specializzato (« William and Mary Quarterly » e « Pacific Historical Review »); due capitoli di The Great Evasión e di The United States, Cuba and Castro e un saggio scritto per un volume miscellaneo sul radicalismo americano. Si tratta quindi di contributi di taglio e destinazione assai diversa che hanno, a nostro avviso, un’unità tematica di fondo e un insieme di premesse più o meno implicite che orientano costantemente l’analisi di Williams, sia che tratti del complesso processo decisionale che portò all’intervento americano contro la Russia bolscevica, sia del significato che ebbe nella guerra fredda la nomina di George Frost Kennan ad ambasciatore americano in Unione Sovietica, oppure delle risonanze radicali della storiografia di Charles Austin Beard o ancora delle (presunte) linee di continuità tra la tesi della frontiera elaborata da Turner e la politica estera americana.Queste tematiche di fondo possono essere riassunte in questi termini, a) Esiste una continuità ininterrotta tra la formazione dello stato nazionale indipendente, il suo processo di espansione e diffusione sul continente nordamericano e il ruolo egemone successivamente esercitato dagli Stati Uniti. b) Il nazionalismo economico dei « mercantilisti » prefigura le caratteristiche fonda- mentali dell’economia americana contemporanea: integrazione interna, espansione all’estero, riduzione massima delle forme di interdipendenza, c) Una sostanziale omogeneità di struttura e di meccanismo tra l’im
perialismo americano e gli imperialismi europei, d) Il ruolo determinante, in pari misura, svolto nella politica estera americana e nelle grandi svolte imperialistiche, da due fattori fra di loro sostanzialmente disomogenei, se non contraddittori: l’ideologia della frontiera e le grandi « corpo- rations » (tradotte con brutale calcolo linguistico con il termine « corporazioni »). e) Le prospettive del socialismo americano, « rispettoso delle libertà politiche e civili », dotato soltanto di un « potere economico necessario a pianificare ed amministrare uno sviluppo economico equilibrato » presuppone una posizione di sostanziale isolamento dell’America dalle faccende del mondo, sulla scorta delle posizioni dell’ultimo Beard. Sulla base di queste premesse Williams sviluppa un’analisi molto discutibile nei suoi risultati, ma straordinariamente significativa per quanto essa rivela sul modo di fare storia nell’America degli anni cinquanta, da parte di uno storico che, come altri, cercò in qualche modo di salvare quel tanto di marxismo che aveva assimilato attraverso la militanza politica camuffandolo dietro spoglie democratico-progressiste. Il rapporto tra struttura economica e scelte politiche viene dato per scontato, viene assunto come un dato, più che argomentato. La nascita delle grandi Corporations viene valutata più per il suo effetto dirompente sul precedente ordine liberistico, che non per le sue reali conseguenze sulla politica americana. Nello stesso tempo il postulato della continuità storica tra nazionalismo, espansionismo, imperialismo, porta Willams ad attribuire un ruolo decisivo all’ideologia della frontiera, che è viceversa legata strettamente a quell’ordine liberistico, individualistico, pionieristico che le grandi Corporations sconvolsero. L’indagine di Williams, dopo aver postulato il rapporto diretto tra i grandi interessi economici e le grandi scelte della politica estera americana, si preoccupa assai più di mettere in luce la contraddizione tra la politica imperialistica e i principi democratico-progressisti professati dalla classe politica americana: soltanto questa contraddizione infatti può rendere significativa un’analisi dedicata al carattere « antibolscevico », nelle sue origini e nei suoi intenti, dell’intervento americano nella Russia rivoluzionaria; soltanto quella contraddizione spiega la disperazione di Adlai Stevenson, « quando scoprì di essere stato ingannato a tal punto da dover mentire al mondo sulla questione cubana » (p. 260);
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ed è ancora questa contraddizione a permeare « gli errori di fatto, le violazioni logiche, i casi di giudizi ambigui o doppi che si possono rinvenire negli scritti di Ken- nan » (p. 83). L’analisi di Williams finisce quindi per assumere spesso il tono e il significato di una convincente requisitoria, della quale non dobbiamo lasciarci sfuggire il contenuto morale, la spregiudicatezza, un certo tocco di originalità nella scelta dei contenuti : si pensi a quello che era la cultura del mainstream negli anni cinquanta, cioè una cultura tanto scialba da far apparire un Henry S. Commager come storico progressista e un Daniel Bell come pensatore originale. In particolare, tra i temi trattati da Williams in questi saggi, troviamo l’origine di dibattiti storiografici e di giudizi di interesse ancora vivo, comunque di ampia influenza, per esempio le valutazioni sulla grande sintesi di Schlesinger e sulla sua interpretazione del New Deal. Questo giudizio di Williams a sua volta è basato su una stimolante visione degli anni venti e sulla demistificazione del concetto di « isolazionismo » che, secondo Williams, non ebbe mai riscontro nella reale politica americana, soprattutto negli anni venti, cioè nel periodo in cui convenzionalmente lo si ritiene trionfante.Al di là di tutto questo, tuttavia, quella di Williams è una voce di altri tempi; il suo timbro è quello della guerra fredda; il suo messaggio è una difesa di quella « sfida fondamentale che la Rivoluzione bolscevica ha rappresentato per il mondo occidentale in generale e per gli Stati Uniti in particolare » (p. 84); ed è nello stesso tempo un atto d’accusa contro i leaders politici americani i quali, essendo già a conoscenza dell’interesse esplicito dei bolscevichi ad ottenere assistenza dagli Stati Uniti, « avrebbero potuto rispondere favorevolmente alla dichiarata ed aperta disponibilità di Lenin e di Trotckij » (p. 51).Le « frontiere dell’impero americano » sono (e sono state) ben altre. Esse investono il problema della natura e dei limiti delle forme di egemonia esercitate dagli Stati Uniti nelle rispettive aree di influenza. Ma da questo punto di vista il rilievo non riguarda tanto Williams quanto la presentazione editoriale dell’opera. Il titolo originale era History as a way of learning; la storia ci insegna dunque a giudicare il presente attraverso la conoscenza del passato. Ci si può credere o meno, ma la lezione di Williams voleva essere quella di fornire una
serie di saggi di carattere metodologico che esemplificassero quel modo di intendere il lavoro storico; sicuramente non si illudeva di avviare, meno che mai esaurire, un discorso globale sulla natura della politica estera americana del Novecento, come viceversa farebbe pensare il titolo dell’edizione italiana. L’edizione italiana inoltre nega al lettore un suo diritto sacrosanto, cioè quello di sapere qualche cosa di più sull’autore, che fu protagonista di numerose battaglie politiche e storiografiche, il cui messaggio è spesso diffìcilmente decifrabile a prima vista. Viceversa l’edizione italiana non ha introduzione e questo lascia senza risposta molti importanti interrogativi su uno storico marxista che aveva vissuto con sentimenti contrastanti la vicenda del New Deal e che aveva attraversato coraggiosamente la tragedia del maccartismo.
PIERO BAIRATI
Italia liberale
GIOVANNI sa b b a t u c c i, La stampa del combattentismo (1918-1925), Bologna, Cappelli, 1980, pp. 292, lire 7.000.
Nel quadro della più recente produzione storiografica, il genere delle antologie sembra aver raggiunto in questi ultimi anni una invidiabile posizione di primato. Segno indubbio che l’interesse del mercato (nella duplice accezione di produttori e consumatori) non conosce cadute di tendenza, sollecitato talvolta da motivazioni che si collocano ben al di fuori della necessità di diffondere la conoscenza storica nella nostra società. Corredato da una rapida introduzione, questo volume ripartisce per grandi temi il materiale raccolto, premettendo ad ognuno dei capitoletti brevi note esplicative. I periodici presi in esame sono per lo più organi locali dell’Associazione nazionale combattenti, modesti per apparato redazionale e per diffusione, ma in generale significativi dell’umore e dell’atteggiamento dei combattenti nazionali di alcune località. La scelta dei testi, in cui fanno la parte del leone le componenti democratiche e riformatrici, che in realtà nell’Anc ebbero sempre peso relativo al vertice e capacità penetrative ridotte alla base, è quindi pesantemente influenzata e coartata da una visione riduttiva del fenomeno combattentistico e dalle dichiarate intenzioni dell’A. di pre-
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sentare un quadro a tutto tondo di quella esperienza storica. L’assunto di Sabbatucci, già noto del resto dall’impostazione del pregevole volume del 1974, è quello di privilegiare nell’analisi storica del combattentismo l’esperienza di un gruppo di giovani intellettuali democratici, volti a tradurre politicamente, sulla pelle delle masse contadine meridionali in particolare, ingenui sogni di palingenesi dello stato liberale ormai in crisi. Il quadro storico in realtà è molto più articolato e ben difficilmente riducibile a quanto costituisce solo una faccia, pur importante come « crocevia » per le successive esperienze politiche individuali dei singoli intellettuali, di un movimento di massa molto complesso e sfuggente. Tanto più che dai testi raccolti in massima parte da tre o quattro periodici non emergono voci interne antagonistiche, le polemiche (che pur insorsero vivaci al punto da provocare scissioni organizzative) si annullano e non si arriva perciò a comprendere come e perché questi intellettuali uscirono doppiamente battuti: sul piano della lotta politica interna dalle componenti fascistiche, sul piano della storia nei loro progetti politici e organizzativi di porsi come leaders naturali delle masse contadine meridionali, dai grandi e moderni partiti di massa.Si pongono perciò a mio modo di vedere due interrogativi di fondo: nella categoria dei combattenti è giusto considerare solo gli iscritti alla Anc, o non sarebbe più produttivo e storicamente più aderente alla realtà comprendervi anche i reduci e i mutilati aderenti alle organizzazioni combattentistiche dei due moderni partiti di massa del primo dopoguera, il Psi e il Ppi? Ed ancora, cos’è la stampa combattentistica : solo gli organi ufficiali delle sezioni locali e i periodici di modesti gruppi di intellettuali molto vicini all’Anc e molto in contrasto con essa (come « Volontà ») o non piuttosto, e più in generale, tutta la pubbli- cistica così ricca e documentata, frutto di elaborazione teorica e di energie intellettuali di quanti si richiamarono all’esperienza bellica, apparsa sui maggiori e più diffusi organi di stampa italiani (come l’A. stesso sembra voler indicare inserendo i due ultimi testi, tratti rispettivamente dalla « Rivoluzione liberale » e da « La critica politica »)? Solo una risposta adeguata alle questioni proposte sarebbe, secondo me, in grado di porre la questione del combattentismo e della sua stampa in maniera organica e capace di affondare le radici della
ricostruzione e dell’analisi di questo fenomeno storico nel quadro più ampio dei problemi della crisi italiana del primo dopoguerra e, per dirla con Caracciolo, dell’« ingresso delle masse » subalterne nella vita politica nazionale.
GIANNI ISOLA
ISTITUTO REGIONALE PER LA STORIA DELLA RESISTENZA E DELLA GUERRA DI LIBERAZIONE in EMILIA ROMAGNA, Annate 1980 - Il proletariato agricolo in Emilia-Romagna nella fase di formazione, a cura di Franco Caz- zola, Bologna, CLUEB, 1980, pp. 295, lire 10.000.
Questo « Annale 1980 » dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e della guerra di Liberazione in Emilia-Romagna è indubbiamente di grande interesse sia per il tema affrontato (la formazione del bracciantato moderno in Emilia-Romagna) sia per l’approccio scelto (che tende a cogliere l’insieme dei processi che contribuiscono alla formazione del proletariato agricolo e non ne riduce la storia a quella delle nascenti organizzazioni sindacali e politiche).Il tema è certo poco esplorato, eppure rimanda a questioni di grande rilievo: giustamente Franco Cazzola, nel suo saggio, osserva che non è facile « capire perché questo originariamente eterogeneo compartimento statistico divenne in pochi decenni l’“Emilia rossa”, l’Emilia delle leghe, delle cooperative, del socialismo municipale, del riformismo e del sindacalismo rivoluzionario, del fascismo di massa e della lotta antifascista di popolo, e infine l’Emilia di nuovo e più risolutamente rossa » (p. 23). Proprio questa complessità — nota ancora Cazzola — rende inadeguato un approccio che privilegi gli aspetti politico-ideologici o « so- vrastrutturali », e stimola invece ad approfondire l’indagine del « sociale »; aggiunge Sergio Nardi, criticando a sua volta i limiti degli studi finora esistenti sull’argomento, che è necessario riprendere « la ricerca pionieristica di Sereni », indagando più concretamente i « modi di formazione della mobilità professionale e territoriale » (p. 148). Coerentemente con questa impostazione, balzano in primo piano — soprattutto nei saggi già citati — il peso della questione demografica, i mutamenti profondi dei rapporti di produzione, gli effetti dirompenti esercitati sull’antica economia dell’area mezzadrile dalle trasformazioni in senso mercantile di gran parte della produ
zione agricola. Più ancora, balzano in primo piano le conseguenze — non solo sul terreno economico, ma anche su quello della mentalità, della cultura — dei diversi tipi di lavoro compiuti complessivamente dai braccianti, dell’introduzione di determinate coltivazioni (in primo luogo, la diffusione della .risaia), nonché l’importanza delle modalità concrete di attuazione delle bonifiche: a questi aspetti Sergio Nardi fa risalire alcune delle diversità che distinguono il bracciantato ravennate da quello della confinante provincia di Ferrara (p. 165 e sgg.).Questo approccio complessivo porta a cogliere in modo estremamente problematico [’intrecciarsi, nel mondo bracciantile di fine ’800, di elementi di modernità con altri, più « tipici della tradizione contadina » (p. 182); soprattutto, come nota ancora Nardi, esso permette di superare l’immagine tradizionale di un bracciantato sostanzialmente omogeneo, unificato dalla sottoccupazione, dalla dequalificazione, dal carattere salariale della paga percepita, daH’egualitarismo e dalla fede socialista (p. 158).Su questo terreno di ricerca si muove anche il saggio di Valerio Cervetti, dedicato alle caratteristiche del bracciantato parmense e volto a cogliere la specificità di un comparto del proletariato agricolo padano che ha certamente connotati particolari. Proprio per la ricchezza di questi contributi, desta qualche perplessità il saggio di Valerio Evangelisti su Forme di produzione agricola e caratteristiche generali del bracciantato emiliano-romagnolo (1880/1914). In esso, le diversificazioni profonde che attraversano il proletariato agricolo di quest’area — e che hanno riflessi innegabili nel suo comportamento sindacale e politico — sono prese in esame solo di sfuggita o considerate marginali, ed è quindi rimosso il problema storiografico delle loro radici.Il volume è completato da una accurata ricerca di Claudio Casadio sulla formazione del borgo bracciantile di Mezzano, nél ravennate, e da utili osservazioni di Franco Tassinari sulle fonti statistiche che si riferiscono al salariato agricolo.
GUIDO CRAINZ
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paolo so r c in e l l i, Miseria e malattie nel XIX secolo. I ceti popolari nell’Italia Centrale fra tifo petecchiale e pellagra, Milano, Angeli, 1979, pp. 285, lire 8.000.
Proseguendo nel solco di un indirizzo già
proficuo di risultati (fra gli altri contributi dello stesso A. va ricordata la ricerca su R e g im i a lim en ta ri, co n d iz io n i ig ien iche, epid e m ie n e lle M a rc h e d e ll’O tto c e n to , Urbino, Argalìa, 1977), il Sorcinelli presenta in questo volume, correda-ta da un ampio saggio introduttivo, una significativa raccolta di documenti d’archivio e di testimonianze di memorialisti e politici del secolo scorso, tra i quali spiccano i nomi di Agostino Bertani, di Gastone Gherardi, di Giuseppe Badaloni, di Angelo Celli, di Antonio Corradi, ecc. Si tratta, nella sostanza, di un altro passo in avanti in un settore storiografico— quello delle condizioni igienico-sanitarie— ancora per tanti versi inesplorato ed, in quanto tale, irto di insidie e difficoltà di ogni genere.L’interesse è rivolto alle regioni centrali della penisola, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Umbria e soprattutto le Marche ed il titolo delinea, già di per sé, l’approccio metodologico. Il quale se è volto, nel taglio generale, a interpretare l’attività storica nella sua precipuità di « scienza degli uomini del tempo », per dirla col Marc Bloch del- V A p o lo g ia della s toria , nella fattispecie mira a individuare il nesso di causalità che lega condizioni socio-economiche in una popolazione da un lato e livelli sanitari dall’altro. Intento dichiarato del Sorcinelli è infatti « definire il contesto sociale ed igienico e in cui [le] malattie p ro sp era va n o » (p. 102) e molte delle pagine offerte all’attenzione ripropongono il rapporto tra i due fenomeni con drammatica evidenza. Ad esempio, il memorialista ascolano Pietro Capponi, avviandosi a delineare l’insorgere del tifo petecchiale nella sua città, osserva: « Nei primi mesi dell’anno 1817, quando i nostri montanari tutto ebbero consumato lo scarso ricolto dell’anno precedente, e non aveano più per ¡sfamarsi né le ghiande ... né le radici e le erbe ... [alle] tristi conseguenze della carestia ... quelle si aggiunsero della pestilenza » (pp. 61-62).Ma, a prescindere dalle singole citazioni— una segnalazione a parte meriterebbero gli scritti del Gherardi sulla pellagra — risulta chiaramente da tutto il complesso dei documenti come nelITtalia del secolo XIX morbilità e mortalità siano in gran parte legate alla precarietà dei regimi alimentari ed alle scadenti condizioni igieniche dei ceti popolari. Emerge da essi il quadro di profonde carenze strutturali, legate ad assetti economico-sociali ormai arcaici e — nonostante tutti gli « aggiustamenti » possibili,
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pure esperiti entro certi limiti — comunque incapaci di garantire una sufficiente griglia sanitaria di base.Non desta meraviglia, quindi, che le autorità politico-amministrative si trovino impreparate a fare fronte in maniera adeguata non solo alle esplosioni epidemiche ricorrenti sotto varia forma, ma anche alle manifestazioni endemiche di morbilità, che si protraggono pesantemente ben entro al nostro secolo, come nel caso della tubercolosi, della malaria e della pellagra. A proposito di quest’ultima, in particolare, il Sorcinelli scrive : « In effetti la progressiva scomparsa della pellagra, più che su misure econo- mico-sociali volute dalla classe dirigente, appare inevitabilmente come il frutto di ulteriori sacrifici dei ceti rurali; il miglioramento del tenore di vita sembra infatti avvenire nelle campagne italiane, più che attraverso organiche riforme strutturali, dallo svuotamento di quell’enorme serbatoio di forza lavoro di riserva con l’emigrazione intemazionale e successivamente con le guerre » (p. 55).Sarà necessario condurre ulteriori indagini di dettaglio sulla situazione nelle campagne italiane dai primi anni del Novecento ad oggi, per verificare nella sua piena portata questa affermazione; la quale, tuttavia, appare fornita di una sicura validità di fondo.
CARLO VERDUCCI
guido v e r u c c i, L’Italia laica prima e dopo l’unità, 1848-76, Roma-Bari, Laterza, 1981, lire 30.000.
Se l’età della Restaurazione fu caratterizzata sul piano culturale dal romanticismo spiritualista che cercava di addebitare gli « eccessi » della Rivoluzione giacobina al razionalismo illuminista, nel periodo storico immediatamente successivo, quello che vide il « trionfo della borghesia » nei principali paesi europei, si ebbe un progressivo affermarsi di valori, ideologie, filosofie laiche e immanentiste, inizialmente tutte più o meno ricollegantesi proprio alla grande tradizione dell’« aufklàrung » che il romanticismo aveva cercato di combattere. Col progredire e con l’espandersi del processo di industrializzazione, il vago deismo che ancora permaneva nelle posizioni neo-illuministiche, lasciò via via il posto al materialismo positivista, poi la difesa della ragione contro la superstizione, della scienza contro i dogmi delle religioni rivelate, condusse spesso ad una vera ondata di « scientismo »,
cioè ad una sorta di nuova metafisica avente per idolo le leggi della biologia, della chimica, della fisica sperimentale, della selezione degli esseri viventi. L’Italia, sebbene in ritardo rispetto a paesi come l’Inghilterra, la Francia e la Germania, e percorrendo una sua strada meno unilineare e più oscillante tra vecchio e nuovo, non fece tuttavia eccezione, ed è ben noto quanto il positivismo evoluzionista abbia inciso sulla stessa formazione intellettuale e politica di quei gruppi culturali di estrazione borghese che formeranno la leadership del partito socialista verso la fine del secolo. È altrettanto noto il ruolo che svolse in seguito il neoidealismo di Croce e Gentile, ma anche il materialismo dialettico di Labriola, nel battere in breccia una filosofia scaduta nel determinismo meccanicistico e nell’evoluzionismo superficiale e semplicista. Ma la vittoria dello storicismo — sia nella versione di « destra » del neohegelismo sia in quella di sinistra del marxismo dialettico — fu così schiacciante da determinare nelle élites intellettuali non solo un giudizio senza appello del positivismo in quanto corrente filosofica, ma in genere la condanna e il disprezzo per tutte le manifestazioni culturali direttamente o indirettamente discendenti da esso e che pur avevano contrassegnato il « clima » di un intero periodo storico. Laicismo, anticlericalismo, evoluzionismo materialistico, naturalismo, verismo, ecc., furono accomunati e travolti da critiche spietate e derisorie, che in alcuni casi — vedi il Croce — coinvolsero tutto il filone democratico risalente alla Rivoluzione francese con intenti scopertamente conservatori. (Sul senso politico di questa battaglia crociana Michele Abbate scrisse alcuni anni fa un libro ancora oggi illuminante : La filosofia di Benedetto Croce e la crisi della società italiana, Torino, Einaudi, 1966). La storiografia italiana, non esclusa quella d’orientamento marxista, è stata pesantemente condizionata per moltissimo tempo da questi giudizi sommari, così da impedirsi di analizzare a fondo i caratteri, l’estensione, il peso che ebbe la cultura laica nell’Ottocento. Soprattutto è mancato, tranne qualche felice eccezione degli ultimi anni (vedi Baglioni e Lanaro), un approfondimento delle ideologie, dei linguaggi, della mentalità, dei "valori che quella cultura contribuiva a far nascere allorché dal piano dell’elaborazione concettuale e teoretica si traduceva in senso comune diffuso, in volgarizzazione di tempi e acquisizioni scien
tifiche, in messa in circolo di modelli di comportamento e costumi più o meno antitetici a quelli della tradizione cattolica. Questa lunga premessa ci pareva necessaria per sottolineare adeguatamente l’importanza di un volume scritto ora da Guido Verucci •— L’Italia laica prima e dopo l’Unità, 1848-76 — che per la prima volta affronta in maniera organica e per un periodo di tempo piuttosto lungo una materia sinora ben poco studiata. L’autore, che già in passato aveva parzialmente affrontato l’argomento in un pregevole saggio (cfr. AA.VV., Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-78), Milano, Vita e Pensiero, 1973, voi. II, pp. 177-244), fa quello di cui più si sentiva il bisogno: indaga al di là della produzione della cultura « alta », con una ricerca minuziosa che scandaglia nella congerie vastissima della pubblicistica e delle fonti giornalistiche per cercare di rintracciare e fare rivivere i tratti distintivi di una tradizione laica e razionalista che incise non poco sull’evoluzione della società civile italiana nel secolo scorso. Il libro è praticamente diviso in due parti: nella prima si esamina pensiero e prassi del liberalismo moderato, cioè di quel laicismo che farà da supporto ideologico a certe scelte legislative della Destra storica; nella seconda parte l’analisi è concentrata sulle varie correnti della sinistra repubblicana e radicale sino ad arrivare al periodo della I Internazionale e dell’ateismo anarchico.Il laicismo dei liberali non viene sottovalutato. Verucci non manca di metterne in rilievo limiti, contraddizioni e cautele dovute fondamentalmente alla preoccupazione conservatrice di non arrecare ferite mortali alla presenza della Chiesa cattolica nella società e più in generale alla sopravvivenza del sentimento religioso, che ancora poteva servire come baluardo verso l’irrompere di teorie e comportamenti « sovversivi » tra le masse. E tuttavia l’autore, nel valutare le diverse iniziative, dal settore editoriale a quello dell’associazionismo mutualistico, cui pose mano questo ceto liberal-borghese per cercare di far crescere nel popolo un’ideologia attivistica basata sull’etica del lavoro, mostra di considerare questo tentativo egemonico come un passo avanti rispetto all’etica fatalista e provvidenzialista — che portava inevitabilmente alla rassegnazione •— della cultura cattolica. Non che Verucci non colga il significato interclassista e moralista di questa propaganda, ma non v’è dubbio che qui egli si muova con più sou
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plesse di quanto non avesse fatto Silvio Lanaro con la sua critica impietosa contenuta nel libro Nazione e Lavoro (Marsilio, 1979). La cosiddetta letteratura del self-help viene rivisitata da Verucci e giudicata con più indulgenza. Giudizio non di valore, s’intende, ma storico, derivante dal confronto con la precedente ed anche coeva letteratura cattolica. Questo diverso taglio interpretativo dovrebbe dar luogo, almeno si spera, ad un proficuo dibattito storiografico. Meno esplorato, per le ragioni esposte all’inizio, tutto il variegato settore della sinistra democratica, di cui finalmente Verucci ci offre una ricostruzione attenta e precisa, nella sostanza tesa alla rivalutazione di gruppi, persone, movimenti e giornali che seppero per anni condurre una battaglia per la laicizzazione dello Stato prima contro i compromessi della Destra, poi polemizzando anche con le timidezze e le reticenze della Sinistra storica. In questa disamina, largo spazio è dedicato al movimento del cosiddetto « libero pensiero », del quale ci si cura egualmente di sottolineare i contenuti culturali e ideologici di diversa provenienza (positivismo di scuola tedesca, razionalismo francese, materialismo risalente al filone democratico italiano di Cattaneo, Ferrari e Pisacane, ecc.) nonché le proposte concrete avanzate anche in sede parlamentare, quali l’abolizione dell’Art. 1 dello Statuto, l’introduzione del matrimonio civile, l’eliminazione dell’insegnamento religioso nelle scuole, l’istruzione obbligatoria, il divorzio e via elencando, al fine di ridurre il più possibile l’influenza della Chiesa nella società e sullo Stato. Proseguendo nell’analisi, Verucci si preoccupa di verificare quanto questo tipo di cultura fosse presente nelle associazioni e nei giornali che si schierarono con l’Intemazionale e a favore della Comune. L’esame di organi di stampa come « Il Gazzettino Rosa » e « La Plebe » ma anche di altri moltissimi fogli minori, permette di uscire dalle solite definizioni generiche e di capire che i punti di rottura con il mazzinianesimo delle giovani generazioni democratiche post-risorgimentali erano ben più numerosi e vitali di quanto appaia da letture circoscritte al solo terreno delle dispute politiche. Razionalismo, scientismo, anticlericalismo, dal 1867-68 in poi divennero patrimonio anche di quei grappi che si stavano orientando o verso l’anarchismo o verso il socialismo. Il marxismo verrà dopo, ma si innesterà su questo terreno e vi coabiterà per moltissimo tempo. Nella
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storia successiva del movimento operaio questa tradizione continuerà ad influire sulla mentalità collettiva di dirigenti e militanti, mentre, per fare un esempio illustre, l’opera speculativa di Antonio Labriola non riuscirà mai a tradursi in filosofia « del quotidiano ».In questa direzione si può ancora lavorare molto, ma intanto l’opera di Verucci reca un primo, fondamentale contributo di ricerca.
CLAUDIO GIOVANNINI
Ma r iella ber r a , Vetica del lavoro nella cultura italiana dall’Unità a Giolitti, Milano, Angeli, 1981, pp. 168, lire 6.000.
L’attenzione crescente ai temi dell’industrialismo spiega e giustifica l’opportunità di questo studio. Esso ripercorre — nei modi del saggio bibliografico — le elaborazioni del primo cinquantennio unitario intorno all’etica del lavoro, intesa come sintomo nevralgico della costruzione di una filosofia dello sviluppo e della consapevolezza acquisita dai suoi protagonisti economici e sociali. L’analisi è scandita in due tempi nettamente distinti. Secondo l’A. nella prima fase, che giunge alle soglie del Novecento, l’etica del lavoro è presente soprattutto come categoria morale, come « valore positivo, contrapposto all’ozio, capace di improntare una concezione generale della società, ma in forma ancora astratta e generica » (p. 105); nella seconda, coincidente con l’età giolittiana, si delinea una vera e propria « cultura del lavoro », implicante « il concreto riconoscimento e privilegia- mento del dato e dell’ambito strutturale, l’accentuarsi degli interessi tecnico-scientifici e delle finalità pratico-operative» (p. 112). Il passaggio tra i due momenti è naturalmente dettato dall’avvio della industrializzazione, con la conseguenza — sottolinea diffusamente Berra — che il ritardo di quest’ultima determina una sensibile sfasatura rispetto alla parabola della filosofia capitalistica: dalla timidità dei primi passi la cultura industrialista italiana si immette direttamente nelle esasperazioni delle ideologie imperialistiche. E tutto ciò si riflette direttamente sulle istituzioni del movimento operaio, all’interno delle quali l’esaltazione dell’operaio produttore — fondata sulla denuncia di un ceto imprenditoriale sostanzialmente visto come malthusiano — con
ferisce ai conflitti sindacali una valenza immediatamente politica.Al centro di questo profilo sta la tesi del carattere moderato del liberalismo italiano, della subalternità della borghesia che ad esso si richiama ai ceti dominanti tradizionali e agli apparati pubblici, a tutti quegli elementi che « ripropongono i dubbi e le riserve relative alle modalità (e aL- l’esistenza stessa) della rivoluzione borghese in Italia » (p. 103). Sono, come si vede, argomentazioni riprese da una ormai abbondante letteratura tanto storica che, soprattutto, sociologica. Ma sono anche argomentazioni che, se riproposte con schematica rigidezza, approdano ad una valutazione complessiva di « arretratezza » priva di ogni duttilità interpretativa.Prova ne sia che il termine di riferimento costantemente invocato è il caso inglese, quasi che esso rappresenti la regola e l’uniformità e non, come la storiografia sulla rivoluzione industriale mette in luce con sempre maggior forza, l’eccezione, il prototipo irrepetibile. L’adozione di questo asse di confronto fa sì che lo studio sia soprattutto una storia di assenze, così che i dati di base della vicenda italiana appaiano più come sbarramenti eretti contro l’innovazione, che non come elementi costitutivi e operanti della realtà nazionale. Tale livellamento di discorso trova poi riscontro nell’intreccio tra analisi della letteratura coeva e ricostruzione storiografica posteriore. Il primo momento appare più come materiale informe cui il secondo è chiamato a dare un significato, che non come immagine di conflitti culturali e sociali che hanno prodotto di volta in volta non marginali alternative. Basti al proposito sottolineare l’assenza di ogni riferimento alla tematica della integrazione-contrapposizione tra agricoltura e industria.
MASSIMO LEGNANI
Fra ncesco barbagallo , Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno (1900-1914), Guida Editori, Napoli, 1980, lire 19.000.
Il lavoro di Francesco Barbagallo costituisce il primo « quadro d’insieme » della storia politico-sociale del Mezzogiorno continentale nell’età giolittiana. Sulla base di una vasta e ricca documentazione è svolta,
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da una parte, l’analisi del potere politico— nelle sue forme istituzionali, rappresentative e di classe — e, dall’altra, quella delle più significative lotte politiche e sociali. La scelta della delimitazione temporale è dovuta alla considerazione del primo quindicennio del secolo come spartiacque che segna il passaggio dal regime censitario alla presenza delle masse lavoratrici sulla scena politica.Il Mezzogiorno, pur definito, gramscianamente, come una grande disgregazione sociale, non viene presentato e assunto in maniera statica e facilmente schematizzabile da un punto di vista economico, sociale e politico.Il « blocco agrario », per esempio, pur rappresentando la forma storicamente prevalente di dominio sociale nel Mezzogiorno, non appare monolitico, ma percorso da divisioni e contraddizioni di non poca rilevanza, come quelle esistenti tra gli interessi delle colture protette e quelle d’esportazione. Emblematica, in tal senso, la figura del deputato leccese, viticultore e meridionalista, Antonio De Viti De Marco.Va anche detto, però, che nei momenti cruciali di messa in discussione del forte dazio sul grano — cioè, come afferma Barbagal- lo, quando si mette in discussione il tradizionale blocco di potere tra capitalisti agrari e industriali del nord e proprietari del sud— la rappresentanza politico-parlamentare degli agrari meridionali, in pratica quasi tutti i deputati del Mezzogiorno, ritrovava un fermo atteggiamento unitario, così come avvenne nel dibattito parlamentare del 1909. Inoltre, la storia del Mezzogiorno, pur riferita alla sua parte continentale, non è valutabile — come emerge chiaramente dal libro — in modo uniforme, in quanto esistono caratteri specifici di sviluppo storicosociale delle diverse aree, che richiedono analisi differenziate. Basti solo pensare alla estrema arretratezza dell’area calabro-lucana e alla più avanzata e articolata condizione socio-economica della Puglia.In particolare, il lavoro di Barbagallo si sofferma sulle vicende politiche e sociali dell’ex capitale del Mezzogiorno: Napoli. Una città piena di contrasti e contraddizioni che se, da un lato, determina la prima elezione nel Mezzogiorno di un deputato socialista, Ettore Ciccotti, dall’altro, è il centro del più corrotto intreccio di rapporti e connivenze tra malavita organizzata, la camorra, e molti dei rappresentanti del potere politico, in genere parvénus di
fede giolittiana. A Napoli, il « blocco urbano » — definito da Gramsci quale fulcro della strategia giolittiana — era rappresentato non solo dai tentativi, spesso riusciti, di costituire un patto corporativo tra proletariato industriale e capitalisti, ma anche da un fitto e stratificato coacervo di interessi bancari e mercantili e di più recenti interessi finanziari e industriali.Edoardo Scarfoglio è giustamente ritenuto dal Barbagallo l’emblema di questo composito fronte politico ed economico, in quanto il direttore de « Il Mattino » ne costituisce l’espressione intellettuale più organica e, insieme, più versatile.Dall’autore del libro è, poi, fortemente sottolineato il ruolo fondamentale per il progresso civile e democratico del Mezzogiorno svolto dalle organizzazioni sindacali e socialiste e a Napoli, in particolare, dai socialisti de « La Propaganda » che ingaggiarono una battaglia morale contro la camorra, almeno inizialmente non priva di significative vittorie.Più in generale, è descritto e documentato lo sforzo improbo di quella parte della piccola borghesia meridionale, soprattutto intellettuale, non subalterna alle classi abbienti, che costituì l’anima organizzatrice e ideologica del nascente movimento operaio del Mezzogiorno. I risultati, in termini di organizzazione sindacale e di politicizzazione, furono, ovviamente, rilevanti e duraturi nelle aree socialmente meno disgregate ed economicamente meno dissestate, come quelle esistenti in Puglia e in Campania. Inoltre questi risultati diventano ancora più apprezzabili se si considera che il ruolo del governo — attraverso le sue istanze periferiche, in particolare le prefetture — non fu di neutralità in moltissimi casi di conflitti e tensioni sociali nelle campagne meridionali. Come documenta Barbagallo, Giolitti, laddove possibile, non fece risparmiare nessun mezzo, lecito o illecito, per garantire10 status quo negli equilibri sociali esistenti. La constatazione dei profondi guasti creatisi o, approfonditisi, durante il primo quindicennio del secolo, non spinge, però, il Barbagallo a valutazioni moralistiche o miopemente meridionalistiche; infatti si riconosce non solo l’importanza di molti interventi legislativi, come, per es., la legge speciale del 1904 per l’incremento industriale di Napoli, ma anche il fatto che11 sistema di potere consolidatosi non era il prodotto di un « genio malefico », di nome Giolitti, ma il prodotto di un parti
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colare modo di sviluppo capitalistico, fondato su un crescente dualismo economico.
VALERIA SGAMBATI
ROBERTO m a r t u c c i, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio (1861-1865), Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 319, lire 15.000.
Le incongruenze e le contraddizioni tra enunciazione di principi liberali e pratica seguita dai governi della Destra hanno da tempo richiamato l’attenzione degli storici. Il « mito » dei moderati come ceto politico che durante la formazione dello stato unitario e nel periodo postunitario praticasse i principi di uno « stato di diritto » è stato più volte incrinato e messo in discussione. L’esame della politica giudiziaria seguita dai governi della Destra ha contribuito a sfatare questo « mito ». Il principio della divisione dei poteri, in particolare di quello giudiziario dall’esecutivo, fu spesso disatteso. Le garanzie di libertà del cittadino sancite dalla carta statutaria, per esempio la garanzia di non essere sottratto ai propri giudici naturali, furono più volte mortificate. Ad un particolare settore della politica giudiziaria attuata dai governi nel primo quinquennio postunitario ha dedicato il Martucci la sua attenzione. La dilatazione di competenza della magistratura militare a danno di quella ordinaria, il ricorso a poteri d’emergenza contrari alle garanzie statutarie, il varo di una legislazione speciale sono i temi affrontati dall’A. Secondo il ceto di governo, i provvedimenti adottati erano necessari, dato lo stato dell’ordine pubblico nelle province meridionali, percorse da fermenti e rivolte che, con l’estendersi del fenomeno del brigantaggio, potevano intaccare la « salvaguardia delle istruzioni » (p. 10).I provvedimenti attuati nelle province meridionali negli anni 1861-1865 non conoscono soluzioni di continuità. Dalla dittatura militare instaurata nel corso del 1861 allo scioglimento delle società emancipatrici decretato nel 1862; dallo stato d’assedio proclamato nell’agosto-novembre del 1862 nel mezzogiorno continentale e in Sicilia, che consentiva di « legalizzare » la « repressione indiscriminata del movimento democratico e delle agitazioni contadine » (p. 38) al varo di provvedimenti legislativi eccezionali (legge Pica dell’agosto 1863 e successive modifiche fino al 1865) un unico filo con
duttore caratterizza gli indirizzi legislativi approvati e fatti applicare dai governi della Destra per ripristinare l’ordine pubblico nelle province meridionali.L’indagine dell’A. è concentrata esclusiva- mente sui provvedimenti legislativi messi a punto da questi governi. Le fonti su cui è costruita l’indagine sono soprattutto, oltre gli stessi provvedimenti legislativi presi in esame, gli atti parlamentari. Si tratta' di una analisi accurata. Ma l’A., per sua dichiarata scelta (p. 136) non ha ritenuto di utilizzare la letteratura del tempo (memo- ralistica di ufficiali del regio esercito e di briganti) e storiografica (opere di analisi storica) dedicate al fenomeno del brigantaggio. Ne consegue che non viene ulteriormente approfondito, rispetto ai risultati storiografici già conseguiti, il contesto politico, economico e sociale, entro il quale nasce, si sviluppa e viene represso il « grande brigantaggio » e al quale vanno ricondotti gli strumenti repressivi (dittatura militare, stato d’assedio, legislazione speciale) esaminati dall’A.Una maggiore attenzione alla letteratura sul brigantaggio e alle discussioni storiografiche intorno agli studi sulla politica giudiziaria della Destra prodotti in anni recenti, sarebbe stata opportuna. La ricerca compiuta dall’A. avrebbe maggiormente contribuito a ridurre i perduranti settorialismi tra storici del diritto e delle istituzioni dell’ordinamento giudiziario e storici tout-court, ad approfondire la formazione del blocco autoritario tra ceto politico di governo e gerarchie militari, a valutare gli effetti che la repressione del brigantaggio, nelle forme e nei modi come fu attuata, hanno avuto sul rapporto tra classi subalterne e classi dirigenti lungo la successiva vita dello stato unitario.
ISABELLA ZANNI ROSIELLO
la u ra b a r il e , Il Secolo. 1865-1923. Storia di due generazioni della democrazia lombarda, Milano, Guanda, 1980, pp. 388, lire 12.000.
Si deve soprattutto agli studi di Alessandro Garrone se il mondo politico e culturale del radicalismo lombardo degli anni immediatamente successivi all’Unità ha avuto quell’attenzione storiografica che esso meritava e che invece per molto tempo è mancata (tra le poche eccezioni, vai la pena di ricordare un vecchio ma sempre valido saggio di Stefano Merli su « Movimento ope
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raio » del 1955 e i carteggi raccolti nei volumi « La scapigliatura democratica » e « L’Italia radicale » della Fondazione G.G. Feltrinelli). Ora nella collana di Guanda curata dal Centro Studi sul giornalismo G. Pestelli di Torino appare questo studio di Laura Barile sul « Secolo » di Milano, che, attraverso uno spoglio sistematico e intelligente del giornale fondato da Sonzogno nel 1866, reca un ulteriore, importante contributo aH’approfondimento di un periodo storico e di un ambiente che fecero quasi da trait d’union tra la democrazia risorgimentale e le prime forme di organizzazione sindacale e partitica che poi sfocieranno nel socialismo. L’analisi della Barile, per la verità, si estende su un arco di tempo ben più vasto, arrivando a comprendere l’età giolittiana, la 1“ guerra mondiale e il dopoguerra, sino all’« occupazione » della testata da parte di fiduciari di Mussolini, ma ciò che maggiormente interessa di questa ricerca è proprio la parte riguardante i primi venti-trent’anni di vita del giornale, gli anni in cui esso seppe essere la voce di una borghesia imprenditiva e commerciale — ma anche del ceto artigianale e delle prime aristocrazie operaie — che combattè a viso aperto una coerente battaglia per la laicizzazione dello stato, la difesa dei diritti civili, la diffusione dell’istruzione, la riforma fiscale e finanziaria in senso progressivo, l’estensione del suffragio elettorale. Questa borghesia democratica, avversa tanto all’oligarchia finanziaria facente capo alla Destra storica, quanto, più tardi, al trasformismo della Sinistra, riuscì ad aggregare intorno a sé vasti consensi popolari, esercitando una palese egemonia anche nel settore dell’associazionismo mutualistico in via di crescente espansione, avente il suo centro organizzatore e propulsivo nel Consolato Operaio. Edoardo Sonzogno fu una delle figure più rappresentative di questa borghesia del Nord che vedeva nel progresso della scienza e della tecnica, nella volontà e nelle capacità individuali, nel lavoro, nella lotta all’alfabetismo, nella creazione di una rete di istituti previdenziali e assistenziali a favore dei deboli e degli anziani, i mezzi più idonei per rendere l’Italia un paese moderno e al tempo stesso per evitare l’esplodere incontrollato di una conflittualità sociale che avrebbe potuto mettere irreparabilmente in crisi il disegno egemonico — a Milano già operante — coltivato dal partito radicale sulla classe operaia. Analizzare le vicende e la linea politica del
« Secolo » significa dunque allargare la prospettiva all’esame della società milanese della seconda metà dell’Ottocento, una società in pieno fermento, con una intellettualità borghese spesso delusa e frustrata dalla soluzione sabauda del Risorgimento, e una classe operaia che lentamente ma con ferma determinazione passerà dalla tutela democratico-radicale a forme autonome di lotta sindacale e poi alla formazione di un proprio partito politico, provocando con ciò stesso il progressivo venir meno di quella funzione progressiva e di mediazione che per tanti anni il giornale aveva svolto. Di tutto ciò la Barile ci offre un quadro attento e documentato, riuscendo per l’appunto a coonestare la storia del « Secolo » nella più ampia e interessante storia della città. V’è solo da rammaricarsi che l’autrice — che pur proviene da studi letterari e che di recente ha dimostrato di conoscere molto bene l’ambiente culturale della cosiddetta « scapigliatura » scrivendo un pregevole saggio su Carlo Dossi di cui ha curato la riedizione della Desinenza in A (Garzanti, 1981) — non abbia sfruttato sino in fondo la sua indubbia preparazione nel campo linguistico e letterario per un’indagine più penetrante e più estesa della cultura, in senso lato, che veniva trasmessa dal « Secolo » : una maggiore attenzione ai romanzi d’appendice, alle recensioni, alle critiche teatrali, al lessico usato da redattori e collaboratori, sarebbe stata opportuna. Non che di questo non si parli, ma prevale nettamente l’analisi politica. Del resto, non sarebbe equo imputare alla Barile una carenza che in realtà è di tutta la nostra storiografia, anche la più seria, che ha sinora letto i giornali solo attraverso Zangolatura del «politico» e dell’« ideologico ». Va anzi detto che sotto questo profilo il libro della Barile è un primo passo avanti. Un passo ancora timido, ma comunque apprezzabile.Nel complesso, a parte questo parziale rilievo critico, si tratta di un ottimo lavoro di ricerca almeno sino agli anni della « svolta » di fine secolo. Dopo, l’analisi si fa più frettolosa. Ma è lo stesso giornale a perdere di mordente e di interesse.
CLAUDIO GIOVANNINI
GINO LUZZATTO, Il rinnovamento dell’economia e della politica in Italia. Scrìtti politici 1904-1926. Introduzione e cura di Massimo
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Costantini, Venezia, Arsenale cooperativa editrice, 1980, pp. 341, lire 24.000.
Finché ebbe libertà di esprimersi, Luzzatto percepì — alla maniera salveminiana — unitariamente « le due attività dello storico e del politico », come egli stesso scrisse di Salvemini nel 1945. Perciò intrecciò alle ricerche storiche un’intensa attività pubbli- cistica che lo portò ad essere una delle firme assidue de « l’Unità » di Salvemini per tutto il decennio della sua pubblicazione. Dopo il 1920 Luzzatto divenne editorialista de « Il resto del carlino », prima, de « Il Secolo », poi, e collaboratore di riviste quali « La critica sociale », « La rivoluzione liberale », « La critica politica » e altre.Con i suoi articoli Luzzatto emerse come esponente di spicco del gruppo di intellettuali che, unendo la passione democratica ai convincimenti liberisti, fu all’opposizione dei gruppi che detenevano il potere politico ed economico nella prima parte del secolo. Una rassegna compilativa degli apporti di Luzzatto a « l’Unità » fu redatta da E. Ta- gliacozzo subito dopo la morte dello storico e apparve sulla « Nuova rivista storica » del 1965. Ma solo ora con lo spoglio dei periodici e quotidiani del periodo di ristretta libertà di stampa tra il 1922 e il 1926, Costantini esaudisce l’esigenza formulata da M. Berengo già nel 1964 « di offrire un più esauriente quadro di quel che Luzzatto ancora scrisse e operò quando le sue speranze di veder instaurata in Italia una società democratica erano ormai dissolte » CIntroduzione a g . l u z z a t t o , Dai servi della gleba agli albori del capitalismo, Bari, Laterza, 1966).Perciò con questa ampia silloge il curatore consegue due risultati rimarchevoli : offre una raccolta organica di materiali indispensabili per valutare tratti caratteristici della biografia di Luzzatto, rimasti offuscati nell’attenzione prestata prevalentemente alla sua operosità di storico insigne dell’economia; ripropone alcuni degli argomenti dei fautori di politiche economiche liberiste, che varrebbe la pena di rimeditare in un momento storiografico in cui prevalgono le assoluzioni storicistiche per il sistema protezionista ad oltranza adottato dal ceto dirigente italiano dal 1887 sino al secondo dopoguerra. (Si pensi al giudizio di Castronovo nella storia d’Italia einaudiana).Gli scritti sono disposti per ordine cronologico, ma l’introduzione li esamina per temi
e per congiunture politiche. Infatti la selezione è rappresentativa del fascio di questioni su cui Luzzatto impegnò la sua passione politica: il problema della scuola e della condizione degli insegnanti, la politica del partito socialista e la lotta di classe, lo sviluppo della democrazia e la politica economie?/. Ma è quest’ultima tematica che prevale per la continuità, la quantità e la qualità degli interventi.Per formazione culturale Luzzatto ebbe una devozione indefettibile per la dottrina liberoscambista e ciò lo portò ad una comunanza di idee e di battaglie col gruppo di antiprotezionisti (Salvemini, De Viti De Marco, Einaudi, Jannaccone...) le cui prediche restarono lettera morta fino alla nuova congiuntura politica ed economica inaugurata dall’esito dell’ultima guerra mondiale. E nelle polemiche antiprotezioniste egli riversò la sua cultura economica e le competenze del suo mestiere di storico. Fu questa capacità di mettere le abitudini analitiche dello storico al servizio della critica delle tendenze attuali a dare un accento originale ai suoi scritti e a renderlo un protagonista nei dibattiti sulla politica economica prefascista.Grazie a questo sguardo di storico, la battaglia contro il protezionismo e contro l’intervento dello stato nell’economia perde l’astrattezza di un atto di fede nell’infallibilità dei teoremi scientifici del liberismo e non si carica di nostalgie ruraliste o di toni antindustrialisti, ma assume la lucidità della rivendicazione politica di un diverso modello di decollo economico capace di non asservire lo stato al parassitismo di pochi gruppi di capitalisti, di non contrapporre gli interessi degli operai a quelli delle masse contadine meridionali e di assicurare migliori occasioni di progresso per l’agricoltura meridionale. Infatti alla difesa del punto di vista liberista in termini teorici, Luzzatto preferisce in ogni intervento l’analisi dei termini congiunturali delle questioni di politica economica e la comprensione degli effetti nefasti del protezionismo sulla società civile e sul sistema democratico italiano.
IVO MATTOZZI
dora m a r u c co , Mutualismo e sistema politico. Il caso italiano (1862-1904), Milano, Angeli, 1981, pp. 222, lire 8.000.
È quasi un luogo comune affermare che nessuna fonte è «obiettiva». Ma ogni stu
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dioso ogni volta che usa una data fonte si ritrova a dover affrontare i problemi connessi alla sua non « obiettività ». Così si sofferma ad indagare da chi e come è stata « costruita ». Talvolta l’indagine è così complessa ed approfondita che diventa essa stessa oggetto di ricerca. È il caso dell’opera che ho tra le mani. L’A. ha inteso studiare non tanto « cosa era il mutuo soccorso nella realtà italiana del periodo postunitario », quanto « quale importanza esso rivestiva agli occhi della classe dirigente liberale che mirava non soltanto a conoscerlo quantitativamente e qualitativamente, ma a disciplinarlo, a regolamentarne le forme, a inserirlo, attraverso il riconoscimento giuridico, nell’apparato statuale » (p. 8). L’interesse a conoscere e quindi a censire l’associazionismo mutualistico, rientra nell’ambito del più vasto interesse conoscitivo per i vari aspetti della realtà eco- nomico-sociale che la classe dirigente liberale mostra di avere e delle concezioni statistiche proprie della cultura positivistica italiana e straniera (a questa problematica è stato dedicato nel 1980 un apposito numero della rivista « Quaderni storici »). Le società di mutuo soccorso furono infatti più volte censite nel periodo 1862-1904. Una consistente mole di dati statistici fu raccolta tramite appositi organi dell’amministrazione dello stato. Ai criteri e ai modi con cui furono raccolti, l’A. dedica in particolare un intero capitolo (il quinto), in generale l’intera opera. Nell’impostare le rilevazioni statistiche si intese censire « il mutualismo, non perché espressione della solidarietà operaia, ma perché filantropismo, previdenza, semmai assicurazione; lo si censiva, cioè, in base ai fini che si proponeva, senza preoccuparsi di andare a fondo della sua effettiva realtà » (p. 149). Separare fin che fu possibile, grosso modo fino all’età giolittiana (alla quale si arresta appunto la ricerca della Manteco) l’associazionismo mutualistico dai problemi connessi alla « questione operaia » fu anche un « modo per dare del mutuo soccorso l’immagine che le classi dirigenti liberali avevano interesse a fornire » (p. 15). Fu del resto un « modo » seguito in tutti i paesi europei. Lo dimostrano i dibattiti svoltisi lungo i congressi internazionali e l’impostazione che alle rilevazioni statistiche sulle associazioni di mutuo soccorso dettero le organizzazioni internazionali (si v. al al riguardo il capitolo primo). Studiosi di rilievo e responsabili dei servizi statistici dello stato
taliano parteciparono attivamente all’elaborazione dottrinaria e all’organizzazione pratica di rilevamento dei dati messe a punto in ambito europeo. L’A., consapevole che l’uso del termine-concetto « classe dirigente liberale » finisce per « diventare generico e poco rispondente ad un contesto storico preciso » (p. 9) cerca di precisare, pur senza pretendere di tracciarne esaustive biografie, le figure (come Correnti, Maestri, Bodio) che nell’Italia postunitaria ebbero a livello tecnico e politico responsabilità di primo piano nell’impostazione dei lavori statistici. Ed indaga anche sui meccanismi istituzionali, cioè sull’organizzazione dei servizi statistici centrali e periferici, dei quali il ceto di governo si servì per la raccolta dei dati. I nessi tra documentaizone statistica via via raccolta e scelte politiche fatte dai governanti non sono facili da individuare. Uno dei nessi è da ricollegare, secondo l’A., all’esigenza di stabilire una politica di interventi che tendesse a uniformare e a disciplinare la variegata articolazione che caratterizzava il fenomeno dell’associazionismo mutualistico. Nel 1886 fu approvata una legge sul riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso. La legge non ebbe una gestazione facile e neppure una rapida applicazione (ai vari progetti e disegni di legge che a partire dal 1869 furono via via preparati, alle discussioni parlamentari intorno ad alcuni di essi, ai risultati che si riuscì ad ottenere nel corso dell’applicazione della legge del 1889 sono dedicati i capitoli terzo e quarto).Se raccogliere dati statistici fu una delle finalità perseguite dal ceto di governo per conoscere e controllare il fenomeno dell’associazionismo mutualistico, i dati prodotti dagli organi della pubblica amministrazione sono condizionati da questa finalità. I dati non sono cioè « neutrali », sono anzi, come è stato detto, in quanto « statistiche borghesi » inquinati di ideologia (p. 151). Riconoscere questi connotati nelle fonti statistiche non significa rigettarle per assumerne altre ritenute meno « inquinate ». Significa piuttosto collocare una delle fonti della società italiana ottocentesca nell’ambito del contesto generale e specifico che l’ha prodotta. Risulteranno metodologicamente più rigorose la « lettura » e l’uso che di essa si intenderà fare. Questa sembra essere anche l’opinione dell’A. che, come era nei suoi propositi (p. 14), ha compiuto un’indagine secondo un’ottica istituzionale, offrendo così un quadro di riferimenti ne
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cessari a chi vorrà successivamente analizzare, al fine di meglio precisare la fisionomia che ebbe in Italia il mutuo soccorso, i dati raccolti dalla pubblica amministrazione.
ISABELLA ZANNI ROSIELLO
Libri ricevutiEMILIO AGAZZI, MAURIZIO ANTONIOLI, IDOME- NEO BARBADORO, CAMILLO BREZZI, SALVATORE MASSIMO GANCI, UMBERTO LEVRA, ROBERTO r o m a n o , Mario s p in e l l a , La crisi di fine secolo (1880-1900), Milano, Teti, 1980, pp. 398, lire 15.000.È il 19° volume della Storia della società italiana diretto da G. Cherubini, F. Della Peruta, E. Lepore, G. Mori, G. Procacci, R. Villari.
g iu lia n o a m a to , Una repubblica da riformare. Il dibattito sulle istituzioni in Italia dal 1975 a oggi, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 226, lire 4.500.
ARCANGELI, BOGLIARI, BRUTI, LIBERATI, CON- SONNI, DELLA PERUTA, GHISIO, MAGGIOLI, MOTTURA, PETRILLO, SEGRE, STEFANELLI, Stato e agricoltura in Italia. 1945-1970, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 432, lire 10.000.
a rch iv io st o r ic o ansaldo , Fotografie Pho- tographs. 1890-1926, (Genova), 1980, sip. Raccolta di fotografie inedite, di cui alcune rarissime « autocromie » provenienti dall’Archivio storico Ansaldo.
aa .vv., L’imperialismo italiano e la Jugoslavia. Atti del convegno italo-jugoslavo. Ancona 14-16 ottobre 1977, Urbino, Argalia, 1981, pp. 622, lire 16.000.Il volume raccoglie contributi di Santarelli, Faucci, Apih, Diomedi Marini, Amatori, Millozzi, Giannotti, Pedace Naso, Sala, Mi- trovic, Matta Kaicn-Wohinz, Somai, Pani- zon, Vanello, Pajovic, Brcic, Pacor, Scalpelli.
aa.vv., Ottocento piacentino e altri studi in onore di Giuseppe S. Manfredi, Piacenza, Cassa di Risparmio di Piacenza, 1980, pp. 346, sip.Raccoglie i contributi presentati ad un convegno promosso dall’Istituto per la storia del Risorgimento di Piacenza in onore di Giuseppe Salvatore Manfredi. Hanno collaborato A.M. Ghisalberti, E. Morelli, V. Nevler, G. Rossi, A. Anelli, P. Castignoli,
M. Rossi, C. Artocchini, E. Carrà, G. Foriini, B. Perazzoli, R. Schippisi, V. Agosti, C.S. Fogliani, D. Rabitti, G. Berti, F. Moli- nari, F. Arisi.
(a cura di g u id o ba glio n i), Analisi della Cisl. Fatti e giudizi di un’esperienza sindacale, voli. 2, Roma, Edizioni Lavoro, 1980, pp. 759, lire 8.000.
ETTORE b a m b i, Stampa e società nel Salento fascista, con un’introduzione di Mario Isnen- ghi, Manduria, Lacaita, 1981, pp. 348, lire 10.000.
Fr a n c esc o barbagallo , Mezzogiorno e questione meridionale (1860-1980), Napoli, Guida, 1980, pp. 112, lire 5.000 (Aggiornamenti).Storia della questione meridionale e del meridionalismo dall’Unità ad oggi.
GIUSEPPE BARBALACE, PAOLO PIZZI, SERGIO St e f a n in i, 1900-1980. 80 anni di lotte per l’emancipazione e l’unità dei lavoratori nella pace e nella democrazia, Ancona, CGIL- Camera confederale del lavoro di Ancona e provincia, 1980, pp. 130, sip.Il volume comprende un saggio sulla Cdl dalle origini al fascismo, ed altri contributi sulle vicende del dopoguerra.
FILIPPO BARBANO, FRANCO GARELLI, NICOLA NEGRI, MANUELA olagnero , Strutture della trasformazione. Torino 1945-1975, Torino, Cassa di Risparmio di Torino, 1980, pp. 539, sip.Ricerche sociologiche sull’area torinese, in particolare sull’immigrazione, il terziario, la dinamica occupazionale e il pubblico impiego.
(a cura di angelo b en d o tt i), Il movimento operaio e contadino bergamasco dall’Unità al secondo dopoguerra, Bergamo, La Porta/ Centro studi e documentazione, 1981, pp. 182, sip.Contiene contributi di R. Amadei, A. Bendotti, G. Bertacchi, A. Cento Bull, G. Della Valentina, I. Lizzola, E. Manzoni, M. Maz- zucchetti, C. Ongaro, E. Quarenghi, C. Zoja.
Fr a n cesco b e n v e n u t i, L’età staliniana, Firenze, Le Monnier, 1981, pp. 99, lire 4.200 (Storia parallela).
Giancarlo Be r g a m i, Guida bibliografica degli scritti su Piero Gobetti. 1918-1975, Torino, Einaudi, 1981, pp. 555, sip.
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GIORGIO FUÀ, Problemi dello sviluppo tardivo in Europa. Rapporto sui paesi appartenenti all’Ocse, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 171, lire 5.000.Traduzione italiana riveduta della relazione sulle caratteristiche economiche dei paesi europei a sviluppo industriale recente.
An to n io g a m b in o , Storia e problemi del mondo d’oggi. 1943/1980, Roma-Bari, La- terza, 1981, pp. 383, lire 7.500.Il volume, destinato ad uso scolastico, comprende una narrazione degli avvenimenti e una parte antologica.
GIUSEPPE GIARRIZZO, FOSCO MARAINI, Civiltà contadina. Immagini del Mezzogiorno degli anni Cinquanta, a cura di Enzo Persichella, Bari, De Donato, 1980, pp. 263, lire 22.000. Repertorio fotografico sulla « civiltà contadina meridionale » presentato da Giarrizzo e dall’antropologo Maraini.
ivano GRANATA, Il socialismo italiano nella storiografia del secondo dopoguerra, Bari, Laterza, 1981, pp. XI-199, lire 10.000.
Fabio g r a s s i, Le origini dell’imperialismo italiano. Il caso somalo. (1896-1915), Lecce, Milella, 1980, pp. 578, lire 30.000.Storia della società contemporanea.
(a cura di Vit t o r io g r ev i), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, contributi di E. Dolcini, G. di Gennaro, E. Fassone, G. Tranchina, P. Corso, E. D’Angelo, M. Ferraioli, A. Giarda, T. Padovani, Bologna, Zanichelli, 1981, pp. 308, lire 12.000.
MORENO g u er za to , Silvio Trentin, un democratico dell’opposizione, Milano, Vangelista, 1981, pp. 227, lire 8.000.
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m a s s im o il a r d i, Metropoli e potere. La crisi del partito politico, Bologna, Cappelli, 1980, pp. 120, lire 4.000.Analizza il rapporto fra l’organizzazione partitica e la società civile, nel suo precipuo luogo di aggregazione: la metropoli.
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Ferdinando is a b e l l a , Napoli dall’8 settembre ad Achille Lauro, Napoli, Guida, 1980, pp. 385, lire 12.500.Primo volume di una serie di « Annali » pubblicati a cura della Deputazione dell’Emilia Romagna. I volumi avranno carattere monografico e si propongono di analizzare la realtà sociale della regione.
David i. k e r t z e r , Famiglia contadina e urbanizzazione. Studio di una comunità alla periferia di Bologna. 1880-1910, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 219, lire 12.000.
(a cura di r u d o l f l il l e Nicola m a t t e u c - c i), Il liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del ’48 alla prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 560, lire 25.000 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico. Quaderno 5).Contiene saggi di N. Matteucci, R. Lill, H. Feske, J. Becker, I. Crevelli, M. Rauch, A. Wandruszka, W. Altgeld, E. Passerin d’En- trèves, H. Ullrich, G. Are, R. Ruffilli, U. Corsini, M. Dumoulin.
JUAN J. LINZ, PAOLO FARNETI, M. RAINER l e p s i u s , La caduta dei regimi democratici, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 435, lire10.000.
Il volume comprende una prima parte, opera di J. Linz che studia il modello teorico
del crollo dei regimi democratici; nella seconda invece P. Farneti analizza il crollo della democrazia in Italia all’inizio del nostro secolo, e Rainer Lepsius in Germania negli anni venti; e ancora J. Linz nella Spagna repubblicana.
La lotta secolare del popolo romeno per l’indipendenza la libertà e l’unità nazionale. Documenti, Voli. IV, V, VI, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 408-359-281, sip.I volumi comprendono documenti dal 1791 al 1920.
paolo m acry , Introduzione alla storia della società moderna e contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 240, lire 8.000. Analizza i principali temi di indagine storica alla luce delle più moderne metodologie scientifiche.
M ir ia m m a f a i, L’apprendistato della politica. Le donne italiane nel dopoguerra, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 239, lire 4.200.
FRANCESCO MARMOTTA BROGLIO, VALERIO ONIDA, MARI ANGIOLA REINERI, ETTORE ROTEL- Li, La successione. Cattolici, stato e potere negli anni della ricostruzione, Roma, Edizioni Lavoro, 1980, pp. 120, lire 4.000.
dora m a r u c c o , Mutualismo e sistema politico. Il caso italiano (1862-1904), Milano, Franco Angeli, 1980, pp. 222, lire 8.000 (Istituto di scienze politiche Gioele Solari, Università di Torino).
ignazio m a s u l l i, Crisi e trasformazione: strutture economiche, rapporti sociali e lotte politiche nel bolognese (1880-1914), Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1980, pp. 316, sip.m a s s im o m a z z e t t i, L’industria italiana nella grande guerra, Roma, Ufficio storico dell’esercito, 1979, pp. 258, lire 6.500.II volume illustra lo sforzo compiuto dalla struttura industriale e dall’esercito per realizzare la mobilitazione e pianificare la. produzione militare. Oltre a numerose statistiche e tabelle il volume offre anche numerosi documenti (pp. 176-256).« Memoria », rivista di storia delle donne,n. 1, marzo 1981, Torino, Rosenberg & Sellier, pp. 139, lire 4.500.(a cura di Al b e r t o m io n i), Urbanistica fascista. Ricerche e saggi sulla città e il territorio e sulle politiche urbane in Italia fra le due guerre, Milano, Angeli, 1980, pp. 344, lire 14.000.
Stefa n o m u s s o , Gli operai di Torino. 1900- 1920. Prefazione di Francesco Cianfaloni, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 226, lire 5.000. Storia dell’organizzazione sindacale e delle lotte operaie dall’età giolittiana al primo dopoguerra.
cataldo NARO, La fondazione della Cassa rurale di S. Cataldo. Contesto sociale e religioso, S. Cataldo (Caltanissetta), Cassa rurale e artigiana « G. Toniolo », 1980, pp. 206, sip.
f ie r l u ig i pa l l a n t e , Il PCI e la questione nazionale Friuli-Venezia Giulia 1941-45, Udine, Del Bianco, 1981, pp. 283, lire 9.000.
Ma u r izio p u n z o , Socialisti e radicali a Milano. Cinque anni di amministrazione democratica (1899-1904), Firenze, Sansoni,1979, pp. 380, lire 15.000 (Biblioteca dell’Istituto socialista di studi storici).
Carlo l . r a g g h ia n ti, Marxismo perplesso. Arte cultura società politica, Milano, Editoriale Nuova, 1980, pp. 252, lire 10.000. Ristampa di vari saggi che raccolgono varie meditazioni sulle ideologie e i problemi politici e le vicende degli ultimi anni.
franco r iz z i , C o n ta d in i e co m u n iS m o . L a q u es tio n e agraria nella T erza In te rn a z io n a le . 1919-1928, Milano, Angeli, 1980, pp. 251, lire 8.000 (Storia delle ideologie e delle istituzioni contemporanee).
(a c u ra di Giorgio r o ch a t , gaetano sa t e - r ia l e , lid ia span o ), La casa in Italia. 1945-1980. Alte radici del potere democristiano, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 255, lire 4.600.Antologia di testi sulla politica urbanistica italiana nel secondo dopoguerra.
SERGIO r o m a n o , La Francia dal 1870 ai nostri giorni, Milano, Oscar studio Monda- dori, 1981, pp. 254, lire 5.000.
Ro b erto RUSCONI, Predicazione e vita religiosa nella società italiana da Carlo Magno alla Controriforma, Torino, Loescher, 1981, pp. 336, lire 7.500.
Gennaro s a s s o , La « Storia d’Italia » di Be
158 Rassegna bibliografica
nedetto Croce. Cinquantanni dopo, Napoli, Bibliopolis, 1980, pp. 106, sip. (Memorie dell’Istituto italiano per gli studi filosofici).
Mario s il v e s t r i , La prima guerra mondiale, Firenze, Le Monnier, 1981, pp. 114, lire 4.200 (Storia parallela).Il volume fa parte di una collana di uso didattico e comprende una prima parte saggistica ed una seconda antologica.
Do m e n ic o so r r en tin o , La Conciliazione e il « fascismo cattolico ». La figura di Egil- berto Martire, Brescia, Morcelliana, 1980, pp. 280, lire 10.000.m ic h e l e t a r u f f o , La giustizia civile in Italia dal ’700 a oggi, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 366, lire 12.000.
Alb e r t o t e n e n t i, I rinascimenti. 1350-1630, Firenze, Le Monnier, 1981, pp. 101, lire 4.200 (Storia parallela).
je r z y t o p o l s k i, La storiografia contemporanea, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp. 365, lire 12.000.
u n iv e r sit à DI Pe r u g ia , Materiali di storia. 3, « Annali della Facoltà di scienze politiche. a.a. 1978-1979 », 15, pp. 318, sip. Contiene gli atti del seminario su « Lo stalinismo nella società sovietica: origini e permanenze » con contributi di M. Reiman, V. Zaslavky, L. Aleksic-Pejkovic, A. Pitasso e F. Guida, M. Angelini Del Favero, F. Bracco, C. Scatamacchia, G. Pellegrini,F. De Napoli, V. Cecchini, R. Azoulay.
Gianfranco v en e , L’ideologia piccolo borghese. Riformismo e tentazioni conservatrici di una non classe nell’Italia repubblicana. 1945-1980, Venezia, Marsilio, 1980, pp. 202, lire 9.800.Ricerca sui condizionamenti imposti dalla cultura piccolo borghese ai grupppi ideologici dominanti.
(a cura di Ser g io z a n in e ll i), Il sindacato nuovo. Politica e organizzazione del movimento sindacale in Italia negli anni 1943- 55, di M. Abrate, A. Albertazzi, A. Cova,F. Duchini, F. Fonzi, M. Grandi, V. Saba,S. Zaninelli, Milano, Angeli, 1981, pp. 837, lire 30.000.