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130 Rassegna bibliografica Relazioni internazionali AA. VV., Politica internazionale, a cura di L. Bonanate, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. XVII-488, lire 20.000. Le più diverse impostazioni potevano adot- tarsi in un’opera che, bene o male, tende a proporsi come punto di riferimento per chi voglia accostarsi alla problematica della politica internazionale. Luigi Bonanate, uno dei maggiori artefici della diffusione in Ita- lia delle categorie interpretative della po- liticai Science americana nel campo delle relazioni internazionali, ha, in quanto cura- tore del volume, operato una scelta diretta a conciliare i due principali « tagli » di ac- costamento esistenti, quello storiografico « tradizionale » (pur con tutte le diversità esistenti tra le diverse scuole e autori) e quello politologico-internazionalistico di marca statunitense : secondo l’espressa inten- zione del curatore (p. 8) in tal modo il volume assume la funzione di elemento di passaggio da una tradizione culturale conso- lidata ad una ben più giovane impostazione di ricerca. Date le premesse, ci si potrebbe aspettare che una forte dualità caratteriz- zasse tutta la pubblicazione, formata da ventidue saggi diversi. Non è proprio così, ché l’aspetto metodologico innovativo nel- l’accezione sopra sottolineata viene confi- nato fin dall’inizio nei soli cinque saggi redatti da Bonanate, e poi appare davvero prevalente nel lavoro, sia pure centrale, de- dicato al Sistema internazionale. Tale ampio scritto è ricco di notazioni interessanti ma — non diversamente dall’impostazione po- litologica americana nel settore internazio- nalistico, da cui prende le mosse e mutua molte posizioni — non ci pare riesca a proporre un metodo di accostamento alla problematica internazionale superiore agli approcci tradizionali. Il ricorso a ipotesi e modelli generalizzanti e ad una « logica sistematica » non appare in grado di supe- rare la frammentarietà delle singole azioni politiche : se ciò dipenda dall’ancora giovane età dell’impostazione in esame della disci- plina, o se invece sia la stessa pretesa ad essere velleitaria, non può essere discusso in questa sede. Limitiamoci ad osservare come il nuovo tipo di accostamento si lasci a volte prendere la mano da discutibili intenti sistematici, al punto da rischiare o inutili fumisterie o scoperte dell’acqua cal- da. I criteri di spiegazione adottati a volte appaiono altresì evanescenti. Bonanate ad es. spiega (p. 360) il successo della creazione di un regime socialista a Cuba, diversamen- te da quanto poi capitò in Cile, sostenendo che il primo caso si rivelò compatibile con il sistema internazionale nel 1959, men- tre il secondo non lo fu nel 1973: di fronte a un’affermazione simile, non accompagnata da altre indicazioni, come sottrarsi all’im- pressione che il desiderio di verificare em- piricamente le sistematizzazioni operate ab- bia finito per far scambiare semplici con- statazioni per spiegazioni? Più oltre (p. 362) Bonanate precisa il suo pensiero affermando che in Cile Unidad Popular non ha avuto « la forza per scardinare il governo inter- nazionale », ma ciò rimanda a sua volta ad altri interrogativi sul perché quello non ab- bia potuto avvenire, e così si ricade in un approccio non sostanzialmente diverso da quello tradizionale di far la storia delle re- lazioni internazionali, basato sui rapporti di potenza... Troppo severa appare quindi la condanna della storia diplomatica, in parte pur rinnovatasi negli ultimi decenni; piuttosto deludente, inoltre, si rivela l’analisi del rapporto politica estera/politica interna, forse perché anche su tale tema l’analisi po- litologica non ha ancora raggiunto alcun accordo (p. 373); ecc. Le proprie qualità di studioso Bonanate me- glio le rivela negli altri saggi dell’opera. In quello su Strategia fa seguire ad una rilettura di Clausewitz — le cui osservazioni teoriche e metodologiche egli considera an- cora fondamentali — l’illustrazione dei suc- cessivi sviluppi militari, fino a prendere in considerazione la geopolitica e le teorie sulla guerra di guerriglia. Nelle brevi mo- nografie, in buona misura collegate tra loro, su Disarmo, Guerra fredda e Questione ato- mica, Bonanate in modo brillante ed equili- brato fornisce di ciascuna questione un quadro sia descrittivo sia interpretativo: particolarmente interessante è l’illustrazione dell’evoluzione della storiografìa sulla guer- ra fredda, fenomeno del quale l’A., con- formemente alle proprie opzioni metodolo- giche, tende a sottolineare l’inevitabilità « strutturale » nel sistema internazionale creatosi nel 1945. Gli scritti degli altri autori hanno un’impo- stazione storiografica per lo più tradizionale e fanno il punto ciascuno su un’importante questione. Enzo Collotti rivisita il Congres- so di Berlino (1878) richiamando l’atten- zione non soltanto sulla tradizionale pro- spettiva diplomatica (di cui, ci pare, egli

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130 Rassegna bibliografica

Relazioni internazionali

AA. VV., Politica internazionale, a cura diL. Bonanate, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. XVII-488, lire 20.000.

Le più diverse impostazioni potevano adot­tarsi in un’opera che, bene o male, tende a proporsi come punto di riferimento per chi voglia accostarsi alla problematica della politica internazionale. Luigi Bonanate, uno dei maggiori artefici della diffusione in Ita­lia delle categorie interpretative della po­liticai Science americana nel campo delle relazioni internazionali, ha, in quanto cura­tore del volume, operato una scelta diretta a conciliare i due principali « tagli » di ac­costamento esistenti, quello storiografico « tradizionale » (pur con tutte le diversità esistenti tra le diverse scuole e autori) e quello politologico-internazionalistico di marca statunitense : secondo l’espressa inten­zione del curatore (p. 8) in tal modo il volume assume la funzione di elemento di passaggio da una tradizione culturale conso­lidata ad una ben più giovane impostazione di ricerca. Date le premesse, ci si potrebbe aspettare che una forte dualità caratteriz­zasse tutta la pubblicazione, formata da ventidue saggi diversi. Non è proprio così, ché l’aspetto metodologico innovativo nel­l’accezione sopra sottolineata viene confi­nato fin dall’inizio nei soli cinque saggi redatti da Bonanate, e poi appare davvero prevalente nel lavoro, sia pure centrale, de­dicato al Sistema internazionale. Tale ampio scritto è ricco di notazioni interessanti ma — non diversamente dall’impostazione po­litologica americana nel settore internazio­nalistico, da cui prende le mosse e mutua molte posizioni — non ci pare riesca a proporre un metodo di accostamento alla problematica internazionale superiore agli approcci tradizionali. Il ricorso a ipotesi e modelli generalizzanti e ad una « logica sistematica » non appare in grado di supe­rare la frammentarietà delle singole azioni politiche : se ciò dipenda dall’ancora giovane età dell’impostazione in esame della disci­plina, o se invece sia la stessa pretesa ad essere velleitaria, non può essere discusso in questa sede. Limitiamoci ad osservare come il nuovo tipo di accostamento si lasci a volte prendere la mano da discutibili intenti sistematici, al punto da rischiare o inutili fumisterie o scoperte dell’acqua cal­da. I criteri di spiegazione adottati a volte

appaiono altresì evanescenti. Bonanate ad es. spiega (p. 360) il successo della creazione di un regime socialista a Cuba, diversamen­te da quanto poi capitò in Cile, sostenendo che il primo caso si rivelò compatibile con il sistema internazionale nel 1959, men­tre il secondo non lo fu nel 1973: di fronte a un’affermazione simile, non accompagnata da altre indicazioni, come sottrarsi all’im­pressione che il desiderio di verificare em­piricamente le sistematizzazioni operate ab­bia finito per far scambiare semplici con­statazioni per spiegazioni? Più oltre (p. 362) Bonanate precisa il suo pensiero affermando che in Cile Unidad Popular non ha avuto « la forza per scardinare il governo inter­nazionale », ma ciò rimanda a sua volta ad altri interrogativi sul perché quello non ab­bia potuto avvenire, e così si ricade in un approccio non sostanzialmente diverso da quello tradizionale di far la storia delle re­lazioni internazionali, basato sui rapporti di potenza... Troppo severa appare quindi la condanna della storia diplomatica, in parte pur rinnovatasi negli ultimi decenni; piuttosto deludente, inoltre, si rivela l’analisi del rapporto politica estera/politica interna, forse perché anche su tale tema l’analisi po­litologica non ha ancora raggiunto alcun accordo (p. 373); ecc.Le proprie qualità di studioso Bonanate me­glio le rivela negli altri saggi dell’opera. In quello su Strategia fa seguire ad una rilettura di Clausewitz — le cui osservazioni teoriche e metodologiche egli considera an­cora fondamentali — l’illustrazione dei suc­cessivi sviluppi militari, fino a prendere in considerazione la geopolitica e le teorie sulla guerra di guerriglia. Nelle brevi mo­nografie, in buona misura collegate tra loro, su Disarmo, Guerra fredda e Questione ato­mica, Bonanate in modo brillante ed equili­brato fornisce di ciascuna questione un quadro sia descrittivo sia interpretativo: particolarmente interessante è l’illustrazione dell’evoluzione della storiografìa sulla guer­ra fredda, fenomeno del quale l’A., con­formemente alle proprie opzioni metodolo­giche, tende a sottolineare l’inevitabilità « strutturale » nel sistema internazionale creatosi nel 1945.Gli scritti degli altri autori hanno un’impo­stazione storiografica per lo più tradizionale e fanno il punto ciascuno su un’importante questione. Enzo Collotti rivisita il Congres­so di Berlino (1878) richiamando l’atten­zione non soltanto sulla tradizionale pro­spettiva diplomatica (di cui, ci pare, egli

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pur finisca per sposare le principali acqui­sizioni) bensì sull’uso politico che Bismarck ne fece ai fini della politica interna tedesca (l’azione antirussa e invece filoaustriaca fa­vorì ad es. il riavvicinamento dei cattolici al governo) e pure sui suoi effetti economici successivi (penetrazione delle ferrovie a ca­pitale anche tedesco nel bacino danubiano- balcanico). Dall’episodio del Congresso Col­lotti trae inoltre lo spunto per una discus­sione del significato dell’esperienza bismar- ckiana nella storia tedesca, analisi che viene realizzata attraverso l’esame di alcune opere recenti della storiografia delle due Germa­nie. L’ampliamento del’ tema ai fattori « non-diplomatici » della politica estera e l’allargamento della prospettiva alla più ampia vicenda tedesca dei secoli XIX e XX sono comunque costretti in un arco di pa­gine troppo esiguo per permettere di formu­lare su tali questioni un giudizio inoppu­gnabile: certo indicano un terreno su cui sarebbe auspicabile in Italia si lavorasse di più.Opera ancora di Collotti è la monografia sulla Seconda guerra mondiale, che si pre­senta come un attento riesame delle fonti edite diplomatiche e militari, della memoria­listica, e dell’evoluzione di una storiografia fortemente influenzata dalla disequilibrata disponibilità delle fonti oltre che da molti altri elementi. Particolarmente stimolante appare l’illustrazione della storiografia « re­visionista » statunitense, la quale prende le mosse dagli esiti della guerra fredda. In tale ambito sarebbe stato forse opportuno sof­fermarsi, oltre che sulla problematica dei « cedimenti » di Roosevelt verso l’URSS ne­gli anni del conflitto, anche sulle discusse responsabilità deH’amministrazione america­na riguardo alla determinazione bellica del Giappone. Altresì, pur senza sottovalutare i problemi di spazio tipografico presentati dall’elevata messe di questioni connesse al­la seconda guerra mondiale, sarebbe stato utile dedicare più di un breve cenno alla diversa « qualità » ideologica — con tutte le implicazioni pratiche che comportò — che il conflitto ebbe dal 1939 al ’41, prima cioè dell’attacco tedesco all’URSS.Varie categorie interpretative, da quella pu­ramente diplomatica a quella legata alla problematica dell’imperialismo sono impie­gate da E. Apih, con molto equilibrio, per delineare efficacemente le caratteristiche e le tappe della Questione balcanica. D. Ardia riprende il tema già trattato da Apih e da Collotti nel saggio sul Congresso di

Berlino, e lo estende ai territori asiatici e nordafricani dell’impero ottomano: la sin­tesi, accanto alla tradizionale messa a fuoco del tema, ricorre utilmente anche alla ca­tegoria della modernizzazione per lumeg­giare alcuni aspetti della Questione d’Orien- te. Connesso in parte al precedente saggio per quanto riguarda la discussione della continuità delle vicende nell’area dall’800 ad oggi è il lavoro di G. Valahrega su Vicino Oriente-, pregevole è la disamina del­le tendenze storiografiche attuali al riguar­do (euro-americane e arabe, nelle loro diverse correnti) e, anche per la pacatezza con cui viene esposto, apprezzabile è lo sforzo di mettere in evidenza i condiziona­menti dell’accostamento occidentale (que­stione su cui è invece facile esagerare) allo studio di temi nei quali molto alto è spesso il coinvolgimento affettivo, ideologico, ecc. Sempre collegato al Medio Oriente è lo scritto sul Petrolio, opera di G. Luciani, il quale illustra la questione dal punto di vista sia tecnologico sia diplomatico-politico. Il saggio, che ha un’impostazione problema­tica, sottolinea molti interrogativi e i vuoti della storiografia e pubblicistica sul tema; peccato si limiti esclusivamente all’area ara­ba del petrolio, mentre anche altre regioni del mondo dovevano essere prese in consi­derazione (non è da dimenticare infatti, per fare un solo es., che il Venezuela è stato a lungo uno dei maggiori produttori mondiali, e che ebbe pure un ruolo decisivo nella creazione dell’OPEC nel 1960). R. Monteleone, autore della voce Imperialismo, più ampia delle altre, ha adottato un taglio soprattutto descrittivo : tale impostazionepare avergli preso a volte la mano, ché il saggio, pur interessante, non ha quell’inci­sività che forse sarebbe stata necessaria per cercare di definire un fenomeno certo esi­stente ma tanto difficilmente isolabile; lo scritto rischia a più riprese di trasformarsi in una storia generale degli ultimi cento anni, con tutte le problematiche che in essa confluiscono. Un esame più specifico del fenomeno, specie in rapporto alla storio­grafia, si trova in Colonialismo: la questio­ne, di G. Calchi Novati, e in Colonialismo: recenti sviluppi del dibattito, di A.M. Gen­tili. Poiché gran parte della stessa proble­matica e della medesima letteratura è af­frontata da entrambi gli autori, non avrebbe guastato una certa coordinazione tra i due scritti; la rassegna delle tesi esistenti sul tema è comunque pregevole, e Calchi No­vati sottolinea l’esigenza di continuare a

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ricercare spiegazioni unificatrici del feno­meno coloniale. Spiace un po’ che l’analisi si rivolga per lo più all’Africa negli anni classici del colonialismo, e trascuri quindi sia altri espansionismi coevi (russo, giap­ponese, ecc.) sia una discussione del feno­meno negli anni successivi (piuttosto esigui sono i riferimenti agli esperimenti, vice­versa interessanti, tentati da Francia, Olan­da, Portogallo ecc. nel secondo dopoguerra). Simile rimpianto suscita anche il saggio di A. Agnelli su Questione nazionale: l’autore tratta il tema con il rigore e l’ampiezza culturale già evidenziate nei suoi scritti mag­giori, ma come già in quelli prende in con­siderazione soltanto la problematica del­l’Europa centrale fino alla prima guerra mondiale. Peccato che non giunga ad abbor­dare le caratteristiche della questione nazio­nale in Europa negli anni successivi, o magari quelle incandescenti della stessa og­gi, fuori del continente europeo. Tale pro­blematica manca pressoché del tutto nel­l’opera, e anche nel saggio in cui poteva eventualmente rispuntare — Conflitto cino­sovietico, di E. Collotti Pischel — risulta assente: letto in tale ottica, risulta anzi sor­prendente che l’autrice applichi il termine « ribellione » alla insurrezione tibetana del 1959. La voce in questione prende comun­que soprattutto in esame il tema dal punto di vista della lotta ideologica, e le riman­gono estranee molte altre implicazioni del termine nelle interpretazioni date allo stesso da sovietici, statunitensi e cinesi; l’interes­sante disamina si ferma purtroppo di fatto intorno alla metà degli anni ’60, dato il limitato spazio concesso agli ultimi sviluppi internazionali.Il tema della Prima guerra mondiale è affi­dato allo storico britannico A.J.P. Taylor, il quale riprende necessariamente molte delle conclusioni già esposte nel proprio volume sull’Europa delle grandi potenze : il noto storico, portata a termine la sintesi critica delle varie questioni, indica come siano an­cora aperti molti problemi, tra cui quello, tanto dibattuto, delle origini del conflitto. Di altrettanto prestigio, è l’autore del sag­gio sul Congresso di Vienna, J.B. Duroselle. Ad una parte descrittiva, che concede ampi squarci alle vicende napoleoniche, egli fa seguire una parte problematica dedicata ai temi oggetti di dibattito tra gli storici e i politici. Se l’indicazione dell’autore è che uno dei pochi temi su cui appare ancora possibile indagare è il ruolo giocato dai problemi economici nei lavori del Con­

gresso, una delle note più positive del sag­gio rimane altresì quella di richiamare l’at­tenzione — unico in tutta l’opera in esame — sull’importanza del « materiale umano » nella politica internazionale, cioè sulla figu­ra degli statisti.Infine, completano il volume i saggi dedi­cati rispettivamente alla I, II e III Interna­zionale: opera di A. Arru, F. Andreucci,M. Flores, tali monografie ben illustrano il tema ma si esauriscono tutte in una « storia interna » alle vicende del movimen­to operaio e socialista che ha ben poco a che vedere con la politica internazionale, e del tutto oscuro rimane il « salto di qua­lità » — pur avvertito da Bonanate nell’/n- troduzione (p. 4) — compiuto con l’entrata sulla scena politica delle masse. Se nei sud­detti saggi manca il legame tra tema spe­cifico e la più generale vicenda politica internazionale, un’analoga impressione su­scita per lo più il volume nel suo comples­so : ogni singola voce appare utile, ma l’opera non costituisce — né del resto, se­condo il curatore, voleva esserlo (v. p. 8) ■—- un valido strumento per introdursi nel cam­po in oggetto.

ALDO ALBÒNICO

H. JAMES b u rg w y n , Il revisionismo fascista. La sfida di Mussolini alle grandi potenze nei Balcani e sul Danubio 1925-1933, Mi­lano, Feltrinelli, 1979, pp. 298, lire 10.000.

Viene pubblicato direttamente in Italia un lavoro nato come tesi di dottorato negli Stati Uniti e poi ampliato e rivisto. L’opera si presenta come un approfondito studio della politica estera fascista verso l’area danubiano-balcanica nel periodo che va dal trattato di Locamo alla vigilia dell’insedia­mento di Hitler al potere. Le complesse vicende del periodo sono seguite con atten­zione, e un’analisi serrata abbraccia la mu­tevole azione mussoliniana verso l’Austria, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia e gli altri paesi dell’area, spesso anche in rapporto al­la politica francese e britannica. Costruito per lo più sulle fonti diplomatiche edite, il lavoro tende a svilupparsi nell’ambito del­le cancellerie; per quanto riguarda l’impo­stazione di fondo, essa non si discosta da un generico orientamento antifascista, e le oscillazioni di Mussolini e la sua sopravva­lutazione delle possibilità italiane nel gioco della politica internazionale sono ampiamen­te sottolineate e stigmatizzate dall’A. Meno

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condivisibile è la sicurezza con cui Burg- wyn liquida come non consona agli interessi italiani la generale tendenza ad interessarsi dell’area sudorientale europea, mentre lo stesso non rivolge alcuna critica alla Fran­cia per un’analoga politica e tende anzi costantemente a sottovalutare il ruolo della diplomazia di Parigi all’interno della Pic­cola Intesa. Da rilevare altresì la tendenza dell’A. a sovrastimare l’importanza ideolo­gica quale movente della condotta di Mus­solini: su questo punto e in generale sul valore del « revisionismo » il volume avreb­be forse potuto giovarsi di un più attento confronto con parte della storiografia re­cente sul tema (R. De Felice, G. Rumi ecc.), mentre per quanto riguarda l’illu­strazione degli avvenimenti un maggior im­piego della pubblicistica coeva, italiana e dei paesi in oggetto, avrebbe aperto l’opera a panorami politici, ideologici ed economici ben più ampi. Nonostante i rilievi suddetti, il lavoro nel complesso si segnala sempre come interessante e vari elementi di novità presentano alcuni capitoli (massime quello dedicato alla ricostruzione degli aiuti mus- soliniani ai movimenti irredentisti balcanici e specie ai terroristi macedoni). Nella ben curata traduzione italiana a volte stona qualche incongruenza (Mussolini premier, p. 23; partito « agrario » bulgaro al posto di partito contadino, così che si ha « agrari con simpatie comuniste », p. 101; ecc.).

ALDO ALBÒNICO

jer zy w. b o r e js z a , Il fascismo e l’Europa orientale. Dalla propaganda all’aggressione, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 306, lire18.000.

È un segno positivo che l’editoria italiana abbia curato in due anni, tra il 1979 e quel­lo in corso, la pubblicazione del libro di Burgwyn sul revisionismo fascista nell’area balcanica e ora lo studio del polacco Bo­rejsza. Le due opere, oltre all’apporto che possono dare alla stentata produzione italia­na sui nostri rapporti in età contemporanea con l’Europa orientale vanno tenuti sotto gli occhi in opportuna coincidenza con l’u­scita del recente nuovo volume del Musso­lini di R. De Felice: destinato anche, e spe­rabilmente, a riaprire un più fruttuoso dibat­tito sulla politica estera dell’Italia fascista. Lo studio di Borejsza, basato su un ampio materiale documentario (molti gli apporti di prima mano) e sul relativo esauriente corredo di letteratura, non si limita ad ana­

lizzare il rapporto propaganda fascista ita- liana-nascita e sviluppi di movimenti fascisti e regimi autoritari nell’Europa orientale. L’autore, attraverso la considerazione degli specifici strumenti di persuasione/consenso esportati da Roma oltre frontiera, vuol dare un’interpretazione complessiva della spinta espansionista italiana in quella parte d’Eu­ropa. Viene poi stabilito un confronto con l’intervento concorrenziale nazista.Non sottovalutiamo certamente le limita­zioni di varia natura che oppongono gli archivi (specialmente quelli italiani): il giu­dizio di più lungo periodo offre il vantaggio di aiutarci a superare i limiti di settorialità e di astrazione insiti nello studio delle « pro­pagande ». Eppure avremmo preferito un taglio monografico che approfondisse tutta una serie di elementi conoscitivi in ordine a problemi e situazioni. Ad esempio, sulla stampa di varia periodicità (contenuti tema­tici, gruppi redazionali, indici di diffusione) e sull’uso e gli obiettivi dei nuovi media, come nel caso dei cicli oratori radiofonici o della presenza della cinematografia italia­na nei vari paesi (non legata necessaria­mente alle ragioni più immediate di partito). Così avremmo desiderato una più ricca ar­ticolazione di alcune realtà regionali (quelle pure riuscite in abbozzo dei paesi baltici, della Polonia, della Bulgaria). Del resto l’autore è consapevole della necessità che altri lavori esaminino compiutamente gli strumenti di penetrazione dei fascismi « e- sportati » e di quelli autoctoni.Spesso — per l’arco prescelto della periodiz- zazione, forse, e per la disparità dei mate­riali presi in esame — l’esposizione di B. risulta disorganica. Nemmeno ci convincono le « proposte di analisi tipologica » sul fa­scismo che l’autore avanza. Inevitabilmente, nell’economia di un lavoro come questo, colpisce la genericità di osservazioni quali « la forza di attrazione del fascismo risiede nella sua propoganda economica e sociale, comunque demagogica » (p. 33). Oppure, a spiegare sempre quella « forza d’attrazio­ne » : « Non bisogna neppure ignorare la forza d’urto che ebbero la sia pur tempo­ranea scomparsa della disoccupazione, la diffusione dell’istruzione, l’intrapresa di la­vori pubblici, la bonifica delle paludi, la fondazione di nuove città » (p. 23). Contraddittorio il giudizio accolto sulla « moderazione » di Grandi dal momento che si riconoscono poi le premesse e gli effetti pratici delle posizioni assunte e dei servizi resi al fascismo e a Mussolini da

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un ministro degli Esteri tutt’altro che alter­nativo (e qui ci sembrano pienamente con­vincenti gli elementi conoscitivi e i giudizi offerti da Burgwyn sulla diplomazia di Grandi).Oltre ai dati specifici di ricerca destinati allo studioso, il libro invita comunque un pubblico più vasto ad una conoscenza non superficiale dell’assieme del fenomeno fa­scistico in tanta parte d’Europa. Immagi­niamo che il lettore italiano farà autentiche scoperte seguendo l’autore nei meandri delle destre europee (si pensi a quel filo nero antisemita che va dall’Austria alla Grecia, per citare due paesi tanto diversi. Oppure alle varie « dittature dei re », alle tormen­tate vicende romene, fino al lontano am­biente politico finlandese).Il giudizio di B. diviene tanto più calzante quando la ricostruzione stabilita dall’autore tiene concretamente conto dell’assunto : « il fascismo educò la destra europea a tenere in maggior conto gli umori delle masse... esso fece conoscere nuovi metodi di lotta e nuove tecniche di colpi di stato » (p. 261). Ci pare esauriente e particolarmente utile la parte che prende in esame l’attività dei fasci all’estero (con alcuni notevoli apporti documentari) e quella dedicata ai Caur. La figurina a tutto tondo che ne esce di Co- selschi, avventuriero minore che attraverso i suoi traffici e i suoi misfatti approda indenne sulle sponde dell’Italia repubblica­na, induce ad una considerazione più pre­cisa. Il moltiplicarsi, cioè, di canali paralleli nella propaganda fascista all’estero — quel­la grande « agitazione » (fa bene l’autore a mettere almeno in dubbio 1’« estraneità » vantata del personale agli Esteri da tante spazzature!) che pare muoversi a vuoto — mostra anche la debolezza complessiva di una trama, ma mette soprattutto in rilievo la funzione mediatrice che lo stato-regime italiano viene ad assumere tra gruppi pri­vati, corporazioni di interessi, istanze di partito. È una connotazione ancora una volta « moderna » del fascismo che merita di essere rilevata anche sul versante della propaganda.

TEODORO SALA

David k . f ie l d h o u s e , Politica ed economia del colonialismo. 1870-1945, Bari, Laterza, 1980, pp. 217, lire 4.500.

L’autore di questo saggio, uno fra i più noti studiosi di storia del colonialismo, è

conosciuto al lettore italiano soprattutto per il suo Economics and Empire. 1830-1914, tradotto col titolo L’età dell’imperialismo. 1830-1914 (Bari, Laterza, 1975). Il notevole contributo di conoscenze offertoci dalla sua produzione storiografica è stato quasi sem­pre affiancato da una critica della conce­zione marxista dell’imperialismo, a cui egli ha spesso opposto una visione che potrem­mo definire « pragmatica », che sollecitava a guardare ai « fatti » storici che vanno sot­to la voce di « età dell’imperialismo » senza essere condizionati da troppo rigidi schemi teorici. E sebbene nella sua produzione più recente vi fosse stata una « rivalutazione » dell’aspetto economico dell’imperialismo, questo si configurava come un mero « fat­tore » addizionale, giustapposto ad altri « fattori » che nell’insieme e nel loro reci­proco intrecciarsi costituiscono la comples­sità della storia. Non a caso egli sembrava condividere l’opinione di Popper secondo cui « dalla storia non si può ricavare alcuna generalizzazione su cui basare utilmente le azioni future » (cfr. m . ba rr a tt b r o w n , L’e­conomia dell'imperialismo, Bari 1977, p. 7). A quali eccessi questa concezione possa con­durre è dimostrato dal nuovo denso saggio tradotto per Laterza dove, come già in ope­re precedenti e come lo stesso autore am­mette, la nozione di imperialismo è utiliz­zata in modo relativamente ristretto, per indicare « la dinamica della formazione de­gli imperi coloniali » (p. 8).L’A. afferma di voler porre in discussione « tre preconcetti », ossia che esistessero « alternative concrete all’epoca in cui il pro­cesso coloniale si andava verificando, prefe­ribili a questo [...] che gli aspetti negativi di cui ci si lamenta fossero, da parte degli imperialisti intenzionali e... infine che i suoi effetti fossero in ogni caso deplore­voli » (p. 13). Per raggiungere questo risul­tato egli prende in rassegna quelli che a suo parere sono i « prò » e i « contro » del colonialismo giugendo alla conclusione salo­monica che esso « non merita né le lodi né le critiche che gli sono state fatte », poiché « anche se fece relativamente poco per sconfiggere le cause della povertà 'nelle colonie, non le rese neppure povere per la prima volta » (p. 195). Il colonialismo fu, a parere dell’A., uno sviluppo in gran parte « accidentale » e in nessun modo può essere considerato responsabile del « sottosvilup­po » delle colonie, le cui cause profonde vanno invece ricercate nella loro « intrin­seca povertà ».

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Gli argomenti addotti dall’A. a sostegno di questa tesi appaiono assai deboli e poco persuasiva è la netta separazione ch’egli opera nel testo fra aspetti « politici » — in­tesi soprattutto in senso giuridico-ammini- strativo —- e aspetti « economici », la quale più che dettata da esigenze analitiche riflet­te una precisa concezione. È sufficiente fare qualche esempio per dare un’idea del modo di procedere dell’A. nel suo ragionamento. Egli ammette, per es., che « prima del 1945 le potenze coloniali non compirono alcun passo per incoraggiare l’industrializzazione in nessuno dei loro possedimenti e che sotto vari aspetti la loro politica economica la scoraggiava » (p. 172), ma aggiunge su­bito dopo, quasi ad equilibrare la compro­mettente ammissione, « che d’altra parte, nessun governo imperiale si spinse tanto oltre da proibire addirittura... la creazione di industrie nelle colonie» (p. 172): come se le politiche economiche adottate dalle metropoli non ottenessero nella sostanza gli stessi effetti di una esplicita proibizione! Per FA., invece, questa assenza di sviluppo industriale fu dovuta alla « mancanza di talento imprenditoriale » degli indigeni, alla « scarsità di capitali a lungo termine » (ma non era questo un effetto della politica co­loniale delle metropoli?) e così via. Analo­gamente, mentre egli conferma che le po­tenze coloniali sono state « troppo inclini a incentivare la coltivazione di prodotti utili per le economie metropolitane » fa­cendo sì che ne risultasse quello che « i marxisti chiamano sviluppo non uniforme » (p. 171), sottolinea subito dopo come «re­sta... aperta la questione se qualsiasi altro tipo di sviluppo economico... avrebbe po­tuto risolvere i problemi economici di queste regioni intrinsecamente povere » (p. 171), volendo suggerire non solo che non potevano esistere alternative al colonia­lismo ma che, soprattutto, esso fu il male minore.La rassegna dei « pro » e dei « contro », quasi tutti così concepiti, potrebbe continua­re a lungo. Ma al di là delle argomenta­zioni specifiche è l’intero modo di procedere che sembra ispirarsi ad una concezione per la quale la storia non è da compren­dere criticamente nella sua intima unità enei suo i sv ilu p p i ed effe tti, m a sem plice- m en te d a « a ssu m ere » in se ste ssa in fo rm a a v a lu ta tiv a , q u asi co n g erie d i fa tti, d i « f a t to r i », leg a ti t r a lo ro in m o d o spesso acc id en ta le , c h e sfugge ad og n i c o m p re n ­

sione ra z io n a le . AnGEL0 Montenegro

Gia m p ie r o ca rocci, L’età dell’imperialismo, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 326, lire5.000.

Se si studiasse la fortuna della nozione di « imperialismo » in Italia, l’elemento che salterebbe maggiormente agli occhi sarebbe probabilmente lo squilibrio tra la forte ideologizzazione e la superficiale disinvol­tura con cui se ne fa uso, da una parte, e la povertà della produzione storiografica relativa al periodo storico indicato come « età dell’imperialismo », dall’altra. Sinto­matico di questo squilibrio è la mancanza in Italia di opere d’insieme paragonabili a quelle prodotte all’estero, alle quali si è quasi sempre dovuto ricorrere.Basterebbe questa considerazione a farci apprezzare il tentativo di uno storico d’i­spirazione marxista come Carocci di affron­tare l’intero periodo storico in un volume di ampia sintesi, che vuole essere una ve­rifica di assunti metodologici maturati nel corso di un’esperineza di studio ormai più che decennale, attraverso un confronto cri­tico, largo e spregiudicato, con la migliore letteratura intemazionale prodotta sull’ar­gomento. Del resto la bibliografia pubbli­cata in appendice al volume, che ha i caratteri di un vero e proprio saggio biblio­grafico, dà la misura dell’ampiezza dell’in­formazione, da cui egli sa trarre gli ele­menti essenziali, utilizzandoli secondo un ordine logico e cronologico ben meditato. Facendo proprie le considerazioni svolte da uno studioso non marxista come Fieldhou- se, l’A. sottolinea come il cosiddetto « fat­tore economico » vada considerato più che come « causa immediata » dell’imperialismo, come un « prerequisito », inteso « nel senso che la sua presenza favorisce l’imperiali­smo » (p. 8). Politica ed economia sono troppo inestricabilmente intrecciate per sta­bilire a priori un ordine gerarchico di « fat­tori » cui ricondurre i complessi fenomeni storici. Ugualmente unilaterale — sostiene ancora FA. — sarebbe poi voler ridurre l’imperialismo a pura politica estera, poiché questa è sempre legata « oltre che alla situa­zione internazionale, a quella interna... dei singoli stati e paesi » (p. 9). È anzi proprio l’intreccio di economia, società, politica e cultura sempre « più funzionale all’imperia­lismo... sempre più causa e conseguenza di questo» (p. 11), a conferire all’età dell’im­perialismo un carattere « epocale » ben distinto. Su questa base l’A. ribadisce la periodizzazione 1870-1914. E sebbene egli

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sottolinei l’importanza concettuale della di­stinzione fra imperialismo formale, inteso come conquista territoriale, e imperialismo informale, concepito come mera penetra­zione economica, ne mette in evidenza an­che i pericoli intrinseci, come quello di confondere 1’« età deH’imperialismo » pro­priamente detta con gli anni dell’espansione commerciale inglese, sviluppatasi in un con­testo di libera concorrenza prima del 1870. Carocci riconosce bensì in questa politica le « origini lontane », « il quadro generale che rende possibile, o quanto meno facilita grandemente, l’imperialismo» (p. 11), ma respinge la tendenza di alcuni studiosi a retrodatare di oltre un cinquantennio gli inizi dell’« età dell’imperialismo ».Dalla traduzione di questi assunti metodo- logici in ricostruzione viva, in ricerca di nessi e relazioni fra politica estera e politica interna, fra economia, politica e società, emerge una visione d’insieme misurata e persuasiva. Questa sarebbe stata forse raf­forzata da una considerazione più approfon­dita del ruolo svolto dalle « ideologie » e dalla « cultura » dell’imperialismo. È que­sto l’aspetto che sembra meno integrato nella ricostruzione generale (sintomatico che in relazione all’imperialismo tedesco non sia mai menzionato Treitschke). Non è spiegato, ad esempio, perché 1’« opinione pubblica » venga assumendo per la prima volta in questi anni importanza decisiva co­me elemento di pressione sui governi in direzione di un’espansione territoriale e quali furono le conseguenze che il fattore « consenso » ebbe sulle scelte politiche e sulla formazione e diffusione di ideologie espansionistiche.L’osservazione tuttavia rimane marginale rispetto al quadro generale presentatoci, con il quale l’A. dimostra una sicura padronanza dei problemi ed equilibrio di giudizio, non senza aperture problematiche e indicazioni di lacune, con il sopporto di uno stile asciutto e serrato che è una delle caratte­ristiche di tutti i suoi scritti.

ANGELO MONTENEGRO

Fra nc esc o su r d ic h , Esplorazioni geografi­che e sviluppo del capitalismo nell’età della rivoluzione industriale. I. Fasi e caratteri­stiche dell’espansione coloniale. II. Espan­sione coloniale e organizzazione del con­senso, Firenze, La Nuova Italia, 1980, lire 8.000.

Con questi due volumi la sezione Geografia

della collana Strumenti, diretta da Massimo Quaini, giunge alla tredicesima pubblicazio­ne. Entrambi articolati in Introduzione, Bi­bliografia, Fonti, Scritti di storici, cercano di tradurre in forma concreta uno degli scopi principali di questa sezione, che vor­rebbe offrire « strumenti di lavoro non solo per la ricerca ma anche in funzione di una nuova didattica comprensiva di tutte le ini­ziative di scolarizzazione ».Nella sua ampia introduzione l’A. tende a individuare la causa prima, strutturale del colonialismo nel crescente bisogno di espan­sione economica e commerciale provocato dalla cosiddetta « rivoluzione industriale », sviluppatasi in modo impetuoso nei princi­pali paesi europei nella seconda metà del secolo XIX. Derivò principalmente da que­sto bisogno la spinta che condusse le grandi potenze ad ingaggiare una lotta violenta per l’accaparramento dei territori lasciati fino a quel momento « liberi » in Asia e in Afri­ca. Una delle espressioni più tipiche di que­sta corsa alle colonie fu rappresentata dal- l’intensificarsi delle attività d’esplorazione di cui furono protagonisti missionari, militari, geografi e avventurieri d’ogni risma, sotto gli auspici di diverse organizzazioni colo- nialiste e con il sostegno finanziario degli stati interessati.Questa interpretazione economica del nesso fra « rivoluzione industriale » e colonialismo si riflette particolarmente nella scelta delle fonti presentate, consistenti in massima par­te di scritti di protagonisti dell’espansione coloniale, nei quali è posta in luce « l’espli­cita consapevolezza... dello stretto legame esistente tra esigenze dell’economia capitali­stica di quegli anni e l’ondata di iniziative espansionistiche che la caratterizzarono » (v. I, p. 6). Questo taglio conduce talvolta l’A. a stabilire relazioni un po’ troppo meccani­che tra economia e colonialismo e a sotto­valutare altri aspetti di questo fenomeno, sebbene egli non neghi in linea di principio l’importanza dei fattori di « natura etico­politica, psicologica, ideologica, ecc. ».Molto opportuna ci sembra la scelta di de­dicare il secondo volume al tema dell’orga­nizzazione del consenso, che fu uno degli aspetti più nuovi e rilevanti del moderno colonialismo e che rivelò l’importanza cre­scente che l’opinione pubblica venne acqui­stando come elemento di condizionamento delle scelte politiche dei governi europei. Derivò soprattutto da questa consapevolezza la nascita in quegli stessi anni delle Società geografiche, degli Istituti coloniali e dei

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Congressi geografici internazionali, che in­sieme concorsero attivamente alla elabora­zione e diffusione di motivazioni « scientifi­che » e « umanitarie » delle conquiste terri­toriali, cercando di giustificarne gli aspetti più truci.

ANGELO MONTENEGRO

Gian Gia c o m o m ig o n e , Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell'egemonia ameri­cana in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980, lire 13.000.

Alcuni anni fa, lo storico americano J.P. Diggins ci aveva dato nel saggio tradotto per l’editore Laterza, L’America, Mussolini e il fascismo, uno squarcio assai interessante degli atteggiamenti dell’opinione pubblica, della classe dirigente e della diplomazia americana verso raffermarsi e il consoli­darsi del fascismo. Con altre opere dello stesso tenore, apparse in Italia e in Ame­rica, lo studio del Diggins lasciava nel let­tore una certa insoddisfazione sia per il taglio prevalentemente giornalistico che lo sostiene, sia per la vaghezza di un preciso quadro di riferimento in cui collocare le vicende dei rapporti Stati Uniti-fascismo. Con il denso e puntuale saggio di Migone, articolato in quattro capitoli dedicati rispet­tivamente a Gli Stati Uniti e l’avvento del fascismo in Italia, La politica economica de­gli Stati Uniti nei confronti dell’Italia, Gli Stati Uniti di fronte alla grande crisi, Roosevelt e l’Italia fascista, dalla conferenza economica di Londra alla guerra d’Etiopia (1933-1936), e preceduto da un’ampia in­troduzione su Le origini dell’egemonia ame­ricana in Europa, la questione dei rapporti Stati Uniti-fascismo si disancora, per così dire, dall’immediata incoerenza e dai di­versi interessi e valutazioni che possono riflettersi nel giudizio giornalistico, e si so­stanzia di una coerente linea politica di intervento economico-finanziario perseguita dagli Stati Uniti nei confronti dell’Italia fascista.E non si tratta, si badi bene, di una linea di intervento economico-finanziario apriori­sticamente presupposta e scontata, trattan­dosi di esaminare rapporti tra paesi capita­listici di diverso rilievo e peso economico in campo europeo e mondiale; ma di una linea induttivamente ricavata dalla miriade di documenti diplomatici, economici, finan­ziari che l’autore ha potuto consultare nei loro naturali istituti. All’autore va pertanto

riconosciuta una non comune capacità di analisi e di lettura del documento, unita ad una logica stringente e sempre controllata nel ridurre ad una coerente visione la com­plessa e articolata questione dei rapporti tra Stati Uniti e fascismo.Ma pare evidente che se il risultato della ricerca di Migone è quello di aver mostrato, al di là di differenziazioni e contrasti che pur ci sono nella classe dirigente americana circa i modi e i tempi di intervento in Ita­lia, coerenza di propositi e continuità di intenti prima insospettati della politica este­ra americana verso l’Italia fascista da parte delle diverse amministrazioni, repubblicane o democratiche; la politica americana di in­tervento economico-finanziario ha un obiet­tivo più ampio e più vasto, sia spaziale che temporale : l’Italia rappresenta un « caso » del generale fenomeno delle origini dell’e­gemonia americana in Europa, le cui prime manifestazioni si hanno appunto all’indo­mani della prima guerra mondiale di fronte ad un’Europa sconvolta dal caos monetario e da problemi di ordine economico e so­ciale.Per la prima volta nella storia, l’America si presenta all’Europa come grande nazione creditrice, un apparato produttivo cresciuto enormemente sia quantitativamente che qua­litativamente, un reddito interno in con­tinua espansione, ceti economici e classe dirigente preoccupati di mantenere attivi vecchi mercati e di assicurarsene di nuovi perché timorosi del prodursi di una divari­cazione tra offerta e domanda. Un capita­lismo dunque che, avendo sperimentato du­rante la guerra quanto possa giovargli l’uso dello stato per la regolamentazione dell’a­narchia economica e per reprimere le ri­vendicazioni operaie, affida la propria capa­cità espansiva alla forza economica, indi­pendentemente dal tipo di regime che veniva a sostenere o a favorire. Ed è una forza economica che per espandersi e affermarsi ha bisogno di pace e di ordine, di stabilità sociale e di garanzie nello spostamento dei propri capitali.Queste condizioni corrispondenti all’esigenza del capitalismo americano di espandersi in Europa, anch’essa bisognosa di ordine e di stabilità di fronte all’onda rivoluzionaria bolscevica, meglio di altri regimi le offre il fascismo, e in particolare quello italiano i cui rapporti, per un lungo tratto di tempo, subiranno scarse e non sostanziali incrina­ture. Anzi agli occhi dei capitalisti e della classe dirigente americana, esso rappresenta

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il regime ideale da esportare in altri stati onde permettere una facile- e indolore pe­netrazione della propria forza economica. All’interno di questo quadro, dominato dal ruolo nuovo, di dominio e di egemonia, che il capitalismo americano intende esercitare, e dalla esigenza dell’Europa di utilizzare capitali freschi per la propria ricostruzione, avviene rincontro tra Stati Uniti e fascismo. Al di là di quelle che sono le complesse e tortuose vicende della diversa impostazione della soluzione dei debiti e delle riparazioni di guerra che si intrecciano tra gli Stati europei fra i quali la Germania doveva rappresentare il perno della ripresa europea voluta dal capitale americano, merita qui di venir segnalato il tipo e il modo del rap­porto che si istituisce tra Stati Uniti e fa­scismo. Privilegiando, in attesa che l’inte­ra Europa ritorni alla pace e all’ordine, il fascismo italiano come terreno ideale della propria penetrazione, il capitalismo ameri­cano impone all’Italia un vero e proprio rapporto di dipendenza: il riconoscimento all’Italia della capacità contributiva in rela­zione al pagamento del debito di guerra e il conseguente controllo, da parte america­na, dei limiti entro i quali essa può aggi­rarsi, ne sono l’esplicazione più concreta e trasparente. Un altro fatto può essere an­cora addotto: la Banca Morgan, vera domi- natrice del mercato finanziario americano, è non solo la mutuante esclusiva che blocca ogni tentativo di ricerca di altri possibili finanziatori per l’Italia, ma anche la consi­gliera, ascoltata e onnipresente, non solo su questioni strettamente finanziarie, ma anche su un più ampio ventaglio di rapporti: da quelli diplomatici a quelli dei contatti e relazioni con l’opinione pubblica americana. Ma rapporto di dipendenza non significa subordinazione completa alla direttiva ame­ricana: Mussolini, col suo fiuto animalesco, intuisce l’intento pacificatore del capitali­smo americano, ne sfrutta gli obiettivi di stabilizzazione a fini interni, economici (sta­bilizzazione della lira) e politici (prestigio del regime derivante dall’inserimento del­l’Italia nel mercato americano). Ma direi che Mussolini intuisce qualcosa di più di Volpi e di Beneduce a proposito del dise­gno egemonico del capitale americano in Europa: in discussione, per lui, non è que­sto disegno, che viene accettato; ma la cautela e la titubanza con le quali la classe dirigente americana cerca di attuarlo. Di qui la porta che Mussolini si lascia sempre aperta, cioè la possibilità di scegliersi l’al­

leato o di cambiarlo a seconda delle oppor­tunità politiche. D’altra parte ancora la crisi del ’29, come ha rilevato G. Kolko, non ha prodotto l’ossessiva paura che yn evento di tal fatta non debba mai più prodursi per l’economia americana, né il mercato finan­ziario e monetario inglese è in via di liqui­dazione e né gli istituti di governo del capitale sono dominati interamente dagli americani, come avverrà, invece, nel secon­do dopoguerra.Sarà infatti l’esperienza degli anni Trenta, la « liquidazione » dell’esperienza roosevel- iiana, in particolar modo la tendenza a frantumare questioni di politica economica interna e internazionale, a imprimere al capitalismo americano una capacità aggres­siva e una abilità di manovra degli istituti finanziari e monetari internazionali tuttora sconosciute, perseguendo il disegno dell’e­gemonia europea e, per certi versi, mon­diale del capitale. Su questo complesso e attuale problema del mondo contemporaneo il saggio di Migone, del quale molte parti siamo stati costretti a tralasciare, ha richia­mato opportunamente l’attenzione con una analisi quanto mai precisa e puntuale.

GIAMPAOLO PISU

claudia d a m ia n i, Mussolini e gli Stati Uniti 1922-1935, Bologna, Cappelli, 1980, lire 7.500.Lo studio della Damiani, studio che si inse­risce in tutto un filone di ricerche intraprese da storici italiani e stranieri e dirette a co­gliere la consistenza dell’appoggio americano al fascismo, cerca di toccare, come precisa l’autrice, tutti gli aspetti dei rapporti fra Roma e Washington sul piano diplomatico, politico, economico e sociale. 11 lavoro, co­me si dice ancora, trascura l’interscambio culturale fra i due paesi, in quell’epoca peraltro relativamente modesto, a parere della Damiani, ed è basato sulla consulta­zione diretta di documenti diplomatici e politici, anche inediti, sia italiani che statu­nitensi e britannici, e sulla lettura di buona parte della storiografia esistente in materia, nonché della stampa dell’epoca.Il compito che la Damiani si è preposta non è dei più semplici o di facile attuazione perché, su una serie di interrogativi che i rapporti Stati Uniti-fascismo pongono agli studiosi e che la stessa Damiani non manca di rimarcare (appoggio del capitale ameri­cano al fascismo, impresa di Corfù e atteg­

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giamento americano, delitto Matteotti e questione dei rapporti tra Stato italiano e la Sinclair Oil Company, cattolici americani e Concordato, economia « fascista » e New Deal), le risposte della storiografia sono an­cora allo stato fluido e punti di ancoraggio sicuro tardano ancora a venire. Così, tanto per fare un esempio, non mi pare si possa tranquillamente affermare, come fa la Da­miani, in tema di rapporti economici tra i due paesi, che : « In effetti, il sistema corporativo, ancorché negazione di ogni li­bertà democratica (con le leggi sul lavoro dell’aprile ’26 e la Carta del Lavoro del 1927 era lo Stato a manovrare i salari ed era stato soppresso ogni diritto sia di scio­pero che di serrata) e di ogni principio del libero mercato (erano le corporazioni a sta­bilire i costi di produzione e i prezzi di vendita) aveva consentito all’Italia di uscire dalla crisi economica mondiale assai più rapidamente che non agli Stati Uniti »; op­pure che, all’indomani del ’29, cessata ogni sudditanza, implicita o esplicita di Roma nei confronti di Washington, « sotto alcuni aspetti sembrava quasi che una funzione di leadership fosse stata assunta dall’Italia, cui gli Stati Uniti si erano, pure con alcune differenze fondamentali, in parte ispirati per il loro programma di rilancio economico » (p. 259).Problemi di questa portata comportano in­dagini più accurate e punti di .riferimento più precisi per ciò che concerne la nuova dinamica che il capitalismo americano spe­rimenta all’indomani del ’29, che non mi pare la Damiani tenga sufficientemente pre­sente. Ma, a parte questi rilievi che non toccano la consistenza e l’utilità del lavoro per il contributo che dà al chiarimento de­gli interrogativi prima posti, la Damiani procede con piglio svelto e felice a deli­neare le vicende dei rapporti tra i due Stati tra il 1922 e il 1935.In particolare viene dato rilievo all’incontro dell’ambasciatore Child e Mussolini che ri­vela il peso attribuito al capitale americano, dal duce, per la sua funzione di stabilizza­zione politica che avrebbe svolto in Italia e per l’inserimento di quello italiano nel mercato internazionale, monetario e finan­ziario. E ancora il rilievo che lo stesso Mus­solini dava alla stampa, per l’immagine pacifista e restauratrice .di antichi valori che il fascismo cercava di costruirsi tra gli americani e la colonia italiana, al vasto ter­ritorio americano, per la questione della ripresa dell’emigrazione italiana.

Su questo aspetto dei rapporti tra i due Stati e su quello della politica estera fasci­sta, la Damiani ,si sofferma con la dovuta attenzione. Per il primo aspetto, l’autrice, dopo aver preso in esame le leggi ameri­cane sull’emigrazione e averne messo in rilievo gli aspetti discriminatori verso quella italiana e le gravi ripercussioni sulla bilan­cia dei pagamenti, avanza l’ipotesi che esse segnarono una svolta nella politica emigra­toria del regime da « far presumere che nel Johnson Act trovi, se non i suoi pre­supposti, quanto meno una formale giusti­ficazione il successivo espansionismo fasci­sta ».Per il secondo aspetto, quello della politica estera, il quadro che ci si prospetta è abba­stanza mosso e articolato, anche se in tutto l’arco di tempo considerato, non si rinviene una reale presa di posizione di rottura o di denuncia da parte americana: dall’im­presa di Corfù, alla questione del petrolio albanese, al primo e vero proprio esperi­mento di provocazione bellica di uno Stato dittatoriale nei confronti degli Stati demo­cratici, quale in realtà è stata la guerra d’Etiopia, l’America è attenta a non forzare i rapporti di amicizia con l’Italia e a mo­strare una particolare benevolenza verso gli « estrosi atti » della politica estera fascista, il che, se probabilmente è accettabile quan­to scrive la Damiani che da parte degli Stati Uniti non ci sia stato un aperto appog­gio al fascismo in quanto tale, pone non irrilevanti problemi, come ha notato Migo- ne, sui limiti dell’ideologia e del regime democratico americano.Altri punti che meritano di venir segnalati, nel quadro della politica internazionale deli­neata dalla Damiani, sono la vicenda dei debiti e delle riparazioni di guerra dalla quale si ricava, oltre alla diversa imposta­zione che Mussolini e Grandi davano alla questione (connessione o meno tra debiti e riparazioni), la probabile insistenza di Grandi per guadagnare l’appoggio america­no in funzione dell’espansionismo fascista giustificato con riferimenti alla politica im­migratoria degli Stati Uniti; le considerazio­ni sui rapporti tra finanza americana e riva- lutazione della lira, al quale proprio l’au­trice ritiene azzardato affermare che questa si ispirasse unicamente ai « desiderata » di Wall Street, anche se, al limite, non può escludere un condizionamento sull’Italia da parte della politica di stabilizzazione mone­taria internazionale patrocinata da Washing­ton; e infine alcune brevi note sulla « fac­

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cenda » Sacco e Vanzetti, sulla propaganda filofascista in America e sul New Deal di Roosevelt e il modello corporativo: e sono brevi note che completano opportunamente il quadro dei rapporti tra Italia e Stati Uniti che la Damiani ci ha dato.

GIAMPAOLO PISU

Mario m a r g io c c o , Stati Uniti e PCI, Roma- Bari, Laterza, 1981, pp. 314, lire 20.000.

« Per spiegare la nostra ossessione con il comuniSmo e in particolare, oggi, con P “ag­gressione comunista in Asia”, dobbiamo risalire, credo, a una caratteristica radicata e sempre presente nel pensiero americano: la convinzione che il Vecchio Mondo è corrotto e che il Nuovo è puro... L’idea di una cospirazione comunista internazionale, che gran parte degli americani non hanno abbandonato, si incastra a meraviglia in questo schema di perfidia del Vecchio Mon­do e di virtù del Nuovo. E così vi si adatta benissimo la nostra abitudine di coprire con un manto di moralità le guerre che facciamo. Abbiamo la tendenza, forse più che non la maggioranza dei popoli, a tra­sformare le nostre guerre in crociata. La guerra contro il Messico rientrava nella mi­stica del Destino Manifesto. La guerra ispano-americana era una crociata per libe­rare Cuba dalla tirannide spagnola. La pri­ma guerra mondiale fu per noi una cro­ciata: la democrazia doveva trionfare, sen­za più minacce alla sua esistenza, nel mondo intero. La seconda guerra mondiale poi aveva per noi obiettivi morali più evidenti, credo, che non qualsiasi altra guerra del­l’epoca moderna. E la nostra partecipazione adesso al conflitto vietnamita è sempre più rivestita dal manto della moralità; si tratta, semplicemente, di una guerra per fermare l’aggressione comunista. E, con una razio­nalizzazione perfetta, proprio questo obiet­tivo di bloccare l’aggressione comunista for­nisce ed esaurisce l’“interesse vitale” che noi abbiamo in quella zona: a guardare bene infatti il nostro interesse vitale non è altro che quello di fermare il comuniSmo ». Questa lunga citazione, che è parte di una testimonianza del decano degli storici ame­ricani di scuola liberale, Henry Steele Com- mager, resa davanti alla Commissione esteri del Senato il 27 febbraio 1967, sui muta­menti dell’atteggiamento americano sulla politica estera, può benissimo fare da guida per intendere i motivi di fondo che sono

stati, e ancora lo sono, alla base dei rap­porti tra Stati Uniti e Pei. Nell’esame di questi, ora ricostruiti pazientemente dal sag­gio in questione a partire dal 1943 fino al 1981, con una particolare attenzione agli anni del centro sinistra, giova sottolineare infatti, a parere di Margiocco, l’immagine che del comunismo si viene costruendo nella mentalità americana, una volta tramontata la grande alleanza antifascista. Il comuni­smo come negazione radicale dei valori del­la democrazia americana e più ampiamente della civiltà liberale, è immagine che pren­de consistenza nella coscienza americana a partire dal 1917 e persiste, pur con diverse e a volte anche sostanziali sfumature det­tate da avvenimenti contingenti, da allora fino ai nostri giorni. Se così è, dunque, parlare dei rapporti tra Stati Uniti e Pei, vuol dire parlare del modo come gli ame­ricani hanno visto il Pei, quasi una storia dell’anticomunismo americano visto attra­verso il caso italiano, e descrivere quali mutamenti ci sono stati o meno nell’arco

.di questi ultimi quarant’anni.Margiocco, che ha studiato e insegnato ne­gli Stati Uniti ed ha potuto attingere a do­cumenti finora da altri non utilizzati rive­landoci episodi del tutto sconosciuti, quali la tentata invasione dell’Albania da parte di un grosso commando di cinquecento fuoru­sciti albanesi organizzati dalla Cia per rove­sciare il regime di Enver Hoxha o la pre­cauzione presa dal Pei, in piena guerra coreana, di mettere in salvo i suoi massimi dirigenti con un aereo da turismo che avreb­be dovuto pilotare Giulio Seniga, in caso di gravi misure restrittive della libertà, ci dà di questo anticomunismo un quadro quanto mai vivace e persuasivo. Agli occhi dell'opinione pubblica americana, della di­plomazia e della Cia, il Pei non è un partito legittimo italiano, ma un gruppo legato a interessi di una potenza straniera. In quan­to tale, ad esso va applicata la politica gene­rale che vale per l’Unione Sovietica e per il movimento comunista internazionale, cioè quella del « contenimento » dell’espansioni­smo sovietico prima e poi quella del roll back, della cacciata indietro delle orde so­vietiche e del comunismo internazionale. Naturalmente una teorizzazione così dra­stica della politica estera americana, se non voleva, a lungo andare, assumere toni vi­scerali e cristallizzarsi in pure formule pro­pagandistiche, divenire cioè una politica puramente difensiva e statica, doveva tro­vare in partiti politici italiani''gli strumenti

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dinamici che traducessero in atti concreti la politica riformatrice portata avanti dal Pei. La De prima e il centro sinistra dopo si rivelano impari a questo compito, dando segno, specialmente la prima, di una con­cezione puramente privatistica del potere, mentre il Pei si consolida a livello di am­ministrazioni locali e di organi centrali dello stato. Il tentativo di spostare il corpo elettorale del Pei verso la « democrazia » non riesce, anzi questo aumenta sempre più. Il che impone, pur essendo l’Italia nell’ot­tica americana la parte periferica dell’im­pero, una riconsiderazione del Pei in quanto tale e della politica finora seguita nei suoi confronti.Naturalmente alla base di questa nuova at­tenzione per il Pei, non c’è solamente il perdurare e l’aumentare della sua forza organizzativa e politica, ma una serie di mutamenti decisivi in campo europeo e mondiale: dalla sconfitta militare america­na nel Vietnam, al Cile di Allende, ai mu­tamenti di regime in Spagna, Portogallo, Grecia, alla crisi dei rapporti tra Cina e Russia e all’emergere di una nuova impo­stazione dei rapporti tra partiti comunisti e Unione Sovietica, e infine alle elezioni italiane del ’75 e del ’76, sono una serie di fatti che mettono fine al vecchio anticomu­nismo, alla crociata contro il Pei e danno luogo ad un interesse per la sua storia e per la sua ramificazione nella società italia­na da parte, in modo particolare, delle sfere intellettuali e di organismi quali il Dipar­timento di Stato e la Cia.Ma apertura al dialogo, all’incontro, tra esponenti politici o intellettuali americani e studiosi e rappresentanti comunisti italiani in sedi e in occasioni diverse, non significa riconoscimento della legittimità del Pei al­l’ingresso nel governo del paese: su questo punto c’è una sostanziale coerenza tra le diverse articolazioni della politica estera se­guita dall’amministrazione americana da Kennedy a Carter. La formula di Kissinger — non interferenza, non ingerenza, non in­differenza —; o quella di Carter — aspet­tare, vedere — pur facendo trasparire che il problema dei comunisti al governo era problema interno alle forze politiche italia­ne, anche se gli Stati Uniti non potevano disinteressarsene, nascondeva sempre la ri­serva che, prima che quel fatto dovesse sciaguratamente verificarsi, si dovessero ri­vitalizzare in tutti i modi le forze moderate e dichiaratamente anticomuniste. L’antico­munismo restava, e resta, a parere dell’au­

tore, elemento costante della politica ame­ricana verso il Pei. Il che ci pare, pur con le dovute differenziazioni avvenute nella politica americana verso il Pei e che Mar- giocco ha puntualmente esaminato e messo in luce, giudizio da condividere. Così come ci pare di poter condividere l’ironia dell’au­tore verso la risonanza che il dirigente co­munista è pronto a dare del suo viaggio nell’America di Colombo (al ritorno o scri­ve articoli o il diario che immancabilmente pubblica o il libro) e il rimprovero e la scarsa cautela nel commento e nella lettura dei discorsi presidenziali o di altri respon­sabili della politica estera americana circa la presunta « apertura » verso il Pei al go­verno.

GIAMPAOLO PISU

L. sh o u p -w . m in t e r , Imperiai Brain Trust. The Council on Foreign Relations and United States Foreign Policy, Monthly Re- view Press, New York and London, 1977.

Dopo la prima guerra mondiale, la comples­sità dei problemi internazionali che le dele­gazioni di tutti gli stati partecipanti alla Conferenza della pace furono chiamate a risolvere contribuì a far avvertire con forza l’insufficienza di personale specializzato e l’inadeguatezza di conoscenze in tutte le delegazioni degli stati rappresentati, compre­se quelle americana e inglese, pur consi­derate le più « attrezzate » per risolvere tali problemi. Fu proprio all’interno di queste ultime due delegazioni che maturò l’idea di fondare istituti specializzati nello studio del­le relazioni internazionali che, operando col governo, potessero svolgere un’opera di sen­sibilizzazione e informazione dell’« opinione pubblica » su tali questioni. Fu così che nacquero istituti per lo studio delle rela­zioni internazionali come l’inglese Royal In- stitute of International Affairs e l’americano Council on Foreign Relations. Sulla scia di questi due istituti furono successivamente intraprese analoghe iniziative in altri paesi europei ed extra-europei. Quale sia stato il ruolo di queste istituizoni nella formazione delle scelte di politica estera dei governi dei rispettivi paesi, quale il contributo da essi offerto nello stimolare lo studio delle relazioni internazionali, da chi fossero di­retti e quale influenza reale essi abbiano avuto sulla formazione dell’« opinione pub­blica », sono problemi generalmente esclusi dalla considerazione della storiografia, che

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muovendosi in questo campo sul solco trac­ciato dalla tradizionale « storia diplomati­ca », ha trascurato di indagare sui nessi tra politica interna e politica estera, non accordando che una scarsissima attenzione ai meccanismi di formazione delle scelte di politica estera.Per queste ragioni ci sembra tanto più meri­tevole di segnalazione un volume come quel­lo di L. Shoup-W. Minter, definito non sen­za un pizzico di compiaciuta esagerazione nella premessa di W. Domhoff, « uno dei più importanti lavori della sociologia storica marxista... sul capitalismo degli Stati Uniti nel x x secolo » dal ’68 ad oggi (p. v ii). Ar­gomento del volume è infatti l’influenza eser­citata dal Counc.il on Foreign Relations sul­la formazione della politica estera america­na. Nonostante l’impossibilità di utilizzare le carte dell’archivio del Council, gli autori, basandosi su una estesa letteratura, un lar­go numero di archivi privati e documenti inediti conservati presso i National Archives di Washington, sono riusciti a ricostruire puntualmente le relazioni tra il Council, che conserva ancora oggi lo status di istituto privato, e i vari governi americani dai tempi di F.D. Roosevelt ad oggi, ottenendo risul­tati di grande interesse e imprescindibili per chiunque voglia occuparsi di politica estera americana.Dopo aver tracciato brevemente la storia del Council, gli autori ne analizzano la composizione sociale, sottolineando il pre­valere in esso dei maggiori rappresentanti dell’oligarchia finanziaria di New York. La prima rilevante iniziativa sulla quale esso si impegnò, in stretta collaborazione col Di­partimento di stato, fu l’elaborazione del War and Peace Studies Project, che prese avvio già nel settembre del 1939 e che doveva servire inizialmente a stabilire le misure che il governo doveva adottare per far fronte alla nuova situazione creatasi con lo scoppio della guerra. Con questo progetto, condotto da vari gruppi di studio non senza l'apporto finanziario delle più importani Foundations americane, furono tracciate le linee di una strategia globale di intervento entro cui furono attuate le scelte più significative di politica estera in guerra e nel dopoguerra: dalla partecipa­zione al conflitto degli Stati Uniti alla siste­mazione del problema tedesco, dalla crisi di Cuba alla politica condotta nel sud-est asiatico. In tutti questi decisivi eventi le iniziative adottate dai vari governi hanno coinciso, nella linea seguita, con il tipo di

orientamenti prevalsi nel Council, i quali, non a caso, avevano sempre preceduto, espressi in forma di relazioni redatte da gruppi di studio o di articoli pubblicati sulla autorevole « Foreign Affaire », tali inizia­tive. Gli autori documentano altresì il peso decisivo avuto nelle varie amministrazioni, chiamate a intervenire su problemi di gran­de rilievo internazionale, di personaggi che, mentre ricoprivano alte cariche governative, figuravano come membri attivi e altolocati del Council, legati direttamente o indiret­tamente a quella oligarchia finanziaria e multinazionale personificata dall’attuale pre­sidente dell’istituto americano, David Rocke- feller, presidente della Chase Manhattan Bank. Quando sul finire degli anni sessanta, si cominciò a prendere atto che l’ordine mondiale così come era stato concepito nel « War and Peace Studies Project » era en­trato irreversibilmente in crisi, si sentì il bisogno di studiare approfonditamente le trasformazioni intervenute nel sistema di rapporti internazionali per poter program­mare una politica di lungo periodo che ser­visse da punto di riferimento per i succes­sivi decenni. Ed è appunto questa la funzio­ne attribuita a qudllo che è stato chiamato il « Progetto ’80 », frutto di un vasto lavoro di ricerca, non ancora concluso, di diversi gruppi di studio organizzati entro il Council col compito di definire le caratteristiche di un nuovo ordine mondiale e del ruolo che in esso sarà chiamata a svolgere la potenza americana.Lo sforzo di documentare come il Council non sia che il rappresentante della parte più « internazionalista » del capitalismo ameri­cano e il canale attraverso cui « i settori più importanti della classe dominante » han­no parte preponderante nella formazione della politica estera americana (p. 278), in­duce gli autori a privilegiare il problema del rapporto tra Council e governo e a rele­gare ai margini la problematica relativa al­l’influenza del potente istituto americano sul versante dell’« opinione pubblica » e del­l’organizzazione del consenso. Questo ap­proccio svolto secondo criteri sociologici e intenti militanti (p. X), se giova a rendere più efficace e stringente la tesi sostenuta, conduce gli autori a sottovalutare eccessiva­mente le differenziazioni interne, ideologiche e politiche, tra i vari gruppi di intellettuali, i quali, pur operando nell’ambito del Coun­cil, hanno spesso vistosamente manifestato opinioni contrastanti sulla stessa rivista del­l’Istituto « Foreign Affaire ». Il volume ha

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tuttavia il merito di avvicinarsi al problema della politica estera americana attraverso una via assai diversa da quelle tradizional­mente percorse: una via della cui fecondità i risultati conseguiti rappresentano una istruttiva testimonianza.

ANGELO MONTENEGRO

Wil l ia m a p p l e m a n W il l ia m s , Le frontiere dell’impero americano. La cultura dell’e­spansione nella politica statunitense, Bari, De Donato, 1978, pp. 310, lire 4.200.

Il volume raccoglie cinque saggi scritti da Williams tra il 1952 e il 1969 e pubblicati su riviste di dibattito politico-culturale di assai diverso orientamento (dalla democra­tica « The Nation » all’anarco-libertaria « Liberation », da « The American Socia- list » a « Science and Society », dalla neo­radicale « Studies on thè Left » all’imman­cabile « Monthly Review »); due saggi de­stinati al pubblico specializzato (« William and Mary Quarterly » e « Pacific Historical Review »); due capitoli di The Great Eva­sión e di The United States, Cuba and Castro e un saggio scritto per un volume miscellaneo sul radicalismo americano. Si tratta quindi di contributi di taglio e desti­nazione assai diversa che hanno, a nostro avviso, un’unità tematica di fondo e un insieme di premesse più o meno implicite che orientano costantemente l’analisi di Wil­liams, sia che tratti del complesso processo decisionale che portò all’intervento ameri­cano contro la Russia bolscevica, sia del significato che ebbe nella guerra fredda la nomina di George Frost Kennan ad amba­sciatore americano in Unione Sovietica, op­pure delle risonanze radicali della storio­grafia di Charles Austin Beard o ancora delle (presunte) linee di continuità tra la tesi della frontiera elaborata da Turner e la politica estera americana.Queste tematiche di fondo possono essere riassunte in questi termini, a) Esiste una continuità ininterrotta tra la formazione dello stato nazionale indipendente, il suo processo di espansione e diffusione sul con­tinente nordamericano e il ruolo egemone successivamente esercitato dagli Stati Uniti. b) Il nazionalismo economico dei « mercan­tilisti » prefigura le caratteristiche fonda- mentali dell’economia americana contempo­ranea: integrazione interna, espansione al­l’estero, riduzione massima delle forme di interdipendenza, c) Una sostanziale omoge­neità di struttura e di meccanismo tra l’im­

perialismo americano e gli imperialismi europei, d) Il ruolo determinante, in pari misura, svolto nella politica estera ameri­cana e nelle grandi svolte imperialistiche, da due fattori fra di loro sostanzialmente disomogenei, se non contraddittori: l’ideo­logia della frontiera e le grandi « corpo- rations » (tradotte con brutale calcolo lin­guistico con il termine « corporazioni »). e) Le prospettive del socialismo americano, « rispettoso delle libertà politiche e civili », dotato soltanto di un « potere economico necessario a pianificare ed amministrare uno sviluppo economico equilibrato » presuppo­ne una posizione di sostanziale isolamento dell’America dalle faccende del mondo, sul­la scorta delle posizioni dell’ultimo Beard. Sulla base di queste premesse Williams svi­luppa un’analisi molto discutibile nei suoi risultati, ma straordinariamente significativa per quanto essa rivela sul modo di fare storia nell’America degli anni cinquanta, da parte di uno storico che, come altri, cercò in qualche modo di salvare quel tanto di marxismo che aveva assimilato attraverso la militanza politica camuffandolo dietro spoglie democratico-progressiste. Il rapporto tra struttura economica e scelte politiche viene dato per scontato, viene assunto co­me un dato, più che argomentato. La na­scita delle grandi Corporations viene valu­tata più per il suo effetto dirompente sul precedente ordine liberistico, che non per le sue reali conseguenze sulla politica ame­ricana. Nello stesso tempo il postulato della continuità storica tra nazionalismo, espan­sionismo, imperialismo, porta Willams ad attribuire un ruolo decisivo all’ideologia della frontiera, che è viceversa legata stret­tamente a quell’ordine liberistico, individua­listico, pionieristico che le grandi Corpo­rations sconvolsero. L’indagine di Williams, dopo aver postulato il rapporto diretto tra i grandi interessi economici e le grandi scelte della politica estera americana, si preoccupa assai più di mettere in luce la contraddizione tra la politica imperialistica e i principi democratico-progressisti profes­sati dalla classe politica americana: soltanto questa contraddizione infatti può rendere significativa un’analisi dedicata al carattere « antibolscevico », nelle sue origini e nei suoi intenti, dell’intervento americano nella Russia rivoluzionaria; soltanto quella con­traddizione spiega la disperazione di Adlai Stevenson, « quando scoprì di essere stato ingannato a tal punto da dover mentire al mondo sulla questione cubana » (p. 260);

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ed è ancora questa contraddizione a per­meare « gli errori di fatto, le violazioni lo­giche, i casi di giudizi ambigui o doppi che si possono rinvenire negli scritti di Ken- nan » (p. 83). L’analisi di Williams finisce quindi per assumere spesso il tono e il signi­ficato di una convincente requisitoria, della quale non dobbiamo lasciarci sfuggire il contenuto morale, la spregiudicatezza, un certo tocco di originalità nella scelta dei contenuti : si pensi a quello che era la cultura del mainstream negli anni cinquan­ta, cioè una cultura tanto scialba da far apparire un Henry S. Commager come sto­rico progressista e un Daniel Bell come pensatore originale. In particolare, tra i te­mi trattati da Williams in questi saggi, tro­viamo l’origine di dibattiti storiografici e di giudizi di interesse ancora vivo, comunque di ampia influenza, per esempio le valuta­zioni sulla grande sintesi di Schlesinger e sulla sua interpretazione del New Deal. Questo giudizio di Williams a sua volta è basato su una stimolante visione degli anni venti e sulla demistificazione del concetto di « isolazionismo » che, secondo Williams, non ebbe mai riscontro nella reale politica americana, soprattutto negli anni venti, cioè nel periodo in cui convenzionalmente lo si ritiene trionfante.Al di là di tutto questo, tuttavia, quella di Williams è una voce di altri tempi; il suo timbro è quello della guerra fredda; il suo messaggio è una difesa di quella « sfida fondamentale che la Rivoluzione bolscevica ha rappresentato per il mondo occidentale in generale e per gli Stati Uniti in parti­colare » (p. 84); ed è nello stesso tempo un atto d’accusa contro i leaders politici ame­ricani i quali, essendo già a conoscenza del­l’interesse esplicito dei bolscevichi ad otte­nere assistenza dagli Stati Uniti, « avrebbero potuto rispondere favorevolmente alla di­chiarata ed aperta disponibilità di Lenin e di Trotckij » (p. 51).Le « frontiere dell’impero americano » sono (e sono state) ben altre. Esse investono il problema della natura e dei limiti delle forme di egemonia esercitate dagli Stati Uniti nelle rispettive aree di influenza. Ma da questo punto di vista il rilievo non ri­guarda tanto Williams quanto la presenta­zione editoriale dell’opera. Il titolo originale era History as a way of learning; la storia ci insegna dunque a giudicare il presente attraverso la conoscenza del passato. Ci si può credere o meno, ma la lezione di Wil­liams voleva essere quella di fornire una

serie di saggi di carattere metodologico che esemplificassero quel modo di intendere il lavoro storico; sicuramente non si illu­deva di avviare, meno che mai esaurire, un discorso globale sulla natura della poli­tica estera americana del Novecento, come viceversa farebbe pensare il titolo dell’edi­zione italiana. L’edizione italiana inoltre nega al lettore un suo diritto sacrosanto, cioè quello di sapere qualche cosa di più sull’autore, che fu protagonista di nume­rose battaglie politiche e storiografiche, il cui messaggio è spesso diffìcilmente deci­frabile a prima vista. Viceversa l’edizione italiana non ha introduzione e questo lascia senza risposta molti importanti interrogativi su uno storico marxista che aveva vissuto con sentimenti contrastanti la vicenda del New Deal e che aveva attraversato corag­giosamente la tragedia del maccartismo.

PIERO BAIRATI

Italia liberale

GIOVANNI sa b b a t u c c i, La stampa del com­battentismo (1918-1925), Bologna, Cappelli, 1980, pp. 292, lire 7.000.

Nel quadro della più recente produzione storiografica, il genere delle antologie sem­bra aver raggiunto in questi ultimi anni una invidiabile posizione di primato. Segno indubbio che l’interesse del mercato (nella duplice accezione di produttori e consuma­tori) non conosce cadute di tendenza, solle­citato talvolta da motivazioni che si collo­cano ben al di fuori della necessità di diffondere la conoscenza storica nella nostra società. Corredato da una rapida introdu­zione, questo volume ripartisce per grandi temi il materiale raccolto, premettendo ad ognuno dei capitoletti brevi note esplica­tive. I periodici presi in esame sono per lo più organi locali dell’Associazione nazio­nale combattenti, modesti per apparato re­dazionale e per diffusione, ma in generale significativi dell’umore e dell’atteggiamento dei combattenti nazionali di alcune località. La scelta dei testi, in cui fanno la parte del leone le componenti democratiche e rifor­matrici, che in realtà nell’Anc ebbero sem­pre peso relativo al vertice e capacità pene­trative ridotte alla base, è quindi pesante­mente influenzata e coartata da una visione riduttiva del fenomeno combattentistico e dalle dichiarate intenzioni dell’A. di pre-

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sentare un quadro a tutto tondo di quella esperienza storica. L’assunto di Sabbatucci, già noto del resto dall’impostazione del pre­gevole volume del 1974, è quello di privile­giare nell’analisi storica del combattentismo l’esperienza di un gruppo di giovani intel­lettuali democratici, volti a tradurre politi­camente, sulla pelle delle masse contadine meridionali in particolare, ingenui sogni di palingenesi dello stato liberale ormai in cri­si. Il quadro storico in realtà è molto più articolato e ben difficilmente riducibile a quanto costituisce solo una faccia, pur im­portante come « crocevia » per le successive esperienze politiche individuali dei singoli intellettuali, di un movimento di massa mol­to complesso e sfuggente. Tanto più che dai testi raccolti in massima parte da tre o quattro periodici non emergono voci in­terne antagonistiche, le polemiche (che pur insorsero vivaci al punto da provocare scis­sioni organizzative) si annullano e non si arriva perciò a comprendere come e perché questi intellettuali uscirono doppiamente battuti: sul piano della lotta politica interna dalle componenti fascistiche, sul piano della storia nei loro progetti politici e organizza­tivi di porsi come leaders naturali delle masse contadine meridionali, dai grandi e moderni partiti di massa.Si pongono perciò a mio modo di vedere due interrogativi di fondo: nella categoria dei combattenti è giusto considerare solo gli iscritti alla Anc, o non sarebbe più pro­duttivo e storicamente più aderente alla realtà comprendervi anche i reduci e i mu­tilati aderenti alle organizzazioni combat­tentistiche dei due moderni partiti di massa del primo dopoguera, il Psi e il Ppi? Ed ancora, cos’è la stampa combattentistica : solo gli organi ufficiali delle sezioni locali e i periodici di modesti gruppi di intellet­tuali molto vicini all’Anc e molto in con­trasto con essa (come « Volontà ») o non piuttosto, e più in generale, tutta la pubbli- cistica così ricca e documentata, frutto di elaborazione teorica e di energie intellettuali di quanti si richiamarono all’esperienza bel­lica, apparsa sui maggiori e più diffusi or­gani di stampa italiani (come l’A. stesso sembra voler indicare inserendo i due ul­timi testi, tratti rispettivamente dalla « Rivo­luzione liberale » e da « La critica politi­ca »)? Solo una risposta adeguata alle que­stioni proposte sarebbe, secondo me, in grado di porre la questione del combatten­tismo e della sua stampa in maniera orga­nica e capace di affondare le radici della

ricostruzione e dell’analisi di questo feno­meno storico nel quadro più ampio dei pro­blemi della crisi italiana del primo dopo­guerra e, per dirla con Caracciolo, dell’« in­gresso delle masse » subalterne nella vita politica nazionale.

GIANNI ISOLA

ISTITUTO REGIONALE PER LA STORIA DELLA RESISTENZA E DELLA GUERRA DI LIBERAZIONE in EMILIA ROMAGNA, Annate 1980 - Il pro­letariato agricolo in Emilia-Romagna nella fase di formazione, a cura di Franco Caz- zola, Bologna, CLUEB, 1980, pp. 295, li­re 10.000.

Questo « Annale 1980 » dell’Istituto regio­nale per la storia della Resistenza e della guerra di Liberazione in Emilia-Romagna è indubbiamente di grande interesse sia per il tema affrontato (la formazione del braccian­tato moderno in Emilia-Romagna) sia per l’approccio scelto (che tende a cogliere l’in­sieme dei processi che contribuiscono alla formazione del proletariato agricolo e non ne riduce la storia a quella delle nascenti organizzazioni sindacali e politiche).Il tema è certo poco esplorato, eppure ri­manda a questioni di grande rilievo: giu­stamente Franco Cazzola, nel suo saggio, osserva che non è facile « capire perché questo originariamente eterogeneo compar­timento statistico divenne in pochi decenni l’“Emilia rossa”, l’Emilia delle leghe, delle cooperative, del socialismo municipale, del riformismo e del sindacalismo rivoluziona­rio, del fascismo di massa e della lotta anti­fascista di popolo, e infine l’Emilia di nuovo e più risolutamente rossa » (p. 23). Proprio questa complessità — nota ancora Cazzola — rende inadeguato un approccio che pri­vilegi gli aspetti politico-ideologici o « so- vrastrutturali », e stimola invece ad appro­fondire l’indagine del « sociale »; aggiunge Sergio Nardi, criticando a sua volta i limiti degli studi finora esistenti sull’argomento, che è necessario riprendere « la ricerca pionieristica di Sereni », indagando più concretamente i « modi di formazione del­la mobilità professionale e territoriale » (p. 148). Coerentemente con questa impo­stazione, balzano in primo piano — soprat­tutto nei saggi già citati — il peso della questione demografica, i mutamenti profondi dei rapporti di produzione, gli effetti di­rompenti esercitati sull’antica economia del­l’area mezzadrile dalle trasformazioni in senso mercantile di gran parte della produ­

zione agricola. Più ancora, balzano in pri­mo piano le conseguenze — non solo sul terreno economico, ma anche su quello del­la mentalità, della cultura — dei diversi tipi di lavoro compiuti complessivamente dai braccianti, dell’introduzione di determi­nate coltivazioni (in primo luogo, la diffu­sione della .risaia), nonché l’importanza del­le modalità concrete di attuazione delle bo­nifiche: a questi aspetti Sergio Nardi fa risalire alcune delle diversità che distin­guono il bracciantato ravennate da quello della confinante provincia di Ferrara (p. 165 e sgg.).Questo approccio complessivo porta a co­gliere in modo estremamente problematico [’intrecciarsi, nel mondo bracciantile di fine ’800, di elementi di modernità con altri, più « tipici della tradizione contadina » (p. 182); soprattutto, come nota ancora Nardi, esso permette di superare l’immagine tradizio­nale di un bracciantato sostanzialmente omogeneo, unificato dalla sottoccupazione, dalla dequalificazione, dal carattere salaria­le della paga percepita, daH’egualitarismo e dalla fede socialista (p. 158).Su questo terreno di ricerca si muove anche il saggio di Valerio Cervetti, dedicato alle caratteristiche del bracciantato parmense e volto a cogliere la specificità di un com­parto del proletariato agricolo padano che ha certamente connotati particolari. Proprio per la ricchezza di questi contributi, desta qualche perplessità il saggio di Valerio Evangelisti su Forme di produzione agricola e caratteristiche generali del bracciantato emiliano-romagnolo (1880/1914). In esso, le diversificazioni profonde che attraversano il proletariato agricolo di quest’area — e che hanno riflessi innegabili nel suo comporta­mento sindacale e politico — sono prese in esame solo di sfuggita o considerate mar­ginali, ed è quindi rimosso il problema sto­riografico delle loro radici.Il volume è completato da una accurata ricerca di Claudio Casadio sulla formazione del borgo bracciantile di Mezzano, nél ra­vennate, e da utili osservazioni di Franco Tassinari sulle fonti statistiche che si riferi­scono al salariato agricolo.

GUIDO CRAINZ

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paolo so r c in e l l i, Miseria e malattie nel XIX secolo. I ceti popolari nell’Italia Cen­trale fra tifo petecchiale e pellagra, Milano, Angeli, 1979, pp. 285, lire 8.000.

Proseguendo nel solco di un indirizzo già

proficuo di risultati (fra gli altri contributi dello stesso A. va ricordata la ricerca su R e g im i a lim en ta ri, co n d iz io n i ig ien iche, epi­d e m ie n e lle M a rc h e d e ll’O tto c e n to , Urbino, Argalìa, 1977), il Sorcinelli presenta in que­sto volume, correda-ta da un ampio saggio introduttivo, una significativa raccolta di documenti d’archivio e di testimonianze di memorialisti e politici del secolo scorso, tra i quali spiccano i nomi di Agostino Bertani, di Gastone Gherardi, di Giuseppe Bada­loni, di Angelo Celli, di Antonio Corradi, ecc. Si tratta, nella sostanza, di un altro passo in avanti in un settore storiografico— quello delle condizioni igienico-sanitarie— ancora per tanti versi inesplorato ed, in quanto tale, irto di insidie e difficoltà di ogni genere.L’interesse è rivolto alle regioni centrali del­la penisola, Emilia-Romagna, Toscana, La­zio, Umbria e soprattutto le Marche ed il titolo delinea, già di per sé, l’approccio me­todologico. Il quale se è volto, nel taglio generale, a interpretare l’attività storica nel­la sua precipuità di « scienza degli uomini del tempo », per dirla col Marc Bloch del- V A p o lo g ia della s toria , nella fattispecie mi­ra a individuare il nesso di causalità che lega condizioni socio-economiche in una popolazione da un lato e livelli sanitari dal­l’altro. Intento dichiarato del Sorcinelli è infatti « definire il contesto sociale ed igie­nico e in cui [le] malattie p ro sp era va n o » (p. 102) e molte delle pagine offerte all’at­tenzione ripropongono il rapporto tra i due fenomeni con drammatica evidenza. Ad esempio, il memorialista ascolano Pietro Capponi, avviandosi a delineare l’insorgere del tifo petecchiale nella sua città, osserva: « Nei primi mesi dell’anno 1817, quando i nostri montanari tutto ebbero consumato lo scarso ricolto dell’anno precedente, e non aveano più per ¡sfamarsi né le ghiande ... né le radici e le erbe ... [alle] tristi conseguenze della carestia ... quelle si aggiunsero della pestilenza » (pp. 61-62).Ma, a prescindere dalle singole citazioni— una segnalazione a parte meriterebbero gli scritti del Gherardi sulla pellagra — ri­sulta chiaramente da tutto il complesso dei documenti come nelITtalia del secolo XIX morbilità e mortalità siano in gran parte legate alla precarietà dei regimi alimentari ed alle scadenti condizioni igieniche dei ceti popolari. Emerge da essi il quadro di pro­fonde carenze strutturali, legate ad assetti economico-sociali ormai arcaici e — nono­stante tutti gli « aggiustamenti » possibili,

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pure esperiti entro certi limiti — comunque incapaci di garantire una sufficiente griglia sanitaria di base.Non desta meraviglia, quindi, che le auto­rità politico-amministrative si trovino im­preparate a fare fronte in maniera adeguata non solo alle esplosioni epidemiche ricor­renti sotto varia forma, ma anche alle ma­nifestazioni endemiche di morbilità, che si protraggono pesantemente ben entro al no­stro secolo, come nel caso della tubercolosi, della malaria e della pellagra. A proposito di quest’ultima, in particolare, il Sorcinelli scrive : « In effetti la progressiva scomparsa della pellagra, più che su misure econo- mico-sociali volute dalla classe dirigente, appare inevitabilmente come il frutto di ul­teriori sacrifici dei ceti rurali; il migliora­mento del tenore di vita sembra infatti avvenire nelle campagne italiane, più che attraverso organiche riforme strutturali, dal­lo svuotamento di quell’enorme serbatoio di forza lavoro di riserva con l’emigrazione intemazionale e successivamente con le guerre » (p. 55).Sarà necessario condurre ulteriori indagini di dettaglio sulla situazione nelle campagne italiane dai primi anni del Novecento ad oggi, per verificare nella sua piena portata questa affermazione; la quale, tuttavia, ap­pare fornita di una sicura validità di fondo.

CARLO VERDUCCI

guido v e r u c c i, L’Italia laica prima e dopo l’unità, 1848-76, Roma-Bari, Laterza, 1981, lire 30.000.

Se l’età della Restaurazione fu caratterizzata sul piano culturale dal romanticismo spiri­tualista che cercava di addebitare gli « ec­cessi » della Rivoluzione giacobina al razio­nalismo illuminista, nel periodo storico im­mediatamente successivo, quello che vide il « trionfo della borghesia » nei principali paesi europei, si ebbe un progressivo affer­marsi di valori, ideologie, filosofie laiche e immanentiste, inizialmente tutte più o me­no ricollegantesi proprio alla grande tradi­zione dell’« aufklàrung » che il romantici­smo aveva cercato di combattere. Col pro­gredire e con l’espandersi del processo di industrializzazione, il vago deismo che an­cora permaneva nelle posizioni neo-illumi­nistiche, lasciò via via il posto al materia­lismo positivista, poi la difesa della ragione contro la superstizione, della scienza contro i dogmi delle religioni rivelate, condusse spesso ad una vera ondata di « scientismo »,

cioè ad una sorta di nuova metafisica avente per idolo le leggi della biologia, della chi­mica, della fisica sperimentale, della sele­zione degli esseri viventi. L’Italia, sebbene in ritardo rispetto a paesi come l’Inghilter­ra, la Francia e la Germania, e percorrendo una sua strada meno unilineare e più oscil­lante tra vecchio e nuovo, non fece tuttavia eccezione, ed è ben noto quanto il positi­vismo evoluzionista abbia inciso sulla stessa formazione intellettuale e politica di quei gruppi culturali di estrazione borghese che formeranno la leadership del partito socia­lista verso la fine del secolo. È altrettanto noto il ruolo che svolse in seguito il neo­idealismo di Croce e Gentile, ma anche il materialismo dialettico di Labriola, nel bat­tere in breccia una filosofia scaduta nel de­terminismo meccanicistico e nell’evoluzio­nismo superficiale e semplicista. Ma la vittoria dello storicismo — sia nella versio­ne di « destra » del neohegelismo sia in quella di sinistra del marxismo dialettico — fu così schiacciante da determinare nelle élites intellettuali non solo un giudizio sen­za appello del positivismo in quanto cor­rente filosofica, ma in genere la condanna e il disprezzo per tutte le manifestazioni culturali direttamente o indirettamente di­scendenti da esso e che pur avevano con­trassegnato il « clima » di un intero periodo storico. Laicismo, anticlericalismo, evolu­zionismo materialistico, naturalismo, veri­smo, ecc., furono accomunati e travolti da critiche spietate e derisorie, che in alcuni casi — vedi il Croce — coinvolsero tutto il filone democratico risalente alla Rivoluzione francese con intenti scopertamente conser­vatori. (Sul senso politico di questa batta­glia crociana Michele Abbate scrisse alcuni anni fa un libro ancora oggi illuminante : La filosofia di Benedetto Croce e la crisi della società italiana, Torino, Einaudi, 1966). La storiografia italiana, non esclusa quella d’orientamento marxista, è stata pesante­mente condizionata per moltissimo tempo da questi giudizi sommari, così da impedirsi di analizzare a fondo i caratteri, l’estensio­ne, il peso che ebbe la cultura laica nel­l’Ottocento. Soprattutto è mancato, tranne qualche felice eccezione degli ultimi anni (vedi Baglioni e Lanaro), un approfondi­mento delle ideologie, dei linguaggi, della mentalità, dei "valori che quella cultura con­tribuiva a far nascere allorché dal piano dell’elaborazione concettuale e teoretica si traduceva in senso comune diffuso, in vol­garizzazione di tempi e acquisizioni scien­

tifiche, in messa in circolo di modelli di comportamento e costumi più o meno anti­tetici a quelli della tradizione cattolica. Questa lunga premessa ci pareva necessaria per sottolineare adeguatamente l’importanza di un volume scritto ora da Guido Verucci •— L’Italia laica prima e dopo l’Unità, 1848-76 — che per la prima volta affronta in maniera organica e per un periodo di tempo piuttosto lungo una materia sinora ben poco studiata. L’autore, che già in pas­sato aveva parzialmente affrontato l’argo­mento in un pregevole saggio (cfr. AA.VV., Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-78), Milano, Vita e Pensiero, 1973, voi. II, pp. 177-244), fa quello di cui più si sentiva il bisogno: indaga al di là della produzione della cultura « alta », con una ricerca minuziosa che scandaglia nella con­gerie vastissima della pubblicistica e delle fonti giornalistiche per cercare di rintrac­ciare e fare rivivere i tratti distintivi di una tradizione laica e razionalista che in­cise non poco sull’evoluzione della società civile italiana nel secolo scorso. Il libro è praticamente diviso in due parti: nella pri­ma si esamina pensiero e prassi del libera­lismo moderato, cioè di quel laicismo che farà da supporto ideologico a certe scelte legislative della Destra storica; nella secon­da parte l’analisi è concentrata sulle varie correnti della sinistra repubblicana e radi­cale sino ad arrivare al periodo della I In­ternazionale e dell’ateismo anarchico.Il laicismo dei liberali non viene sottovalu­tato. Verucci non manca di metterne in rilievo limiti, contraddizioni e cautele do­vute fondamentalmente alla preoccupazione conservatrice di non arrecare ferite mortali alla presenza della Chiesa cattolica nella società e più in generale alla sopravvivenza del sentimento religioso, che ancora poteva servire come baluardo verso l’irrompere di teorie e comportamenti « sovversivi » tra le masse. E tuttavia l’autore, nel valutare le diverse iniziative, dal settore editoriale a quello dell’associazionismo mutualistico, cui pose mano questo ceto liberal-borghese per cercare di far crescere nel popolo un’ideo­logia attivistica basata sull’etica del lavoro, mostra di considerare questo tentativo ege­monico come un passo avanti rispetto al­l’etica fatalista e provvidenzialista — che portava inevitabilmente alla rassegnazione •— della cultura cattolica. Non che Verucci non colga il significato interclassista e mo­ralista di questa propaganda, ma non v’è dubbio che qui egli si muova con più sou­

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plesse di quanto non avesse fatto Silvio Lanaro con la sua critica impietosa conte­nuta nel libro Nazione e Lavoro (Marsilio, 1979). La cosiddetta letteratura del self-help viene rivisitata da Verucci e giudicata con più indulgenza. Giudizio non di valore, s’in­tende, ma storico, derivante dal confronto con la precedente ed anche coeva lettera­tura cattolica. Questo diverso taglio inter­pretativo dovrebbe dar luogo, almeno si spera, ad un proficuo dibattito storiografico. Meno esplorato, per le ragioni esposte al­l’inizio, tutto il variegato settore della sini­stra democratica, di cui finalmente Verucci ci offre una ricostruzione attenta e precisa, nella sostanza tesa alla rivalutazione di gruppi, persone, movimenti e giornali che seppero per anni condurre una battaglia per la laicizzazione dello Stato prima contro i compromessi della Destra, poi polemizzan­do anche con le timidezze e le reticenze della Sinistra storica. In questa disamina, largo spazio è dedicato al movimento del cosiddetto « libero pensiero », del quale ci si cura egualmente di sottolineare i conte­nuti culturali e ideologici di diversa pro­venienza (positivismo di scuola tedesca, ra­zionalismo francese, materialismo risalente al filone democratico italiano di Cattaneo, Ferrari e Pisacane, ecc.) nonché le propo­ste concrete avanzate anche in sede parla­mentare, quali l’abolizione dell’Art. 1 dello Statuto, l’introduzione del matrimonio ci­vile, l’eliminazione dell’insegnamento reli­gioso nelle scuole, l’istruzione obbligatoria, il divorzio e via elencando, al fine di ridurre il più possibile l’influenza della Chiesa nella società e sullo Stato. Proseguendo nell’ana­lisi, Verucci si preoccupa di verificare quan­to questo tipo di cultura fosse presente nelle associazioni e nei giornali che si schierarono con l’Intemazionale e a favore della Comune. L’esame di organi di stampa come « Il Gazzettino Rosa » e « La Plebe » ma anche di altri moltissimi fogli minori, permette di uscire dalle solite definizioni generiche e di capire che i punti di rottura con il mazzinianesimo delle giovani gene­razioni democratiche post-risorgimentali era­no ben più numerosi e vitali di quanto appaia da letture circoscritte al solo terreno delle dispute politiche. Razionalismo, scien­tismo, anticlericalismo, dal 1867-68 in poi divennero patrimonio anche di quei grappi che si stavano orientando o verso l’anarchi­smo o verso il socialismo. Il marxismo ver­rà dopo, ma si innesterà su questo terreno e vi coabiterà per moltissimo tempo. Nella

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storia successiva del movimento operaio questa tradizione continuerà ad influire sul­la mentalità collettiva di dirigenti e mili­tanti, mentre, per fare un esempio illustre, l’opera speculativa di Antonio Labriola non riuscirà mai a tradursi in filosofia « del quotidiano ».In questa direzione si può ancora lavorare molto, ma intanto l’opera di Verucci reca un primo, fondamentale contributo di ri­cerca.

CLAUDIO GIOVANNINI

Ma r iella ber r a , Vetica del lavoro nella cultura italiana dall’Unità a Giolitti, Mila­no, Angeli, 1981, pp. 168, lire 6.000.

L’attenzione crescente ai temi dell’industria­lismo spiega e giustifica l’opportunità di questo studio. Esso ripercorre — nei modi del saggio bibliografico — le elaborazioni del primo cinquantennio unitario intorno al­l’etica del lavoro, intesa come sintomo ne­vralgico della costruzione di una filosofia dello sviluppo e della consapevolezza acqui­sita dai suoi protagonisti economici e so­ciali. L’analisi è scandita in due tempi nettamente distinti. Secondo l’A. nella prima fase, che giunge alle soglie del Novecento, l’etica del lavoro è presente soprattutto co­me categoria morale, come « valore posi­tivo, contrapposto all’ozio, capace di im­prontare una concezione generale della so­cietà, ma in forma ancora astratta e gene­rica » (p. 105); nella seconda, coincidente con l’età giolittiana, si delinea una vera e propria « cultura del lavoro », implicante « il concreto riconoscimento e privilegia- mento del dato e dell’ambito strutturale, l’accentuarsi degli interessi tecnico-scientifici e delle finalità pratico-operative» (p. 112). Il passaggio tra i due momenti è natural­mente dettato dall’avvio della industrializ­zazione, con la conseguenza — sottolinea diffusamente Berra — che il ritardo di quest’ultima determina una sensibile sfasa­tura rispetto alla parabola della filosofia ca­pitalistica: dalla timidità dei primi passi la cultura industrialista italiana si immette di­rettamente nelle esasperazioni delle ideolo­gie imperialistiche. E tutto ciò si riflette direttamente sulle istituzioni del movimento operaio, all’interno delle quali l’esaltazione dell’operaio produttore — fondata sulla de­nuncia di un ceto imprenditoriale sostan­zialmente visto come malthusiano — con­

ferisce ai conflitti sindacali una valenza im­mediatamente politica.Al centro di questo profilo sta la tesi del carattere moderato del liberalismo italiano, della subalternità della borghesia che ad esso si richiama ai ceti dominanti tradi­zionali e agli apparati pubblici, a tutti quegli elementi che « ripropongono i dubbi e le riserve relative alle modalità (e aL- l’esistenza stessa) della rivoluzione borghese in Italia » (p. 103). Sono, come si vede, argomentazioni riprese da una ormai ab­bondante letteratura tanto storica che, so­prattutto, sociologica. Ma sono anche argo­mentazioni che, se riproposte con schema­tica rigidezza, approdano ad una valuta­zione complessiva di « arretratezza » priva di ogni duttilità interpretativa.Prova ne sia che il termine di riferimento costantemente invocato è il caso inglese, quasi che esso rappresenti la regola e l’u­niformità e non, come la storiografia sulla rivoluzione industriale mette in luce con sempre maggior forza, l’eccezione, il proto­tipo irrepetibile. L’adozione di questo asse di confronto fa sì che lo studio sia soprat­tutto una storia di assenze, così che i dati di base della vicenda italiana appaiano più come sbarramenti eretti contro l’innovazio­ne, che non come elementi costitutivi e operanti della realtà nazionale. Tale livella­mento di discorso trova poi riscontro nel­l’intreccio tra analisi della letteratura coeva e ricostruzione storiografica posteriore. Il primo momento appare più come materiale informe cui il secondo è chiamato a dare un significato, che non come immagine di conflitti culturali e sociali che hanno pro­dotto di volta in volta non marginali alter­native. Basti al proposito sottolineare l’as­senza di ogni riferimento alla tematica della integrazione-contrapposizione tra agricoltu­ra e industria.

MASSIMO LEGNANI

Fra ncesco barbagallo , Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno (1900-1914), Guida Editori, Napoli, 1980, lire 19.000.

Il lavoro di Francesco Barbagallo costitui­sce il primo « quadro d’insieme » della sto­ria politico-sociale del Mezzogiorno conti­nentale nell’età giolittiana. Sulla base di una vasta e ricca documentazione è svolta,

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da una parte, l’analisi del potere politico— nelle sue forme istituzionali, rappresen­tative e di classe — e, dall’altra, quella del­le più significative lotte politiche e sociali. La scelta della delimitazione temporale è dovuta alla considerazione del primo quin­dicennio del secolo come spartiacque che segna il passaggio dal regime censitario alla presenza delle masse lavoratrici sulla scena politica.Il Mezzogiorno, pur definito, gramsciana­mente, come una grande disgregazione so­ciale, non viene presentato e assunto in maniera statica e facilmente schematizza­bile da un punto di vista economico, sociale e politico.Il « blocco agrario », per esempio, pur rap­presentando la forma storicamente preva­lente di dominio sociale nel Mezzogiorno, non appare monolitico, ma percorso da divisioni e contraddizioni di non poca rile­vanza, come quelle esistenti tra gli interessi delle colture protette e quelle d’esportazio­ne. Emblematica, in tal senso, la figura del deputato leccese, viticultore e meridionali­sta, Antonio De Viti De Marco.Va anche detto, però, che nei momenti cru­ciali di messa in discussione del forte dazio sul grano — cioè, come afferma Barbagal- lo, quando si mette in discussione il tradi­zionale blocco di potere tra capitalisti agrari e industriali del nord e proprietari del sud— la rappresentanza politico-parlamentare degli agrari meridionali, in pratica quasi tutti i deputati del Mezzogiorno, ritrovava un fermo atteggiamento unitario, così come avvenne nel dibattito parlamentare del 1909. Inoltre, la storia del Mezzogiorno, pur rife­rita alla sua parte continentale, non è valu­tabile — come emerge chiaramente dal li­bro — in modo uniforme, in quanto esisto­no caratteri specifici di sviluppo storico­sociale delle diverse aree, che richiedono analisi differenziate. Basti solo pensare alla estrema arretratezza dell’area calabro-lucana e alla più avanzata e articolata condizione socio-economica della Puglia.In particolare, il lavoro di Barbagallo si sofferma sulle vicende politiche e sociali dell’ex capitale del Mezzogiorno: Napoli. Una città piena di contrasti e contraddi­zioni che se, da un lato, determina la pri­ma elezione nel Mezzogiorno di un depu­tato socialista, Ettore Ciccotti, dall’altro, è il centro del più corrotto intreccio di rap­porti e connivenze tra malavita organizza­ta, la camorra, e molti dei rappresentanti del potere politico, in genere parvénus di

fede giolittiana. A Napoli, il « blocco ur­bano » — definito da Gramsci quale fulcro della strategia giolittiana — era rappresen­tato non solo dai tentativi, spesso riusciti, di costituire un patto corporativo tra pro­letariato industriale e capitalisti, ma anche da un fitto e stratificato coacervo di inte­ressi bancari e mercantili e di più recenti interessi finanziari e industriali.Edoardo Scarfoglio è giustamente ritenuto dal Barbagallo l’emblema di questo compo­sito fronte politico ed economico, in quanto il direttore de « Il Mattino » ne costituisce l’espressione intellettuale più organica e, insieme, più versatile.Dall’autore del libro è, poi, fortemente sot­tolineato il ruolo fondamentale per il pro­gresso civile e democratico del Mezzogiorno svolto dalle organizzazioni sindacali e so­cialiste e a Napoli, in particolare, dai socia­listi de « La Propaganda » che ingaggiarono una battaglia morale contro la camorra, almeno inizialmente non priva di signifi­cative vittorie.Più in generale, è descritto e documentato lo sforzo improbo di quella parte della piccola borghesia meridionale, soprattutto intellettuale, non subalterna alle classi ab­bienti, che costituì l’anima organizzatrice e ideologica del nascente movimento operaio del Mezzogiorno. I risultati, in termini di organizzazione sindacale e di politicizzazio­ne, furono, ovviamente, rilevanti e dura­turi nelle aree socialmente meno disgregate ed economicamente meno dissestate, come quelle esistenti in Puglia e in Campania. Inoltre questi risultati diventano ancora più apprezzabili se si considera che il ruolo del governo — attraverso le sue istanze perife­riche, in particolare le prefetture — non fu di neutralità in moltissimi casi di conflitti e tensioni sociali nelle campagne meridio­nali. Come documenta Barbagallo, Giolitti, laddove possibile, non fece risparmiare nes­sun mezzo, lecito o illecito, per garantire10 status quo negli equilibri sociali esistenti. La constatazione dei profondi guasti crea­tisi o, approfonditisi, durante il primo quin­dicennio del secolo, non spinge, però, il Barbagallo a valutazioni moralistiche o miopemente meridionalistiche; infatti si ri­conosce non solo l’importanza di molti in­terventi legislativi, come, per es., la legge speciale del 1904 per l’incremento indu­striale di Napoli, ma anche il fatto che11 sistema di potere consolidatosi non era il prodotto di un « genio malefico », di nome Giolitti, ma il prodotto di un parti­

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colare modo di sviluppo capitalistico, fon­dato su un crescente dualismo economico.

VALERIA SGAMBATI

ROBERTO m a r t u c c i, Emergenza e tutela del­l’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio (1861-1865), Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 319, lire 15.000.

Le incongruenze e le contraddizioni tra enunciazione di principi liberali e pratica seguita dai governi della Destra hanno da tempo richiamato l’attenzione degli storici. Il « mito » dei moderati come ceto politico che durante la formazione dello stato uni­tario e nel periodo postunitario praticasse i principi di uno « stato di diritto » è stato più volte incrinato e messo in discussione. L’esame della politica giudiziaria seguita dai governi della Destra ha contribuito a sfatare questo « mito ». Il principio della divisione dei poteri, in particolare di quello giudiziario dall’esecutivo, fu spesso disatte­so. Le garanzie di libertà del cittadino san­cite dalla carta statutaria, per esempio la garanzia di non essere sottratto ai propri giudici naturali, furono più volte mortificate. Ad un particolare settore della politica giu­diziaria attuata dai governi nel primo quin­quennio postunitario ha dedicato il Martuc­ci la sua attenzione. La dilatazione di com­petenza della magistratura militare a danno di quella ordinaria, il ricorso a poteri d’e­mergenza contrari alle garanzie statutarie, il varo di una legislazione speciale sono i temi affrontati dall’A. Secondo il ceto di gover­no, i provvedimenti adottati erano neces­sari, dato lo stato dell’ordine pubblico nelle province meridionali, percorse da fermenti e rivolte che, con l’estendersi del fenomeno del brigantaggio, potevano intaccare la « salvaguardia delle istruzioni » (p. 10).I provvedimenti attuati nelle province me­ridionali negli anni 1861-1865 non conosco­no soluzioni di continuità. Dalla dittatura militare instaurata nel corso del 1861 allo scioglimento delle società emancipatrici de­cretato nel 1862; dallo stato d’assedio pro­clamato nell’agosto-novembre del 1862 nel mezzogiorno continentale e in Sicilia, che consentiva di « legalizzare » la « repressione indiscriminata del movimento democratico e delle agitazioni contadine » (p. 38) al va­ro di provvedimenti legislativi eccezionali (legge Pica dell’agosto 1863 e successive modifiche fino al 1865) un unico filo con­

duttore caratterizza gli indirizzi legislativi approvati e fatti applicare dai governi della Destra per ripristinare l’ordine pubblico nelle province meridionali.L’indagine dell’A. è concentrata esclusiva- mente sui provvedimenti legislativi messi a punto da questi governi. Le fonti su cui è costruita l’indagine sono soprattutto, oltre gli stessi provvedimenti legislativi presi in esame, gli atti parlamentari. Si tratta' di una analisi accurata. Ma l’A., per sua di­chiarata scelta (p. 136) non ha ritenuto di utilizzare la letteratura del tempo (memo- ralistica di ufficiali del regio esercito e di briganti) e storiografica (opere di analisi storica) dedicate al fenomeno del brigan­taggio. Ne consegue che non viene ulterior­mente approfondito, rispetto ai risultati sto­riografici già conseguiti, il contesto politico, economico e sociale, entro il quale nasce, si sviluppa e viene represso il « grande brigantaggio » e al quale vanno ricondotti gli strumenti repressivi (dittatura militare, stato d’assedio, legislazione speciale) esami­nati dall’A.Una maggiore attenzione alla letteratura sul brigantaggio e alle discussioni storio­grafiche intorno agli studi sulla politica giudiziaria della Destra prodotti in anni re­centi, sarebbe stata opportuna. La ricerca compiuta dall’A. avrebbe maggiormente contribuito a ridurre i perduranti settoria­lismi tra storici del diritto e delle istitu­zioni dell’ordinamento giudiziario e storici tout-court, ad approfondire la formazione del blocco autoritario tra ceto politico di governo e gerarchie militari, a valutare gli effetti che la repressione del brigantaggio, nelle forme e nei modi come fu attuata, hanno avuto sul rapporto tra classi subal­terne e classi dirigenti lungo la successiva vita dello stato unitario.

ISABELLA ZANNI ROSIELLO

la u ra b a r il e , Il Secolo. 1865-1923. Storia di due generazioni della democrazia lom­barda, Milano, Guanda, 1980, pp. 388, li­re 12.000.

Si deve soprattutto agli studi di Alessandro Garrone se il mondo politico e culturale del radicalismo lombardo degli anni imme­diatamente successivi all’Unità ha avuto quell’attenzione storiografica che esso me­ritava e che invece per molto tempo è man­cata (tra le poche eccezioni, vai la pena di ricordare un vecchio ma sempre valido sag­gio di Stefano Merli su « Movimento ope­

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raio » del 1955 e i carteggi raccolti nei volumi « La scapigliatura democratica » e « L’Italia radicale » della Fondazione G.G. Feltrinelli). Ora nella collana di Guanda curata dal Centro Studi sul giornalismo G. Pestelli di Torino appare questo studio di Laura Barile sul « Secolo » di Milano, che, attraverso uno spoglio sistematico e intelli­gente del giornale fondato da Sonzogno nel 1866, reca un ulteriore, importante contri­buto aH’approfondimento di un periodo sto­rico e di un ambiente che fecero quasi da trait d’union tra la democrazia risorgimen­tale e le prime forme di organizzazione sin­dacale e partitica che poi sfocieranno nel socialismo. L’analisi della Barile, per la ve­rità, si estende su un arco di tempo ben più vasto, arrivando a comprendere l’età giolittiana, la 1“ guerra mondiale e il dopo­guerra, sino all’« occupazione » della testata da parte di fiduciari di Mussolini, ma ciò che maggiormente interessa di questa ricer­ca è proprio la parte riguardante i primi venti-trent’anni di vita del giornale, gli anni in cui esso seppe essere la voce di una borghesia imprenditiva e commerciale — ma anche del ceto artigianale e delle prime aristocrazie operaie — che combattè a viso aperto una coerente battaglia per la laiciz­zazione dello stato, la difesa dei diritti ci­vili, la diffusione dell’istruzione, la riforma fiscale e finanziaria in senso progressivo, l’estensione del suffragio elettorale. Questa borghesia democratica, avversa tanto all’oli­garchia finanziaria facente capo alla Destra storica, quanto, più tardi, al trasformismo della Sinistra, riuscì ad aggregare intorno a sé vasti consensi popolari, esercitando una palese egemonia anche nel settore dell’as­sociazionismo mutualistico in via di cre­scente espansione, avente il suo centro organizzatore e propulsivo nel Consolato Operaio. Edoardo Sonzogno fu una delle figure più rappresentative di questa borghe­sia del Nord che vedeva nel progresso della scienza e della tecnica, nella volontà e nelle capacità individuali, nel lavoro, nella lotta all’alfabetismo, nella creazione di una rete di istituti previdenziali e assistenziali a fa­vore dei deboli e degli anziani, i mezzi più idonei per rendere l’Italia un paese mo­derno e al tempo stesso per evitare l’esplo­dere incontrollato di una conflittualità sociale che avrebbe potuto mettere irrepa­rabilmente in crisi il disegno egemonico — a Milano già operante — coltivato dal partito radicale sulla classe operaia. Analiz­zare le vicende e la linea politica del

« Secolo » significa dunque allargare la pro­spettiva all’esame della società milanese della seconda metà dell’Ottocento, una so­cietà in pieno fermento, con una intellet­tualità borghese spesso delusa e frustrata dalla soluzione sabauda del Risorgimento, e una classe operaia che lentamente ma con ferma determinazione passerà dalla tutela democratico-radicale a forme autonome di lotta sindacale e poi alla formazione di un proprio partito politico, provocando con ciò stesso il progressivo venir meno di quella funzione progressiva e di mediazione che per tanti anni il giornale aveva svolto. Di tutto ciò la Barile ci offre un quadro attento e documentato, riuscendo per l’ap­punto a coonestare la storia del « Secolo » nella più ampia e interessante storia della città. V’è solo da rammaricarsi che l’autrice — che pur proviene da studi letterari e che di recente ha dimostrato di conoscere molto bene l’ambiente culturale della cosid­detta « scapigliatura » scrivendo un prege­vole saggio su Carlo Dossi di cui ha curato la riedizione della Desinenza in A (Garzan­ti, 1981) — non abbia sfruttato sino in fondo la sua indubbia preparazione nel campo linguistico e letterario per un’inda­gine più penetrante e più estesa della cultu­ra, in senso lato, che veniva trasmessa dal « Secolo » : una maggiore attenzione ai ro­manzi d’appendice, alle recensioni, alle cri­tiche teatrali, al lessico usato da redattori e collaboratori, sarebbe stata opportuna. Non che di questo non si parli, ma prevale nettamente l’analisi politica. Del resto, non sarebbe equo imputare alla Barile una ca­renza che in realtà è di tutta la nostra storiografia, anche la più seria, che ha sino­ra letto i giornali solo attraverso Zangola­tura del «politico» e dell’« ideologico ». Va anzi detto che sotto questo profilo il libro della Barile è un primo passo avanti. Un passo ancora timido, ma comunque ap­prezzabile.Nel complesso, a parte questo parziale rilie­vo critico, si tratta di un ottimo lavoro di ricerca almeno sino agli anni della « svol­ta » di fine secolo. Dopo, l’analisi si fa più frettolosa. Ma è lo stesso giornale a perdere di mordente e di interesse.

CLAUDIO GIOVANNINI

GINO LUZZATTO, Il rinnovamento dell’econo­mia e della politica in Italia. Scrìtti politici 1904-1926. Introduzione e cura di Massimo

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Costantini, Venezia, Arsenale cooperativa editrice, 1980, pp. 341, lire 24.000.

Finché ebbe libertà di esprimersi, Luzzatto percepì — alla maniera salveminiana — unitariamente « le due attività dello storico e del politico », come egli stesso scrisse di Salvemini nel 1945. Perciò intrecciò alle ricerche storiche un’intensa attività pubbli- cistica che lo portò ad essere una delle firme assidue de « l’Unità » di Salvemini per tutto il decennio della sua pubblica­zione. Dopo il 1920 Luzzatto divenne edi­torialista de « Il resto del carlino », prima, de « Il Secolo », poi, e collaboratore di riviste quali « La critica sociale », « La rivo­luzione liberale », « La critica politica » e altre.Con i suoi articoli Luzzatto emerse come esponente di spicco del gruppo di intellet­tuali che, unendo la passione democratica ai convincimenti liberisti, fu all’opposizione dei gruppi che detenevano il potere politico ed economico nella prima parte del secolo. Una rassegna compilativa degli apporti di Luzzatto a « l’Unità » fu redatta da E. Ta- gliacozzo subito dopo la morte dello storico e apparve sulla « Nuova rivista storica » del 1965. Ma solo ora con lo spoglio dei periodici e quotidiani del periodo di ristretta libertà di stampa tra il 1922 e il 1926, Costantini esaudisce l’esigenza formulata da M. Berengo già nel 1964 « di offrire un più esauriente quadro di quel che Luzzatto ancora scrisse e operò quando le sue spe­ranze di veder instaurata in Italia una società democratica erano ormai dissolte » CIntroduzione a g . l u z z a t t o , Dai servi del­la gleba agli albori del capitalismo, Bari, Laterza, 1966).Perciò con questa ampia silloge il curatore consegue due risultati rimarchevoli : offre una raccolta organica di materiali indispen­sabili per valutare tratti caratteristici della biografia di Luzzatto, rimasti offuscati nel­l’attenzione prestata prevalentemente alla sua operosità di storico insigne dell’econo­mia; ripropone alcuni degli argomenti dei fautori di politiche economiche liberiste, che varrebbe la pena di rimeditare in un momento storiografico in cui prevalgono le assoluzioni storicistiche per il sistema pro­tezionista ad oltranza adottato dal ceto diri­gente italiano dal 1887 sino al secondo dopoguerra. (Si pensi al giudizio di Castro­novo nella storia d’Italia einaudiana).Gli scritti sono disposti per ordine cronolo­gico, ma l’introduzione li esamina per temi

e per congiunture politiche. Infatti la sele­zione è rappresentativa del fascio di que­stioni su cui Luzzatto impegnò la sua pas­sione politica: il problema della scuola e della condizione degli insegnanti, la politica del partito socialista e la lotta di classe, lo sviluppo della democrazia e la politica economie?/. Ma è quest’ultima tematica che prevale per la continuità, la quantità e la qualità degli interventi.Per formazione culturale Luzzatto ebbe una devozione indefettibile per la dottrina libe­roscambista e ciò lo portò ad una comu­nanza di idee e di battaglie col gruppo di antiprotezionisti (Salvemini, De Viti De Marco, Einaudi, Jannaccone...) le cui predi­che restarono lettera morta fino alla nuova congiuntura politica ed economica inaugu­rata dall’esito dell’ultima guerra mondiale. E nelle polemiche antiprotezioniste egli ri­versò la sua cultura economica e le com­petenze del suo mestiere di storico. Fu questa capacità di mettere le abitudini ana­litiche dello storico al servizio della critica delle tendenze attuali a dare un accento originale ai suoi scritti e a renderlo un protagonista nei dibattiti sulla politica eco­nomica prefascista.Grazie a questo sguardo di storico, la bat­taglia contro il protezionismo e contro l’in­tervento dello stato nell’economia perde l’astrattezza di un atto di fede nell’infalli­bilità dei teoremi scientifici del liberismo e non si carica di nostalgie ruraliste o di toni antindustrialisti, ma assume la lucidità della rivendicazione politica di un diverso modello di decollo economico capace di non asservire lo stato al parassitismo di pochi gruppi di capitalisti, di non contrap­porre gli interessi degli operai a quelli delle masse contadine meridionali e di assicurare migliori occasioni di progresso per l’agri­coltura meridionale. Infatti alla difesa del punto di vista liberista in termini teorici, Luzzatto preferisce in ogni intervento l’ana­lisi dei termini congiunturali delle questioni di politica economica e la comprensione degli effetti nefasti del protezionismo sulla società civile e sul sistema democratico ita­liano.

IVO MATTOZZI

dora m a r u c co , Mutualismo e sistema poli­tico. Il caso italiano (1862-1904), Milano, Angeli, 1981, pp. 222, lire 8.000.

È quasi un luogo comune affermare che nessuna fonte è «obiettiva». Ma ogni stu­

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dioso ogni volta che usa una data fonte si ritrova a dover affrontare i problemi con­nessi alla sua non « obiettività ». Così si sofferma ad indagare da chi e come è stata « costruita ». Talvolta l’indagine è così complessa ed approfondita che diventa es­sa stessa oggetto di ricerca. È il caso del­l’opera che ho tra le mani. L’A. ha inteso studiare non tanto « cosa era il mutuo soccorso nella realtà italiana del periodo postunitario », quanto « quale importanza esso rivestiva agli occhi della classe diri­gente liberale che mirava non soltanto a conoscerlo quantitativamente e qualitativa­mente, ma a disciplinarlo, a regolamentarne le forme, a inserirlo, attraverso il ricono­scimento giuridico, nell’apparato statuale » (p. 8). L’interesse a conoscere e quindi a censire l’associazionismo mutualistico, rien­tra nell’ambito del più vasto interesse cono­scitivo per i vari aspetti della realtà eco- nomico-sociale che la classe dirigente libe­rale mostra di avere e delle concezioni statistiche proprie della cultura positivistica italiana e straniera (a questa problematica è stato dedicato nel 1980 un apposito nu­mero della rivista « Quaderni storici »). Le società di mutuo soccorso furono infatti più volte censite nel periodo 1862-1904. Una consistente mole di dati statistici fu rac­colta tramite appositi organi dell’ammini­strazione dello stato. Ai criteri e ai modi con cui furono raccolti, l’A. dedica in parti­colare un intero capitolo (il quinto), in generale l’intera opera. Nell’impostare le rilevazioni statistiche si intese censire « il mutualismo, non perché espressione della solidarietà operaia, ma perché filantropi­smo, previdenza, semmai assicurazione; lo si censiva, cioè, in base ai fini che si pro­poneva, senza preoccuparsi di andare a fon­do della sua effettiva realtà » (p. 149). Separare fin che fu possibile, grosso modo fino all’età giolittiana (alla quale si arresta appunto la ricerca della Manteco) l’associa­zionismo mutualistico dai problemi connessi alla « questione operaia » fu anche un « modo per dare del mutuo soccorso l’im­magine che le classi dirigenti liberali aveva­no interesse a fornire » (p. 15). Fu del resto un « modo » seguito in tutti i paesi euro­pei. Lo dimostrano i dibattiti svoltisi lungo i congressi internazionali e l’impostazione che alle rilevazioni statistiche sulle associa­zioni di mutuo soccorso dettero le organiz­zazioni internazionali (si v. al al riguardo il capitolo primo). Studiosi di rilievo e responsabili dei servizi statistici dello stato

taliano parteciparono attivamente all’elabo­razione dottrinaria e all’organizzazione pra­tica di rilevamento dei dati messe a punto in ambito europeo. L’A., consapevole che l’uso del termine-concetto « classe dirigente liberale » finisce per « diventare generico e poco rispondente ad un contesto storico preciso » (p. 9) cerca di precisare, pur senza pretendere di tracciarne esaustive biografie, le figure (come Correnti, Maestri, Bodio) che nell’Italia postunitaria ebbero a livello tecnico e politico responsabilità di primo piano nell’impostazione dei lavori statistici. Ed indaga anche sui meccanismi istituzio­nali, cioè sull’organizzazione dei servizi sta­tistici centrali e periferici, dei quali il ceto di governo si servì per la raccolta dei dati. I nessi tra documentaizone statistica via via raccolta e scelte politiche fatte dai gover­nanti non sono facili da individuare. Uno dei nessi è da ricollegare, secondo l’A., all’esigenza di stabilire una politica di in­terventi che tendesse a uniformare e a disciplinare la variegata articolazione che caratterizzava il fenomeno dell’associazioni­smo mutualistico. Nel 1886 fu approvata una legge sul riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso. La legge non ebbe una gestazione facile e neppure una rapida applicazione (ai vari progetti e di­segni di legge che a partire dal 1869 furono via via preparati, alle discussioni parlamen­tari intorno ad alcuni di essi, ai risultati che si riuscì ad ottenere nel corso dell’ap­plicazione della legge del 1889 sono dedi­cati i capitoli terzo e quarto).Se raccogliere dati statistici fu una delle finalità perseguite dal ceto di governo per conoscere e controllare il fenomeno del­l’associazionismo mutualistico, i dati pro­dotti dagli organi della pubblica amministra­zione sono condizionati da questa finalità. I dati non sono cioè « neutrali », sono anzi, come è stato detto, in quanto « statistiche borghesi » inquinati di ideologia (p. 151). Riconoscere questi connotati nelle fonti sta­tistiche non significa rigettarle per assu­merne altre ritenute meno « inquinate ». Significa piuttosto collocare una delle fonti della società italiana ottocentesca nell’am­bito del contesto generale e specifico che l’ha prodotta. Risulteranno metodologica­mente più rigorose la « lettura » e l’uso che di essa si intenderà fare. Questa sembra essere anche l’opinione dell’A. che, come era nei suoi propositi (p. 14), ha compiuto un’indagine secondo un’ottica istituzionale, offrendo così un quadro di riferimenti ne­

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cessari a chi vorrà successivamente analiz­zare, al fine di meglio precisare la fisiono­mia che ebbe in Italia il mutuo soccorso, i dati raccolti dalla pubblica amministra­zione.

ISABELLA ZANNI ROSIELLO

Libri ricevutiEMILIO AGAZZI, MAURIZIO ANTONIOLI, IDOME- NEO BARBADORO, CAMILLO BREZZI, SALVATORE MASSIMO GANCI, UMBERTO LEVRA, ROBERTO r o m a n o , Mario s p in e l l a , La crisi di fine secolo (1880-1900), Milano, Teti, 1980, pp. 398, lire 15.000.È il 19° volume della Storia della società italiana diretto da G. Cherubini, F. Della Peruta, E. Lepore, G. Mori, G. Procacci, R. Villari.

g iu lia n o a m a to , Una repubblica da rifor­mare. Il dibattito sulle istituzioni in Italia dal 1975 a oggi, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 226, lire 4.500.

ARCANGELI, BOGLIARI, BRUTI, LIBERATI, CON- SONNI, DELLA PERUTA, GHISIO, MAGGIOLI, MOTTURA, PETRILLO, SEGRE, STEFANELLI, Sta­to e agricoltura in Italia. 1945-1970, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 432, lire 10.000.

a rch iv io st o r ic o ansaldo , Fotografie Pho- tographs. 1890-1926, (Genova), 1980, sip. Raccolta di fotografie inedite, di cui alcune rarissime « autocromie » provenienti dall’Ar­chivio storico Ansaldo.

aa .vv., L’imperialismo italiano e la Jugosla­via. Atti del convegno italo-jugoslavo. An­cona 14-16 ottobre 1977, Urbino, Argalia, 1981, pp. 622, lire 16.000.Il volume raccoglie contributi di Santarelli, Faucci, Apih, Diomedi Marini, Amatori, Millozzi, Giannotti, Pedace Naso, Sala, Mi- trovic, Matta Kaicn-Wohinz, Somai, Pani- zon, Vanello, Pajovic, Brcic, Pacor, Scal­pelli.

aa.vv., Ottocento piacentino e altri studi in onore di Giuseppe S. Manfredi, Piacenza, Cassa di Risparmio di Piacenza, 1980, pp. 346, sip.Raccoglie i contributi presentati ad un con­vegno promosso dall’Istituto per la storia del Risorgimento di Piacenza in onore di Giuseppe Salvatore Manfredi. Hanno colla­borato A.M. Ghisalberti, E. Morelli, V. Nevler, G. Rossi, A. Anelli, P. Castignoli,

M. Rossi, C. Artocchini, E. Carrà, G. For­iini, B. Perazzoli, R. Schippisi, V. Agosti, C.S. Fogliani, D. Rabitti, G. Berti, F. Moli- nari, F. Arisi.

(a cura di g u id o ba glio n i), Analisi della Cisl. Fatti e giudizi di un’esperienza sinda­cale, voli. 2, Roma, Edizioni Lavoro, 1980, pp. 759, lire 8.000.

ETTORE b a m b i, Stampa e società nel Salento fascista, con un’introduzione di Mario Isnen- ghi, Manduria, Lacaita, 1981, pp. 348, lire 10.000.

Fr a n c esc o barbagallo , Mezzogiorno e que­stione meridionale (1860-1980), Napoli, Gui­da, 1980, pp. 112, lire 5.000 (Aggiorna­menti).Storia della questione meridionale e del me­ridionalismo dall’Unità ad oggi.

GIUSEPPE BARBALACE, PAOLO PIZZI, SERGIO St e f a n in i, 1900-1980. 80 anni di lotte per l’emancipazione e l’unità dei lavoratori nel­la pace e nella democrazia, Ancona, CGIL- Camera confederale del lavoro di Ancona e provincia, 1980, pp. 130, sip.Il volume comprende un saggio sulla Cdl dalle origini al fascismo, ed altri contributi sulle vicende del dopoguerra.

FILIPPO BARBANO, FRANCO GARELLI, NICOLA NEGRI, MANUELA olagnero , Strutture della trasformazione. Torino 1945-1975, Torino, Cassa di Risparmio di Torino, 1980, pp. 539, sip.Ricerche sociologiche sull’area torinese, in particolare sull’immigrazione, il terziario, la dinamica occupazionale e il pubblico im­piego.

(a cura di angelo b en d o tt i), Il movimento operaio e contadino bergamasco dall’Unità al secondo dopoguerra, Bergamo, La Porta/ Centro studi e documentazione, 1981, pp. 182, sip.Contiene contributi di R. Amadei, A. Ben­dotti, G. Bertacchi, A. Cento Bull, G. Della Valentina, I. Lizzola, E. Manzoni, M. Maz- zucchetti, C. Ongaro, E. Quarenghi, C. Zoja.

Fr a n cesco b e n v e n u t i, L’età staliniana, Fi­renze, Le Monnier, 1981, pp. 99, lire 4.200 (Storia parallela).

Giancarlo Be r g a m i, Guida bibliografica de­gli scritti su Piero Gobetti. 1918-1975, To­rino, Einaudi, 1981, pp. 555, sip.

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paolo b ru n d u o lla , L’equilibrio difficile. Gran Bretagna, Italia e Francia nel Medi- terraneo (1930-1937), Milano, Giuffrè, 1980, pp. 244, lire 10.000.[Università di Cagliari. Pubblicazioni della Facoltà di Scienze Politiche].

(a cura di m il l y buonanno), Le funzioni sociali del matrimonio. Modelli e regole della scelta del coniuge dal XIV al XX se­colo, Milano, Comunità, 1981, pp. 369, lire 15.000.Il volume contiene saggi di vari autori, per la maggior parte francesi, ed è diviso in quattro sezioni: Il matrimonio nel vecchio regime, Il funzionamento del mercato ma­trimoniale, Le dimensioni dell’endogamia, Matrimonio e mobilità sociale.

RAYMOND CARR, JUAN PABLO FUSI, La Spagna da Franco a oggi, Bari, Laterza, 1981, pp. XXIV-374, lire 20.000.

Ra ffa e l e c o l a pie t r a , La Capitanata nel periodo fascista (1926-1943), Foggia, Ammi­nistrazione provinciale di Capitanata, 1978, pp. 537, sip.

c o m u n e d i Ferra ra , Divisione cultura, sport e tempo libero, « Quaderni del centro etno­grafico », Trentanni di CCdL, I, 1943-1955, Documenti e testimonianze, dicembre 1979, n. 15, pp. 186, sip.; id e m , Antifascismo fer­rarese. Da una testimonianza di Italo Sca- lambra, aprile 1980, n. 17, pp. 51, sip; id e m , L’edilizia rurale ferrarese. Una mo­stra in formazione. Proposte per un censi­mento tipologico, pp. 7, sip; 1860. Mani­festi elettorali. Le prime elezioni politiche e amministrative dell’unità d’Italia a Ferrara. 8/30 novembre 1980, pp. 16, sip.

MARIA CRISTINA CRISTOFOLI, MARTINO POZ- zobon , / tessili milanesi. Le fabbriche, gli industriali, i lavoratori, il sindacato dall’Ot­tocento agli anni ’30, Milano, Angeli, 1981, pp. 173, lire 6.000.Pubblicazione a cura dell’Istituto milanese per la storia della Resistenza e del Movi­mento operaio di Sesto San Giovanni.

arcangelo leo n e d e c a s t r is , Egemonia e fascismo. Il problema degli intellettuali ne­

gli anni trenta, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 193, lire 11.000.

(a cura di f a b r iz io d o lci), L’associazioni­smo operaio in Italia (1870-1900) nelle rac­colte della Biblioteca nazionale centrale di Firenze. Catalogo a cura di Fabrizio Dolci, presentazione di Diego Maltese, scritto in­troduttivo di Franco Della Peruta, Firenze, Giunta regionale della Toscana, La Nuova Italia, 1980, pp. X-506, lire 24.000.

pa sq u a l e fo rn a ro , Béla Kun. Professione rivoluzionario. Scritti e discorsi 1918-1936, prefazione di Enzo Santarelli, Soveria Man­nelli (Cz), Rubbettino, 1980, pp. 277, lire12.000.

GIORGIO FUÀ, Problemi dello sviluppo tardi­vo in Europa. Rapporto sui paesi apparte­nenti all’Ocse, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 171, lire 5.000.Traduzione italiana riveduta della relazione sulle caratteristiche economiche dei paesi europei a sviluppo industriale recente.

An to n io g a m b in o , Storia e problemi del mondo d’oggi. 1943/1980, Roma-Bari, La- terza, 1981, pp. 383, lire 7.500.Il volume, destinato ad uso scolastico, com­prende una narrazione degli avvenimenti e una parte antologica.

GIUSEPPE GIARRIZZO, FOSCO MARAINI, Civiltà contadina. Immagini del Mezzogiorno degli anni Cinquanta, a cura di Enzo Persichella, Bari, De Donato, 1980, pp. 263, lire 22.000. Repertorio fotografico sulla « civiltà conta­dina meridionale » presentato da Giarrizzo e dall’antropologo Maraini.

ivano GRANATA, Il socialismo italiano nella storiografia del secondo dopoguerra, Bari, Laterza, 1981, pp. XI-199, lire 10.000.

Fabio g r a s s i, Le origini dell’imperialismo italiano. Il caso somalo. (1896-1915), Lecce, Milella, 1980, pp. 578, lire 30.000.Storia della società contemporanea.

(a cura di Vit t o r io g r ev i), Diritti dei dete­nuti e trattamento penitenziario, contributi di E. Dolcini, G. di Gennaro, E. Fassone, G. Tranchina, P. Corso, E. D’Angelo, M. Ferraioli, A. Giarda, T. Padovani, Bologna, Zanichelli, 1981, pp. 308, lire 12.000.

MORENO g u er za to , Silvio Trentin, un de­mocratico dell’opposizione, Milano, Vange­lista, 1981, pp. 227, lire 8.000.

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m a s s im o il a r d i, Metropoli e potere. La cri­si del partito politico, Bologna, Cappelli, 1980, pp. 120, lire 4.000.Analizza il rapporto fra l’organizzazione partitica e la società civile, nel suo precipuo luogo di aggregazione: la metropoli.

ir p e t (Istituto regionale per la programma­zione economica della Toscana), L’osserva­torio epidemiologico regionale. Premesse e proposte, Firenze, Le Monnier, 1980, pp. 212, lire 5.000 (Quaderni 3); Il Buyer in Toscana. Contributo allo studio dell’inter­mediazione mercantile, Firenze, Le Mon­nier, 1980, pp. 60, lire 3.000 (Quaderni 4); La finanza locale in Toscana dopo i « Prov­vedimenti urgenti », Firenze, Le Monnier, 1979, pp. 38, lire 2.000; Renzo r ic c i, I prez­zi delle aree edificatili a Firenze. Aspetti economico-sociali, Firenze, 1979, Le Mon­nier, pp. 98, lire 2.500; aa.vv ., La politica dell’informazione nel sistema socio-sanita­rio. Ipotesi teoriche e sperimentazioni, Fi­renze, Le Monnier, 1979, pp. 215, lire 5.000; aa .vv ., Lo sviluppo economico della Toscana. Problemi e prospettive, Firenze, Le Monnier, 1976, pp. 147, lire 4.000.

Ferdinando is a b e l l a , Napoli dall’8 settem­bre ad Achille Lauro, Napoli, Guida, 1980, pp. 385, lire 12.500.Primo volume di una serie di « Annali » pubblicati a cura della Deputazione dell’E­milia Romagna. I volumi avranno carattere monografico e si propongono di analizzare la realtà sociale della regione.

David i. k e r t z e r , Famiglia contadina e ur­banizzazione. Studio di una comunità alla periferia di Bologna. 1880-1910, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 219, lire 12.000.

(a cura di r u d o l f l il l e Nicola m a t t e u c - c i), Il liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del ’48 alla prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 560, lire 25.000 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico. Quaderno 5).Contiene saggi di N. Matteucci, R. Lill, H. Feske, J. Becker, I. Crevelli, M. Rauch, A. Wandruszka, W. Altgeld, E. Passerin d’En- trèves, H. Ullrich, G. Are, R. Ruffilli, U. Corsini, M. Dumoulin.

JUAN J. LINZ, PAOLO FARNETI, M. RAINER l e p s i u s , La caduta dei regimi democratici, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 435, lire10.000.

Il volume comprende una prima parte, ope­ra di J. Linz che studia il modello teorico

del crollo dei regimi democratici; nella se­conda invece P. Farneti analizza il crollo della democrazia in Italia all’inizio del no­stro secolo, e Rainer Lepsius in Germania negli anni venti; e ancora J. Linz nella Spa­gna repubblicana.

La lotta secolare del popolo romeno per l’indipendenza la libertà e l’unità nazionale. Documenti, Voli. IV, V, VI, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 408-359-281, sip.I volumi comprendono documenti dal 1791 al 1920.

paolo m acry , Introduzione alla storia del­la società moderna e contemporanea, Bolo­gna, Il Mulino, 1980, pp. 240, lire 8.000. Analizza i principali temi di indagine stori­ca alla luce delle più moderne metodologie scientifiche.

M ir ia m m a f a i, L’apprendistato della politi­ca. Le donne italiane nel dopoguerra, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 239, lire 4.200.

FRANCESCO MARMOTTA BROGLIO, VALERIO ONIDA, MARI ANGIOLA REINERI, ETTORE ROTEL- Li, La successione. Cattolici, stato e potere negli anni della ricostruzione, Roma, Edi­zioni Lavoro, 1980, pp. 120, lire 4.000.

dora m a r u c c o , Mutualismo e sistema poli­tico. Il caso italiano (1862-1904), Milano, Franco Angeli, 1980, pp. 222, lire 8.000 (Istituto di scienze politiche Gioele Solari, Università di Torino).

ignazio m a s u l l i, Crisi e trasformazione: strutture economiche, rapporti sociali e lot­te politiche nel bolognese (1880-1914), Bo­logna, Istituto per la storia di Bologna, 1980, pp. 316, sip.m a s s im o m a z z e t t i, L’industria italiana nel­la grande guerra, Roma, Ufficio storico del­l’esercito, 1979, pp. 258, lire 6.500.II volume illustra lo sforzo compiuto dalla struttura industriale e dall’esercito per rea­lizzare la mobilitazione e pianificare la. pro­duzione militare. Oltre a numerose stati­stiche e tabelle il volume offre anche nume­rosi documenti (pp. 176-256).« Memoria », rivista di storia delle donne,n. 1, marzo 1981, Torino, Rosenberg & Sellier, pp. 139, lire 4.500.(a cura di Al b e r t o m io n i), Urbanistica fa­scista. Ricerche e saggi sulla città e il terri­torio e sulle politiche urbane in Italia fra le due guerre, Milano, Angeli, 1980, pp. 344, lire 14.000.

Stefa n o m u s s o , Gli operai di Torino. 1900- 1920. Prefazione di Francesco Cianfaloni, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 226, lire 5.000. Storia dell’organizzazione sindacale e delle lotte operaie dall’età giolittiana al primo do­poguerra.

cataldo NARO, La fondazione della Cassa rurale di S. Cataldo. Contesto sociale e religioso, S. Cataldo (Caltanissetta), Cassa rurale e artigiana « G. Toniolo », 1980, pp. 206, sip.

f ie r l u ig i pa l l a n t e , Il PCI e la questione nazionale Friuli-Venezia Giulia 1941-45, Udine, Del Bianco, 1981, pp. 283, lire 9.000.

Ma u r izio p u n z o , Socialisti e radicali a Mi­lano. Cinque anni di amministrazione de­mocratica (1899-1904), Firenze, Sansoni,1979, pp. 380, lire 15.000 (Biblioteca del­l’Istituto socialista di studi storici).

Carlo l . r a g g h ia n ti, Marxismo perplesso. Arte cultura società politica, Milano, Edi­toriale Nuova, 1980, pp. 252, lire 10.000. Ristampa di vari saggi che raccolgono varie meditazioni sulle ideologie e i problemi po­litici e le vicende degli ultimi anni.

franco r iz z i , C o n ta d in i e co m u n iS m o . L a q u es tio n e agraria nella T erza In te rn a z io n a le . 1919-1928, Milano, Angeli, 1980, pp. 251, lire 8.000 (Storia delle ideologie e delle isti­tuzioni contemporanee).

(a c u ra di Giorgio r o ch a t , gaetano sa t e - r ia l e , lid ia span o ), La casa in Italia. 1945-1980. Alte radici del potere democristiano, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 255, lire 4.600.Antologia di testi sulla politica urbanistica italiana nel secondo dopoguerra.

SERGIO r o m a n o , La Francia dal 1870 ai nostri giorni, Milano, Oscar studio Monda- dori, 1981, pp. 254, lire 5.000.

Ro b erto RUSCONI, Predicazione e vita reli­giosa nella società italiana da Carlo Magno alla Controriforma, Torino, Loescher, 1981, pp. 336, lire 7.500.

Gennaro s a s s o , La « Storia d’Italia » di Be­

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nedetto Croce. Cinquantanni dopo, Napoli, Bibliopolis, 1980, pp. 106, sip. (Memorie dell’Istituto italiano per gli studi filosofici).

Mario s il v e s t r i , La prima guerra mondia­le, Firenze, Le Monnier, 1981, pp. 114, lire 4.200 (Storia parallela).Il volume fa parte di una collana di uso didattico e comprende una prima parte sag­gistica ed una seconda antologica.

Do m e n ic o so r r en tin o , La Conciliazione e il « fascismo cattolico ». La figura di Egil- berto Martire, Brescia, Morcelliana, 1980, pp. 280, lire 10.000.m ic h e l e t a r u f f o , La giustizia civile in Ita­lia dal ’700 a oggi, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 366, lire 12.000.

Alb e r t o t e n e n t i, I rinascimenti. 1350-1630, Firenze, Le Monnier, 1981, pp. 101, lire 4.200 (Storia parallela).

je r z y t o p o l s k i, La storiografia contempo­ranea, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp. 365, lire 12.000.

u n iv e r sit à DI Pe r u g ia , Materiali di storia. 3, « Annali della Facoltà di scienze politi­che. a.a. 1978-1979 », 15, pp. 318, sip. Contiene gli atti del seminario su « Lo stali­nismo nella società sovietica: origini e per­manenze » con contributi di M. Reiman, V. Zaslavky, L. Aleksic-Pejkovic, A. Pitasso e F. Guida, M. Angelini Del Favero, F. Bracco, C. Scatamacchia, G. Pellegrini,F. De Napoli, V. Cecchini, R. Azoulay.

Gianfranco v en e , L’ideologia piccolo bor­ghese. Riformismo e tentazioni conserva­trici di una non classe nell’Italia repubbli­cana. 1945-1980, Venezia, Marsilio, 1980, pp. 202, lire 9.800.Ricerca sui condizionamenti imposti dalla cultura piccolo borghese ai grupppi ideolo­gici dominanti.

(a cura di Ser g io z a n in e ll i), Il sindacato nuovo. Politica e organizzazione del movi­mento sindacale in Italia negli anni 1943- 55, di M. Abrate, A. Albertazzi, A. Cova,F. Duchini, F. Fonzi, M. Grandi, V. Saba,S. Zaninelli, Milano, Angeli, 1981, pp. 837, lire 30.000.