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Ultimi discorsi di Benedetto XVI

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RESTOCON VOI

Temi, voci, paroledi un pontificato luminoso

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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ISBN 978-88-908433-2-7 (PDF)ISBN 978-88-908433-0-3 (EPUB)

direttore responsabile Marco Tarquinio

Avvenire Nuova Editoriale Italiana S.p.A.Piazza Carbonari, 3 – 20125 Milano MIwww.avvenire.it

Copyright © 2013 by Avvenire.Prima edizione digitale 2013 Realizzato da Avvenire

Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’editore.

Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Guida alla letturaI testi raccolti in questo e-book sono stati pubblicati da Avvenire tra il 12 febbraio e il 3 marzo 2013.La prima parte ospita in ordine cronologico cronache, interviste, edito-riali e contributi che hanno raccontato la notizia della rinuncia di Papa Benedetto e quanto accaduto nei giorni successivi, fino al termine del pontificato.Nella seconda parte è possibile trovare un’ampia selezione dei contenuti del supplemento speciale ad Avvenire di domenica 24 febbraio, diffuso non solo in edicole e parrocchie e agli abbonati ma anche in piazza San Pietro tra la gente accorsa all’Angelus e, tre giorni dopo, anche all’ultima udienza generale di Benedetto XVI. L’inserto è ancora acquistabile sul sito www.avvenire.it.Infine, la terza parte propone i discorsi pronunciati da Papa Ratzinger in quest’ultimo scorcio del suo ministero petrino.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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I pilastri della cattedraledi Marco Tarquinio

Abbiamo imparato ad ascoltare e ad amare Joseph Ratzinger, il nostro Papa Benedetto XVI, come uomo di fede e di ragione, innamorato

di Cristo e, perciò, saggio cercatore e difensore della verità profonda che unisce e fa bella e degna la vita degli uomini e delle donne. Per questo, spesso e con ammirazione, anch’io mi sono ritrovato a pensare a lui come a un grande “costruttore di cattedrali”. Un costruttore gentile e forte, che s’è messo all’opera senza paura in anni segnati dai distruttori che hanno insanguinato il cuore del Novecento, che hanno raggelato di vuoto e di terrore i decenni del dopo-atomica, che hanno preteso di fare dell’«io» il nuovo «dio». Un costruttore lucido e paziente, capace della perizia e della gioia, dell’onestà e dell’assoluta pulizia necessarie per tenere aper-to, nel tempo e nella città dell’uomo, il cantiere infinito della “casa” di Dio e del “cortile” di civiltà, offerto a tutti, che le sta sempre accanto. Un costruttore così consapevole dell’importanza di coronare l’opera – per Colui al quale è destinata, e per la comunità che ha guidato per anni nel-la bella fatica – da coronare di rinuncia e silenzio la propria dedizione, consegnandosi al lavoro cristiano più prezioso e nascosto, quello della preghiera. Passano i giorni, e la scelta del Papa continua a toccarci nel profondo, a commuoverci, a scuoterci. E fa risaltare il nitore e la saldezza dei pilastri della “cattedrale” che Benedetto XVI ha costruito con noi e per noi e che ci chiama a continuare a costruire secondo il piano del Padre e con infinito amore per l’umanità che il Figlio ha fatto per sempre sua. Qui, oggi, raccontiamo di tutto questo. E per tutto questo, semplicemen-te, diciamo grazie.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Nulla per sé tutto per Cristodi Angelo Bagnasco

Dopo l’inattesa rinuncia di Benedetto XVI che ha commosso la Chie-sa e il mondo, affiorano d’impulso ricordi e sentimenti. Anche nel

mio animo si affollano pensieri e immagini, gesti e parole che hanno segnato il mio servizio alla Chiesa e, innanzitutto, la mia vita di credente. In quanto cardinale e come presidente della Cei, ho avuto la grazia e la gioia di poterlo incontrare più volte. Ogni volta, sentivo che il carisma petrino di confermare la fede mi aveva segnato. E quanto più l’atten-zione affettuosa sulla Chiesa che è in Italia, e la mitezza della sua parola erano visibili, tanto più la conferma era chiara e vigorosa. Rincuorava il cammino con il calore della sua paternità universale e sollecitava nella verità del Vangelo da vivere con radicalità e da annunciare con gioia. Se posso osare, mi ha da subito colpito la libertà interiore di quest’uomo venuto dal nord, che Cristo aveva scelto come Successore di Pietro. Una libertà - pensavo - possibile solo quando il cuore batte con quello di Dio e non si ha nulla da affermare di sé. La discrezione del tratto, la naturale riservatezza sembravano il desiderio di distogliere l’attenzione dell’in-terlocutore dalla sua persona: come un dito puntato su Cristo. L’urgenza di annunciare che Gesù è il Signore della vita e della speranza, infatti, è l’urgenza che ha ispirato tutto il suo pontificato. L’annuncio in un mondo che cambia vorticosamente, fino a voler ridefinire i fondamenti dell’uma-no, richiede una fede pensata capace di parlare alla modernità con serena chiarezza. I suoi interventi - dalle omelie ai discorsi, dalle encicliche ai libri - sono un esempio di amore, di lucidità di pensiero e di metodo, a cui guardare come luminoso riferimento per continuare nel dialogo con l’uo-mo contemporaneo. Egli è alla ricerca - magari inconscia - del senso ulti-mo del vivere e delle ragioni del credere con le sue implicazioni morali.L’emozione con cui viviamo la decisione umile e ferma di Benedetto

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XVI si associa a un profondo senso di riconoscenza per il suo ministero a servizio della Chiesa e del mondo. Vorremmo che il Santo Padre sentisse ora, più forte che mai, l’abbraccio dei Vescovi italiani. Insieme alle loro comunità, si stringono a lui con affettuosa gratitudine per l’ esempio, e per la parola segnata dall’autorità di Pietro e dalla dolcezza di Benedetto.

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CAPITOLO 1

La notizia, i commenti, le voci

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12 febbraioL’eco dell’annuncio

Totale passione, totale distaccodi Pierangelo Sequeri

Dovrete essere indulgenti. Da secoli, neppure i teologi sono preparati a commentare la rinuncia di un Papa. E per dirla tutta, io mi sento

del tutto impreparato alla rinuncia di questo Papa. La sua lucida e pene-trante padronanza della dottrina, il suo stile a un tempo così immediato e così poco mediatico, la sua pratica così sincera del ministero della mi-tezza e della fermezza della fede, mi hanno talmente abituato alla forza del suo spirito, da rendermi impreparato alla grandezza del suo distac-co. Però, intuisco che la passione ecclesiale del suo servizio, che ora - e proprio così - si illumina così fragorosamente, è destinata a diventare lezione epocale di stile per il ministero - potere e servizio - nella comu-nità di fede. (E non solo nella comunità della fede). Cerco di balbettare parole, per restituire quello che intuisco, a caldo. Del ministero petrino, nella Chiesa e per la Chiesa, si è servitori, non padroni. Per dimostrarlo, non è necessario che morte sopraggiunga. E così noi, dopo aver ricevuto innumerevoli doni e prove della sua custodia e del suo onore, siamo testi-moni, emozionati e sbigottiti, del gesto della sua restituzione. Il cristiano Joseph Ratzinger, il servitore fedele della Chiesa, restituisce - da vivo - il ministero petrino alla Chiesa, perché, ascoltando lo voce dello Spirito e interpretando l’indicazione del Signore, essa lo assegni all’uomo che sembrerà più adatto a infondergli il nuovo vigore che la conferma della fede e la guida della Chiesa richiedono. Un gesto estraneo alla nostra im-maginazione banalmente clinica, un segno di responsabilità che anticipa

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il distacco da sé, interiormente richiesto: in questo ministero, più che in ogni altro. Per comprenderlo appieno, però, al di là dell’abnegazione di un animo grande, dobbiamo intenderne la lucidità nei confronti dell’ora presente della Chiesa e del mondo. È pur questo un pronunciamento del Papa. Un pronunciamento nei confronti della speciale congiuntura della fede e della storia in cui viviamo. Non per caso, su questa congiuntura Benedetto XVI ha concentrato, con grande determinazione, il fuoco del-la sua parola e dei suoi ultimi ammonimenti. Il congedo è annunciato nel cuore dell’Anno della fede e dopo il Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione. Un gesto epocale, per una svolta della vitalità della fede. Il Papa coraggioso fa il suo ultimo passo, camminando - proprio così - avanti alla Chiesa, che dovrà seguire. Con che cuore, dunque, po-tremo limitarci a un semplice gesto di comprensione e di condiscenden-za? Benedetto XVI merita - e ha meritato - infinitamente di più. Il suo ultimo atto di ministero rende onore al carisma petrino. E come tale deve essere onorato. L’evidenza del gesto ci fa traballare, certo. Ci lascia con il fiato sospeso. Sentiamo però che mai così efficacemente siamo stati messi di fronte alla nuda fede che ci è necessaria, affinché la Chiesa - la Chiesa, sì, il vangelo che è affidato agli umani! - lasci spazio a nuove energie e a nuovi chiamati. Perché le sia concesso di mostrare, in modo totalmente persuasivo, la sua totale passione per il vangelo insieme con il suo totale distacco da se stessa. Dovremo al gesto del Papa Benedetto - ci verrà in mente per secoli - la riscoperta ecclesiale della forza che viene da questa perfetta sovrapposizione di totale passione e di totale distacco. È per questo che esiste, un Papa. E che cosa può fare di più, un Papa, per convincerci ad abbandonare una volta per tutte le passioni tristi e gli ambigui interessi che ci distolgono dall’appello del Signore alla Chiesa? Non potremo mai più dimenticare il modo con il quale ci è stata spalan-cata la porta di una fede totalmente disinteressata, alla quale restituire appassionata evidenza per tutti coloro che ne hanno perso l’immagine. E non avremo scuse, se non faremo tesoro, di fronte alla storia, di questo splendido magistero del congedo di un Papa.

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L’albero che cresce sempre di nuovodi Marina Corradi

Non accadeva da secoli. E si pensava non potesse accadere. Il mondo, da un capo all’altro, sbalordito. «Ad cognitionem certam perveni

vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum». L’austerità del latino rende appieno la dram-maticità e l’essere già storia di quelle poche righe: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino...». Le parole a lungo ponderate in silenzio, maturate in un confronto serrato fra la coscienza di un uomo e Dio, erompono, inattese.

Il web impazzisce. I potenti dichiarano. Ma noi credenti, noi che amiamo Benedetto XVI, che ne ascoltiamo da anni le parole e ne conosciamo il profondo amore per la Chiesa, siamo rimasti, ieri, profondamente smarri-ti. Tu, te ne vai? In quanti conventi e cattedrali e chiese e missioni e case e favelas in tutto il mondo questa domanda è risuonata ieri, dolorosa. Tu, Pietro, rinunci. E noi nelle nostre fatiche e sofferenze ci siamo sentiti più soli, come un esercito il cui generale, gravato dagli anni, lasci il campo. Semplicemente, dolore: un dolore filiale è ciò che milioni di fedeli hanno sentito addosso, ieri. Noi, non sappiamo. Non conosciamo in che modo la «ingravescens aetas» abbia incalzato il Papa, sempre più da vicino, e come, rodendone le energie, abbia avuto la meglio sulle forze dell’uomo. Nemmeno possiamo immaginare quale carico di responsabilità e sfide gravi oggi sul Papa. Se sapessimo, forse capiremmo. Ciò di cui non du-bitiamo è che questo gesto sia ancora e sempre di amore per la Chiesa; che Benedetto abbia pensato al bene Chiesa, prima che a sé, nel decidere.

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Ci sono, fra le righe degli ultimi discorsi, parole che lette oggi sembrano quasi voler consolare quelli come noi, gli smarriti. «Essendo cristiani - aveva detto il Papa nella lectio divina al Pontificio seminario romano maggiore, venerdì scorso - noi sappiamo che nostro è il futuro, e che l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma albero che cresce sem-pre di nuovo». Pensava già anche a noi Benedetto XVI, quando scriveva queste parole? Come un padre che avverta il declino, e al dolore dei figli risponda facendo memoria che, in Cristo, nulla muore per sempre; e che se qualcosa sembra finire, è per rinascere ancora. Dentro una immensa storia che continua possiamo farci una ragione, nel nostro smarrimento, dell’andarsene di un padre. Non lo ameremo, per questo, di meno; anzi forse di più, come quando sulla faccia di tuo padre un giorno d’improv-viso vedi quanto pesano gli anni, e i dolori. E vengono in mente le ultime due pagine di “La mia vita”, autobiografia di Ratzinger prima del ponti-ficato, in cui spiegava perché, nel suo stemma di arcivescovo di Monaco e Frisinga, avesse messo un orso. Secondo la leggenda, Corbiniano, fon-datore della diocesi di Frisinga, stava recandosi a Roma quando un orso aggredì e sbranò il suo cavallo. Allora il santo ordinò all’orso di caricarsi il fardello del cavallo, fino a Roma. Alla leggenda il futuro pontefice as-sociava un commento di Agostino al Salmo 72, in cui il santo scriveva: «Sono divenuto per Te come una bestia da soma, e proprio così io sono in tutto e per sempre vicino a Te». Che non sia questa, di domandava Ratzinger, un’immagine del mio personale destino? Come già avverten-do sulle spalle il giogo incombente. Il libro finiva così: «Quando sarà lasciato libero l’orso, non lo so, ma so che anche per me vale: “Sono divenuto la Tua bestia da soma, e proprio così sono vicino a Te”». L’orso ha portato un carico grande. Ora cede agli anni, e al gran peso; per ciò che ritiene il bene della Chiesa, umilmente cede. Ci resta, luminosa, quella parola sull’albero che non muore, ma germoglia sempre e di nuovo. Sotto al cielo di piazza San Pietro, grigio in una mattina di febbraio, la Chiesa continua. E invisibili si incrociano promesse e vocazioni e destini, come

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fili di una trama che non sappiamo; ma che attende noi, e i nostri figli, e il Papa che verrà, in un disegno buono.

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La ragione della fede tra gli atei natividi Salvatore Natoli

In un film recente e controverso - «Habemus papam» - il regista Nanni Moretti ci raccontava di un cardinale restio a diventare Papa perché

non si sentiva idoneo a prendere su di sé il grande peso di governare la Chiesa, schivato peraltro anche dagli altri; oggi Papa Benedetto XVI che si dimette dal pontificato perché non si sente più nelle condizioni fisiche o spirituali - o spirituali e fisiche insieme - per potere stare ancora alla guida della Chiesa. Nella storia della Chiesa ci sono state dimissioni ce-lebri - tutti ricordano quella di Celestino V - tanto che il diritto canonico le prevede, anche se non appartiene alla prassi ordinaria. Da laico non vo-glio entrare nel merito della teologia - e visto che si parla di papato nep-pure della teologia politica - ma mi limito a notare come in genere e per lo più si tenda a identificare la Chiesa con il Papa, anche se il papato è un servizio alla Chiesa nella Chiesa. Non voglio neppure affrontare la que-stione circa il rapporto tra persona e funzione in questo caso direi meglio mandato, ma mi pare che nelle dimissioni del papa motivo di riflessione siano le ragioni da lui avanzate. Nel momento in cui per motivi diversi non ci si sente all’altezza del proprio compito è giusto riconsegnarlo a coloro da cui lo si è ricevuto; e in questo caso alla Chiesa. Una decisio-ne degna di grande apprezzamento perché indica come non bisogna mai confondere il compito con il potere e perciò sulla necessità di intendere il potere come servizio. In una società in cui si tende ad identificare sé con il potere - tanto che nessuno si dimette se non sconfitto - le dimis-sioni del Papa mostrano un senso alto di responsabilità nei confronti del proprio compito e perciò anche di dedizione alla Chiesa. L’erogazione di un servizio presuppone la consapevolezza del limite e perciò il dovere di

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ritirarsi quando si ritiene di non essere più in grado di espletarlo al me-glio. Dimettersi in questo caso oltre ad essere indice di una grande qualità morale, è anche un atto razionale, consapevole di quello che si è in grado di fare o meno.

D’altra parte Benedetto XVI, nel corso del suo pontificato si è sempre ap-pellato alla ragione fino al punto da impegnarsi, da teologo, a mostrare la ragionevolezza della fede senza nulla togliere al suo mistero. Certo quel che seguirà a queste dimissioni non è facile da prevedere: quanto una pre-senza così importante come quella dell’ex Papa influirà sul conclave e, ancorché silente, condizionerà l’elezione del nuovo Papa? Come è noto certe conseguenze insorgono anche quando non si vogliono. Ma ciò nulla toglie al valore etico di chi declina un mandato e si mette a disposizione per altro servizio che può meglio sostenere. Certo il peso che Papa lascia in eredità al suo successore non è lieve: la Chiesa si trova oggi per la prima volta ad operare in un ambiente totalmente secolarizzato; possia-mo dire di “atei nativi”, come nei processi cognitivi si parla di “nativi digitali”. Non più contro Dio, ma senza Dio, almeno secondo il modo tradizionale di concepirlo. Di questo il Papa stesso se ne era reso perfet-tamente conto quando ha lanciato l’idea di una nuova evangelizzazione, consapevole che il regime di cristianità sia definitivamente consumato e i cristiani sono divenuti minoranza. Per questo o tornano ad essere lievito o periscono.

Per questo quel che Benedetto XVI non farà più da Papa continuerà a far-lo nella forma in cui lo ha sempre fatto, educando all’intelligentia fidei, da teologo. E su questo piano i non credenti restano ancora interlocutori possibili.

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Maestro e testimonedi dedizione alla Chiesa

di Elio Guerriero

Per quanto inattesa, la notizia delle dimissioni di Papa Benedetto non è estranea all’insegnamento e alla testimonianza del pontefice tedesco.

Vi è anzitutto la sua reiterata insistenza sul concetto di ministero petrino. Naturalmente il pensiero del servizio associato al compito dei succes-sori di Pietro non è nuovo nella storia della Chiesa. Vi fa riferimento il titolo di servo dei servi di Dio con il quale i Papi da Gregorio Magno in poi hanno concepito il loro incarico. È certo, però, che già da cardinale Ratzinger aveva insistito sulla struttura martirologica, testimoniale del ministero del successore di Pietro dove l’idea del martirio non faceva tanto riferimento alla testimonianza cruenta, quanto alla dedizione totale, quotidiana richiesta al pontefice. Egli sottolineò poi questo concetto fin dalla Messa inaugurale del suo pontificato, che volle definita Messa per l’inizio del ministero petrino. Il pensiero a questo punto va spontanea-mente al capitolo conclusivo del Vangelo di Giovanni, tanto caro al Papa, con il triplice quesito rivolto da Gesù a Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? Mi ami tu, mi ami tu?». E poi l’annuncio: «Quando eri giovane, ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Con questi sentimenti Papa Benedetto ha affrontato il suo pontificato e con gli stessi ha fatto la scelta delle dimissioni in un estremo gesto di obbedienza e di sequela alla chiamata del Maestro. Papa Benedetto non è l’uomo dalle decisioni improvvise e non è abituato a sfuggire alle difficoltà. La sua determinazione nasce dalla visione molto elevata del compito del Papa come servitore dell’unità, ma anche dalla

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profonda convinzione maturata negli anni della presenza viva di Gesù nella Chiesa. Si spiega così la tenacia con la quale ha voluto portare a compimento i suo tre volumi su Gesù di Nazaret, a delineare una cri-stologia e una ecclesiologia spirituale. Dove l’aggettivo spirituale sta a sottolineare l’aspetto personale di Gesù. Nella parola e nei sacramenti, in particolare nell’Eucaristia, con il suo Spirito d’amore Gesù è presente e vivo nella comunità cristiana che da lui riceve vita e giovinezza. Egli non è solo il profeta vissuto duemila anni fa, ma il Figlio che siede alla destra di Dio. A lui i fedeli possono rivolgersi in ogni momento per far giungere al Padre la lode e il ringraziamento per la sua magnanimità nell’opera di salvezza e per chiedere aiuto e sostegno nel cammino della vita. È ancora lo Spirito di Gesù che guida la Chiesa e la governa, che calma le tempeste della storia. Vi è un’ulteriore riflessione degna di attenzione: Benedetto XVI ha preso la sua decisione nell’Anno della fede da lui stesso convo-cato. Fede in questo caso vuol dire fiducia riposta nello Spirito. Il Papa può compiere, dunque, questo gesto sapendo di rimettere il suo mandato nelle mani del Paraclito, il quale guiderà i cardinali a eleggere un succes-sore che sappia servire con rinnovato vigore all’incarico di tenere unita la comunità dei credenti. Vorrei ricordare che se il Papa lascia la guida della Chiesa, egli resta un padre che mette a disposizione la sua preghiera e la sua testimonianza in unione profonda con il suo successore e con tutta la comunità credente. A lui vanno dunque l’augurio che già Origene rivolgeva a un anziano: «La tua età matura sia feconda come la tua giovi-nezza», così come la gratitudine e la preghiera dei fedeli tutti.

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Tutto ci è datodi Marco Tarquinio

Siamo sorpresi e scossi. Siamo commossi. Ed è naturale. Anche se i libri di storia dicono altro, è la prima volta – a memoria d’uomo e

di cristiano – che un Papa «si dimette ». E senza dubbio è la prima volta che il mondo può ascoltare in diretta questo annuncio nell’antico idioma della Chiesa, il latino, e può vederlo propagarsi istantaneamente in tutte le possibili lingue dei popoli e della modernità. Certo, Benedetto XVI ci aveva invitato per tempo in modo aperto e sereno, a considerare la ragio-nevolezza cristiana e umana di un simile gesto. Ma un conto è considera-re una evenienza, tutt’altro è misurarci con un evento. E a questo siamo.

Trema la mano a scriverlo, e non di paura, ma di un incredulo eppure come già consolato dolore e di una strana gratitudine in cerca di conforto.

La nuova e straordinariamente umile scelta di Papa Benedetto – la vo-lontà di consegnarsi dalla fine di questo febbraio a un servizio a Dio e ai fratelli fatto di silenzio, di nascondimento e di preghiera – completa (e, poco a poco, ci sarà sempre più chiaro) la decisione con la quale Joseph Ratzinger, servitore coraggioso e già anziano della parola limpida e pro-fonda, accettò otto anni fa l’elezione al soglio di Pietro, chinandosi per amore alla volontà di Dio e alla richiesta della Chiesa e inchinandosi a noi tutti nel presentarsi come «umile lavoratore della vigna».

Ora, nel cuore di quest’Anno della Fede, l’umiltà e la grandezza di Pietro si manifestano in una maturata decisione di ritiro per sé e di indicazio-ne alla comunità dei credenti della via dell’elezione di un più vigoroso

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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«servo dei servi di Dio». Inevitabile tornare con la mente, e con identica commozione, a un altro distacco e a un altro grande ammaestramento che – sembra appena ieri – si manifestò nell’interezza del cammino infi-ne faticoso e della voce infine spezzata di Giovanni Paolo II. Due facce distinte e complementari dell’umiltà evangelica ci sono state mostrate in esemplare sequenza in questo avvio del terzo millennio cristiano. E oggi, come ieri e come sempre, uno “scandalo” e un “segno” ci pongono di fronte e dentro a un avvenimento che tocca l’anima di ognuno, che segna la storia di tutti, che interroga e sprona in modo persino rivoluzionario la grande comunità di fede cattolica e parla a ogni altro credente in Gesù di Nazaret.

E, così, eccoci qui. Agitati più che mai da attese, in questi giorni davvero per noi inattesi. Assediati di domande, in questo tempo di aspre sfide e di accattivanti illusioni che è già per uomini di fede e di scienza una grande e assillante domanda. Eccoci qui, di fronte alla croce di Cristo e a un insegnamento del Papa che ci ricorda nel modo più disarmante e coinvol-gente la nostra responsabilità e la nostra limitatezza. Eccoci qui, a mani aperte, ma non vuote. Come se qualcosa di prezioso ci fosse stato tolto e offerto con uno stesso gesto. E forse in tanti, in questo freddo giorno di febbraio dell’Anno del Signore 2013, capiamo di più e meglio che pro-prio niente ci appartiene per sempre, ma se apparteniamo a Lui, nulla e nessuno ci è tolto e tutto ci è dato.

Siamo sorpresi e scossi, sì. Siamo commossi. E il cuore ci aiuta a capi-re meglio la scelta del Papa, e a dirgli con fiducia e speranza un nuovo grazie. Grazie perché ci ha insegnato, e continuerà a farlo, con intensità e forza uniche il legame vitale tra fede e ragione, tra la vita degli uomini e le donne di questo tempo e la verità sull’uomo e sulla donna di ogni tempo. Grazie perché ancora una volta Benedetto ci ha detto chi è Pietro e come serve l’unico Signore.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Bagnasco: “La decisionedi un uomo di fede”

di Francesco Ognibene

Ha preso parte al Concistoro di ieri mattina che resterà scolpito nella storia della Chiesa. Nel suo cuore, certamente, rimarranno incise le

parole del tutto inattese di Benedetto XVI, un tumulto nel cuore di tutti che in un attimo si è esteso al mondo. Il cardinale Angelo Bagnasco, pre-sidente della Cei, poche ore dopo l’annuncio del Papa racconta l’incontro cui ha partecipato, i sentimenti che l’hanno accompagnato, e ci aiuta a leggerne il senso con lo sguardo limpido del cristiano.

Eminenza, cosa può dire dell’evento di cui è stato testimone?

Il Concistoro si stava svolgendo come previsto, ma prima della benedi-zione finale il Santo Padre ha letto un suo testo in latino, breve, nel quale ha annunciato l’intenzione di concludere il servizio petrino il 28 febbra-io. C’è sempre un grande silenzio di attenzione quando il Papa parla, ma dopo queste parole è calato su di noi un silenzio ancor più palpabile, misto a sorpresa, sconcerto, grande rincrescimento. Quando poi il Santo Padre è uscito, dopo un momento nel quale nessuno parlava, ci siamo quasi timidamente scambiati i nostri sentimenti, scoprendoli profonda-mente condivisi.

Come va accolta la scelta di Benedetto XVI?

Siamo tutti dentro una profondissima emozione, ma dobbiamo collocare questo avvenimento dentro l’orizzonte della fede: Cristo è il pastore dei

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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pastori, la Chiesa è solida nelle mani di Gesù che si serve degli uomini scelti da Lui. Insieme al primo sconcerto, che resta nel cuore, emerge un grande abbraccio a Benedetto XVI, da credenti e non credenti, perché sta svettando più nitida ancora la statura di quest’uomo che il Signore ci ha donato per 8 anni, per il suo profondo magistero offerto con una tenerezza di animo e di tratto, di rispetto e di umiltà riconosciuta da tutti, specialmente in queste ore.

Cosa possiamo leggere nelle parole pronunciate dal Pontefice?

Questa decisione nasce da un’anima - percezione crescente in questi anni - profondamente umile, che vive di fede e nella libertà del proprio cuore, che non ha da affermare se stesso ma sa di dover solo annunciare Gesù Cristo. Tutto ciò che lui compie - gesti, parole, scelte - l’ha vissuto esclu-sivamente per questo. L’Anno della fede comprova la preoccupazione che ha annunciato fin dall’inizio del suo pontificato: la questione prin-cipale della Chiesa oggi è la fede. Al Papa non importa essere conforme all’opinione dominante, perché è un uomo libero e quindi coraggioso. La decisione appena annunciata è dentro questo humus profondo della sua anima, che è il suo respiro quotidiano e che lo ha portato a valutare l’a-vanzare degli anni - come lui dice - in rapporto ai bisogni crescenti della Chiesa contemporanea.

C’è una parola tra quelle pronunciate dal Papa che può aiutarci a leggere dentro i suoi sentimenti e le sue intenzioni?

Non presumo di conoscerlo così profondamente, ma nella frequentazione di questi anni nei quali ho potuto avvicinarlo anche in circostanze molto difficili e di grande sofferenza - come il momento di massima esplosione delle vicende dolorosissime legate ai casi di pedofilia - mi ha sempre colpito la serenità e la fiducia. Mi porto dentro l’impressione fortissima di un uomo che vive tutto ciò che accade con uno sguardo di fede. Il suo

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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è l’esempio di come si vive il cristianesimo: vedere le cose con gli occhi del Signore. Il suo magistero di questi anni, insieme alla sua persona, è un richiamo, un esempio e una predicazione della fede. Che al suo centro ha Gesù Cristo.

Lo stato d’animo di tanta gente è di sorpresa e di dolore, forse molti pensano anche a Giovanni Paolo II che portò il suo servizio fino alla fine. Perché questa differenza tra i due Papi?

Le circostanze sono diverse, come le personalità. Ognuno ha valutato davanti a Dio, nella preghiera, la propria situazione e quella della Chiesa cui è consacrato come servitore. Sarebbe indebito fare confronti così de-licati e, alla fine, ritengo anche impossibili perché ci porterebbero dentro il sacrario della coscienza personale.

Questa decisione - come già dice qualcuno - mostra una Chiesa più fragile ed esposta a chi la vorrebbe diversa da come è?

Al contrario. L’«incapacità» di cui parla il Papa non è riferita alle virtù morali o a poco coraggio, scarsa attenzione, volontà di ritirarsi a una vita meno pesante. Le considerazioni del Papa sono riferite alle forze fisiche e al passare degli anni, con un logorìo che in questi ultimi mesi è stato anche visibile. Di certo non si può dire che questo non sia un Papa corag-gioso: se qualcuno pensa a una “fuga” dovrebbe chiedersi allora perché non lasciò nel mezzo della tempesta per la pedofilia.

Questo evento imprevedibile ha un nesso con l’Anno della fede?

Si può vedere come un annuncio del primato della fede e della centralità di Cristo. Noi uomini siamo strumenti e servitori, certo impegnandoci a esserlo in modo intelligente e responsabile, ma il grande timoniere resta Cristo. Se questa è la nostra fede, la scelta di coscienza che il Papa ha fat-

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to diventa una proclamazione ulteriore e visibile di cosa vuol dire avere Cristo al centro.

È come se il Papa ci indicasse una volta ancora Cristo...

Sì! A ben considerare, ancora una volta lui che è così schivo con questo gesto sembra voler spostare l’attenzione da sé al Signore.

Un altro sentimento che si tocca è l’impressione di molti di perdere un padre. Come si affronta questo stato d’animo?

Anzitutto ringraziamo il Signore, perché è bello sentire in modo più esplicito e diffuso quanto Benedetto XVI sia entrato nei cuori. Non solo teologo ma padre. Gesù ha fondato la Chiesa come espressione del suo amore e della paternità di Dio verso il mondo, e la esprime anche attra-verso i suoi pastori, in primo luogo tramite il suo fondamento visibile che è il Successore di Pietro. Occorre avere ora grande fiducia, perché è Gesù il grande nocchiero della Chiesa. Egli non la abbandona mai. Abbiamo un grande senso di affetto, vicinanza, riconoscenza verso l’uomo che in questi anni ha tradotto la paternità di Dio in modo insieme così forte e mite. Ma dobbiamo anche essere molto sereni: la provvidenza c’è, la sto-ria della Chiesa ci insegna che davvero Dio vede e provvede.

In cosa ha visto, eminenza, la speciale paternità del Papa verso la Chiesa italiana, espressa ancora in queste settimane con le visite ad limina di tutti i vescovi?

Proprio noi vescovi liguri siamo attesi in Vaticano tra due giorni, un’oc-casione per esprimergli gratitudine e affetto. Ho toccato con mano l’at-tenzione del Papa per la Chiesa italiana in tutte le udienze che mi ha concesso come presidente della Conferenza episcopale. Egli ha disposto la consuetudine di potermi recare in udienza prima di ogni incontro con i

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vescovi italiani, e dunque quattro-cinque volte l’anno. Questo è stato per me un grandissimo dono e privilegio. Gli incontri con lui sono stati una grazia di conferma nella fede e di indirizzo per la Chiesa italiana. Il Papa ha sempre ascoltato con estrema attenzione e discrezione, suggerendo e incoraggiando, mostrando grande stima e affetto per l’episcopato italiano e il nostro Paese. L’udienza più recente, verso la fine di gennaio, è stata particolarmente lunga - un’ora. Il Santo Padre, con la parola e lo sguardo, si è informato con un’attenzione tutta particolare. Un’esperienza che ho riferito ai miei confratelli in Consiglio episcopale, perché mi è sembrata una grazia specialissima.

Nelle sue parole al Concistoro il Papa ha anche indicato ai pastori uno stile per guidare la Chiesa?

Il Papa ha richiamato la consapevolezza che la missione affidata da Dio ai pastori, e anzitutto al successore di Pietro, è più grande delle nostre spalle umane. Ma proprio per questo emerge la presenza e la grandezza di Dio, che guida la sua Chiesa attraverso le nostre povertà. Deve prevalere la grazia e non le capacità umane. Vorrei sottolineare che il Pontefice dice che il ministero va compiuto «non meno soffrendo e pregando», due ele-menti di governo della Chiesa che lui ha vissuto - come anche Giovanni Paolo II - in primissima persona.

Papa Benedetto ci ricorda che “resta con noi” nella preghiera, in-dicando la nuova dimensione della sua vita. Cosa ci dice questa sua parola?

La preghiera esprime la fede nel Signore. Nella lettera d’indizione dell’Anno della fede Porta fidei dice che la fede è decidere di stare con Gesù per vivere con lui. La preghiera si colloca qui: la fede è decidere di stare con lui, e in questo c’è la familiarità e la compagnia con il Signore che noi chiamiamo vita spirituale. Essa assume in modo specifico la for-

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ma della preghiera. Il fatto che lui resti con noi nella preghiera ci richia-ma all’essenza della fede cristiana. Che è “stare con Gesù” nel mondo senza essere del mondo.

Che significato ha il giorno scelto dal Papa, una festa mariana così popolare e amata come la Madonna di Lourdes?

È un elemento certo non casuale. La scelta è precisa, anzitutto come de-vozione filiale alla Madonna. Nei suoi viaggi il Santo Padre ha sempre vi-sitato santuari mariani. A Lourdes la devozione mariana si esprime come amore misericordioso, che guarisce i corpi quando Dio vuole e le anime sempre. L’amore di Dio a Lourdes si fa misericordia per le afflizioni del nostro mondo, per le malattie del corpo e dell’anima. Mi pare una sotto-lineatura particolarmente bella e importante per l’umanità di oggi che ha estremo bisogno di sentirsi amata. Se il mondo a volte è tanto violento è perché forse non sa di essere amato nella misericordia.

Non è l’ora dei bilanci, ma c’è un fattore che lei ha visto cambiare più intensamente sotto la guida di Benedetto XVI?

Diversi sono i fattori ed è presto per valutarli. Però mi sembra che, insi-stendo sulla centralità della fede e quindi di Gesù Cristo, il Santo Padre negli anni ha pazientemente richiamato l’attenzione su quello che ci ha indicato il Concilio Vaticano II, cioè il primato della liturgia, luogo e spa-zio del mistero, dove l’uomo s’incontra con il Signore e nella sua libertà si lascia afferrare dal mistero di Dio, per esserne trasformato. Il Papa ha messo a tema sin dall’inizio del pontificato la centralità della liturgia eucaristica come fonte e culmine di tutta la vita cristiana e della missio-ne della Chiesa. Ci ha costantemente ricordato che l’Eucaristia genera il popolo di Dio. Mi pare che questa sottolineatura stia passando nella vita delle comunità e nella coscienza del popolo cristiano.

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Come affrontare questo tempo inedito di attesa che precede il Con-clave per l’elezione del nuovo Papa?

Con un atteggiamento di grande fiducia e serenità. Il rammarico e lo scon-certo iniziali sono il segno che mostra come Benedetto XVI sia entrato nei cuori portandoci Gesù con la sua persona, la luce della sua parola e il calore della sua mitezza. Ma questi sentimenti devono essere vissuti dentro a un orizzonte più grande: la serenità radicata nella fede. Lascia-mo stare tanti discorsi: il credente ha fiducia in Cristo. Non rincorriamo ipotesi, pronostici, illazioni che in questi giorni si faranno. Preghiamo, con lo sguardo fisso su Gesù, perché la Chiesa continui la sua storia di fedeltà a Cristo e all’uomo. Preghiamo per Benedetto XVI, e per il futuro successore di san Pietro.

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Cardini: “Non ci fu soltantoCelestino V”di Roberto I. Zanini

«In un caso come questo il primo nome che viene in mente è quello di Celestino V, il Papa del “gran rifiuto”, anche se il versetto non è fra

i più simpatici di Dante e nei fatti non sappiamo con certezza se il poeta si riferisse proprio a Pietro da Morrone». È la prima osservazione dello storico Franco Cardini quando gli chiediamo se nella storia ci sono stati casi che in qualche modo possano assomigliare a quello di Benedetto XVI. Poi spiega che in realtà casi simili non ce ne sono stati, ma «se pro-prio si vuole andare a caccia di Papi che hanno rinunciato», ci sono casi vagamente somiglianti. E aggiunge: «Le somiglianze storiche zoppicano, perché sono sempre soggettive». In questa logica salta a piè pari il caso poco documentato di papa Clemente, terzo successore di Pietro. Poi, c’è quello di papa Ponziano, che nel 235 viene deportato in Sarde-gna e nella prospettiva di non tornare più dai lavori forzati rinuncia alla carica consentendo la nomina del suo successore. Sorte che più o meno accade tre secoli dopo a papa Silverio, confinato da Belisario su ordine dell’imperatrice Teodora.

Allora professore, quali sono i casi vagamente somiglianti più vicini a noi?

Un caso emblematico è quello relativo a Benedetto IX, Teofilatto dei conti di Tuscolo, che viene eletto nel 1032. Personaggio dalla vita assai criticabile, che viene cacciato da una rivolta nel 1044. Al suo posto viene eletto Silvestro III che a sua volta viene rimosso dal ritorno di Benedetto

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IX che resta in carica fino a maggio del ‘45, quando vende il pontificato a Giovanni dei Graziani che prende il nome di Gregorio VI e viene deposto l’anno dopo. Una fase particolarmente confusa della storia della Chiesa che culmina con lo Scisma d’Oriente e si chiude con la nomina al soglio pontificio di Ildebrando di Soana, il riformatore Gregorio VII.

C’è un periodo analogo, nel ‘400, in cui si verifica una singolare so-vrapposizione di Papi...

In effetti se da professore di storia, non da commentatore della vicenda attuale, dovessi andare cercando curiose analogie indicherei i fatti acca-duti negli anni fra il 1409 e il 1414.

Siamo alla fine dello Scisma d’Occidente.

Esattamente. Parliamo del caso di Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr, che si dimette nel 1415 su richiesta del Concilio di Costanza, dopo però che nel 1409 il Concilio di Pisa aveva deposto sia lui che il papa avignonese Benedetto XIII, eleggendo in loro sostituzione Ales-sandro V, che muore nel 1410 e viene sostituito dall’antipapa Giovanni XXIII. Una situazione particolarmente confusa a fronte della quale, an-che su sollecitazione di molti cardinali che rilevano la necessità di porre fine allo scisma, interviene l’imperatore Sigismondo di Boemia. Viene indetto il Concilio di Costanza il 4 luglio del 1415 che accoglie l’abdica-zione ufficiale, ancorché forzata, di Gregorio XII, che torna cardinale e va a vivere a Recanati. Qualche mese dopo lo scisma viene ricomposto con l’elezione di un membro di una nobile famiglia romana, Oddone Colonna, che assume il nome di papa Martino V. È nel corso del Concilio di Costanza che emerge un fatto importante nella Chiesa, cioè il dibattito sull’opportunità che il Papa governi affiancato dal Concilio. A questo scopo si decise che i Concili venissero indetti a cadenze fisse.

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Questo non impedì quello che è passato alla storia come il Piccolo Scisma.

E anche qui emerge la singolare figura di un antipapa dimissionario. Si tratta di Amedeo VIII di Savoia, eletto in seno al Concilio di Basilea da un gruppo di cardinali che deposero Eugenio IV. Prese il nome di Felice V. Quando a Roma Eugenio IV muore, su richiesta del successore, Ni-colò V, accetta di abbandonare la tiara per riunire la Chiesa. È il 1449. Muore due anni dopo da cardinale e in fama di santità. Da quel momento l’unità di guida all’interno della Chiesa Cattolica non viene più messa in discussione.

Figure che ci allontanano parecchio dal caso di Benedetto XVI.

Sono somiglianze molto vaghe. Alla fine il caso che si avvicina di più, nonostante le tante differenze, è forse quello di Celestino V. Lui è tornato a fare il monaco anche perché non poteva fare altrimenti, considerate le pressioni esterne. Le libere dimissioni di papa Benedetto aprono ora nuovi scenari anche riguardo alla domanda su cosa fa un Papa dopo che si è dimesso.

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Versace: “Anche Montini arrivòa valutare quel passo”

di Gianni Santamaria

Poteva esserci già con Paolo VI un precedente di rinuncia al papato nella storia recente del Pontificato. Di sicuro la lettera in questo senso

preparata da Papa Montini già dopo aver scritto il suo testamento spiri-tuale, testimonia come i successori di Pietro abbiano sempre in mente l’importanza della propria integrità fisica e mentale. Ma anche che se il servizio petrino lo si può lasciare, non si lascia mai la paternità ad esso connaturata.«La lettera era da consegnarsi ai cardinali nel caso si fosse-ro verificate condizioni di impossibilità a proseguire nel ministero. Con preghiera di approvarla, cosa che era prevista prima delle riforma attuata da Giovanni Paolo II nell’83. Questo era il contenuto, riportato dal se-gretario del Papa, monsignor Pasquale Macchi. Il Papa temeva di potersi ammalare gravemente e diventare incapace di svolgere i suoi compiti», spiega Eliana Versace, docente di Storia della Chiesa contemporanea alla Lumsa. Dell’esistenza dello scritto, non del suo contenuto letterale, si è venuti a conoscenza da alcuni mesi, poiché se ne parla nella Positio ap-provata il 20 dicembre dalla Congregazione per le cause dei santi, dopo la quale Benedetto XVI ha firmato il decreto di riconoscimento delle vir-tù eroiche del predecessore. Ma già il suo segretario, monsignor Macchi, ne aveva parlato in alcune sue precedenti pubblicazioni.

«Però ci pensava da tanto - prosegue la Versace -. E pensava anche che queste dimissioni da Pontefice romano e pastore universale della Chiesa dovessero essere accettate. Per questo raccomandava che vi fosse l’ap-provazione del collegio cardinalizio. Questa è la differenza rispetto alla

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procedura adottata da Ratzinger, che si è avvalso della possibilità per il Papa di dimettersi introdotta da Wojtyla nel 1983. Paolo VI temeva, insomma, l’eventualità di essere improvvisamente colto da una malattia che lo rendesse inabile o incapace di intendere e volere. E, in questo caso, non vi sarebbe stata un’autorità a lui pari in grado di accettare la sua ri-nuncia. «O anche una malattia che gli impedisse di continuare a svolgere adeguatamente il suo compito - precisa la studiosa -. Lui si è speso tanto e voleva continuare fino alla fine. Però se le forze non avessero retto... Certo, l’idea della compresenza di due Papi era un problema. Per questo si pensa che potesse ritirarsi in un monastero. Magari benedettino, vista la predilezione che aveva per questo ordine».

Il Papa di Concesio, va ricordato, è stato il primo successore di Pietro a viaggiare in tutti i continenti e conobbe tempi difficilissimi caratterizza-ti da drammi come quello dell’amico Aldo Moro e dalla contestazione. «Erano anni in cui la Chiesa aveva bisogno di una guida forte. E lui sen-tiva venire meno le sue forze. E siccome si riteneva un padre, diceva già nel 1967 al suo amico Jean Guitton che «se un papa non ha l’abitudine di andare in pensione prima della fine è perché non si tratta tanto di una funzione quanto di una paternità». E padre sarebbe rimasto anche se i suoi figli non avrebbero più potuto vederlo.

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Galli della Loggia: “Dà vocealla ragione. Un gesto di rottura”

di Andrea Lavazza

La notizia l’ha colto, come è accaduto a tutti, totalmente di sorpresa. Non è invece stupito di essere interpellato da Avvenire. Ernesto Galli

della Loggia nelle ultime settimane è stato uno dei pochi, dalle colonne del Corriere della Sera, a condividere le argomentazioni laiche messe in campo dal Papa e dal gran rabbino di Francia per opporsi ai matri-moni gay e alle adozioni da parte di coppie omosessuali. A poche ore dall’annuncio delle prossime “dimissioni” di Benedetto XVI, lo storico e analista le valuta come di «grande portata e importanza da molti punti di vista, soprattutto da quello strettamente istituzionale. Si può intravedere, in questa decisione, un mutamento di profilo del Papato».

Quali conseguenze vede in tal senso?

A mio avviso, e lo dico da laico, la storica rinuncia di un pontefice può contribuire a “desacralizzare” la figura pubblica del Papa, rendendola più simile a quella di altri leader che, se impossibilitati a compiere la propria missione, possono lasciare. Nessuna aveva mai sentito praticabile questa opzione, data la funzione sacrale e carismatica svolta dal pontefice. Viene toccata la natura istituzionale e politica del Papato, mettendo anche in luce un problema che è sempre rimasto sotto traccia, quello del modo di elezione. La procedura del conclave ristretto, oggi, può anche sembrare stridente alla luce del gesto di Joseph Ratzinger. Sebbene vada precisato che la Chiesa è una monarchia assoluta elettiva e questo assetto non può che portarle vantaggi pure nel mondo moderno.

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Come legge dunque il gesto di Benedetto XVI?

Nel suo Pontificato, Ratzinger ha sperimentato due difficoltà, che egli per primo ha evidenziato. Un bisogno di purificazione, e penso in pri-mo luogo allo scandalo della pedofilia, e un problema all’interno della stessa Santa Sede, evidenziato, ad esempio, dalla fuga di carte riservate. Di fronte a ciò, il Pontefice ha preso posizioni forti e condotto con de-terminazione un’azione coerente. Ma per fare questo serve una notevole carica di energia fisica e mentale, un’energia che forse il Papa ha sentito venire meno. Paradossalmente, il capo della Chiesa cattolica ha un potere illimitato, ma non può fare “quello che vuole”, e ciò comporta un grande dispendio di risorse personali. “Politicamente”, la scelta di rinunciare al soglio di Pietro potrebbe essere anche un modo per fare “esplodere” si-tuazioni che non avevano possibilità di governo.

Una lettura come questa contrasta con l’intento del Papa di “lascia-re” per il «bene della Chiesa».

Non sembri irriverente o banale sottolineare che il Papa è uomo di mas-sima fede e che, quindi, si affida alla Provvidenza. Quello che non può compiere con le sue forze, ritiene possa fare lo Spirito Santo guidando la scelta del successore dentro il Conclave. Certo, resta la domanda: perché si è “dimesso”? Una domanda che interroga tutti. La spiegazione della semplice stanchezza può non convincere un analista laico come me.Benedetto XVI è un convinto assertore della razionalità dell’antropologia cristiana. In questo ha però trovato un’ostilità preconcetta e immotivata.È il caso del matrimonio e delle adozioni gay. Quello che dice il Papa è sovrastato dalla considerazione negativa della sua figura. C’è un immo-tivato sospetto che scatta automaticamente sulle sue parole. Prevale il conformismo progressista incarnato dalla linea del New York Times.Se Ratzinger condanna la guerra o il razzismo tutti sono d’accordo, quando si

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discosta invece dal mainstream ideologico, diventa subito conservatore, dogmatico, reazionario. Non c’è stato nessun serio dibattito intellettuale sulla questione matrimonio omosessuale, nessun argomento razionale.

L’addio di Benedetto XVI e l’arrivo di un nuovo Papa, per quello che si può dire oggi, cambieranno qualcosa?

In generale, in casi simili, sui media e nella discussione pubblica preval-gono le interpretazioni ostili alle istituzioni, salvando però le persone. Se il giudizio sulle persone, come accadde con l’agonia di papa Wojtyla, è molto buono, ciò si riflette in positivo anche sull’istituzione.

Il Papa ha citato anche la velocità del mondo contemporaneo e la necessità di farvi fronte...

È, forse, un suggerimento verso una modifica degli stili di governo. La Chiesa ha saggezza millenaria, ma talune volte tempi di reazioni più ra-pidi possono essere utili.

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13 febbraioTutti stretti a Pietro

Caro Papadi Alessandro D’Avenia

Caro Papa, manca un accento all’ultima lettera di questo tuo nome, Papa, e verrebbe fuori un’altra parola. La parola che ogni figlio pro-

nuncia migliaia di volte nella vita e che un figlio di Dio ha la fortuna di pronunciare molte più volte perché, alla fine, la vita cristiana è imparare a dire abbà, papà, a Dio. Alla notizia della tua rinuncia ho avuto paura. Ho provato lo stesso dolore per la morte di Giovanni Paolo II: allora avevo 28 anni e mi sentii orfano, piansi come chi ha perso un padre. Lunedì mi è successo lo stesso. Mi sono sentito orfano. Tu avevi deciso di non esse-re più Papa. Un altro padre mi veniva meno. È il dolore di un figlio che ha ricevuto moltissimo. Ho seguito il tuo pontificato sin dal momento in cui ti sei affacciato per la prima volta dal balcone (abitavo a Roma allora). Ho letto i tuoi scritti, mi sono nutrito delle tue parole sempre profonde e stranamente semplici per un professore di teologia, perché fondate sul rapporto vero con Dio (quanto gelo nelle parole di alcuni pastori che ca-pita di ascoltare...).

In questi anni in cui la fede è spesso messa alla prova, dileggiata, frain-tesa, tu hai fatto da parafulmine a molte critiche. Le hai prese tutte su di te. Non te ne importava niente di essere colpito. Sono beati quelli che vengono colpiti a causa di Cristo e chissà quanta della sporcizia che c’è nella Chiesa è stata gettata su di te per il fatto di essere quel padre di famiglia che è il Papa. Tu hai sempre dimostrato e chissà con quanto

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dolore, dal discorso di Ratisbona a quello sul matrimonio, che l’unico consenso che ti interessa è quello di tuo Padre Dio, cioè della verità, del logos. Per questo ho avuto paura quando hai annunciato la tua rinuncia. Sul momento mi è sembrato un tirarsi indietro. Se ti tiri indietro anche tu, che sei il Papa, che fine facciamo noi? Ho ripensato a una tua frase che mi porto nel cuore: «Fedeltà è il nome che ha l’amore nel tempo». Me la ricordo tutte le volte che il mio e l’altrui amore è messo alla prova e devo aggrapparmi con tutte le forze all’Amore che muove tutti gli altri amori, oltre che il sole e le altre stelle. In questi anni la mia fede si è rafforzata grazie a quel logos cortese, fermo e caldo che tu sai infondere alle parole che usi, come (tanto per fare un esempio) queste che ho letto qualche giorno fa: «Dio, con la sua verità, si oppone alla molteplice menzogna dell’uomo, al suo egoismo e alla sua superbia. Dio è amore. Ma l’amore può anche essere odiato, laddove esige che si esca da se stessi per andare al di là di se stessi. L’amore non è un romantico senso di benessere. Re-denzione non è wellness, un bagno nell’autocompiacimento, bensì una liberazione dall’essere compressi nel proprio io. Questa liberazione ha come costo la sofferenza della roce».

Ripensando alla tua frase, leggendo queste parole, le tue “dimissioni” mi sembravano incomprensibili e mi hanno gettato nello sgomento. Mi sono sentito solo. A che serve difendere la propria fede se poi anche il Papa si tira indietro. Poi a poco a poco l’emotività ha lasciato lo spazio al logos appunto, alla verità, a Cristo, e una grande pace è tornata nel cuore. Dovevo andare oltre il codice di interpretazione soggettivo, mo-tivo, mondano. Rinunciare rappresenta un fallimento per il mondo, è un gesto di debolezza per il mondo, nel quale si “è” solo se ci si afferma, a ogni costo. La logica della debolezza non è del mondo. Del mondo è la logica del potere e dell’egoismo. Per questo il tuo gesto è un gesto di libertà dall’io e non di fuga da Dio, nel quale ti vuoi rifugiare del tutto per continuare a sostenere la Chiesa più e meglio. Con questo gesto fai trionfare una logica diversa, un logos diverso. Quello di chi sa che la sua

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preghiera silenziosa vale tanto quanto la sua azione, e lascia quest’ultima a chi può meglio di lui portarla avanti. Doveva suonare allo stesso modo, fastidiosa e inspiegabile, la frase di Cristo ai suoi: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro consolatore». Anche Cristo sembra tirarsi indietro, ma così vince: lascia lo spazio alla potenza dello Spirito, non si lascia legare neanche dalla sua condizione umana, dà tutto, anche quella, si espropria di tutto se stesso, perché come tu hai spiegato nel tuo libro più bello “essere cristiani” è “essere per”. Egli pone nelle mani dei suoi il compito di continuare le sue opere e afferma che ne faranno anche di più grandi delle sue. Ti ringrazio, caro Papa, per tutto il logos che ci hai donato e ci donerai sino al 28 febbraio, da Papa, ma anche per il lo-gos che ci donerai dopo, nel silenzio che il mondo già chiama sconfitta, sotterfugio, fuga, e che è invece vittoria. Non mi sento più solo, perché ancora una volta mi hai aiutato a guardare all’unica cosa che conta, l’uni-ca di cui c’è bisogno, il Logos stesso. Una sola cosa ti chiedo. Non dare le dimissioni dalla scrittura. Continua a nutrire la nostra fede con il tuo logos. Non farlo sarebbe dare le dimissioni da un talento e il Vangelo parla chiaro in merito...

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Kristeva: “Ha ridato speranzaa un’Europa in crisi”

di Daniele Zappalà

«Con Papa Benedetto XVI, si è aperta una nuova fase di buon augu-rio per l’avvenire dell’Europa e la pace nel mondo. E in queste

ore di grande polarizzazione mediatica, penso che tutti siano sensibili al fatto che questo filosofo e quest’umanista è stato pure un grande politico. Il mondo rende oggi omaggio anche a un grande pacifista capace di acco-gliere la diversità planetaria». A sottolinearlo è Julia Kristeva, poliedrica scrittrice, saggista, linguista e psicanalista francese di origine bulgara, fra gli intellettuali europei più citati e studiati nel mondo.

Professoressa Kristeva, dalla sua sponda di non credente, come ha percepito in questi anni il pontificato di Benedetto XVI?

Benedetto XVI è un teologo e un filosofo. Anche per questo, si tratta di un grande europeo che con la sua opera ha dato speranza a un’Europa in crisi. Poiché l’Europa resta essenziale al mondo, è soprattutto attraverso la riunificazione filosofica dell’Europa che il Papa ha aiutato il mondo a orientarsi verso la pace. Ho avuto quest’impressione in modo molto netto ad Assisi, durante l’incontro-anniversario interreligioso del 2011, dove Benedetto XVI ha invitato per la prima volta in modo ufficiale un piccolo gruppo di non credenti, dandoci la parola. Abbiamo capito che si è chiuso il tempo del sospetto, del dubbio, dell’incertezza fra credenti e non cre-denti. Personalmente, quest’invito mi è parso una reiterazione della frase di Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura”. Questa frase aveva avuto un senso particolare per gli europei dell’Est perseguitati dal totalitarismo.

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Ma nel nuovo contesto, l’invito di Benedetto XVI aveva il senso: creden-ti e non credenti, non abbiate paura fra voi e cercate di comprendervi co-municando. Ciò mi pare indispensabile per l’esistenza dell’Europa e per pensare assieme le ferite dell’Europa. È un grande messaggio non solo per il prossimo Papa, ma anche per tutte le nuove generazioni di europei.

Cosa l’ha colpita di più nello stile personale di Benedetto XVI?

La sua grande discrezione e precisione. Durante il suo intervento ad As-sisi, disse una frase che resterà per sempre impressa nella mia memoria, cioè che nessuno è proprietario della verità. Era inatteso da parte di un rappresentante religioso che, a priori, tende a pensare che la propria veri-tà è l’unica. Ma questo Papa è stato un umanista e un filosofo. Si è rivolto a noi comprendendo che la verità cristiana non è per noi la verità, anche se forse soffriamo di ciò. Poi, si è come rettificato, osservando che la no-stra verità è una forma di ricerca che apre delle domande. È una lotta in-teriore. E rivolgendosi ai credenti, ha chiesto loro di ascoltarci per poter così purificare la loro fede traendo ispirazione anche da noi. È qualcosa di ssolutamente inaudito che mostra al contempo una grande profondità filosofica, grande umiltà e una grande scommessa sull’avvenire europeo nel senso di un incontro fra l’umanesimo cristiano e quello secolarizzato. Questo pontificato ha interpretato il bisogno di umanesimo dell’Europa e compreso che esso ha due polmoni. Contrariamente a quanto si è potuto dire, Benedetto XVI non è stato un Papa dogmatico nel senso chiuso del termine. Nei fondamenti del cattolicesimo, ha cercato ciò che è aper-to, ciò che rappresenta un interrogativo, congiungendo simbolicamente sant’Agostino a Heidegger e Freud. La vita e il pensiero, dunque, come interrogativo e cammino.

Come ha accolto la notizia della rinuncia del Papa?

Resto sorpresa, quasi sbalordita. Non mi sento d’interpretare un simi-

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le gesto, dove l’umiltà del Papa e la complessità dell’attuale situazione della Chiesa si combinano probabilmente assieme ad altri elementi. Sarà l’avvenire a parlare. Ma da un punto di vista strettamente umano, mi sembra un atto pervaso di coraggio e saggezza.

Il pontificato si chiuderà nel pieno dell’Anno della Fede. Come per-cepisce questa corrispondenza, lei che ha dedicato pagine importanti al bisogno di credere?

La mia interpretazione del credere non coincide necessariamente con la fede cattolica in senso esplicito, ma s’interessa innanzitutto al fondamen-to antropologico di quest’esperienza. A mio avviso, questo fondamento riguarda la capacità d’investire l’altro e di riconoscerlo e di farsi rico-noscere da lui, fin dall’infanzia. In questa chiave, la fede in senso largo che più mi ha personalmente colpito in Benedetto XVI è quella verso l’Europa secolarizzata.

La Deus caritas est, prima enciclica di Benedetto XVI, riguardava l’amore cristiano. Un atto di rinuncia può essere visto come un pro-lungamento e un coronamento di questo stesso amore?

L’enciclica mi era parsa un discorso molto filosofico e completo sull’a-more cristiano, il quale non si limita alla carità, ma che attraversa anche la profondità del corpo, riconoscendo pure l’erotismo che viene evocato nell’enciclica. Ripeto che non mi sento di azzardare interpretazioni sul-la rinuncia. Ma posso dire che nella fiducia che il Papa ha espresso nei confronti dell’umanesimo secolarizzato, vi è certamente pure un ricono-scimento dei corpi viventi, di quelli senza fede, della singolarità di ogni esperienza. Anche ciò rientra nella tradizione cristiana che tutti dovreb-bero rispettare.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Bauman: “Una scelta dal volto umano”di Luca Liverani

Zygmunt Bauman si schermisce, quando gli ricordiamo che Benedet-to XVI ama citarlo: «Sì, il Papa ha menzionato il concetto di società

liquida. C’è qualcuno che è stato capace di camminare sul liquido, ma noi siamo esseri umani e abbiamo bisogno di tenere i piedi sulla terra solida...». Il filosofo e sociologo polacco è a Roma, invitato al convegno organizzato dall’associazione Greenaccord Onlus - in collaborazione con l’università Lumsa, Fnsi e Associazione stampa romana - per riflettere sul tema “Verso un nuovo umanesimo”. E prova a ragionare sulle moti-vazioni che hanno spinto il Santo Padre a una decisione epocale. «Non sono in grado, ovviamente, di entrare nella mente e nel cuore di Bene-detto XVI premette Bauman e posso solo riflettere sull’impatto che avrà la sua decisione. E su come questa si rifletterà sulla realtà fluttuante delle istituzioni religiose che fungono da mediatore tra Dio e l’uomo. Ecco, credo che quello che ha fatto Benedetto XVI sia stato il tentativo di riportare il pontificato a una dimensione di umanità». Forse, ipotizza l’intellettuale polacco, Ratzinger «con la sua confessione pubblica ha vo-luto ammettere che anche il Papa, che pure è una sorta di apostolo e di messaggero, è un essere umano. È sì un plenipotenziario di Dio, ma ci ha ricordato che esistono dei limiti a quello che può fare».

Il coraggio di Benedetto XVI, secondo Bauman, sta dunque nell’ave-re voluto ricordare che la figura del Vicario di Cristo in Terra e l’uomo che lo impersona non possono essere sempre e comunque sovrapposte. «Questa distinzione – dice – è stata fatta, per la prima volta da secoli a questa parte, proprio dall’uomo che è l’erede di San Pietro e che è a capo

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di un’enorme comunità di credenti. E io credo che sia stato molto onesto, molto coraggioso nel dire: io sono stato scelto per rappresentare questa funzione così sacra, ma allo stesso tempo sono ancora un essere umano, sto cercando di svolgere al meglio questo ruolo, ma purtroppo le mie capacità sono umane e quindi limitate». Benedetto XVI sicuramente ha meditato a lungo «ed è giunto alla conclusione che una dichiarazione di questo tipo, che ha cambiato per sempre lo stato delle cose, poteva essere fatta». Inevitabile, agli occhi del fedele come dell’uomo della strada, il paragone con la fine del pontificato di Karol Wojtyla: «Da prefetto della Congregazione della fede, Ratzinger ha passato molti anni in compagnia di Giovanni Paolo II – ricorda Bauman – e quindi ha conosciuto bene il conflitto tra il ruolo, che Giovanni Paolo II era tenuto ad avere, e la sua incapacità, nell’ultimo periodo, di uomo sofferente e malato, che poteva fino a un certo punto e non di più. Credo che dunque, condividendo que-sti momenti tragici, Benedetto XVI abbia voluto trarre queste conclusio-ni. E abbia deciso di non ripetere quell’esercizio».

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L’amico Richardi:“Ha saputo dialogare con il mondo”

di Gianni Santamaria

«Una scelta coraggiosa che rappresenta un fatto sensazionale nella storia della Chiesa e nella quale vedo una forma di obbedienza

a Dio. Ma allo stesso tempo è in qualche modo anche una decisione che corrisponde alla personalità di un Papa che si è sempre espresso per la conciliabilità tra la fede e la ragione». In questa dimensione, che è stata un «tema fondamentale del Pontificato» per il giurista tedesco Reinhard Richardi va cercata la ragione del gesto di Papa Benedetto. E queste non sono le parole di circostanza o neppure la semplice analisi intellettuale di un qualsiasi opinionista a confronto con un fatto che per una volta non si esagera a definire storico. No. A parlare al telefono con Avvenire è uno degli amici più stretti di Papa Ratzinger. Un collega di università a Rati-sbona negli anni Settanta, la cui frequentazione con il teologo bavarese si è presto trasformata in sodalizio profondo. Che ha coinvolto le rispettive famiglie: della cittadina di Pentling, dove Richardi abita con la moglie Margarete, il vicino di casa Ratzinger è stato una presenza costante insie-me alla sorella e al fratello Georg, tuttora residente a Ratisbona. Un’ami-cizia che è proseguita compatibilmente con i crescenti impegni dell’ar-civescovo di Monaco, del cardinale prefetto della Glaubenskongregation (la Dottrina della fede) e infine del Pontefice. Con la decisione attuale – riprende il professore emerito di Diritto del lavoro, già decano di Giuri-sprudenza nella cittadina universitaria all’ombra del celebre Duomo – il Papa «in fondo ha riconosciuto che la guida della Chiesa cattolica, con un miliardo e duecento milioni di fedeli, non avrebbe potuto essere portata avanti a lungo da una persona non più in possesso di forze fisiche. Si pen-

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si che prima il Papa stava solo in Vaticano, oggi è il parroco del mondo. Qualcuno ha pensato anche alla mancanza di energie dell’intelletto, ma lo trovo del tutto errato». Certo, Richardi non nasconde che la notizia lo ha sorpreso. Quando è stato chiamato da un giornale bavarese non riusciva a immaginarsi che fosse vero, anzi pensava di trovarsi davanti a una «bufala giornalistica». Poi le telefonate con conoscenti romani e la consultazione delle note ufficiali su Internet hanno dissipato i dubbi.

Il sentimento di incredulità che un fatto del genere potesse accadere è sta-to diffuso in Germania. Ad esso ne è subentrato, però, immediatamente uno di profondo rispetto. Non solo nelle dichiarazioni ufficiali della can-celliera Angela Merkel e del presidente della Repubblica Joachim Gauck, alle quali i coniugi Richardi hanno assistito in tv. «Gauck, ex pastore nel-la Ddr – riferisce Richardi –, ha sottolineato la saggezza del Pontefice e ha indicato il suo discorso al Bundestag come uno dei punti più alti della storia dell’Assemblea». Ma anche tra la gente è chiaro il profilo di una personalità «molto riservata e che ha espresso sempre quella correttezza che io personalmente ho conosciuto. E quella capacità di parlare non solo agli intellettuali, ma anche alla gente semplice». Senza far pesare quella genialità teologica che lo fece paragonare dal cardinale di Colonia Joa-chim Meisner all’amato Mozart. Le cui composizioni, secondo un detto famoso, «Dio in cielo le ascolta per rilassarsi». Sembrano leggere e orec-chiabili, ma dietro c’è una struttura e un lavoro...

Ecco, il “Mozart della teologia” ha avuto da Dio questo talento. Il bi-lancio del pontificato va visto, dunque, nella forma del dono. Quello più bello che Richardi serba nel cuore è l’enciclica Deus Caritas est, «nella quale pone il principio che non si deve avere paura e che si deve operare affinché nessun uomo si perda». Questo il lascito per le nuove generazio-ni, anche sacerdotali, di un Papa che ha evitato il rischio pastorale evi-denziato da un gioco di parole, che Richardi snocciola, di far diventare la Frohbotschaft (la lieta novella) una Drohbotschaft (un annuncio mi-

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naccioso). L’illustre amico più che ammonire ha cercato di «far vedere il lato positivo di cose che oggi vengono accantonate come “dogmatiche”, ad esempio il matrimonio come fedeltà reciproca anche nelle difficoltà». Con lui la persona ha sempre una chance per ricominciare.

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La forza del servizio nel deserto di oggidi Pietro Barcellona

Dopo il primo momento di sgomento di fronte a quella che mi è parsa subito la notizia di un evento assolutamente inaudito e straordina-

rio, come probabilmente tutti, via via che la notizia si diffondeva, mi sono interrogato sul significato che, sia pure problematicamente, poteva attribuirsi a questo fatto così enorme. Ho cominciato ad ascoltare che da più parti si sottolineava il senso di impotenza che il Papa ha provato in questi ultimi anni di fronte all’assalto spesso mediatico e spettacolare che è stato rivolto da più parti e in più Paesi al Vaticano. Le dimissioni sareb-bero quasi un atto di ammissione della sua incapacità fisica e psicologica a prendere decisioni in un momento così drammatico per la Chiesa e per l’intero Occidente. Mi è venuto subito in mente il film di Nanni Moretti nel quale, quasi profeticamente, si rappresenta la storia di un Papa che rifiuta di assumere il ruolo pontificale perché sente tutta la propria ina-deguatezza rispetto a una funzione che in tutto il mondo è comunque riconosciuta come autorità magisteriale e a cui rendono omaggio tutti i potenti della terra. Riflettendo su quel film, infatti, mi è parso subito evidente il contrasto tra la figura drammatica del Papa che fugge fuori dal Vaticano nelle vie di Roma a incontrare persone, uomini e donne, nei luoghi più disparati, e le modalità con le quali i cardinali riuniti in con-clave gestiscono l’improvvisa evenienza di avere eletto un Papa che non vuole esserlo. Le preoccupazioni dei cardinali, che addirittura cercano di utilizzare dei marchingegni per mostrare il Papa nella sua stanza e che poi trascorrono il tempo “chiacchierando” di tutto e persino divertendosi con improvvisate partite di pallavolo, sono infatti esclusivamente rivolte all’immagine pubblica dell’istituzione.

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Può sembrare irriguardoso fare riferimento a questo film, ma posso as-sicurare che ho visto nella sua rappresentazione della figura del Papa un enorme rispetto per la sofferenza e la drammaticità in cui si trova un uomo solo che viene designato come vicario di Cristo. Mi sono venute alla mente le terribili parole che ogni sacerdote pronuncia nella celebra-zione della Messa: Domine, non sum dignus ut intres sub tectum meum. In questa affermazione che precede la distribuzione dell’Ostia consacrata ho sempre sentito la debolezza strutturale dell’animo umano e la sua in-capacità a sopportare la sofferenza, il dolore e persino le normali difficol-tà di stare al mondo, il riconoscimento chiesto a ciascuno di accettare la propria limitatezza e la propria mortalità, affidando la salvezza alle mani di un Padre Amoroso. Rispetto a questa povertà e indegnità dell’essere umano ad assumere il ruolo di vicario del Figlio di Dio si accompagna il confronto drammatico con il racconto della vita di Gesù Cristo nei quat-tro Vangeli che ci sono stati trasmessi. Come si fa a dimenticare, vivendo il ruolo di Papa, che Cristo è principalmente il testimone di una terribile crocifissione e che, nella solitudine della propria passione, ha sudato san-gue profetizzando il tradimento persino dei suoi stessi discepoli? Pensan-do queste cose mi sono via via convinto che, come nel film di Moretti, le dimissioni del Papa non sono un gesto di debolezza né una dichiarazione di impotenza, ma un atto di forza e di coraggio che lancia una sfida alla Chiesa e al mondo.

Come Cristo fu tradito dai suoi discepoli e venduto per trenta denari da uno di loro, questo Papa è stato continuamente tradito nell’ambito della Chiesa stessa e persino dal suo assistente di camera, che ha trafugato documenti e denaro. È proprio a questo tradimento della Chiesa che papa Ratzinger alludeva nel suo profetico commento alla Via Crucis che si è svolta nelle vie di Roma mentre il suo predecessore viveva gli ultimi momenti della vita. Vorrei che tutti noi rileggessimo quelle parole, per-ché sono già di per sé un programma di riforma e di denuncia dei nemici

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del messaggio cristiano che si annidano all’interno della Chiesa stessa, magari ostentando una devozione che non esprime nessuna riservatezza e nessuna profondità interiore. A differenza di papa Giovanni Paolo II, che si era posto rispetto al mondo nella posizione di un comunicatore me-diatico eccezionale e che aveva fatto delle continue visite pastorali negli altri Paesi l’occasione di un proselitismo di massa, papa Ratzinger sin dai primi suoi atti ha inteso ribadire la differenza sostanziale fra la fede in Gesù Cristo e il generico sentimento religioso che si manifesta nelle pratiche cultuali di ogni popolo. La dedizione e l’intelligenza con cui ha dedicato la sua passione per la figura di Gesù Cristo alla scrittura di tre volumi che ne interpretano l’attualità storica nel contesto determinato di una grande crisi di civiltà, mostra che il suo interesse fondamentale era ritrovare il filo rosso che deve unire la comunità ecclesiale alla tradizione evangelica. Ci sono pagine dei tre volumi del Papa che indicano una stra-da di rapporto con la persona del Figlio di Dio e dell’Uomo lontana da ogni pietismo conformistico e che chiamano invece alla consapevolezza della rottura epocale che il Messia rappresenta. Tutta la parte del secondo volume dedicata a seguire la predicazione di Gesù e a sviluppare il signi-ficato dei rapporti che egli intrattiene con la ufficialità formale del culto ebraico affidato alla casta dei rabbini e al loro direttorato tende a mettere in evidenza che l’assoluta novità del Messia sta nel volere trasformare l’eredità biblica del Padre severo in un messaggio fraterno che ritrova la strada della misericordia e dell’amore paterno. A mio parere decisive, come ho cercato di scrivere in una mia recensione, sono le pagine dedi-cate alla profezia di Gesù Cristo sulla inevitabile distruzione del Tempio di Gerusalemme, che non è capace di riconoscere e ascoltare i Profeti inviati da Dio ma che anzi trasforma spesso il Tempio in un puro spazio mercantile dove viene dissacrata ogni significazione simbolica del luogo. Papa Ratzinger raggiunge in queste pagine momenti di affettività filiale che istituiscono una relazione personale con il Messia venuto ad assume-re la forma dell’uomo mortale e sofferente.

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Come si legge nei Vangeli, non è l’offerta rituale dell’agnello né il paga-mento della decima che introduce al mistero del rapporto tra uomo e Dio, ma la comunicazione interiore che si realizza attraverso l’identificazione del volto di Gesù con il volto dei diseredati e dei malati. Tutto il prosegui-re del pontificato che ad alcuni è parso intellettualmente e teologicamente arido, frutto di una formazione prevalentemente filosofica, è invece per-corso dal tema della Carità, le cui radici culturali reinterpretano l’eros greco in rapporto con l’amore cristiano. Alcuni hanno letto l’enciclica Caritas in veritate alla luce del dialogo con Habermas, come la ricerca di una via razionale alla conquista della fede. Trovandomi a commen-tare questa enciclica ho cercato di mostrare i limiti di questa interpreta-zione razionalistica, perché invece personalmente mi è parsa proprio il tentativo di istituire un nesso inscindibile tra Amore e Verità. Non c’è una gerarchia tra Amore e Verità nel pensiero di papa Ratzinger, ma un reciproco rinvio che si manifesta soltanto nelle relazioni interpersonali e non nell’arida precettistica di una dogmatica priva di slanci verso la sofferenza e il dolore dell’uomo. Il tema del dolore è stato infatti un altro tema ricorrente nelle riflessioni del Papa e nei suoi messaggi domenicali, anche se nel suo italiano irrigidito dal semplice fatto che Ratzinger non poteva che pensare in tedesco si è lasciato poi cadere nella banalità di una compassione generica nei confronti di tutte le vittime dei soprusi, dello sfruttamento e delle torture. Io credo che questa voce del Papa non è stata né ascoltata né compresa da molte parti del mondo cattolico, dove inve-ce si sono manifestate sempre più lacerazioni e contrasti per motivi che nulla hanno a che vedere con il problema del messaggio cristiano. Per questo l’atto di dimissioni non è un segno di stanchezza e di debolezza, ma la forza e il coraggio di trasmettere nell’ambito della Chiesa, e anche oltre, il senso dell’umiltà e del servizio, per contrastare l’arroganza dei poteri e la presunzione degli uomini che riducono l’esistenza a edonismo e consumismo, desertificando sempre più il senso dell’abitare la terra. Le dimissioni del Papa sono la testimonianza che neppure il Vicario di Cri-sto può arrogarsi prerogative di onnipotenza di fronte al resto del mondo.

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Come Ratzinger ha sottolineato, Gesù non è venuto per organizzare la guerriglia degli zeloti, ma per trasformare la violenza dell’uomo sull’uo-mo in una capacità di perdono e di reciproco servizio. Le dimissioni sono una sfida alla Chiesa, che deve adesso misurarsi con la potenza di questo messaggio epocale e col cinismo delle nostre società che hanno perso quasi totalmente il senso del valore spirituale dell’umiltà e della riserva-tezza. Come ci ha detto Gesù Cristo, anche la preghiera deve amare la solitudine e non il cerimoniale pubblico, che spesso nasconde la durezza del cuore.

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14 febbraioLa guida è Cristo

Sovrana certezzadi Marina Corradi

«Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, che non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura». La

prima parola di Benedetto XVI ieri mattina in Udienza, proprio la prima cosa detta alla folla, grande, che lo aspettava, è stata questa: il ricordare che la Chiesa è di Cristo, e che dunque anche nelle circostanze più avver-se Cristo non la abbandona. E noi, semplici fedeli storditi, lunedì, dalla notizia, noi interiormente turbati da un inimmaginabile congedo, abbia-mo riconosciuto in quella prima parola la volontà paterna di dire, a quelli come noi, di non aver paura. In questi due giorni abbiamo sentito di tutto, sul gesto di Benedetto XVI, lodi e plausi, e contestazioni, ed evocazioni di oscuri retroscena. Abbiamo letto di desacralizzazione del Papato, di fondamenta che vacillano, e sentito dottamente discorrere della Chiesa come di una grande multinazionale, o una Ong certo, dal “brand” spiri-tualmente elevato. E ci occorreva davvero che proprio Benedetto XVI, il maestro che abbiamo amato e continueremo a amare, ci ricordasse, ci confermasse in questa semplice antica certezza: la Chiesa è di Cristo, che non l’abbandona. La Chiesa è di Cristo, è il suo corpo, e non è mai riducibile solo agli uomini, strutture, gerarchie che la compongono, con i loro peccati, i loro umani sforzi, le loro disunioni e persino il loro cercare un “pubblico”. Colpe ed errori che pure, è tornato a ricordarci nell’ome-lia delle Ceneri il Papa, ne possono «deturpare» il volto. Questo aspetto non visibile, non sperimentabile con le nostre consuete misure, è tanto

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fondante quanto non compreso nemmeno dai più fini intellettuali, che parlano di Chiesa come di un fatto solo storico, sociologico, umano. E spesso anche fra noi, credenti, questa memoria ontologica facilmente sbiadisce; allora in giorni come questi ci smarriamo: e adesso? È a que-sto sommesso tremare dei semplici che il Papa ieri ha teso la mano con una frase per nulla debole, e anzi colma di certezza sovrana: la Chiesa è di Cristo, che non l’abbandona. Poi, nell’Udienza il Papa ha affrontato il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto, riassumendole in poche parole: “la” tentazione eterna, ha detto, è quella di usare Dio per noi stes-si. Ecco, in quelle sole righe dell’evangelista Luca si sente già il respiro di un altro, radicale, desiderio, di uno sguardo altro dalla logica degli uomini, inesorabilmente sedotti del potere. Di modo che chi si imbarca sul grande millenario naviglio di Pietro, se tiene viva la fede, si trova, ha detto il Papa, a fare scelte scomode o perfino, secondo il mondo, stolte; ad amare i deboli, e la vita dell’uomo fin dal suo più debole invisibile inizio. Ad amare per sempre, e a generare figli, quando il mondo attorno ripete che la vita è cosa da prendere e usare, come e finché si vuole.Quell’altro sguardo, quell’altro respiro s’è visto bene ancora ieri sera, in San Pietro gremita di uomini e donne stretti attorno a Benedetto nel giorno delle Ceneri – in quel gesto così umile e conscio del nostro esse-re, solamente, creature. «Risuoni forte in noi l’invito alla conversione, a ritornare a Dio con tutto il cuore, accogliendo la sua grazia che ci fa uomini nuovi», è stato il filo teso nelle parole del Papa. Di nuovo, parole affatto stanche, anzi straordinariamente audaci in tempi di pensiero de-bole, di rassegnati orizzonti. Tornare a Dio, è l’imperativo di quest’uomo il cui cuore sembra tutto fuorché piegato, o vecchio. Quaerere Deum, è la parola che ci lascia un grande Papa in un Anno della Fede indetto perché ciò che è vero torni a essere concreto, e vivo fra noi. Perché la Chiesa è di Cristo, e tutto il suo essere tenda a Cristo Colui che ricapitolerà in sé tutte le cose, quelle della terra e quelle del cielo. E il grande applauso a Benedetto XVI ieri sera in San Pietro testimonia la fede e la forza del po-polo cristiano. Peccatori, certo; gente però che sa da dove viene, e verso Chi va.

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Cottier: “E’ il tempo della serenitàe della speranza”

di Umberto Folena

«Ai fedeli cattolici dico: mai come in questo momento dobbiamo guardare alla Chiesa come a un mistero di fede. Rimanere se-

reni, anche se tristi. E coltivare la virtù della speranza!». La voce del cardinale Georges Cottier, teologo emerito della Casa Pontificia, è cal-ma come sempre. Trova anche il modo di scherzare: «Io? In questo mo-mento? Dovrò solo pregare, senza altre preoccupazioni. Alla mia età al Conclave non ci vado di certo...». E le primavere del padre domenicano svizzero, nato a Ginevra nel 1922, tra poco saranno ben 91.

Tre giorni dopo l’annuncio, molti fedeli si mostrano commossi, in preghiera. Alcuni sembrano sconcertati. Altri sono decisamente tri-sti. E lei?

Hanno ragione a essere tristi. Lo siamo tutti, perché molto legati alla per-sona di Benedetto XVI. Ma il suo gesto va rispettato. Come ha detto ieri mattina, ha maturato la decisione sostando a lungo davanti a Dio nella preghiera. Ma durante l’udienza ha aggiunto un’altra cosa, che non aveva detto parlando ai cardinali lunedì, e che è la chiave per comprendere la sua decisione.«La Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura». Questa è la chiave. Ci sono due modi di guardare alla Chiesa. Il primo, assai diffuso, è puramente umano, sociologico. La Chiesa coincide con le miserie di uomini peccatori. Il mistero? Assente, invisibile, censurato. Ma proprio questo è il cuore della Chiesa, che è mistero di fede. Lo affermano le Scritture, con san Giovanni e san Paolo:

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Chiesa Sposa di Cristo e Chiesa Corpo di Cristo. Vedere soltanto l’aspet-to umano è erroneo.

Quando la tristezza monta, non è forse più difficile sperare?

«Io sarò con voi fino alla fine del mondo» ci rincuora Gesù. Mai la Chiesa perde la speranza, mai! La Chiesa è mistero di fede, il Papa è il Vicario di Cristo e Lui non verrà mai a mancare.

Dunque, in questo particolare momento, è richiesto a tutti un atto di fede?

Sì, a tutti senza eccezioni. Fede nella Chiesa cattolica e apostolica, come recitiamo con la preghiera del Credo. Anche a me? Certamente, io sono particolarmente tranquillo; non da ultimo perché sono un cardinale ma, per la mia età, non prenderò parte al Conclave. Potrò restare vicino a papa Ratzinger con la preghiera. Pregheremo tutti e due.

Però lei poco fa ha ammesso di essere un poco triste.

Tristezza sì, ma non paura. La speranza prevale. Ieri mattina Benedetto XVI ha sentito pure il bisogno di sottolineare di aver agito «in piena libertà». Perché? Qualcuno, erroneamente, avrebbe potuto pensare che all’origine della rinuncia potessero esserci forti pressioni o malaugu-rati consigli. Ma abbiamo sentito che l’idea della rinuncia sarebbe stata maturata già al ritorno dal pellegrinaggio a Cuba. Il Papa ha aspettato e pregato. Ha interrogato la sua coscienza al riparo da ogni genere di pres-sione. E alla fine ha deciso in piena autonomia. Per sé. E anche per i suoi successori.

La sua decisione riguarda anche i Pontefici futuri?

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Riguarda la Chiesa tutta intera, non solo la sua persona. Papa Ratzinger non può non aver pensato anche ai suoi successori. Guardiamo in faccia la realtà. L’aspettativa di vita si allunga e sarà fatale che, in futuro, si ve-rifichino casi analoghi. Un limite di età è suggerito anche per i vescovi e i membri della Curia romana. In un certo senso, Benedetto XVI ha voluto porre un limite anche a se stesso. Già Paolo VI aveva preso in considera-zione questa ipotesi.

Se nei prossimi giorni le capitasse di trovarsi a tu per tu con il Santo Padre, che cosa gli direbbe?

Niente parole. Soltanto un abbraccio, un grande lungo abbraccio.

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Spadaro: “Quegli spazi digitalidi meditazione”

di Matteo Liut

Se Giovanni Paolo II è stato il Papa della diffusione di internet, Be-nedetto XVI è stato eletto nel momento in cui si sono diffusi ampia-

mente i social network. Secondo padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, studioso ed esperto della comunicazione digitale, que-sto è un dato su cui riflettere.

Padre Spadaro, come hanno risposto le reti sociali alla notizia?

C’è un commento, riportato sul sito dell’Huffington Post, che riassume quello che sta succedendo. In un post di questi giorni si nota come il Papa che più di ogni altro si è interessato alla comunicazione digitale abbia «mandato in tilt l’infosfera globale». L’emergere dei social network è stata una sfida importanti con la quale Benedetto XVI ha dovuto con-frontarsi. Le parole, i gesti e il magistero di Ratzinger sono stati presenti nella vita dei fedeli in parte anche perché sono stati condivisi e non solo trasmessi attraverso i media digitali. La sua figura era già argomento del-la discussione sociale nei media digitali. L’apertura di un suo profilo su Twitter ha poi dato forma a una sua presenza diretta nella conversazione.

Molte le reazioni positive e negative su Twitter. C’è un atteggiamento che spicca più di altri?

La cosa più evidente è, davanti a una notizia difficilmente digeribile an-che per la rete, il forte richiamo alla dimensione iconica, all’uso di imma-

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gini. Ad esempio tra gli utenti delle reti sociali è girata la foto del fulmine che ha colpito la cupola di San Pietro, forse perché rende bene il forte impatto del gesto di Benedetto XVI.

Colpisce nella ricerca semantica condotta da Expert System che tra i primi verbi presenti nei tweet sul Papa ci sia «meditare». Cosa ci dice questo dato?

Rileggiamo il messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali dell’anno scorso: il Papa ci ricordava che anche in rete sono possibili spazi di silenzio e di meditazione. Ed è quello che sta avvenendo ora: moltissimi sentono la necessità di riflettere su questo evento e cercano anche nelle reti sociali un confronto e degli spunti di meditazione. Di questa spinta io sono testimone nei social network in cui sono presente. Molti mi scrivono post su Facebook, commenti sul mio blog e tweets esprimendo un desiderio di meditare sulla rinuncia del Papa. C’è un dif-fuso bisogno di capire, di riflettere.

Molti tweet sul Papa, dai toni ironici, facevano riferimento a figure politiche. Come leggere questo dato?

Nei social network esiste una «pancia» fatta di emotività e parte di que-sta emotività è anche negativa. Non c’è da stupirsi, poiché i social net-work riflettono ciò che accade nella realtà, cosa pensa la gente. Per tutti i personaggi pubblici, non solo per il Papa, essi sono uno strumento che offre opportunità di condivisione enormi, ma che espone anche a questa «pancia». Semmai bisogna riflettere meglio sul fatto che il Papa resta un grande collettore simbolico di paure, desideri, speranze da parte di milio-ni di persone. Questo oggi si sta riversando anche nella rete.

Molti tweet paragonavano la situazione attuale a quella riproposta nel film «Habemus Papam». Che significato dare a questo accosta-

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mento?

Il riferimento al film è una pista a mio avviso non adeguata, perché in quella pellicola il Papa eletto prova timore davanti a una missione che invece Benedetto XVI ha portato avanti per otto anni. L’attore colpiva per la sua umanità, ma emergeva come un personaggio di Svevo, in-somma l’ennesimo «inetto» novecentesco. Invece la scelta di Benedetto XVI, a leggere bene le parole latine del suo annuncio, appare più che una rinuncia, un coraggioso passaggio del testimone. Sembra il gesto di un «uomo vivo» chestertoniano, per rimanere nelle metafore letterarie. Il Papa non è preoccupato per sé e per la sua debolezza, ma per la Chiesa e i doveri del ministero petrino. Davanti a questo evento però la gente ha reagito ricordando le immagini di un film o anche i versi di Dante riferiti a Celestino V, piuttosto che riflettendo sulle parole del Pontefice. Ciò fa riflettere sull’importanza che, come dicevo prima, oggi hanno la dimen-sione iconiche, le figure, l’immaginario.

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15 febbraioCresca il vero Concilio

Il Papa: torniamo al Vaticano II “reale”di Salvatore Mazza

Il Concilio raccontato da un testimone. Un testimone, prima ancora che attento e qualificato, appassionato. Innamorato di quella Chiesa che

nel Concilio riponeva «aspettative incredibili», anche se poi ha faticato, e fatica, a realizzarsi, perché il «Concilio dei giornalisti» è stato «più forte del Concilio reale». Ma «la forma reale era presente, e sempre più si realizza come vero rinnovamento della Chiesa». Di qui, allora, l’invi-to a «lavorare perché il vero Concilio, con la forza dello Spirito Santo, agisca e sia rinnovata la Chiesa. Speriamo che questo Concilio vinca». Benedetto XVI ha salutato così il clero di Roma, il “suo” clero. Con un lungo oltre 45 minuti discorso a braccio sulla sua esperienza del Concilio Vaticano II, denso di ricordi, aneddoti, considerazioni. In un’Aula Paolo VI dove l’emozione, la commozione, l’affetto li si poteva letteralmente toccare, papa Ratzinger s’è congedato, in qualche modo, dai preti della sua diocesi lasciando loro un mandato indimenticabile. «Io, ritirato nella preghiera, sarò sempre con voi, nella certezza che vince il Signore», ha detto loro, alla fine, accennando alla sua prossima rinuncia al ministero petrino: «Anche se mi ritiro in preghiera ha ribadito sono sempre vicino a tutti voi, e sono sicuro che anche voi siete vicini a me. Anche se per il mondo rimango nascosto».

Salutato al suo ingresso in aula da un lunghissimo applauso, che si sa-rebbe ripetuto al termine dell’udienza, e ricevuto l’indirizzo di saluto del

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cardinale vicario di Roma Agostino Vallini, rimasto al suo fianco per tutto il tempo, Benedetto XVI ha iniziato a raccontare del Concilio a partire da «un aneddoto», ossia del come egli stesso arrivò al Concilio, prima come assistente personale del cardinale Josef Frings di Colonia, e poi come pe-rito di quelle assise. A lui, nel 1961 il più giovane professore di teologia dell’Università di Bonn, Frings aveva chiesto di proporgli una traccia per una conferenza su Il Concilio e il mondo nel pensiero moderno, che avrebbe dovuto tenere a Genova, su invito del cardinale Siri. Un inter-vento probabilmente molto “innovativo” «Io ero pieno di timore...» che Frings volle leggere così com’era. Poi, ha proseguito, Giovanni XXIII mandò a chiamare il cardinale, e Frings, salutando il giovane professore prima di presentarsi dal Papa vestito della porpora, scherzò: «Forse quan-do torno non sarò più cardinale, è l’ultima volta che porto addosso questa roba». «Poi in realtà ha proseguito papa Giovanni entrò e disse “Grazie eminenza, lei ha detto le cose che volevo dire e non ho trovato le parole”. Vuol dire che erano le parole giuste».

Di qui, nell’aula delle udienze, s’è dipanato il racconto di un Concilio spesso accusato «di non aver parlato di Dio» quando, invece, l’ha fatto, e proprio a partire dal suo «primo atto», che è stato di «aprire tutto il po-polo santo» alla liturgia, attraverso la riforma liturgica, portando a com-pimento un processo cominciato già da Pio XII. E, ha sottolineato papa Ratzinger, è stato «molto bene» che sia stato questo il primo tema affron-tato, perché in questo modo il Concilio ha affermato «il primato di Dio, il primato della rivelazione». Il mistero pasquale, in questo modo, diventa il paradigma dello stile del cristiano e del «tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e domenicale, giorno della Risurrezione del Signore». «Peccato che oggi ha osservato il Pontefice la domenica si sia trasfor-mata nel fine settimana, mentre è l’inizio della creazione e dell’incontro con Cristo Risorto». Quindi ha sottolineato le «grandi aspettative» che c’erano attorno a quel fatto di Chiesa, in quegli anni «pieni di speranza, di entusiasmo, di volontà di fare nostro il progresso» della Chiesa, di con-

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tribuire alla «forza del domani, e dell’oggi» della Chiesa, alle prese con il pensiero contrastante» del modo moderno. I vescovi «volevano essere il soggetto», da «responsabili, non rivoluzionari», tant’è vero che prima di preparare le liste per le Commissioni «volevano conoscersi un po’».

Così è cominciata una «forte attività» fatta di «piccoli incontri trasversa-li», durante i quali «ho conosciuto grandi figure come i padri De Lubac, Danielou, Congar. E questa è già un’esperienza dell’universalità della Chiesa, che non sempre viene da imperativi dall’alto, ma insieme cresce, sotto la guida del successore di Pietro». Un modo di dire, e di vivere, il «noi siamo Chiesa ha aggiunto ma non nel senso di un gruppo separa-to». Anche in quel momento, ha ricordato, il tema della collegialità dei vescovi in rapporto al popolo di Dio «appariva a molti come una lotta di potere, e forse qualcuno ha pensato al suo potere. Ma non era questo: era essere un’unica Chiesa che cammina insieme». Al Concilio, ha osserva-to, questa tematica, «è stata al centro di discussioni molto accanite, direi un po’ esagerate». In realtà, «serviva per esprimere che i vescovi insieme sono un “corpo”, continuazione del “corpo” dei 12 Apostoli, e solo uno è il successore di Pietro, mentre gli altri lo sono di tutti gli apostoli insie-me». Tutto questo quando il concetto di popolo di Dio, «elemento di con-tinuità con l’Antico Testamento», era fino ad allora «un po’ nascosto», «Ancora più conflittuale ha rivelato era il problema della Rivelazione: gli esegeti cattolici si sentivano in situazione di negatività nei confronti dei protestanti che facevano le “grandi scoperte”». Questa, secondo il Papa, «è stata una battaglia pluridimensionale nella quale fu decisivo Paolo VI, che con tutta la delicatezza e il rispetto propose 14 formule per ribadire che la fede è basata sulla Parola e sulla Tradizione in quanto la certezza della Chiesa sulla fede non nasce solo da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa. Potevamo scegliere tra 14 formule, ma una doveva-mo sceglierla».

Benedetto XVI ha quindi ricordato la genesi dei principali documenti

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conciliari, dalla Gaudium et spes alla Nostra aetate (sottolineando, ri-guardo a quest’ultima, la raccomandazione dei vescovi dei Paesi arabi a parlare anche di islam: «Al tempo non lo abbiamo molto capito ha ammesso oggi sappiamo che era necessario»), e ha concluso la sua testi-monianza parlando di quello che ha definito «il Concilio dei giornalisti», che si svolgeva «fuori» dalla Chiesa. Per i media, ha detto, «il Concilio era una lotta politica, di potere tra i diversi poteri della Chiesa». Di qui la «banalizzazione dell’idea del Concilio», per di più «accessibile a tutti». Tutto ciò, per il Papa, «ha creato tante calamità, problemi, miserie. Semi-nari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata. Il vero Concilio ha avuto difficoltà a realizzarsi. Il Concilio virtuale è stato più forte del Concilio reale. Ma la forma reale era presente, e sempre più si realizza come vero rinnovamento della Chiesa».

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La luce altadi Salvatore Mazza

A ragionare sulle parole di ieri del Papa come se fossero solo una te-stimonianza del (e sul) Concilio Vaticano II, benché altissima, si

farebbe un errore. Così come lo si farebbe a considerare il rivolgersi del Vescovo di Roma ai preti della “sua” diocesi come una lezione, e lezione, altrettanto alta e bellissima, pure è stata. Raramente, infatti, l’incrociarsi stretto di ricordi e di sapienza amalgamati non in un testo scritto, ma in un discorso a braccio, e in una lingua non nativa, e per oltre quarantacinque minuti ha saputo tradursi in una sintesi tanto lucida e, allo stesso tempo, efficace, di quel grandissimo evento di Chiesa. Ma le due categorie ci-tate, della testimonianza e dell’accademia, pur suscitando ammirazione, non bastano. Perché il discorso che Benedetto XVI ha pronunciato ieri nel tradizionale incontro col clero di Roma l’ottavo del suo pontificato, e l’ultimo è stato prima ancora e soprattutto il discorso di un innamorato. Di un uomo, di un teologo, di un prete, innamorato della Chiesa, di quella Chiesa che non sopporta nella maniera più assoluta di vedere deturpata dalle piccolezze umane, perché la Chiesa è di Dio. E va amata e curata. È un bene prezioso, insostituibile, unico. E per questo va difesa, dalle correnti esterne, certo, ma prima di tutto da quelle interne.

Benedetto XVI, per questo, ieri ha raccontato di nuovo e con impressio-nante freschezza di quella grande stagione. E, come i veri innamorati, ha raccontato senza nascondere i difetti dell’amata, le divergenze esistenti all’epoca, e come queste si siano a poco a poco, un passo alla volta, ri-composte mentre il grande affresco di quell’Assise andava definendosi, mentre prendevano corpo i documenti che sarebbero diventati le pietre

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miliari di una Chiesa aperta al mondo, aperta alle sue sfide, decisa a cu-stodire il proprio tesoro, rinnovandosi e di rinnovando, consapevole di avere la sua da dire al mondo contemporaneo. Protagonista e interprete di quella stagione, Papa Benedetto ha levato di nuovo il suo inno d’amore per la Chiesa, convinto, appunto, che questa non sia «un’organizzazio-ne, qualcosa di strutturale», quanto piuttosto «un organismo, una realtà vitale che entra nella mia anima, così che io stesso divento un elemento costruttivo della Chiesa come tale». Ed è per questo, dunque, che occorre lavorare perché «il vero Concilio, con la forza dello Spirito Santo, agisca e sia rinnovata la Chiesa». Non un auspicio, ma una convinzione incrol-labile, la «certezza» che, sempre, «vince il Signore». Anche per questo, il suo ricordare le responsabilità dei media per i quali «il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa» circa le distorsioni del senso del Vaticano II, e i guasti causati, più che un j’accuse o un lamento su tic informativi del resto duri a passare, è una rammaricata constatazione; un dire avremmo dovuto fare meglio. E un invito per l’oggi a fare meglio.

È di questo amore traboccante, di questa certezza che «vince il Signore», che il discorso di ieri è stato sintesi perfetta. Un amore e una certezza che Benedetto XVI ha vissuto e insegnato giorno dopo giorno, che hanno dato senso e ragione a ogni suo atto, fino a una rinuncia al ministero pe-trino che solo entro quelle due coordinate può essere compresa. Perché la sfida vera non è affrontare la somma dei problemi che si hanno di fronte; la sfida vera è essere Chiesa. E il noi siamo Chiesa non può mai essere preso come principio di esclusione o di polemica ma, al contrario, «esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi». Solo così, alla fine, i problemi, le storture, le sporcizie, si posso-no emendare. La luce si può tenere alta, il cammino dietro a Cristo fare spedito. Tutti insieme, uniti. Per fare bella la Chiesa di Dio. Perché solo una Chiesa bella può essere casa per tutti.

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Qualcosa di gloriosodi Roberto Mussapi

Un uomo divenuto Pontefice a un certo punto della sua vita, in età avanzata, si rende conto che il suo fisico non regge più come do-

vrebbe. Quest’uomo si trova ad affrontare problemi gravissimi non solo del mondo (che esistono dall’età della pietra), guerre, povertà, fame, ingiustizia, fanatismi, ma anche pesanti questioni interne alla Chiesa. Affronta gli uni e gli altri con decisione e chiarezza, con umiltà e de-terminazione. Non teme la realtà, che affronta sempre con la saggezza del filosofo, con quel lieve distacco intellettuale che non è sinonimo di freddezza, ma di razionalità e rigore. Infatti quest’uomo pacato e fermo nel parlare, contemporaneamente sorride sempre, un sorriso un po’ fan-ciullesco dei bambini buoni che studiano molto, e che non giocano bene al pallone. È abituato a fare i conti con se stesso, grazie alla disciplina del grande studioso, che si adatta sin da piccolo alle responsabilità: bi-sogna essere sempre all’altezza. Una sorta di atletismo dello spirito, che potremmo rappresentare con la metafora di un alpinista delle origini. La montagna è impervia, misteriosa, bisogna rispettarla.

È un esercizio di umiltà, continuo. Quando quest’uomo sente venir meno le energie che reputa necessarie, si interroga. È abituato a mettersi in di-scussione, è allenato a vivere al servizio: di Dio, della sapienza, del pen-siero, dell’umanità, della Chiesa. Si interroga, e si rimette subito all’ope-ra, più vivo e deciso che mai. Quando sente che le forze vengono meno in modo ora preoccupante, al punto di non avere le energie indispensabili, allora decide di mettersi da parte. Non può accettare il rischio di diven-tare un servitore insufficiente. Non è la realtà esterna, della Chiesa e del

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mondo, a apparirgli troppo ardua. È abituato da sempre al sacrificio e al coraggio. È la sua realtà fisica che vien meno, e quindi quell’uomo accet-ta la propria fragilità, la confessa. L’anagrafe attesta che non gli possono rimanere molti anni di vita, potrebbe resistere e chiudere gloriosamente il suo mandato, con la morte. Ma è convinto che in quei non molti anni la sua azione non sarebbe sufficientemente energica, degna del compito. Ama troppo quel compito per tradirlo, anche solo per debolezza e in buo-na fede.

Quest’uomo non conosce traccia di orgoglio, nemmeno quel piccolo or-goglio del bambino che gioca bene al pallone e i compagni ammirano. È tutta la vita che ammira, non immagina minimamente di poter essere ammirato. Come un saggio antico ha forgiato dall’adolescenza il caratte-re all’insegna della cancellazione di ogni vanità, anche veniale. È uma-nissimo in tutto, soprattutto nel sorriso, nei lampi di divertimento negli occhi, nel modo un po’ timido in cui procede. Ma delle debolezze umane orgoglio e vanità non lo sfiorano, non lo conoscono. Grandi pensatori latini hanno scritto volumi sulla vera saggezza, che consiste nel non con-siderare se stessi ma la sapienza, grandi saggi orientali percorrono vie paragonabili di annullamento dell’io. Credo che, a differenza dei saggi antichi e d’Oriente, l’uomo che si chiama Joseph Ratzinger, e che si è dato il nome di Benedetto, di tutto questo non si sia mai accorto. La sua umiltà, prima ancora che un suo merito, forse è un dono. E in questo ge-sto di umiltà assoluta, dove un uomo così importante si sente simile alla zolla di terra che le mandrie calpestano, parafrasando William Blake, si manifesta una natura capace di grande coraggio. Il coraggio di chi pensa di non possedere nulla, nemmeno la sua sapienza. Non trovo le parole per spiegarlo, ma sento che c’è qualcosa di glorioso, in tutto questo.

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Il rabbino Richetti: “Con Benedetto XVI dialogo e fiducia”

di Giacomo Gambassi

Quando descrive i semi gettati da Benedetto XVI nei rapporti fra ebrei e cristiani, il presidente dell’Assemblea dei rabbini d’Italia,

Elia Enrico Richetti, sembra quasi tracciare un parallelo con il carattere discreto del Papa. «Sono stati otto anni segnati da un incremento del dialogo e delle occasioni di incontro spiega. E hanno rivelato la forte volontà del Papa di puntare sull’approfondimento e sull’interiorità. Due dimensioni che sono state privilegiate rispetto alla visibilità e all’eco me-diatica. Certo, non sono mancate alcune occasioni in cui, come rabbini italiani, abbiamo ritenuto di rallentare il percorso per avere chiarimenti in merito a posizioni che sembravano risultare dall’atteggiamento del Papa: mi riferisco alla riformulazione della preghiera per gli ebrei nella liturgia del Venerdì Santo e al processo per la beatificazione di Pio XII».

Fin dall’inizio del suo ministero, Benedetto XVI ha manifestato ami-cizia verso il popolo dell’Alleanza. Nel suo primo viaggio all’estero, in Germania, ha visitato la Sinagoga di Colonia dove ha affermato che le differenze non vanno «minimizzate».

Una sottolineatura significativa. Le differenze anche fra mondo ebraico e cristiano non devono essere annullate e non possono passare sotto silen-zio. Ma vanno affermate come tratto di arricchimento reciproco.

Il Papa ha indicato nei testi sacri il principale punto d’incontro. Lo dimostra anche la presenza del rabbino capo di Haifa, Shear Yashuv

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Cohen, al Sinodo dei vescovi del 2008 per parlare delle Scritture.

Una scelta che mi ha toccato in prima persona. Perché lui è stato il mio maestro. I suoi studi mostrano come la Scrittura sia elemento unificatore dell’etica globale. Ed effettivamente sono convinto che i testi sacri costi-tuiscano il cuore del patrimonio spirituale di ebrei e cristiani.

Nella visita alla Sinagoga di Roma, nel 2010, Benedetto XVI ha pro-posto il Decalogo come «stella polare» comune.

È stata un’intuizione feconda che, ad esempio, in Italia ha portato frutti attraverso la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che si celebra ogni 17 gennaio. Anche se in un’ottica strettamente normativa le Dieci Parole sono rivolte in modo precipuo al popolo ebraico, lluminano e guidano l’intera comunità cristiana. Del resto sono punto di intersezione fra la dimensione verticale e quella oriz-zontale della vita di ogni uomo e donna.

Più volte è giunto da Benedetto XVI l’invito a ebrei e cristiani di te-stimoniare la bontà di Dio in un mondo che rischia di cancellare ogni prospettiva trascendente. Come attuare questa sfida?

Fin dal primo istante che il Papa ha formulato questo concetto, mi è ve-nuto in mente quel versetto dei Salmi che dice: «Assaggiate e vedete che il Signore è buono». Si tratta di un richiamo a far conoscere l’unico Dio senza il quale l’esistenza perde di rilevanza.

Nel pontificato ratzingeriano è emersa la condivisa preoccupazione di fronte al relativismo etico, come è scaturito anche dai lavori della Commissione mista per il dialogo cattolico-ebraico.

La dignità della persona e le questioni etiche vanno affrontate guardando

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alla Rivelazione. Su questi temi la collaborazione è possibile. Però va tenuto conto che si possono presentare posizioni differenti. Questo, ben lungi dal contribuire al relativismo, serve ad ampliare la possibilità di risposta delle due fedi di fronte al mondo contemporaneo.

Tema caro a Benedetto XVI è la purificazione della memoria. Più volte il Papa ha condannato l’antisemitismo.

Parole che sono state sempre accolte con benevolenza. Il Papa che si è definito «figlio del popolo tedesco» ha tenuto a evidenziare come l’an-tiebraismo porti la persona al di fuori del consorzio umano. E in ambito religioso non può trovare alcuna forma di giustificazione.

In questa prospettiva si inserisce la visita nel campo di concentra-mento di Auschwitz-Birkenau, nel 2006, luogo simbolo della Shoah.

Della sua riflessione mi piace citare quella che è la domanda dei credenti di fronte a una violenza così atroce: ossia, la presenza o l’assenza di Dio in quel frangente. Il dilemma infinito della giustizia divina è molto dibat-tuto nell’ebraismo: fin dai tempi di Mosè, ci dice la tradizione.

A Gerusalemme, nel mausoleo di Yad Vashem, ha esortato a «non dimenticare». E nella Sinagoga di Roma ha ricordato le «mancanze» di alcuni «figli» della Chiesa.

Già la presa di coscienza di quanto accaduto è fondamentale. Ed è un baluardo per evitare di ricadere negli errori. L’imperativo di non dimen-ticare è ben conosciuto dal mondo ebraico perché già presente nel Pen-tateuco. Ma il divieto di dimenticare il male che si è subìto non rimanda alla vendetta bensì rappresenta un monito e un insegnamento. Aggiunge-rei che ci deve portare a un impegno comune per la difesa della diversità.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Davanti al Muro occidentale di Gerusalemme il Papa ha invocato la pace.

Le nostre due fedi sono chiamate a dimostrare con i fatti che le differenze religiose non possono e non devono tradursi in macchine di odio ma in volani per costruire la casa comune.

Il Papa sottolinea che la fiducia è componente essenziale per il dialo-go. Come è stata alimentata in questi otto anni?

Benedetto XVI l’ha radicata con il suo pensiero e i suoi gesti. E ha chie-sto alla Chiesa di trovare elementi di consonanza col mondo ebraico.

Come proseguirà questo percorso?

Vorrei sperare nella continuità. Perché già vediamo segni concreti. E a Benedetto XVI auguro di poter godere, nel suo riposo, di quell’appro-fondimento spirituale nella preghiera e nello studio che ha dichiarato di volere cercare.

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Magistero formato famiglia“Il suo alfabeto di umanità”

di Luciano Moia

Nel 1980, durante il Sinodo dei vescovi dedicato alla famiglia, l’allo-ra cardinale Joseph Ratzinger sintetizzò la situazione della famiglia

nel mondo sottolineando la crisi della cultura tradizionale di fronte alla mentalità tecnicistica e razionale. Ma fece notare come solo la famiglia, umanizzando la Chiesa e il mondo, può incarnare nuove speranze di fron-te al dominio del materialismo. Trentadue anni dopo, nell’omelia della giornata conclusiva dell’Incontro mondiale delle famiglie di Milano (giu-gno 2012), ha ribadito la necessità di «edificare comunità ecclesiali che siano sempre più famiglia». Sembra di cogliere un collegamento ideale tra queste due riflessioni, quasi che il pensiero di Ratzinger, a tanti anni di distanza, si saldi tracciando una parabola coerente sulla necessità della promozione e della difesa di quei valori non negoziabili che rimangono una delle cifre distintive del suo pontificato. «Qui c’è la sottolineatura della capacità della famiglia ad umanizzare non solo le persone al suo interno, ma anche l’ambiente nel quale la famiglia vive», osserva il ve-scovo di Parma, Enrico Solmi, presidente della commissione episcopale per la famiglia e la vita.

Una risorsa che oggi, purtroppo, sembra un po’ messa da parte.

«Sì, ma pur tra le difficoltà che riscontriamo, soprattutto nel mondo occi-dentale, la famiglia incarna sempre questo grande dono. Nella famiglia, infatti, si è accolti nella specificità della propria persona, non ci si deve mostrare diversi, si fa esperienza della gratuità e del dono. E questo stile

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si trasmette anche attorno alla famiglia.Già nella sua prima enciclica di Benedetto XVI, “Deus caritas est”, ci sono passaggi di profondo significato sul senso del matrimonio. Come recuperare, in chiave anti-crisi, questi spunti preziosi per la pastorale ordinaria?

La cura pastorale della famiglia, per avere e mantenere il ruolo e la forza che le competono, deve assolutamente fondarsi sulla verità del matri-monio e della famiglia. Le espressioni e il magistero di Benedetto XVI hanno il valore di radicare ancora di più la pastorale familiare nel ricco e perenne patrimonio della dottrina della Chiesa. Quindi sono una riconfer-ma e insieme una traccia importante da seguire. Il problema nasce quan-do le radici debbono attecchire in un terreno, anche ecclesiale, che fatica a fare una proposta pastorale organica e a dare una risposta continuativa alle domande di fede della famiglia.

Quali difficoltà vede?

Ci troviamo di fronte ad un panorama variegato, segnato ancora dalla fatica per una pastorale poco integrata, quasi di un recupero della dimen-sione della famiglia in ambiti pastorali diversi, quando questa era già da tempo espressa e proposta dalla pastorale familiare. Per questo mi sento di affermare che l’apporto del magistero di Benedetto XVI è uno stimolo, oltre che una radice, a convergere per una rinnovata presa di coscienza della necessità di una cura pastorale più adeguata per la famiglia, che riconosca la soggettività e il valore degli stessi sposi.

Nel 2006, nell’omelia della Messa che concluse l’Incontro mondiale delle famiglia a Valencia, il Papa ricordò che l’educazione cristiana è educazione alla libertà e per la libertà. Oggi però la libertà è intesa quasi solo come esaltazione del soggettivismo. Come evitare questa deriva?

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L’incontro di Valencia fu certamente un atto di grande libertà e di corag-gio del Santo Padre, accolto con una festosità non scontata nella Spagna di Zapatero. Proprio in quel contesto parlò della verità sulla famiglia e dell’intrinseco valore dell’educazione. Essere famiglia è di per sé diven-tare educatori, accogliendo il dono del figlio che chiede di essere educa-to. Si coglie, quindi, l’attualità e la preziosità della lezione di Benedetto XVI. L’invito all’educazione si associa alla necessità di educarsi anche per i genitori, andando oltre il comune e costruttivo rapporto educativo e di crescita, che deve esserci tra uomo e donna, tra marito e moglie.

Tornando all’Incontro mondiale delle famiglie di Milano, ha fatto molto riflettere la forte sottolineatura da parte del Papa sulla neces-sità di avviare in tutte le comunità una pastorale a misura di separati e divorziati. Nelle diocesi italiane si fa abbastanza per dare seguito a queste indicazioni?

Non finiremo mai di ringraziare il Santo Padre per le parole e, in parti-colare, per lo stile di ascolto e di dialogo, per la pacata e serena proposta della dottrina cristiana circa le persone battezzate separate e divorziate. Anche qui mi permetto di rimarcare che Benedetto XVI ha presentato, appunto, una dottrina che si era ben configurata, aveva operato scelte precise. La sensazione di meraviglia e di novità, destata da parole e modi - come quelli del Santo Padre -, da un lato fa piacere, dall’altro segnala un ritardo ormai inescusabile della nostra pastorale. Nelle diocesi italiane si fanno molte iniziative, alcune già da molti anni, ma manca spesso una ricezione da parte di tutti gli ambiti pastorali e una sinergia che veda il convergere con la pastorale familiare di tutti gli uffici pastorali su azioni comuni, coinvolgendo anche le varie realtà che, a diverso titolo, operano a favore della famiglia in difficoltà, come i centri di consulenza, i consul-tori di ispirazione cristiana e gli stessi tribunali ecclesiastici.

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In questi anni Benedetto XVI non ha mai mancato di sottolineare il forte legame tra famiglia e società. Non crede che una società che si prepara ad annacquare il matrimonio, rischia di incrinare la sua architrave portante?

Sì, incrinare la realtà del matrimonio è continuare a scardinare la nostra società e a porre in essa le condizioni per il suo tramonto. Ciò dovrebbe interessare tutti, soprattutto coloro che si impegnano in politica. A tutti compete questa tutela e, in particolare, a chi ha nel proprio patrimonio il valore del matrimonio e della famiglia desunto dalla visione personalisti-ca e a chi opera in politica sorretto dalla fede. Non si può definire “inge-renza” la chiara affermazione del valore del matrimonio e della famiglia, in quanto il riferimento resta il bene della società, fondato sulla persona e sulla sua dimensione.

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16 febbraioL’Italia per Benedetto

Anche così il Papa insegnache il diritto è cosa viva

di Francesco D’Agostino

Cosa possono dire i giuristi della rinuncia di Benedetto XVI al Pon-tificato? Essa ha una valenza così ricca e complessa, che chiunque

possieda una sola chiave per interpretarla non può che avere la certezza di darne un’interpretazione povera e riduttiva. I giuristi, in particolare, sono più di tanti altri consapevoli del limite del loro orizzonte. Chiamati a riflettere sulla rinuncia di Papa Benedetto essi si sentono inevitabil-mente stimolati a muoversi sui piani che più conoscono, a concentrarsi sui testi giuridici che regolamentano la rinuncia al Pontificato (come il canone 332, secondo comma, del Codice di diritto canonico o la Costi-tuzione apostolica “Universi Dominici Gregis” del 1996) o a mettere a punto distinzioni di grande rilievo dottrinale, come quella tra potestà di ordine e potestà di giurisdizione.

La prima fa riferimento al potere di distribuire i mezzi della grazia divina e si riferisce all’amministrazione dei sacramenti e all’esercizio del culto, la seconda al potere di governare le istituzioni ecclesiastiche e i singoli fedeli. La prima, la potestas ordinis, è conferita attraverso un sacramen-to, cioè con una consacrazione, ed è quindi assolutamente indelebile; la seconda, la potestas iurisdictionis, non è invece di per sé indelebile; chi riceve questa potestà riceve un mandato che ordinariamente può essere

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temporaneo e revocabile (anche se può estendersi a tutto l’arco di vita di colui che ne è investito). Nel caso del Sommo Pontefice quella che riceve a seguito della sua elezione è una potestà giurisdizionale particolarissi-ma, in quanto non è revocabile né sottoposta a un termine. Ma, proprio perché è una potestà giurisdizionale, essa può essere oggetto di legittima rinuncia. Così ragionano i giuristi e senza alcun dubbio ragionano bene, su questioni importanti e i loro ragionamenti meritano rispetto. Ma si tratta pur sempre di ragionamenti angusti. La rinuncia di Papa Benedetto possiede un’eccedenza, rispetto a tutte le letture che di essa è possibile dare; più che oggetto, essa andrebbe piuttosto considerata come una fon-te di interpretazione, come qualcosa che stimola il pensiero. Non si tratta, evidentemente, di usarla come un’occasione di riflessione dottrinale, più o meno raffinata, quanto piuttosto come un invito a un ringraziamento.

Da Papa Benedetto abbiamo tutti ricevuto un insegnamento prezioso, che dobbiamo custodire come si custodiscono i doni più grandi. Il magistero di Papa Benedetto si è sempre infatti concentrato sul tema della verità e sul dovere per tutti i cristiani (e quindi anche per i giuristi!) di farsi testi-moni e operatori di verità. Per i giuristi questo insegnamento indica che il diritto non è tecnica, non è mediazione, non è una pratica sociale accanto a mille altre pratiche sociali: è ricerca della verità, di quella dimensione della verità che si manifesta nelle relazioni sociali interpersonali. La tra-dizione teologica e filosofica ha sempre esortato i giuristi a identificare la ricerca della verità con la ricerca del diritto naturale e sono molto nume-rose le occasioni in cui il Papa ha richiamato e ha difeso le buone ragioni di questa nobile tradizione teoretica. Ad essa, però, Benedetto XVI ha aggiunto qualcosa di più, che rinsalda questa tradizione e nello stesso tempo la rinnova; nel suo costante richiamo all’ammonimento di Pietro («siate sempre pronti a rendere ragione della fede che è in voi») egli ha richiamato i giuristi al dovere di dare testimonianza del diritto naturale, a intenderlo non come un insieme formale, freddo e in definitiva astratto di princìpi, ma come un insieme di istanze concrete di vita relazionale,

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fondate non sul nostro arbitrio, ma sulla verità intrinseca alle singole situazioni.

Il Papa, in breve, ci ha insegnato che al diritto dobbiamo il rispetto che meritano le cose vive e non le cose morte. La sua stessa rinuncia al Pon-tificato veicola in definitiva questo essenziale insegnamento, perché ci induce a leggere il Pontificato stesso come servizio vivo alla comunità cristiana e non come paradigma consolidato e congelato da una prassi plurisecolare. Alle tante ragioni di immensa gratitudine, che gli devono per il suo insegnamento, i giuristi devono aggiungere anche questa, che non è tra le più piccole.

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Sgreccia: “Dal Papa parolee gesti per la vita”

di Gianni Santamaria

Un Papa che ha sempre messo al centro la questione della dignità umana, dal concepimento alla fine naturale, non come «attributo

vago di rispetto», ma come realtà «ontologica». Come questione che in-terpella da vicino le scienze, che non possono limitarsi a descrivere i fenomeni, ma devono cercare di aprirsi a questa realtà fondamentale. E, infine, che investe il fondamento stesso della società. Il cardinale Elio Sgreccia, dal suo appartamento nel Palazzo del Sant’Uffizio proprio sul terrazzo che guarda la piazza più famosa al mondo ripercorre il filo rosso dei riferimenti ai temi bioetici fatti da Papa Benedetto XVI in tanti di-scorsi e scritti. Certo, non ha dedicato encicliche alla vita, come Giovanni Paolo II. Ma l’84enne presidente emerito della Pontificia Accademia per la vita ricorda subito come gran parte dell’elaborazione dei pronuncia-menti di papa Wojtyla sia avvenuta tra queste mura, dove il suo princi-pale collaboratore era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Anche da Papa, Ratzinger ha poi contribuito a far capire la posta in palio. Come nella Caritas in veritate.

Come ha vissuto l’annuncio della rinuncia?

La mia reazione, come quella di tutti i cardinali presenti, è stata di sgo-mento e trepidazione. Quasi di incredulità rispetto a quanto stavamo sen-tendo in un latino limpido, studiato in ogni parola. E che dava subito i riferimenti: bene della Chiesa, limitazione delle sue forze, libertà della decisione.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Nella giornata mondiale del malato è stata anche una lezione sulla fragilità?

Sì, di grande coraggio e umiltà. Un modo diverso di fare un’offerta a Dio, a spese proprie e per il bene degli altri. Non è un rifiutare la Croce, che c’è sempre.

Quando fu eletto, nel 2005, in Italia infuriava la polemica sulla legge 40. Temi allora poco noti, ma oggi alla ribalta mondiale. Cosa lascia alla riflessione in materia?

Il suo apporto può apparire meno clamoroso di quello del predecessore. Ma va ricordato che la prima istruzione sulla dignità della vita nascente e della procreazione, la Donum vitae del 1987, fu chiamata «Istruzio-ne Ratzinger». Affronta le problematiche dell’embrione come persona umana, della sperimentazione, della procreazione artificiale e si accenna anche alla clonazione. Un’attenzione anticipatrice. Che è entrata nella visione della Chiesa, ma è stata anche fonte di scontro con ambienti laici europei e nei Comitati di bioetica (Sgreccia è stato a lungo membro di quello italiano ndr). Vent’anni dopo, da Papa, sempre attraverso la Dot-trina della fede, nella Dignitas personae ha portato novità su staminali e clonazione, messo paletti su ingegneria genetica e uso degli embrioni congelati. E ribadito il valore antropologico dell’embrione introducendo il concetto di dignità dell’essere umano. Non è un attributo vago di ri-spetto, ma è ontologico. La persona è al vertice dell’universo, è intangi-bile e porta una dignità cristologica piena.

Una visione, dunque, sempre aperta al futuro e alle novità. Con qua-le peculiarità?

In quasi tutti i suoi discorsi ha ricondotto il rispetto della vita alla fede

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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nel Creatore. Quando cade il concetto di Dio, lo ha già detto il Concilio, l’uomo svanisce. Per questo davanti al processo di secolarizzazione, ha avuto a cuore fino all’ultimo la necessità di una nuova evangelizzazione. E ha auspicato il passaggio dalle scienze, che si limitano a descrivere i fenomeni, alla sapienza, che va al fondamento della vita e della società. È un lavoro della mente umana sostenuto e coadiuvato dalla fede.

Che cosa ha fatto per attualizzare l’importanza di questi temi?

Ha portato dei punti di unificazione. Nel capitolo 18 della Caritas in ve-ritate, ha collegato l’accoglienza alla vita umana quindi la lotta all’anti-natalismo istituzionale mondiale allo sviluppo economico e sociale, che dipende anzitutto dal capitale umano. C’è stata spesso incapacità di ve-derlo, questo collegamento. All’applauso che Giovanni Paolo II riceve-va a ogni enciclica sociale, corrispondeva un attacco quando parlava di aborto o contraccezione. Ma oggi constatiamo che, dove c’è crisi econo-mica, una radice non secondaria è il crollo della presenza umana.

Quali altri nessi ha evidenziato?

Sempre nell’enciclica, al numero 48, quello tra rispetto della vita ed eco-logia umana. Se si vuole difendere l’ecologia esterna piante, animali, ac-que bisogna legarla al rispetto di quella interna, di ciò che la creatura ha di più sacro. Ci accorgiamo, infatti, di come la crisi oggi non sia econo-mica, ma morale. Gli interventi sono stati tanti. Non s’è lasciato sfuggire un’occasione...Discorsi ai vescovi, agli ambasciatori, a volte anche nei viaggi. Come quello in cui ha richiamato gli africani alla loro responsabilità per com-battere l’Aids. Non bastano i soldi dell’Occidente e i preservativi, senza comportamenti adeguati. L’intervento, approvato dai vescovi d’Africa, a distanza ha ancora una sua portata.

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Quali altri ricorda?

Ha spesso sensibilizzato i governanti sulla necessità che i valori etici si-ano riconosciuti dal diritto. Perché quando questo si stacca dall’etica, ca-dendo nel dominio di volontà e spinte contingenti, la società perde i suoi fondamenti. Pensiamo al recente messaggio per la Giornata della pace. Operatore di pace, scrive, è chi ama e difende la vita nella sua integrità. E il matrimonio: la prima solidarietà è nella famiglia. L’accoglienza del fra-tello presuppone quella del nascituro. Se ci si abitua a sopprimere la vita, poi non si frena la violenza. Si abbassano i livelli politici, di giustizia e solidarietà. La biopolitica, insomma, presuppone la bioetica.

Questa visione sta facendo breccia al di là della Chiesa?

Sì. Almeno in settori del mondo culturale pensosi e preoccupati del fu-turo. Oltre che, ne sono testimone, nei consessi dove queste cose si stu-diano seriamente. La sua parola è stata sempre più attesa nei momenti di confusione. E anche nella Chiesa vanno assimilate nel tessuto pastorale.

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Quei “no” detti dalla Chiesa,tutti “sì” alla dignità della persona

di Giacomo Samek Lodovici

Dato che non basterebbe un’imponente monografia per riferire gli in-numerevoli interventi di Benedetto XVI in ambito bioetico, senza

la minima pretesa di esaustività cerchiamo solo di cogliere alcuni (non tutti) punti nodali di questo aspetto del suo magistero. Anzitutto, va chia-rita una questione che spesso pregiudica qualsiasi discorso bioetico: è necessario «un allargamento del nostro concetto di ragione». Lo spiega il magistrale discorso di Ratisbona, che esprime ammirazione per i ri-sultati della scienza, ma sottolinea altresì come la realtà non si esaurisca nella materia e la ragione sia capace di cimentarsi anche su ciò che non è quantificabile e misurabile, per esempio sulla natura umana, sulla libertà, sulla dignità dell’uomo, e di conseguenza sull’inviolabilità di ogni vita umana innocente.

Ora, come dice la Caritas in Veritate, il «campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questio-ne fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio». In modo originale, questa enciclica argomenta inoltre che «il tema del rispetto per la vita (...) non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli». Per esempio perché «se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si ina-

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ridiscono». Per contro, «non può avere solide basi una società che men-tre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emargi-nata».

In generale è cruciale chiarire che «i “no” che la Chiesa pronuncia nelle sue indicazioni morali, e sui quali talvolta si ferma in modo unilaterale l’attenzione dell’opinione pubblica, sono in realtà dei grandi “sì” alla dignità della persona umana, alla sua vita». Ora, «il dovere del rispetto per la dignità di ogni essere umano (...) comporta come conseguenza che della persona non si possa disporre a piacimento», perciò «la Chiesa si fa paladina dei diritti fondamentali di ogni persona» e «il rispetto del diritto alla vita in ogni sua fase stabilisce un punto fermo di decisiva importan-za». Al contrario, «per quanto concerne il diritto alla vita, è doveroso denunciare lo scempio che di essa si fa nella nostra società», dovuto alle «morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimenta-zione sugli embrioni e dall’eutanasia (...). L’aborto e la sperimentazione sugli embrioni costituiscono la diretta negazione dell’atteggiamento di accoglienza verso l’altro che è indispensabile per instaurare durevoli rap-porti di pace».

Più volte Benedetto XVI ha proclamato che «ogni vita umana, in quanto tale, merita ed esige di essere sempre difesa e promossa», e «il rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale», e la tutela della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna e della libertà di educazione, «non sono negoziabili»: sono criteri gravemente doverosi e cruciali nel fare le leggi e nei momenti elettorali di scelta tra un partito, un candidato e un altro. Quanto all’eutanasia, il Papa ha spes-so ricordato che essa «è una falsa soluzione al dramma della sofferenza, una soluzione non degna dell’uomo. La vera risposta non può essere in-fatti dare la morte, per quanto “dolce”, ma testimoniare l’amore che aiuta

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ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano». Più volte chinatosi con grandissimo affetto a consolare i malati e i sofferenti, il Papa ha detto loro: «Nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio (...). Voi siete i fratelli del Cristo sofferente; e con lui, se lo volete, voi salvate il mondo!».

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Amore, verità e valori non negoziabilidi Michele Aramini

Il pontificato di Benedetto XVVI resterà nella storia e nel cuore dei cattolici per molte ragioni. Una ragione non secondaria è l’attenzione

e il contributo che questo Papa ha dato alla promozione della dignità della persona umana. Vogliamo segnalare i tre nuclei di riflessione che a partire dalla Caritas in veritate ci sembrano più rilevanti. Innanzitutto la centralità dell’amore. Benedetto XVI ha più volte detto che la base di ogni bioetica deve essere un giusto atteggiamento verso l’altro. La cul-tura della vita si costruisce con l’attenzione all’altro, senza esclusioni, discriminazioni, violenze. E l’altro è ogni vita umana. Dio ci insegna ad amare i piccoli e i deboli. Questo vale anche per l’embrione umano, che dovrebbe nascere sempre da un atto d’amore ed essere accolto e trattato come persona. Questo amore non deve essere sostituito da una cultura estremizzata dei diritti, che finiscono per far torto proprio ai più deboli. Lo stesso inverno emografico che colpisce molti paesi avanzati si trova secondo le parole di Benedetto XVI la mancanza di amore.

Poi la ricerca della verità. Conosciamo l’impegno del Papa a servizio della verità, per liberarci dal pervasivo e soffocante relativismo. Ma la ricerca della verità riguarda anche la bioetica. Quante coppie che ricor-rono alla fecondazione artificiale non hanno idee corrette sul cammino che intraprendono, oppure quante persone parlano con superficialità di vite senza valore. L’elenco potrebbe continuare. Ma è chiaro che diventa difficile trovare persone con idee giuste, capaci a loro volta di indicarle agli altri. Così i grandi temi della vita: aborto, fecondazione artificiale, eutanasia, test genetici, ecc. sono affidati non tanto a una riflessione ac-

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curata, ma a parametri del tutto soggettivi e mutevoli. Il Papa ha mostrato di bene comprendere che certi temi, come quello dell’embrione umano, sono una sfida per la capacità conoscitiva della ragione. Alla fine si en-tra nel mistero dell’uomo. Ma proprio per questo motivo si deve essere fortemente impegnati nella ricerca della verità più profonda dell’essere umano e nella formazione della propria coscienza morale.

Un terzo elemento decisivo dell’insegnamento di papa Benedetto sono i valori non negoziabili. L’insegnamento su questi valori ha messo chiara-mente in luce che il progresso scientifico è autentico solo quando serve alla persona umana e al suo sviluppo integrale. Si tratta di un baluardo di difesa a servizio dell’uomo. Ricerca scientifica e leggi dello Stato, manifestano la loro preziosità per lo sviluppo umano quando rispettano e valorizzano la persona e in particolare i deboli. Questa dizione ha fatto molto discutere, ma alla fine si è rivelata una vera bussola. Pian piano si deve riconoscere che di principi non negoziabili ce ne sono in bioetica, nell’educazione, nell’ambito lavorativo, nel rispetto della donna e delle minoranze e perfino nella politica vera. In realtà, si tratta di un modo per dire che esiste una legge naturale che fa il bene dell’uomo e della società. La dolce fermezza di Benedetto XVI nel proporre senza timore e con perseveranza questi temi decisivi della bioetica sono stati un dono permanente per l’umanità.

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17 febbraioIl tempo della preghiera

Dal Vaticano II al mondocontemporaneo

«Ritroviamo la bellezza di credere»di Salvatore Mazza

Come cinquant’anni fa. Per assolvere «il compito comune» di far «ri-splendere la verità e la bellezza della fede nel nostro tempo». Ritro-

vando la «tensione commovente» di allora, quando le porte del Concilio si aprirono davanti al mondo, per dire che la Parola è parola per l’oggi, viva, attuale, densa di un significato che, se appare impolverato, è per la trascuratezza dei credenti. Ed è per tutto questo che, allora, è necessario ritrovare la bellezza della fede, ritornare ai «documenti» e alla «lettera» di quella grande Assemblea che cambiò la Chiesa, per trovarne la «vera eredità, al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti» e coglierne, così, «la novità nella continuità».

Quando papa Ratzinger aveva annunciato l’intenzione di convocare un Anno della fede a cinquant’anni dall’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II, c’era stata la – solita – corsa all’interpretazione di una deci-sione del genere. Chi leggendola in senso riduttivo – l’Anno della Fede come chiusura della stagione conciliare, quasi a decretarne il fallimento – chi in senso opposto. Agli uni e agli altri la risposta l’ha data lo stesso Benedetto XVI, e proprio nel giorno in cui l’ha aperto, lo scorso 11 ot-tobre, lo stesso in cui, nel 1962, Giovanni XXIII apriva solennemente il

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Concilio, sottolineando il legame imprescindibile di questi dodici mesi dedicati alla radice del credere, l’indispensabile continuità che ogni cre-dente è chiamato a rinsaldare, in un oggi in cui a tutta la Chiesa è chiesto di «ravvivare quella positiva tensione, quell’anelito a annunciare Cristo all’uomo contemporaneo».

Ecco, nella visione del Papa, col suo annodarsi idealmente e concreta-mente al Concilio, l’Anno della fede vuole e deve essere, in questo senso, la risposta alla «desertificazione spirituale» degli ultimi decenni. Per que-sto, esso si propone esplicitamente come «un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo». E l’ha spiegato, ricordando come in quella sera del 1962 «eravamo felici e pieni di entusiasmo, il grande Concilio ecumenico si era inaugurato ed eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera per la Chiesa, una nuova Pentecoste, una nuova presen-za liberatrice del Vangelo». Così, «anche oggi siamo felici, portiamo la gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia più sobria, una gioia umile: in questi cinquanta anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato origi-nale esiste e si traduce in peccati personali, che possono divenire strutture di peccato, visto che nel campo del Signore c’è anche la zizzania, che nella rete di Pietro ci sono anche pesci cattivi, che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando con vento contrario, con minacce contrarie. E qualche volta abbiamo pensato: “Il Signore dorme e ci ha dimenticato”».

Proprio come l’altro giorno, parlando ai suoi preti della diocesi di Roma, e ricordando quella stagione, ha lucidamente sintetizzato il percorso di un Concilio che, pur con i suoi contrasti e difficoltà, mai nascosti da Be-nedetto XVI, ha saputo davvero proporsi come profezia, così lo scorso ottobre aveva ricordato come in quei giorni di mezzo secolo fa «abbia-mo fatto esperienza della presenza del Signore, della sua bontà della sua presenza: il fuoco di Cristo non è divoratore né distruttivo, è un fuoco silenzioso, una piccola fiamma di bontà: il Signore non ci dimentica, il

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suo modo è umile, il Signore è presente, dà calore ai cuori, crea carismi di bontà e carità che illuminano il mondo e sono per noi garanzia della bontà di Dio. Sì, Cristo vive con noi e possiamo essere felici anche oggi».Ecco, è questa felicità nella fede che Benedetto XVI ci propone di risco-prire in quest’anno, aprendo la porta della fede con lo stesso slancio, lo stesso entusiasmo, la stessa fiducia in un Signore che cammina sempre a fianco del suo gregge. Ed è questa la buona notizia che è necessario portare al mondo. E, dunque, la scoperta che occorre fare, o ri-fare, è che la fede stessa è la nostra vera ricchezza, il nostro lato migliore. Riaprire quella porta che, distratti o troppo presi che fossimo, anche con le miglio-ri intenzioni, da tutto il resto, ci siamo dimenticati perfino che esistesse. E che oggi Papa Benedetto invita ciascuno a varcare, per ritrovare il gusto vero dell’essere cristiani, e per ridirlo al mondo.

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L’Anno della fede Sui passi di Paolo VI per rimettere

Cristo al centrodi Marco Roncalli

«In questo Tempo di Quaresima, nell’Anno della fede, rinnoviamo il nostro impegno nel cammino di conversione, per superare la ten-

denza di chiuderci in noi stessi e per fare, invece, spazio a Dio, guardan-do con i suoi occhi la realtà quotidiana...». «Convertirsi significa non chiudersi nella ricerca del proprio successo, del proprio prestigio, della propria posizione, ma far sì che ogni giorno, nelle piccole cose, la veri-tà, la fede in Dio e l’amore diventino la cosa più importante. È la fede a dover orientare lo sguardo e l’azione del cristiano, poiché è un nuovo criterio d’intelligenza e di azione che cambia tutta la vita dell’uomo».

Così nell’udienza generale di mercoledì scorso Benedetto XVI. «È no-stro compito proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa...», così gio-vedì il Pontefice nella sua appassionata testimonianza-lezione sul Vatica-no II nell’incontro – quasi un’ora a braccio e senza un’esitazione! – con il clero di Roma. «L’Anno della fede ci invita a una autentica conversione a nostro Signore Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Accogliendo con la fede la rivelazione e l’amore salvifico di Dio nella nostra vita, tutta la nostra esistenza è chiamata a modellarsi sulla novità radicale introdotta nel mondo dalla Risurrezione...», così, ancora il Papa, venerdì scorso, non senza evidenziare gli inscindibili legami della fede con la carità «che

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è partecipazione all’amore di Cristo ricevuto e condiviso», rivolgendosi ai membri dell’associazione Pro Petri Sede, in uno degli ormai ultimi incontri pubblici del suo pontificato.

Già, perché, come tutto il mondo sa – indetto l’11 ottobre 2011 un Anno della fede aperto l’anno dopo, e assunti impegni gravosi per tutto questo periodo costellato di giornate speciali sino a quella conclusiva del 24 no-vembre 2013, solennità di Cristo Re – Benedetto XVI, nove mesi prima di quel termine, ha annunciato la sua rinuncia. Significa tra l’altro che non leggeremo mai – almeno nella forma dell’enciclica – il testo sulla fede, già in parte elaborato, che da tempo aspettavamo. E tuttavia come non interrogarsi su questa scelta di libertà interiore che, sì, forse al posto dell’attesa enciclica, pare dirci che comunque tocca alla fede più pura nutrire le vicende della storia, e può farlo in modi diversi, innanzitutto lasciandosi riempire da Dio, anche se solo il tempo svelerà forse tutti i motivi di questa rinuncia. Eccoci allora a cercare, proprio legandole all’Anno della fede, le spiegazioni di una decisione che fa leva dietro ap-parenti motivazioni di efficienza, sulla priorità di dedicare – da qui in poi – ogni minuto al rapporto con Dio. Scelta di coscienza assunta innanzi al Signore, che la lega a un disegno dove si sgretolano le logiche umane, assumendo tratti costitutivi di un’inedita e sconvolgente forma di annun-cio del primato della fede e della centralità di Cristo unico timoniere della barca nella tempesta.

In sostanza è ciò che chiedeva anche Paolo VI con il «suo» Anno Santo nel 1967, al fine di far riprendere alla Chiesa «esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla», consapevole che i contenuti essenziali, da secoli patrimonio dei credenti, avessero bisogno di essere compresi in modi nuovi nel mutare delle dif-ferenti condizioni storiche. Ecco il senso di quell’Anno della fede, mon-tiniano, come «conseguenza ed esigenza postconciliare», che è lo stesso di quello voluto da Benedetto XVI in coincidenza con i cinquant’anni

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dall’apertura del Vaticano II.

Un rimando, quello al Concilio, nella cornice di una Chiesa chiamata a ripensare la sua ragion d’essere, la sua energia, prodigandosi per quel mondo, detto con le parole di Paolo VI «bisognoso sino al pianto dell’an-nuncio consolatore della fede».

Fu lui, inaugurando l’Anno della fede nel XIX centenario del martirio di Pietro e Paolo, a chiedere conversione con parole che evocano arcani rimandi a quanto stiamo vivendo in questa Quaresima: «Ascoltate la no-stra voce; non è la nostra, è quella dell’ultimo umile successore di Pietro; la sua ascoltate; anzi quella sola che nell’apostolo e nel magistero della Chiesa risuona, quella di Cristo.

La fede è intesa correttamente quando è vissuta e compresa come adesio-ne di tutta la persona alla parola rivelata, quando non è solo ricerca, ma anche certezza che deriva dall’accoglienza del dono misterioso di Dio che si rivela».

Ancor più forti le assonanze fra molti dei discorsi di Paolo VI e le ultime pronunce di papa Ratzinger quanto al Concilio «reale». Dove, oltre le sottolineature sulle attese, le distorsioni, il discernimento, l’ermeneutica, la fiducia nel conseguimento degli auspicati frutti di rinnovata vitalità cristiana, è l’idea di una Chiesa rinnovata dal Vaticano II con la forza dello Spirito a stagliarsi con nitidezza.

Parafrasando Jean Daniélou – ed è quanto non pare sempre chiaro – non era solo questione di formulare la fede secondo diversi linguaggi, e tan-to meno più accattivanti o rassicuranti, ma anche dell’intelligenza della fede da parte della Chiesa, titolata per dovere a spiegarla in pienezza. Non solo, detto sempre con le parole di questo teologo francese: «Nella misura in cui noi sappiamo vivere nel mondo della fede, risvegliamo

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anche gli altri al mondo della fede». E, proprio nei progressi di questa comprensione della fede, il beato John Henry Newman vedeva il segno dell’assistenza dello Spirito verso la Chiesa di Roma. Comprendere la fede, annunciarla, professarla.

Torna alla mente anche il «Credo del popolo di Dio», pronunciato da Paolo VI, al termine dell’omelia del 30 giugno 1968, con tanto di spie-gazioni ed approfondimenti, a proposito del quale più volte siamo stati invitati a considerare, oltre il testo, il contesto liturgico, la celebrazione eucaristica. Con il Papa che, non come autorità sopra tutti, ma tra i cre-denti, diceva: «Ecco la mia fede». Un modo per confermare i fratelli non con una misura d’autorità ma attraverso la testimonianza.

«Ecco la mia fede»: potrebbero essere anche le parole con cui porre una didascalia alle immagini che presto accompagneranno il saluto di Joseph Ratzinger, che con il suo gesto (che tentò per diversi motivi anche i suoi predecessori, da Pio XII a Giovanni XXIII, da Paolo VI a Giovanni Paolo II), ha costretto il mondo, come mai aveva fatto, allo stupore: trascinando tutti a prendere atto dell’irruzione di un Altro – sin qui poco evocato – nella lettura del reale o dell’irreale.

In fondo, anche se la leggiamo con malcelato rammarico, una frase ci deve fare compagnia, tra le sirene che gridano complotti e calcoli di po-litica ecclesiastica. Quella pronunciata da Benedetto XVI nell’udienza di mercoledì scorso: «Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura». Come a dire che la Chiesa non pulsa nelle strutture, ma nel cuore dei cri-stiani. Per questo continuerà a vivere.

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Il giovane Ratzinger al ConcilioSu quel tesoro la sua firma

di Matteo Liut

Aveva solo 35 anni al momento dell’apertura del Concilio Vaticano II, eppure il suo fu un prezioso apporto per la formulazione di alcu-

ni dei testi che hanno modellato la Chiesa in questi ultimi 50 anni. E in seguito, nel suo cammino da teologo e pastore, Joseph Ratinger ha com-piuto un cammino coerente, che ha avuto la sua massima espressione nel suo magistero da Pontefice. Lo sottolineava alcuni mesi fa l’arcivesco-vo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nella sua riflessione sul settimo volume dell’«Opera omnia» di Ratzinger dal titolo «L’insegnamento del Concilio: formulazione-tra-smissione-interpretazione».

«Joseph Ratzinger, da teologo, ha contribuito a dar forma e ha accompa-gnato il Concilio in tutte le sue fasi», notava il prefetto. E, poi, «nella fase della ricezione, egli non si stanca di ricordare che il Concilio va valutato e compreso alla luce della sua intenzione autentica. Il Concilio è parte integrante della storia della Chiesa e pertanto lo si può comprendere cor-rettamente solo se viene considerato questo contesto di duemila anni».

La partecipazione di Ratzinger al Vaticano II si realizzò nella doppia ve-ste di consigliere teologico dell’arcivescovo di Colonia, Josef Frings, e di perito, collaboratore delle Commissioni che elaborarono gli schemi alla base della «Lumen Gentium» e della «Dei Verbum», partecipando anche alla stesura del decreto «Ad Gentes». Incontrando il clero romano giovedì scorso Ratzinger ha ricordato l’episodio dal quale nacque la col-

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laborazione con Frings, che nel 1961 chiese al giovane docente di Bonn una bozza per un intervento sull’ormai prossimo Concilio da tenere a Genova. Un testo che fu apprezzato dallo stesso Giovanni XXIII e che gli valse la piena fiducia di Frings. «Alla base di tutti e diciannove gli interventi conciliari dell’arcivescovo di Colonia in cui sono formulate questioni teologico-sistematiche – ha ricordato Müller –, stanno bozze predisposte da Ratzinger». Per questi motivi, afferma ancora il prefetto, «il Concilio ha la calligrafia di Benedetto XVI».

Negli anni post conciliari, poi, Ratzinger veniva spesso richiesto per con-ferenze e interviste sul Concilio. Egli, nota ancora Müller, «trasmise per così dire “di prima mano” al lettore i risultati del Concilio, stimolando il dibattito e la ricezione». Tra il 1966 e il 2003, poi, Ratzinger ha prodotto testi di commento ai documenti conciliari, che, secondo l’attuale prefetto della Congregazione della dottrina della fede, «appartengono ai classici della teologia». Un’opera che, secondo Müller, ha sempre posto al suo centro «l’insieme indissolubile tra Sacra Scrittura, la completa e integrale Tradizione e il Magistero» secondo quella «ermeneutica della riforma nella continuità» invocata da Ratzinger nel suo primo discorso natalizio alla Curia Romana del 2005.

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Rosen: un cuore apertoverso il nostro popolo

di Giorgio Bernardelli

Da anni è l’interlocutore privilegiato del Vaticano a Gerusalemme per quel che riguarda Israele e il mondo ebraico. Per questo il rabbino

David Rosen quei giorni del 2009 li ha vissuti in prima persona accanto a Benedetto XVI pellegrino in Terra Santa. Oggi è molto ammirato dall’u-miltà e dal coraggio che le dimissioni di Benedetto XVI rivelano («con-siderato ciò che rappresentano per il papato – commenta – sono qualcosa di inedito non solo per la Chiesa, ma per la storia dell’umanità intera»). Ma proprio quest’umiltà e questo coraggio sono forse le lenti migliori attraverso cui rileggere anche quel viaggio.

Rabbino Rosen, come ricorda le giornate vissute da Benedetto XVI a Gerusalemme?

Con grande piacere ed entusiasmo: furono segnate da gesti importanti. Penso ad esempio alla visita compiuta all’Heichal Shlomo, la sede stori-ca del Rabbinato. Anche Giovanni Paolo II nel suo viaggio aveva incon-trato i due rabbini capo, ma era stato un fatto quasi privato. Con Bene-detto XVI, invece, fu un incontro di alto profilo, venne anche pubblicato un documento comune: fu la testimonianza di un dialogo più maturo, più consolidato. Un risultato niente affatto scontato. Si sarebbe potuto pensare che la svolta impressa da Wojtyla ai rapporti tra cristiani ed ebrei fosse legata alla sua storia personale in Polonia. Invece Benedetto XVI ha confermato che il dialogo con gli ebrei è la via ordinaria della Chiesa.Furono giornate anche di parole molto forti riguardo al conflitto in Terra

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Santa e al ruolo delle religioni per superarlo.Ricordo con particolare gioia il clima fraterno dell’incontro interreligio-so a Nazareth, quello della celebre fotografia in cui gli esponenti reli-giosi - cristiani, ebrei e musulmani - si tengono per mano. Credo, però, che uno dei gesti di pace più importanti il Papa l’abbia compiuto ancora prima di arrivare in Israele, quando sul monte Nebo, in Giordania, parlò dell’”inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebraico”. Sotto-linearlo lì, in un Paese arabo e musulmano, fu un atto di grande coraggio.

Vi furono però anche delle incomprensioni in Israele riguardo a que-sto viaggio. Perché?

Certamente, ci furono (anche se le incomprensioni nei confronti di Be-nedetto XVI non sono state certo un’esclusiva di Israele). Credo che si-ano nate da un’attesa per un certo tipo di gesti che non erano nelle sue corde. Pesarono anche i sospetti per la sua origine: tutti a Yad Vashem si aspettavano il “mea culpa” in quanto tedesco; ma lui aveva già spiegato ad Auschwitz-Birkenau che considerava il popolo tedesco vittima esso stesso del nazismo. Si può discutere su questa tesi, ma la sua esperienza è questa.

Anche dopo il viaggio del 2009 lei è tornato più volte a incontrare Benedetto XVI: che cosa l’ha colpita di più del suo magistero sulla pace?

Ho in mente soprattutto l’incontro di Assisi, nella giornata che volle a 25 anni da quella di Giovanni Paolo II: mi colpì il suo volersi fermare a par-lare con ciascuno, nonostante il grande sforzo fisico che questo gli costa-va. Anche in quell’occasione mostrò tutta la sua integrità, la sua modestia e soprattutto la sua grande apertura d’animo. Sì, credo proprio che questo cuore aperto sia la grande eredità che lascia al cammino verso la pace.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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19 febbraioIl popolo di Benedetto

Scelta radicaledi Riccardo Maccioni

«Ciao amore» dice la ragazza al telefono, ma capisci che parla a un’amica. Nel suo personalissimo vocabolario la rabbia si con-

fonde con l’odio, lo sconforto diventa disperazione, allegria significa gioia. Osservarla chiacchierare è un modo per domandarci che impor-tanza diamo alle parole, quali sono i vocaboli cui affidiamo il compito di raccontarci, da chi e come vogliamo difenderci. Perché in fondo vivere è anche una questione di termini, della sincerità dei nostri discorsi, dei punti cardinali cui chiediamo di orientarci, minuscole stelle polari di un cammino che ricomincia ogni giorno, che ha come meta la felicità. Sem-pre che sappiamo cosa significhi. Per tanti, per quasi tutti verrebbe voglia di dire, essere felici è sinonimo di successo, di libertà, di potere. Il cri-stiano non fa eccezione, con la differenza che, letti alla luce del Vangelo, gli stessi concetti hanno significati profondamente diversi. Così, potere vuol dire servizio, libertà è svuotarsi delle proprie certezze per lasciare posto a Dio e il prestigio lo si conquista accanto agli ultimi, lontano dalle luci dei riflettori.Detto in altro modo, la croce è sinonimo di gloria, per essere grandi bisogna diventare piccoli, il successo si veste sempre di umiltà e misericordia. Lo ha ricordato il Papa all’Angelus di domenica scorsa: la tentazione più insidiosa che attanaglia l’uomo, quella che in fondo le riassume tutte, «consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali». Perché il tentatore non spinge direttamente verso il male, ma nella dire-

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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zione del falso bene, facendo credere «che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa i bisogni primari». Il nemico da combattere, il rischio da affrontare, allora è mettere Dio in un angolo, relegandolo al ruolo di servitore della nostra vanità, affidando al nostro egoismo il compito di decidere cosa sia meglio anche per gli altri. Nei momenti decisivi della vita, ricorda Benedetto XVI, ma forse sarebbe più giusto dire in ogni istante dell’esistenza, siamo chiamati a scegliere tra il Signore e il nostro “io”, tra l’interesse individuale e il vero bene, quello che si scrive con la b maiuscola e vuol dire carità evangelica, amore disinteressato.Sarebbe, però, sbagliato leggere in queste parole una condanna del potere e di chi lo esercita, perché in ogni ambito c’è bisogno di un’equa distribuzione dei compiti e per la costruzione di una casa servono l’operaio come l’in-gegnere, l’architetto come l’imbianchino.

Il Signore non è venuto a condannare il ruolo, ma l’idolatria in cui può trasformarsi, il ventilato bene comune che diventa egoismo privato, l’eti-ca della responsabilità banalizzata in sterile culto di sé. Rischi in cui può cadere chi si affida soltanto alle proprie forze.Non a caso per respingere il tentatore Gesù si ritira nel deserto, che è il luogo del silenzio e della povertà, dove l’uomo è spinto ad andare all’essenziale, bisognoso com’è di tutto. Si tratta di capire che non siamo gli unici costruttori della nostra esistenza e che da soli non riusciamo a procurarci neppure l’acqua. Ma per comprenderlo c’è bisogno di mettere a tacere ogni certezza, serve il coraggio di avventurarsi nei «deserti», nelle «prove» che prima o poi at-traversano ogni vita. Forse la più difficile è vedersi rifiutati, sentirsi fuori tempo e fuori moda, retrocessi a comprimari mentre ci crediamo i numeri uno. Eppure paradossalmente è proprio in quegli istanti che dovremmo sentirci più forti, sempre che la nostra tristezza ci spinga ad alzare gli occhi al cielo e ad aprire le porte del cuore all’aiuto che viene dall’alto. Ma succede, può succedere, solo se potere significa servizio, se amore è sinonimo di dono, se l’altro non è un avversario da sconfiggere ma un compagno di viaggio, lungo il pellegrinaggio della nostra vita.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Un magistero sulla libertà dell’uomodi Giacomo Samek Lodovici

Nelle tre più recenti catechesi del mercoledì - tra le ultime imperdi-bili occasioni per imparare da lui come Papa - Benedetto XVI ha

toccato a più riprese il tema della libertà come caratteristica essenziale del rapporto tra Dio e l’uomo. Ha detto, per esempio, che riflettendo sulla creazione si evince che «il primo pensiero di Dio era trovare un amore che risponda al suo amore» e «il secondo pensiero è poi creare un mon-do materiale dove collocare questo amore, queste creature che in libertà gli rispondono». Ora, è proprio nella libertà che risiede una chiave per una qualche decifrazione del mistero della permissione della malvagità umana da parte di Dio. In, effetti, come ha detto il Papa, «noi vorremmo un Dio che vinca le potenze avverse» e la domanda lancinante dell’uomo di sempre suona più o meno così: se Dio esiste, perché permette il male? Dov’era Dio ad Auschwitz? Ognuno può riformulare questa domanda adattandola alle ingiustizie che ha subìto o conosciuto, alle varie atroci-tà della storia. La risposta di Benedetto XVI è la seguente: Dio «ama e rispetta la risposta libera di amore alla sua chiamata. Come Padre, Dio desidera che noi diventiamo suoi figli in comunione». Sviluppando l’af-fermazione del Papa (nel solco di un’antica tradizione filosofica), pos-siamo qui accennare che Dio tollera che l’uomo commetta il male per almeno quattro motivi, tre dei quali sono correlati proprio alla libertà. Primo, perché dal male ricava (in un modo che spesso ci sfugge) un bene maggiore o evita un male peggiore. Secondo, perché se impedisse la mal-vagità, toglierebbe la sua fonte, che è la libertà umana. Una pietra, una pianta, un animale, non sono malvagi: tutto ciò che li riguarda dipende necessariamente dalle leggi fisico-biologiche o dall’istinto.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Ora, se Dio ci togliesse la libertà, ci priverebbe di quello stupendo pri-vilegio che ci innalza al di sopra dell’intero universo. Terzo, se l’uomo, deprivato della libertà, non potesse compiere il male, per ciò stesso non potrebbe nemmeno compiere il bene: non potremmo scegliere di uccide-re, ma nemmeno di amare. Infine, Dio si rivolge all’uomo sia - è l’im-magine del Papa - come un Padre che desidera essere liberamente amato da un figlio, sia - immagine e citazione sono di Kierkegaard - come un innamorato che offre il suo amore a colei che ama: «E incomprensibile, è il miracolo dell’amore infinito», cioè che Dio all’uomo «possa dire quasi come un pretendente [...]: mi vuoi tu, sì o no?». Per questo, Dio lo lascia libero: perché gli propone di partecipare alla comunione amorosa con Sé e «il Dio dell’amore non vuole in alcun modo costringerti. Come potrebbe l’amore pensare di costringere ad amare?». Un amore costretto non è amore, bensì schiavitù, adulazione, ecc. Ancora, per dirla con l’im-magine biblica usata dal Papa nella catechesi del 13 febbraio scorso, Dio accetta di essere respinto, lasciato fuori casa, fuori dalla porta, dall’uomo che, liberamente, rifiuta di cenare in intimità con Di: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta io verrò da lui, ce-nerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). Se l’uomo non fosse libero non potrebbe conseguire la beatitudine, cui si accede proprio nella totale ed eterna comunione d’amore con Dio: come ha detto il Papa il 6 febbraio, al termine della creazione, c’è il settimo giorno, che è preludio di ciò che avverrà nell’eternità: è il «giorno della libertà per tutti, giorno della comunione con Dio».

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Rouco Varela: ci ha sempre incoraggiatia non perdere la nostra anima cristiana

di Antonio María Rouco Varela*

Benedetto XVI ha dimostrato in differenti occasioni e in differenti modi che ha la Spagna nella memoria e nel cuore. Basta scorrere al-

cuni dei momenti delle sue tre visite nel nostro Paese, per comprendere la portata di una stima così sincera e profonda. Lo ricordiamo, per esempio, a Valencia nel 2006, annunciando in maniera magistrale il Vangelo del-la famiglia. «Conosco e incoraggio la spinta che state dando all’azione pastorale - disse allora a noi vescovi spagnoli -. In tempi di veloce seco-larizzazione, che riguarda anche la vita interna delle comunità cristiane, continuate a proclamare senza scoraggiarvi che prescindere da Dio mina la verità dell’uomo e ipoteca il futuro della cultura e della società».

Lo ricordiamo, nel 2010, pellegrino della fede davanti alla tomba dell’a-postolo Santiago. Fu proprio prima di atterrare a Compostela che fece riferimento alla Spagna come un paese decisivo nella rinascita del cat-tolicesimo in epoca moderna, grazie a figure di peso come per esempio sant’Ignazio di Loyola, santa Teresa di Gesù o san Giovanni d’Avila. E fu in quello stesso viaggio che abbiamo potuto vederlo a Barcellona, com-mosso di fronte alla bellezza della Sagrada Familia, sintesi esemplare di continuità e novità, di tradizione e creatività. Lo ricordiamo, infine, nel 2011, durante l’indimenticabile Giornata mondiale della gioventù di Ma-drid, inginocchiato di fronte al Santissimo, in una notte oscura di agosto, calma dopo una tempesta che bagnò la folla. Fu il Papa che ci convocò, ci riunì e presiedette nella grande festa della fede. Insieme a lui, quasi due milioni di giovani, uniti ai loro vescovi, sacerdoti ed educatori, hanno

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dato testimonianza davanti al mondo della perenne gioia che si irradia quando ci si mantiene radicato ed edificato in Cristo, saldo nella fede. «La Spagna è una grande nazione – ci disse l’ultimo giorno, all’aeropor-to, prima di ritornare a Roma -, una nazione “che in una convivenza sa-namente aperta, plurale e rispettosa, sa e può progredire senza rinunciare alla sua anima profondamente religiosa e cattolica”». «Vorrei assicurare agli spagnoli - furono le sue parole finali – che sono molto presenti nella mia preghiera. Sono convinto che, confortati dalla fede in Cristo, contri-buiranno con il meglio di sé affinché questo grande paese affronti le sfide dell’ora presente e continui a progredire lungo le vie della concordia, del-la solidarietà, della giustizia e della libertà». Anche noi, in enorme debito di gratitudine per la sua paternità ecclesiastica e spirituale, ci ricordiamo di lui e gli assicuriamo, dalla sua amata Spagna, la nostra vicinanza e la nostra preghiera nella sua nuova tappa a servizio della Chiesa».

* cardinale, arcivescovo di Madride presidente della Conferenza episcopale spagnola

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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20 febbraioIl professor Ratzinger

Gli studenti di Ratzinger:“Un maestro che sa ascoltare”

di Andrea Galli

Padre Joseph Fessio, gesuita americano con origini altoatesine, classe 1941, fece un dottorato con il professor Joseph Ratzinger a Ratisbo-

na, sull’ecclesiologia di Hans Urs von Balthasar, ed è uno dei membri più conosciuti del «Ratzinger Schülerkreis»: il gruppo di allievi di Benedetto XVI, rimasti in contatto negli anni e impegnati nell’approfondimento e nella divulgazione del suo pensiero. Fessio, fra i «ratzingeriani», si è distinto per lo spirito imprenditoriale: ha fondato un College cattolico a San Francisco e l’associazione liturgica «Adoremus», è stato tra i prota-gonisti della nascita dell’Ave Maria University, avvenieristica università cattolica con sede in Florida, ma soprattutto è stato ed è tuttora il padre della Ignatius Press, una delle più importanti case editrici del mondo cat-tolico di lingua inglese.

«Il lascito più ovvio di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI sono i suoi scrit-ti, che stanno conoscendo una diffusione mondiale, anche quelli prima del papato» dice Fessio al telefono dal suo ufficio di San Francisco, «poi aggiungerei due momenti: il 12 settembre 2006, ovvero il discorso di Ratisbona, che ha chiarito, tra le altre cose, alcuni principi in base ai quali impostare il rapporto con l’islam; e il 7 luglio 2007, ovvero il motu pro-prio Summorum Pontificum, che ha aperto la strada a un recupero degli

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elementi più validi del rito antico, per un rinnovamento liturgico, e che penso avrà delle ricadute importanti nel futuro».

Fessio cita poi un contributo di Benedetto XVI che rischia di essere sotto-valutato dagli osservatori europei: «Per gli Stati Uniti ha fatto una serie di nomine episcopali che hanno veramente cambiato il paesaggio ecclesia-le: vescovi solidi dottrinalmente, preparati culturalmente e con un grande zelo apostolico». Fessio racconta di non essere potuto andare agli ultimi due incontri a Castel Gandolfo del «Ratzinger Schülerkreis», ma di aver un ricordo nitido del 2010: «In quell’occasione, nel seminario che si ten-ne il sabato mattino, mi sembrò per la prima volta di vedere Benedetto XVI anziano e fragile. Non l’avevo mai visto prima così debole. Ma dopo pranzo, dopo la siesta, è riapparso fresco e in forma e mi ha colpito. Se in alcuni momenti in questi anni è quindi apparso affaticato, è stato comunque sempre per un problema di età, una questione fisica, perché psicologicamente non mi è mai sembrato oppresso dalla responsabilità del suo ministero. Non l’ho mai visto perdere la sua proverbiale calma anche se una volta mi hanno riferito che è accaduto e l’ho sempre trovato tranquillo, con il suo fare da gentiluomo: incline all’ascolto, con il suo eloquio lento e chiaro».

Per quanto riguarda le sue attese per il futuro, Fessio dice: «Negli anni ‘50, ‘60 e ‘70 abbiamo avuto dei veri giganti in teologia: von Baltha-sar, De Lubac, Bouyer, Ratzinger stesso. Poi abbiamo avuto due giganti come Papi: Giovanni Paolo e Benedetto XVI. Durante il conclave del 2005 ero sicuro che Ratzinger sarebbe stato eletto, perché non c’erano altre personalità alla sua altezza. Penso che oggi non abbiamo bisogno di un altro gigante, ma di un buon pastore, che continui o porti a compimen-to quello che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno fatto, nel senso di un rinnovamento della Chiesa seguendo il vero Concilio Vaticano II».

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Una semplice rispostadi Marina Corradi

Forse nemmeno i pellegrini che domenica si sono ritrovati sotto la finestra del Papa per ascoltare l’Angelus si immaginavano che sa-

rebbero stati in tanti. E invece mentre già i fedeli di Roma avevano co-minciato a colmare la piazza, dal fondo di via Conciliazione alle undici e mezza arrivavano, stanchi da un viaggio iniziato all’alba, i lombardi, e gente da più lontano. E a mezzogiorno dentro al colonnato affollatissimo ci si guardava, fra noi, contenti, e con un sommesso stupore: non era, leggendo i giornali, così prevedibile di essere in tanti, nella prima do-menica dopo la rinuncia di Benedetto XVI. Molti media in questi giorni traboccano di congetture, voci, e ombre di ipotetiche trame dietro alla scelta del Papa, e quasi con compiacimento sembrano intravedere in quel gesto il segno di un «declino» della Chiesa stessa. Ma il fatto è che la Chiesa è anche, e prima di tutto, il suo popolo, il popolo di quanti credo-no in Cristo risorto; e questo universo, spesso scarsamente conosciuto e raccontato, non sottostà al governo dei media, non segue la linea dettata, magari, da “grandi firme”.

Così inaspettatamente una domenica di febbraio, sei giorni dopo un an-nuncio che pure ha sbalordito e addolorato, in san Pietro ci si ritrova in una moltitudine. Senza troppi cartelli, con rare bandiere: zitti, in molti con i bambini per mano, sotto a quella finestra, ad aspettare. E passa tra la folla un giovane cronista di un quotidiano. Intervista un signore sui cinquanta: “E Vatileaks? E, secondo lei, il Papa perché si è dimesso, dav-vero?”. Il cronista è gentile e insistente, ma l’intervistato non gli concede proprio niente: “Di Vatileaks, risponde sereno, non me ne importa nulla,

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io sono venuto per il Papa”. Già, noi siamo venuti per un Papa al quale siamo grati di otto anni di un magistero luminoso e limpido, tanto quanto sono spesso arruffate, sovrabbondanti e inutili le parole che sommergono le nostre giornate. Siamo venuti dentro un affetto, e un bene tanto grande che non vacilla nemmeno davanti a una rinuncia impensabile. Noi, sem-plici fedeli, non sappiamo, magari non capiamo affatto perché Benedetto XVI lasci il soglio pontificio. Ma, certi come siamo del bene che vuo-le alla Chiesa, non dubitiamo. Poi, nelle parole di quest’uomo abbiamo sentito l’altro giorno l’incrinatura della stanchezza e della vecchiaia: ed è stato come quando, sentendo magari da lontano, al telefono, un padre anziano, avvertiamo una nota che prima non c’era, e allora partiamo e andiamo a trovarlo, a abbracciarlo di persona. E questo è esser figli; e tanti figli assieme formano appunto il popolo che domenica si è ritrovato in San Pietro.

Ma è la stessa umanità che sere fa ha gremito il Duomo di Milano nell’an-niversario della morte di don Luigi Giussani, e con il cardinale Scola ha pregato per il Papa. Era talmente pieno, il Duomo, che alcuni delle decine di sacerdoti che davano la Comunione hanno dovuto spezzare le ostie consacrate e darne a ciascuno un piccolo frammento, perché non erano abbastanza. C’erano vecchi, e madri con i bambini, e tanti ragazzi giova-nissimi: anche in Duomo, un popolo. Popolo senza bandiere né slogan da gridare, gente che non rivendica, non accusa, non denuncia. Gente che si sa profondamente “figlia”: di Cristo, e quindi anche del suo vicario terre-no. E dunque, in un frangente di dolore, altro non fa, con semplicità, che muoversi, e stringersi in un abbraccio. “Ma, e perché, veramente, questa rinuncia? Ma, davvero, cosa c’è sotto?”, insistono i giornalisti, e li vedi un po’ disorientati. Già, il popolo di San Pietro vive dentro a coordinate diverse da quelle dettate dal pensiero dominante; dentro a una fiducia, dentro a un orizzonte certo e buono, là dove i maîtres à penser indicano solo un niente. E dunque questo popolo spiazza chi si ostina a cercare di leggerlo solo con categorie sociologiche o politiche. Restano a mezz’aria i microfoni protesi. “Vatileaks?”. “Non me ne importa niente, sono venu-to perché voglio bene al Papa”.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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21 febbraioIl Conclave all’orizzonte

Pietro è sempre con noiCarlo Cardia

Mentre scorrono veloci questi giorni irripetibili per la vita della Chiesa, che stiamo vivendo quasi condotti per mano da Benedetto

XVI, accompagnati dai suoi gesti e dalla sua parola, possiamo porci del-le domande che ci aiutino a capire meglio il significato di un cammino così nuovo, azzardarne un primissimo bilancio. Possiamo interrogarci sul quel groviglio di sentimenti, sensazioni, reazioni, che si è formato e poi esploso nell’animo di tanti di noi, romani vicinissimi al Papa, fedeli d’o-gni parte del mondo, ma anche non praticanti e perfino agnostici e atei, quando abbiamo appreso della rinuncia di Benedetto XVI quel mattino dell’11 febbraio, che rimarrà come ricordo indelebile nella nostra mente. E possiamo cercare di coglierne lo spessore, analizzarne le componenti, distinguere la paura e l’incredulità, la sorpresa e l’amarezza, ma anche l’immenso affetto che abbiamo provato subito, quasi istintivamente, per il Papa, e ancora la percezione che stava avvenendo qualcosa di inedito che interrogava la coscienza, chiedeva di riflettere, capire, magari (l’idea è affiorata presto) di pregare per capire. Molti di quei pensieri e senti-menti che ci hanno investito in modo travolgente sono ancora vivi, non sono evaporati in poche ore o giorni, ci accompagnano nei ragionamenti che elaboriamo, nelle convinzioni che maturiamo. Essi hanno già fatto emergere un elemento che non era scontato. La figura del Pontefice in quanto tale, ma anche la figura di questo nostro Papa, Benedetto XVI, si è talmente incarnata nella coscienza, nell’interiorità di ciascuno di noi, che

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la consideriamo inamovibile, luogo di contatto fra il trascendente e l’u-mano, garanzia per l’ideale più grande di cui abbiamo bisogno per crede-re, sperare, guardare al futuro. Questo sottofondo della coscienza l’abbia-mo potuto confrontare con amici e conoscenti, anche lontani (qualcuno addirittura ostile) dalla Chiesa: questi ultimi hanno manifestato stupore per l’evento dell’11 febbraio e hanno usato, forse per la prima volta, pa-role dolci per il Papa, si sono sentiti figli suoi, quasi sfiorati dal timore, dalla paura dell’abbandono. Lo stupore che la rinuncia di Benedetto XVI ha provocato conferma il valore ontologico che la cattedra di Pietro ha per tutti gli uomini, cattolici, cristiani, di altre fedi e opinioni, un valore universale a volte trascurato che ci parla dell’eco del magistero del Papa nei confini della Chiesa e in ogni spazio esterno. Guardiamo un po’ più dentro lo choc multiforme che abbiamo provato, che sentiamo ancora vivo e forte, e che cominciamo a superare anche perché Benedetto XVI è presente, ci parla, ci conforta, ci dice di pregare per lui e per il futuro Papa. Questo suo insegnamento ha diradato le prime nubi che pensava-mo si addensassero, interpretate da alcuni come timore e paura circa la forza, la stabilità, dell’istituzione pontificia, della cattedra di Pietro. Ma il Papa ci ha ripetuto che non ci abbandona, pregherà con la Chiesa e per la Chiesa e ha chiesto di fare altrettanto per lui e il futuro pontefice. Queste parole stanno scendendo nel nostro animo, provocano un rasserenamen-to, assicurano che non ci sarà alcun vulnus, o stravolgimento, che il suc-cessore di Pietro è con noi, e con nome diverso lo sarà di nuovo tra breve. L’amarezza, invece, ha trovato compensazione in un altro sentimento che per la verità a livello popolare è stato avvertito fortissimo sin dalla prima ora: una profonda ammirazione per la forza, l’abnegazione, la sincerità di un Papa che dichiara al mondo di non sentirsi più adeguato a sostene-re il peso di quel ministero petrino che richiede sempre più energie per sostenere le fatiche che il suo esercizio comporta. Quante volte abbiamo sussurrato: chi gli ha dato la forza di compiere questo gesto, di dichia-rare la sua inadeguatezza per l’età che avanza, di spiegarlo alla Chiesa e all’umanità? Dal quel momento, e da quel sentimento di ammirazione,

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abbiamo iniziato un cammino che ci ha portato a riconoscere che la scelta del Papa era dettata da una grandezza interiore, che solo la fede poteva spiegare, giustificare. Così, giorno dopo giorno (il processo non è com-piuto), ora dopo ora, stiamo entrando in un orizzonte più ampio, in una dimensione che dà nuova serenità, quella della fede che si intreccia con la storia, e che rende chiare tante cose che resterebbero oscure se fossero lasciate alle sensazioni superficiali. Siamo stati indotti, in questo modo, a un esame di coscienza personale e collettivo, forse uno dei più intensi dell’epoca moderna, che ci fa riflettere sulla presenza della Chiesa nella storia, sulla garanzia che essa dà di agire e operare perché la parola di Dio non si affievolisca, il messaggio del Vangelo continui a diffondersi, e ciascuno di noi veda in essa il luogo e la sede della speranza di cui non possiamo fare a meno. Stiamo così imparando ad amare più di prima la nostra Chiesa, consapevoli che a questo traguardo ci sta conducendo Be-nedetto XVI con la sua scelta e il suo magistero.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Il canonista Fantappiè:quando Pietro depone le chiavi

di Umberto Folena

Dalle ore 20 e un minuto del 28 febbraio, come dovremo chiamare Benedetto XVI? Chi sarà? Non è un fatto puramente formale, quin-

di irrisorio. Al contrario il nome – l’appellativo – sarà gravido di sostanza e di conseguenze. E in questa circostanza il diritto canonico si rivela ma-teria tutt’altro che arida. «Semmai è uno degli strumenti per rinnovare la Chiesa. Dirò di più: probabilmente, la separazione tra teologi e canonisti avvenuta con il Concilio ha contribuito a tagliare le gambe al Concilio stesso, impedendogli di dotarsi degli strumenti di attuazione adeguati per camminare». Carlo Fantappiè ne è convinto e pazienza se qualcuno pen-serà che è «di parte», in quanto ordinario di Diritto canonico alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre. In questi giorni Fantappiè ha avuto occasione di fare ricerche nella biblioteca della Pontificia Uni-versità Gregoriana, dove sta tenendo un corso da professore invitato. «E ne ho approfittato per indagare sulla rinuncia di papa Ratzinger».

Che cosa ha scoperto? Di Celestino V è stato ormai detto tutto...

In effetti è l’unico esempio di vera rinuncia, almeno in parte analoga a quella di Benedetto XVI. E Celestino V, prima di prendere la sua decisio-ne, si consultò con un gruppo di canonisti. Da tempo l’impegno dei ca-nonisti era stato diretto a sempre meglio definire la liceità della rinuncia.

Erano casi tanto frequenti?

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Nel XII secolo i canonisti si rifanno a dei precedenti allora ritenuti validi, ma in realtà falsi, che vanno da Clemente I a Liberio, dal I al IV secolo. L’unica “vera” rinuncia sembra quella di papa Ponziano (231-235), de-portato nelle miniere sarde per ordine dell’imperatore; qui avrebbe abdi-cato per non lasciare la Chiesa senza pastore. Altri casi si segnalano tra VII e XI secolo, con Martino I, Benedetto V e Giovanni XVIII, ma sono parvenze di rinuncia o deposizioni. Poi ci sono le lotte per le investiture, una storia complessa. Fino alla riforma di papa Gregorio VII, l’elezione del Papa spettava al popolo romano e la competizione tra le famiglie pa-trizie era spietata, vere e proprie campagne elettorali con spese enormi. Dal 1059 l’elezione viene affidata al collegio dei cardinali e da quel mo-mento l’eventuale rinuncia dev’essere comunicata a loro, come ha fatto Benedetto XVI.

Una vicenda terribilmente complessa. È possibile sintetizzarla?

Andiamo direttamente a Uguccione da Pisa, canonista. È lui, verso il 1190, a stabilire che i motivi leciti per la rinuncia sono tre: il desiderio di ritirarsi a vita monastica, la vecchiaia, la malattia. A chiunque è permesso rinunciare ma, attenzione, non senza aver valutato il bonum commune ecclesiae: il Papa, con il suo gesto, non deve danneggiare nessuno e deve tendere al bene della Chiesa universale.Vengono in mente le parole di papa Ratzinger nel libro intervista di See-wald, del 2010...

Vengono in mente soprattutto le parole dette in latino al Concistoro:

Uguccione rimanda al “foro interno”, alla coscienza del Pontefice. Va evitata una rinuncia irresponsabile che metterebbe il Papa nella condizio-ne di peccare mortalmente. Già allora si pone il problema di discernere il principio del diritto alla rinuncia dall’arbitrio della rinuncia medesi-ma. Ciascun vescovo, consacrato a una Chiesa particolare, è come se

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stipulasse un “matrimonio spirituale” con la Chiesa stessa, in un legame indissolubile fino alla morte. Ma poi le cose cambiano...

Fine dell’indissolubilità del legame?

I canonisti del XIII secolo leggono la possibile rinuncia in un altro modo, legandola alle prerogative del Pontefice stesso. Se il Papa può tutto, da autentico monarca ha necessariamente anche il diritto di dimettersi, per-ché non ha limiti. La rinuncia va comunicata ai cardinali, ma non è ne-cessario che sia da essi accolta. E non è finita...

Delle condizioni dovranno pur esserci...

Infatti. Per estensione, la rinuncia è valida in sei casi, che vanno dalla prostrazione fisica alla demenza fino al grave scandalum. Si escludono la codardia o la volontà di sottrarsi a una persecuzione incombente. E arriviamo a Celestino V.

A quali cause si appella?

A più d’una. È il 13 dicembre 1294. Davanti al collegio cardinalizio, Calestino V richiama queste motivazioni canoniche: inadeguatezza, de-bolezza fisica, defectus scientiae (scarsa cultura) e zelum melioris vitae (desiderio di vita monastica). La comunicazione della rinuncia, allora, fa-ceva cadere hic et nunc il Papa dall’ufficio; Ratzinger invece ha separato le due cose. Il rituale è descritto da una fonte coeva, l’Historia anglicana del monaco inglese Bartolomeo de Cotton. Un rito altamente simbolico: «Discese dalla cattedra, prese la tiara dal capo e la pose per terra; e man-tello anello e tutto se ne spogliò di fronte ai cardinali stupefatti, lasciò la sala, tornò in camera, si vestì dell’abito del suo ordine monastico e si sedette sull’ultimo gradino del trono papale». Come dire: ecco, mi sono retrocesso.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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E oggi? Che cosa dice il diritto canonico?

Non è cambiato quasi nulla. Le formulazioni dei codici del 1917 e del 1983 sono molto semplici. La dottrina medievale e moderna aggiunge che non è possibile un co-papato, il Papa che rinuncia non può tornare cardinale se non con una nuova nomina, rinuncia a titoli e prerogative, rimane vescovo ma senza una diocesi dove esercitare la sua giurisdizio-ne, mantiene i poteri sacri. Paradossalmente, se volesse consacrare un sacerdote, dovrebbe chiedere il permesso al vescovo della diocesi in cui si trovasse.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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22 febbraioVerso l’ultimo Angelus

E ancor si muovedi Davide Rondoni

E ancora si muovono. In questi giorni accade come all’inizio. Il Van-gelo e prima la Bibbia sono una storia di gente che si mette in movi-

mento. Singoli, gruppi, tribù: gente che si mette in moto. Per seguire la Grande Promessa nell’Antico Testamento. E per vedere quell’uomo che diceva d’essere Dio nel Nuovo Testamento.

E ancora, c’è gente che si muove per stringersi intorno al Papa che la-sciando il suo posto ha riportato ancora tutti a guardare Chi è il centro della Chiesa. Si stanno muovendo verso Roma, si sono già visti arrivare all’Angelus e poi al prossimo e poi arriveranno all’Udienza del Merco-ledì. Si organizzano, si chiamano, si invitano. Dicono: si va. Dove? Dal Papa. La fede, parafrasando un famoso romanzo, è una faccenda “on the road”. Cioè è movimento. E non certo per uno stupido senso di parteci-pazione a una specie di evento mondano.

È un movimento diverso da quello che porta folle ad assistere a grandi eventi. Qui si tratta di stringersi intorno a un uomo. A Joseph Ratzinger e alla sua testimonianza sorprendente. Perché in questa sorpresa è balenato anche solo per un istante il volto cercato da tutte le folle che si sono mes-se in moto nell’Antico e nel Nuovo Testamento.

Le folle che si sono mosse dall’Egitto e quelle che si sono mosse verso

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il luogo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Le folle che accompa-gnarono a Gerusalemme l’entrata dell’Arca portata dal re Davide e quelle che cercavano il Nazareno che aveva resuscitato la figlia di Giairo.

Ancora il popolo dei fedeli si mette in moto. Era già successo per la morte del suo predecessore, e ora accade per ab-bracciare Papa Benedetto in questa sua specie di “morte” al mondo. E in entrambi i casi si tratta di folle che si sono mosse per cercare la vita e non la morte. Per dire: siamo con te e con chi la tua vita ci mostra vivo. Nelle parrocchie e tra amici si organizzano i pullman. Si cerca come fare. Si vede chi vuole venire. E chi non potrà muoversi si organizza per creare momenti presso la sua chiesa, o la sede del proprio movimento o asso-ciazione.

In questo spontaneo e fervido mettersi in moto c’è ribadita una delle grandi caratteristiche di una fede viva. Non si tratta di un discorso, ma di riconoscere una presenza. E di andarvi incontro. La fede, insomma, non consiste in una serie di considerazioni più o meno esatte che ciascuno di noi può svolgere sulla vita la morte e neppure su Dio o su tutti i santi del calendario. Ma è un mettersi in moto. Un commuoversi, un convergere e convertire i passi verso un punto che si riconosce decisivo per il signi-ficato della propria esistenza. Per questo i cristiani fanno i pellegrinaggi.

Non si tratta solo della sempre presente e antichissima consuetudine de-gli uomini di ogni epoca e cultura a compiere dei “cammini” purificatori, o dei percorsi al termine dei quali offrire un sacrificio o un compiere un gesto salvifico. No, qui si tratta di un convergere verso qualcuno, andare all’appuntamento con un vivente. Andare a vedere ancora, come accadde ai primi due discepoli che seguirono Gesù al Giordano dopo lo strano grido di Giovanni Battista, dove Lui abita.

Il movimento, il cammino, il mettersi in moto di questi giorni è una testi-

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monianza della natura del cristianesimo. Non un bel moto spontaneo di gente facile a commuoversi. Non un tributo alla personalità. E riaccade ogni volta che nella storia accade una testimonianza autentica. Può ca-pitare ovunque, e la geografia viva della fede cristiana è proprio questo segno di movimenti, di gente che si riferisce a luoghi e persone, che si raduna intorno a punti vivi di testimonianza e di richiamo. Accade anche a Roma, in queste ore in modo così straordinario, nella sede di Pietro.

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Giussani-Ratzinger, trent’annidi amiciziadi Giorgio Paolucci

Otto anni fa, il 22 febbraio del 2005, moriva don Luigi Giussani. Due giorni dopo, nel Duomo di Milano gremito di folla, il cardinale

Ratzinger – che Giovanni Paolo II, gravemente malato, aveva inviato come suo delegato personale – lo ricordava in un’omelia pronunciata a braccio dalla quale traspare l’amicizia che li legava e la stima per il fon-datore di Comunione e liberazione. «Don Giussani era cresciuto in una casa - come disse lui stesso - povera di pane, ma ricca di musica; e così, sin dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza; non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale; cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita; così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia». Non sono frasi di circo-stanza, quelle pronunciate dal decano del collegio cardinalizio, ma parole che denotano la stima e la profonda conoscenza del carisma del sacerdote lombardo: «Sempre ha tenuto fermo lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro, una storia d’amore; è un avvenimento».

È stato un rapporto intenso, quello tra Ratzinger e Giussani, un’amicizia umana e intellettuale che si è dipanata per più di trent’anni. Gli inizi risalgono agli anni Settanta. Il loro incontro è tra i fattori che portano a un’iniziativa che lascerà un segno importante nel dibattito teologico post-conciliare: la rivista internazionale Communio, alla fondazione del-la quale partecipano tra gli altri Von Balthasar e De Lubac. Negli anni

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Ottanta sono numerosi gli incontri che si tengono a Roma, come ha rac-contato in più di un’occasione monsignor Massimo Camisasca, oggi ve-scovo di Reggio Emilia e all’epoca uno dei più stretti collaboratori di Giussani: «Per iniziativa di don Angelo Scola e in mia presenza, Gius-sani veniva una o due volte all’anno a Roma per cenare con il cardinale Ratzinger. L’appuntamento era alle Cappellette di San Luigi, vicino alla basilica di Santa Maria Maggiore, si svolgeva sempre allo stesso modo: Giussani chiedeva a Ratzinger conferma dell’ortodossia delle proprie posizioni e riceveva da lui sempre nuove ragioni, che ne sostenevano la verità e la fecondità». Di questi incontri rimane traccia anche nel libro Dal temperamento un metodo, che raccoglie le conversazioni del sacer-dote con alcuni gruppi di Memores Domini, i laici consacrati di Cl. In una di queste, Giussani ricorda: «Il cardinale Ratzinger, tre sere fa, a cena con don Massimo , ci diceva che ciò che lo fa sentire più legato a noi è la concezione del cristianesimo come avvenimento hic et nunc, come avvenimento qui ed ora».

Nel 1986 il cardinale, su invito del fondatore di Cl, predica gli esercizi spirituali per i sacerdoti del movimento a Collevalenza, successivamente raccolti e pubblicati dall’editrice Jaca Book nel libro Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità.Nel 1993 Ratzinger firma la prefazione del volume Un avvenimento di vita, cioè una storia, che raccoglie conversazioni e interviste rilasciate nel corso di 15 anni, e sottolinea la necessità indicata da Giussani di passare dall’utopia post-sessantottina a un’altra parola-guida: presenza. «Il cri-stianesimo è presenza, il qui ed ora del Signore, che ci sospinge nel qui ed ora della fede. E così diventa chiara la vera alternativa: il cristianesimo non è teoria né moralismo, né ritualismo, bensì avvenimento, incontro con una presenza, con un Dio che è entrato nella storia e che continua-mente vi entra». Nel 1994 viene pubblicato un testo fondamentale di Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno (che la Rizzoli ha rimandato in libreria il mese

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scorso). Nella prefazione, il cardinale lo definisce un libro «che dovrebbe essere letto anche da coloro che accolgono con scetticismo l’annuncio della fede cristiana. (…) Giussani ci mostra come nelle semplici espe-rienze fondamentali di ogni uomo sia contenuta la ricerca di Dio, che continua a rimanere presente anche nell’ateismo. (…) Con questo picco-lo libro ho capito ancora una volta e in modo nuovo perché monsignor Giussani è potuto diventare maestro di un’intera generazione e padre di un vivace movimento».

Due anni dopo la morte del “Gius”, il 24 marzo 2007 – davanti a 100mila ciellini convenuti in piazza San Pietro da 53 Paesi per il venticinquesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Cl – Be-nedetto XVI comincia così il suo discorso: «Il mio primo pensiero va al vostro fondatore, Luigi Giussani, al quale mi legano tanti ricordi, e che mi era diventato un vero amico».La testimonianza più recente risale a pochi giorni fa, quando il Papa ri-ceve in udienza i partecipanti all’assemblea generale della Fraternità San Carlo, accompagnati dal nuovo superiore don Paolo Sottopietra, dal predecessore monsignor Camisasca, neo-vescovo di Reggio Emilia, e dal presidente della Fraternità di Cl, don Julian Carron. Parlando a braccio, rievoca gli incontri avvenuti lungo gli anni: «Mi ricordo bene delle mie visite accanto a Santa Maria Maggiore, dove ho conosciuto personal-mente don Giussani, ho conosciuto la sua fede, la sua gioia, la sua forze e la ricchezza delle sue idee, la creatività della fede. È cresciuta una vera amicizia, così, tramite lui, ho conosciuto anche meglio la comunità di Comunione e liberazione».

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23 febbraioSotto la finestra di Benedetto

Un pianto di bimbo, e la speranzaGentile direttore,ieri sera stavo per far addormentare il mio bambino, Francesco, sei anni da poco compiuti. Prima di augurargli la buona notte, volevo però ancora raccontargli che cosa avevo organizzato per lui e per me per il prossimo mercoledì 27 febbraio: saremmo andati a Roma in aereo con gli amici del Gam, Gioventù Ardente Mariana, di Torino (Francesco è un piccolo “bucaneve” del movimento)per salutare il Santo Padre in occasione del-la Sua ultima Udienza generale del mercoledì. Era già da qualche mese che il mio bambino mi chiedeva di fare un viaggio con me in aereo ed ero sicura avrebbe accolto con entusiasmo la notizia di andare a Roma per il Papa. Mentre mi accingevo a raccontare tutto questo a Francesco, mi sono resa conto che non gli avevo ancora parlato della decisione del Santo Padre di lasciare il Pontificato (la settimana prima infatti ero stata via per lavoro e poi, a dire il vero, avevo parlato con tante persone della decisione del Papa, ma davvero non avevo pensato di condividerla con il mio bambino). Esordisco quindi dicendo a Francesco: «Sai Francesco il Papa a motivo della sua età e della sua salute ha deciso che lascerà il Pon-tificato». Ed ecco, avrei voluto dirgli che quindi saremmo andati a Roma per salutarlo ma Francesco, dopo aver rivolto gli occhi in alto,così come fanno i bambini quando pensano a qualcosa di veramente importante, mi domanda: «Mamma ma dove abiterà?», «Vicino a dove abita adesso», gli rispondo. E ancora mi domanda: «Ma si affaccerà ancora da quella torre per far volare la colomba?», «Solo più una volta, Francesco». E quindi: «Mamma, ma dopo sarà ancora Papa?». «Non più, Francesco», gli ri-spondo. A qual punto, dopo qualche interminabile secondo di silenzio in

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cui non osavo più dire nulla, neanche continuare a raccontargli del nostro viaggio organizzato, Francesco incomincia a singhiozzare e poi a pian-gere e non si ferma più, si interrompe solo per dire, non a me, ma come se volesse parlare con il cuore direttamente al Papa: «Io non voglio che vada via, voglio il mio Papa, lui è il mio Papa, non può andarsene». Lo guardavo incredula, io volevo proporre a Francesco un viaggio in aereo e invece lui piangeva per il Papa. Ho “invidiato” (per come una mamma può invidiare il proprio bambino) quel dolore autentico, la sua fede; e così, cercando di riprendermi per consolarlo sono solo riuscita a dirgli: «Francesco, lo Spirito Santo ci manderà un altro Papa che ci starà vici-no». Ma lui, fermo come solo i bambini sanno essere nelle loro posizioni, mi risponde singhiozzando: «Ma io non voglio un altro Papa, io voglio solo lui e se lui va via, io questa notte rimarrò sveglio tutta la notte». Non avevo altre parole, sono rimasta in silenzio e ho stretto Francesco a me che di li a poco si è addormentato.

Paola Gheddo, Torino

Risponde Marco Tarquinio

Grazie per questo racconto vero, fresco e bello, cara signora Paola. Sia-mo stati tutti un po’ Francesco in questi giorni: scossi e commossi dalla decisione di Papa Benedetto. E continuiamo a perdere e a trovare le paro-le, ma non la speranza e la fede. Che, interrogate, si fanno più profonde e, sì, scomode. Come le domande, come un pianto di bimbo. Sono sicuro che lei troverà altre parole giuste per Francesco. E così lui, poco a poco, capirà sempre meglio che il Papa è uno, che c’è sempre, che non «se ne va via». Capirà che il Papa è colui che Gesù ha fatto «pietra» che sostiene la casa. Per questo lo amiamo tanto, per questo – proprio come figli – lo cerchiamo anche con uno sguardo e un ascolto da lontano, nella gioia e nel dolore. Per questo soffriamo quando ci viene a mancare, e siamo felici quando torna a parlarci e a confermarci nella fede. Stavolta speri-

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mentiamo un distacco “nuovo”. Perché, dopo la rinuncia al Pontificato, Benedetto XVI continuerà a stare accanto a ognuno di noi nella preghiera “nascosta” al mondo. Perché il nuovo Papa, che ci sarà presto dato, che ameremo subito come nostro Padre Santo, continuerà a guidare la Chiesa nel cammino segnato da Colui che è Via, Verità e Vita.

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Profeta di misericordiadi Marco Pozza

Lo ricorderanno come profeta amabile di una misericordia che non can-cella la giustizia. E di una giustizia che non corra il rischio di trasformarsi in vendetta. Perché, illuminato dal mistero di Gesù di Nazaret, l’uomo rimane ancor oggi l’unica scommessa sensata e da vincere. Una mattina di dicembre l’hanno visto varcare la soglia del carcere di Rebibbia, ma è come se simbolicamente avesse varcato la soglia di ogni loro cella per stringere la mano e porgere loro un frammento della speranza cristiana, quella che, attendendo il tempo futuro, è capace di riorganizzare il tempo presente. La semplicità umana di quel gesto ha reso Benedetto XVI fa-miliare e amico al mondo che abita dietro le sbarre delle galere, laddove spesso la colpa è terreno fertile e occasione di grazia per inaspettate ri-surrezioni. Nel carcere di Padova ieri hanno voluto celebrare messa per lui, per questo Papa che sovente è stato voce e sorriso di chi non ha più voce e ha smarrito la voglia di sorridere. Un grazie «a modo loro», scritto e firmato da uomini col passaporto di ferro e cemento, che hanno in una cella il punto di osservazione sul mondo.

Questi reclusi non per scelta, ma per scelte sbagliate, riescono a cogliere il pudore quasi monastico del volto di Benedetto Xvi, quasi disturbato dal frastuono disordinato del mondo d’oggi. E lo stile sobrio ed essenziale di un uomo che ha messo al centro del suo pontificato, e del suo pensiero, il racconto della storia della salvezza, così, quasi confidando a persone disperate e senza più patria civile e morale che nel Vangelo c’è ancora e sempre la bussola che aiuta a non vagare a vuoto nelle strade del mondo.Nel presentare il suo primo volume della storia di Gesù, Benedetto XVI

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chiese un «anticipo di simpatia» senza la quale non ci può essere vera comprensione. Lo chiedeva per il suo lavoro e, forse, lo chiedeva pure per il suo pontificato. E, ancor di più, per leggere pagine di storia di complessa trama e di difficile interpretazione, dove i fili del bene s’in-trecciano con i fili del male. E di comprensione profonda c’è bisogno qui, perché nell’alfabeto delle galere non esiste la cultura del perdente, ma solo l’esaltazione del vincitore (e non è molto diverso là fuori, perché anche la storia degli uomini “liberi” viene scritta dai vincitori). Forse per questo, a stregarli più ancora delle sue parole è stata la profondità dell’ul-timo gesto, l’umiltà di tirarsi in disparte con quell’amabilità che è il tratto caratterizzante della sua persona. Quel suo raccontare la vecchiaia, l’e-sperienza della fatica e del limite è stata un’altissima lezione di umanità per questi uomini che, a loro modo, si sono messi “al posto di Dio”.

Ci sono parole e incontri che cambiano la storia dell’uomo: di questi, sovente, ci rendiamo conto molto tempo dopo. Anche nel Vangelo è la luce della Risurrezione a permettere agli apostoli di comprendere la loro storia passata. Il magistero di questo Papa ci ha fatto comprendere meglio il segreto più bello, quello che accende e tiene in vita ogni vera speranza: c’è un’intelligenza buona dentro il grembo di ogni cosa, c’è una luce possibile dentro ogni vicenda. Per coglierla, o semplicemente intuirla, è necessario però sempre un «anticipo di simpatia». Perché l’uomo, in qualsiasi caos abiti, è prima di tutto una creatura che comincia e ricomin-cia per amore, anche quando meno se lo meriterebbe (e, anzi, è allora che ne ha più bisogno).A Benedetto XVI un grazie che si fa preghiera. Preghiera che in queste ore sale anche dal ventre delle galere: per essere stato voce dell’Eterno tra questi ultimi, aiutandoli a immaginare la bellezza e la vera giustizia del Giudizio finale, ad aggrapparsi a all’accoglienza amica di colui che è stato carcerato. Un grazie a un Papa al quale dietro le sbarre più d’uno ha aggiunto, come povero dono, un accento. Perché l’ha sentito Papà, per davvero.

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24 febbraio“Pregherò per l’Italia”

L’incontro con Napolitanodi Mimmo Muolo

«Pregherò per l’Italia». A un Giorgio Napolitano particolarmente commosso Benedetto XVI consegna questa promessa che è più

di una certezza. Anche dopo il 28 febbraio il Papa continuerà a sostenere spiritualmente la nazione nella quale (dopo la Germania) ha trascorso il maggior numero di anni della sua vita. E le preghiere, deve aver pensato il presidente della Repubblica, sono particolarmente gradite. Specie «in questi giorni e in questo tempo di scelte impegnative», come afferma un comunicato diffuso dalla Sala Stampa al termine dell’udienza privata di ieri in Vaticano.

La mezz’ora di colloquio è stata segnata da grande affetto reciproco e dalla commozione che ha preso anche la signora Clio, pure in questa oc-casione al fianco di suo marito, e che ha suggellato un rapporto all’inizio solo istituzionale – tra il Papa e il presidente – poi via via evolutosi in amicizia anche personale, come testimonia ad esempio la foto del 4 feb-braio scorso (penultimo incontro tra i due) con il Pontefice che appoggia la mano sulla spalla del capo dello Stato italiano, in un gesto sicuramente non protocollare.Sulla stessa linea l’atmosfera di ieri. «Signor presidente, ha trovato il tempo di venire a salutarmi», ha detto il Papa, ricevendo il suo ospite. «No, è lei che mi ha dato l’opportunità di rivederla», ha risposto Na-politano, aggiungendo: «So che sono giorni difficili». Uno scambio di

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battute che ha introdotto quello che il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha definito «un bel momento» e che è stato «particolarmente intenso e cordiale, data la grande stima reciproca e la ormai lunga fami-liarità dei due illustri interlocutori», come ha confermato la nota distribu-ita dalla Sala stampa vaticana a fine mattinata.«Il presidente Napolitano - prosegue il comunicato - ha manifestato al Papa non solo la gratitudine del popolo italiano per la sua vicinanza in tanti momenti cruciali e per il suo altissimo magistero religioso e mo-rale, ma anche l’affetto con cui esso continuerà ad accompagnarlo nei prossimi anni». E il Papa «ha ancora una volta espresso al presidente e alla signora la gratitudine per la loro amicizia e i migliori auspici per il bene dell’Italia, in particolare in questi giorni e in questo tempo di scelte impegnative».

Da parte sua il sito internet del Quirinale sottolinea: «Il colloquio ha offerto una nuova occasione di dialogo sulle grandi questioni dell’Ita-lia e del mondo. Il Pontefice ha mostrato interesse per i risultati della recente visita del presidente Napolitano negli Usa e curiosità e piacere per il prossimo viaggio del capo dello Stato in Germania che comincerà proprio da Monaco», la città dove Joseph Ratzinger è stato vescovo. «Il ricordo umano dei tanti momenti di incontro con il Pontefice nel corso del settennato del presidente Napolitano – aggiunge la nota – si è intrec-ciato con la riflessione su momenti istituzionali particolarmente signi-ficativi come quelli in occasione del 150° dell’Unità d’Italia». Anche il Quirinale mette l’accento sulla dimensione umana dell’incontro, «segna-to dalla forte emozione per la “straordinaria dimensione e novità” della scelta compiuta dal Pontefice».Insieme al suo affetto il capo dello Stato ha portato in dono al Papa una prima edizione definitiva dei Promessi Sposi, datata 1840, ricevendo dal Pontefice una stampa della Basilica in costruzione. Era stato lo stesso Napolitano a chiedere l’incontro. Come del resto aveva fatto il presidente del Consiglio, Mario Monti, ricevuto sabato 16 febbraio.

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Tra il Papa e Napolitanosintonia anche musicale

di Marco Roncalli

È l’ultimo presidente della Repubblica che Benedetto XVI vedrà nell’arco del suo pontificato. L’incontro di ieri mattina tra il Pon-

tefice, in procinto di rinunciare al ministero petrino e Giorgio Napoli-tano, vicino al compimento del suo settennato presidenziale, segna un momento di grande rilievo. Una sorta di conferma simbolica e visibile della profondità del rapporto tra la Chiesa cattolica e la nazione italiana. Ricordi umani e istituzionali costituiscono l’ideale “quinta” al dialogo che, iniziato quasi sette anni fa, è proseguito – nella totale estraneità ad atteggiamenti di contesa – nel segno di una sintonia di valutazioni, specie sui grandi temi internazionali come la pace e gli equilibri geopolitici, ma anche il dibattito sulla laicità e l’identità dell’Europa. Tutto questo nella comune consapevolezza di dover governare realtà complesse, in un pe-riodo di crisi difficili, ma verso il traguardo del bene comune, senza voler dimenticare, beninteso, la distinzione tra sfera religiosa e civile, come pure la grande differenza di responsabilità tra l’essere alla guida della Chiesa universale o al vertice delle nostre istituzioni repubblicane.

Era il 20 novembre 2006 quando Giorgio Napolitano, neoeletto presiden-te, fece la sua prima visita a Benedetto XVI che, dopo la sua elezione a Pontefice il 19 aprile 2005, aveva già incontrato due volte il presidente Carlo Azeglio Ciampi (in Vaticano il 3 maggio e al Quirinale il 24 giu-gno). L’incontro in Vaticano di Napolitano con Ratzinger segnava anche la prima visita ufficiale al Papa da parte del primo Capo di Stato prove-niente dalla storia del Partito comunista italiano. Da allora un crescen-

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do di incontri e messaggi fra le due sponde del Tevere, registrati dalle agende ufficiali, ai quali aggiungere, oltre ad almeno un appuntamento vanamente destinato a restare segreto, le telefonate, gli auguri, le dichia-razioni cordiali in diverse ricorrenze, specie al rientro dai viaggi aposto-lici. Né sorprende – insieme a questi incontri – la ricchezza dell’elemento unitivo musicale, dono reciproco quasi ad esprimere il senso della vita e il richiamo alla trascendenza. Così, ad esempio, nell’aprile 2008 il presi-dente della Repubblica offrì un concerto a papa Ratzinger per il terzo an-niversario del suo Pontificato e nello stesso anno il Papa, il 4 ottobre, salì al Quirinale, mentre il 10 dicembre entrò nell’Aula Paolo VI in Vaticano insieme a Napolitano per il concerto dei sessant’anni della Dichiarazione dei diritti umani. Cinque gli incontri a margine dei concerti – omaggi augurali per gli anniversari dell’elezione al Soglio pontificio – seguitisi ogni anno nelle scorse primavere sino al maggio 2012, ai quali aggiun-gere quello di Daniel Barenboim a Castel Gandolfo l’11 luglio scorso, seguito da una cena nella residenza papale, e quello del 4 di questo mese per l’ottantaquattresimo anniversario dei Patti Lateranensi. Richiamata la circostanza, in quest’occasione, Napolitano affermò: «...Altro, e ben di più, mi dice la memoria dei nostri incontri e colloqui, in molteplici occa-sioni, nel corso di questi sette difficili anni, difficili non solo per il mio Paese in un mondo sempre più interdipendente. Molto mi dice la memo-ria del nostro reciproco ascoltarci. Molto mi ha arricchito il dialogo che abbiamo potuto intrattenere: sull’Italia, sull’Europa, sulla pace e sulla stessa politica intesa come dimensione essenziale dell’agire umano, sulle radici ideali e morali dell’impegno politico». Pochi giorni dopo l’inattesa decisione della rinuncia del Pontefice, l’ha commentata come «un gesto di straordinario coraggio e di straordinario senso di responsabilità».

Oggi, voluto da Benedetto XVI, il commiato fra due uomini legati da af-finità umane e reciproco rispetto. Sfilano come in un album fotografico le sequenze di importanti incontri fra i predecessori dell’uno e dell’altro in Vaticano o al Quirinale: quelli già ricordati di Ciampi con papa Ratzinger

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e il coetaneo Giovanni Paolo II, che incontrò anche Scalfaro, Cossiga, Pertini, quelli di Leone e di Saragat con Paolo VI, quelli di Gronchi e Segni con Giovanni XXIII. Proprio il Papa del Concilio, l’11 maggio 1963, gravemente malato, salito al Quirinale per il Premio Balzan per la pace, salutò Antonio Segni, con queste parole – appena sussurrate – in-dicando al presidente la duplice destinazione del suo abbraccio: «A lei e all’Italia». Allora come oggi il saluto del Papa è stato per Napolitano, ma anche per quell’Italia, da lui rappresentata, fatta di credenti e di non credenti, eredi di quanti si sono impegnati prima nell’evento fondativo dello Stato uni-tario, poi nella carta costituzionale, che continuano a lavorare per la vera democrazia. Italiani che bene sanno quanto comunità politica e Chiesa siano indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo, eppure chiamate, anche se a titolo diverso, a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane (Gaudium et spes, 76), in una pa-rola alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene comune.

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La libertà dei cardinaliper il bene della Chiesa

di Gianni Cardinale

La Santa Sede ha lanciato sabato 23 febbraio un severo richiamo con-tro ogni tentativo di condizionare dall’esterno, con pressioni me-

diatiche, il libero discernimento dei cardinali nell’eleggere il Papa. Lo ha fatto con un comunicato della segreteria di Stato emanato dalla Sala Stampa e pubblicato in prima pagina dall’Osservatore Romano. «La li-bertà del collegio cardinalizio, al quale spetta di provvedere, a norma del diritto, all’elezione del Romano Pontefice, – ribadisce la nota – è sempre stata strenuamente difesa dalla Santa Sede, quale garanzia di una scelta che fosse basata su valutazioni rivolte unicamente al bene della Chiesa». «Nel corso dei secoli – rammenta il comunicato – i cardinali hanno dovu-to far fronte a molteplici forme di pressione, esercitate sui singoli elettori e sullo stesso collegio, che avevano come fine quello di condizionarne le decisioni, piegandole a logiche di tipo politico o mondano». In passato – ricorda la segreteria di Stato – «sono state le cosiddette potenze, cioè gli Stati, a cercare di far valere il proprio condizionamento nell’elezione del Papa». Il pensiero corre a centodieci anni fa, quando si verificò l’ulti-mo clamoroso veto opposto da una potenza cattolica, quello dell’impero asburgico – tramite il cardinale di Cracovia Jan Puzyna – contro il car-dinale Mariano Rampolla del Tindaro nel Conclave del 1903 che elesse san Pio X. Ma adesso a preoccupare le autorità vaticane è un altro tipo di interferenza, più sottile ma non meno invadente. Infatti «oggi – sottolinea la nota – si tenta di mettere in gioco il peso dell’opinione pubblica, spesso sulla base di valutazioni che non colgono l’aspetto tipicamente spirituale del momento che la Chiesa sta vivendo». Ecco così l’affondo della se-

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greteria di Stato contro un certo modo di interpretare la deontologia gior-nalistica. «È deplorevole – commenta duramente il comunicato – che, con l’approssimarsi del tempo in cui avrà inizio il conclave e i cardinali elettori saranno tenuti, in coscienza e davanti a Dio, ad esprimere in piena libertà la propria scelta, si moltiplichi la diffusione di notizie spesso non verificate, o non verificabili, o addirittura false, anche con grave danno di persone e istituzioni». La nota non fa riferimenti specifici ma la sua pubblicazione avviene dopo improprie pressioni sul cardinale Roger Ma-hony affinché non partecipi al conclave, dopo alcuni articoli scandalistici di una importante testata italiana che ha avuto un’ampia circolazione sul-la stampa internazionale, e dopo interpretazioni forzate e «sconcertanti» riguardo ad alcune nomine di questi ultimi giorni. La nota della segreteria di Stato è rivolta a tutti, ma l’ultimo paragrafo è dedicato particolarmente a chi appartiene alla Chiesa. «Mai come in questi momenti – si legge nel finale del comunicato – i cattolici si concentrano su ciò che è essenziale: pregano per papa Benedetto, pregano affinché lo Spirito Santo illumini il collegio dei cardinali, pregano per il futuro pontefice, fiduciosi che le sorti della barca di Pietro sono nelle mani di Dio».Sul modo con cui certa stampa sta seguendo gli ultimi eventi vaticani è intervenuto ieri anche il direttore della Sala Stampa vaticana padre Fede-rico Lombardi, che ha criticato «chi cerca di approfittare del momento di sorpresa e di disorientamento degli spiriti deboli per seminare confusione e gettare discredito sulla Chiesa e sul suo governo, ricorrendo a strumenti antichi – come la maldicenza, la disinformazione, talvolta la stessa ca-lunnia – o esercitando pressioni inaccettabili per condizionare l’esercizio del dovere di voto da parte dell’uno o dell’altro membro del collegio dei cardinali, ritenuto sgradito per una ragione o per l’altra».

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Quell’oscurità e la mano che ci salvadi Marina Corradi

«Notizie spesso non verificate, o non verificabili, o addirittura fal-se». Il comunicato della Segretaria di Stato vaticana non usa giri

di parole. Nel momento in cui i cardinali si preparano a scegliere un Pon-tefice in coscienza e libertà, è in atto, si afferma, un tentativo di influen-zare questa scelta. Un tempo erano i re e gli imperatori, che cercavano di piegare a logiche politiche o mondane l’elezione di un Papa. Oggi quella pressione è nelle parole, nei titoli, nelle suggestioni «non verificate o non verificabili o false», che mirano a condizionare l’opinione pubblica. L’ul-timo impera-tore che preme sulle porte del Conclave è un “media system” in parte incline ad attingere alla rinuncia di Benedetto XVI per disegnare scenari cupi dove ambizioni e gelosie e peccati degli uomini di Chiesa si mescolano, in foschi grovigli alla Dan Brown. Dove però tutto è un “si dice”, un “si sussurra”, e le fonti, naturalmente, rigorosamente anonime. Una legge di vecchio giornalismo vorrebbe che con le fonti anonime si andasse cauti, ma è norma evidentemente obsoleta, in un’informazio-ne che sembra invidiare alla fiction la libertà di una voluttuosa fantasia, e pare ormai convinta che oggigiorno, con la nuda e rigorosa cronaca, mica si vendono, i giornali. Se si scrivesse di uno Stato straniero o di una multinazionale si sarebbe forse più prudenti, ma parlando di Chiesa non ci si aspettano querele. Il bersaglio quindi è grande, e inerme. Così non pochi di noi credenti in questi giorni abbiamo addosso, oltre all’addio di Benedetto XVI, questa nuvola oscura dei si dice, dei si sussurra, questo ribollire di sospetti e maldicenze a cui pure forse si mescola del vero: ma nessuno sa dire esattamente quanto, e cosa, e chi. (La macchina del fango poi, questo lo si sa bene, anche quando si ferma non lascia niente uguale

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a prima). Come si affronta il fango, quando tocca qualcosa che per noi è fondante e caro? Nel ringraziamento alla Curia romana dopo gli esercizi spirituali il Papa sembra aver voluto parlare proprio a noi, ai confusi, agli smarriti. Là dove dice che la bellezza del Creato, di cui Dio al sesto gior-no si compiace, è «permanentemente contraddetta, in questo mondo, dal male, dalla sofferenza, dalla corruzione. E sembra quasi che il maligno voglia permanentemente sporcare la creazione, per contraddire Dio e per rendere irriconoscibile la sua verità e la sua bellezza». Qualche collega magari leggerà in questa parole un’ulteriore prova della “sporcizia” del Vaticano. A noi invece sembra che qui il Papa parli proprio dell’uomo. Di tutti, di giornalisti e di lettori, di religiosi, sacerdoti e porporati, e laici e non credenti, e anche di chi, a turno nella storia, si alza a dichiarare fiero le sue “mani pulite”. Dal male di cui parla Benedetto nessuno è salvo, in quanto uomo, e quindi toccato da una radice antica. Allora, dobbiamo disperare? No, dice il Papa. In un mondo pure così marcato dal male Dio si è fatto, in Cristo, «caput cruentatum», capo insanguinato dalle spine, sulla Croce. E forse molti oggi non capiscono più nemmeno cosa sia, la Croce e la morte di Cristo, né la Risurrezione, e credono che gli uomini possano salvarsi da soli, con la propria capacità, intelligenza, onestà. No, dice il Papa: solo Cristo basta a liberarci dal nostro profondo, radicale, comune male. E qualcuno oggi, chissà, titolerà sul Male che s’insinua nei palazzi vaticani. Noi però teniamoci caro ciò che dice Benedetto: «Credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così, nel silenzio, ascoltare la Parola». L’oscurità del mondo c’è, ed è densa, caligine di nebbia che nasconde e dispera; e però lascia sempre uno spiraglio, per chi stia teso e attento, in cui si scorge il Logos, che è Ragione ma, anche, ha ricordato il Papa, Bellezza. Quale bellezza? Quel-la bellezza che riconosciamo negli occhi dei nostri figli bambini, o in un cielo, o nel creato; e ci fermiamo un istante allora, meravigliati, zitti. Come credendo di avere scorto, per un momento, nel mondo, la traccia di un’altra mano.

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26 febbraio“Sul monte della preghiera”

Sempre insiemedi Salvatore Mazza

È il tempo del congedo. Perché «oggi il Signore mi chiama a “salire sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla medita-

zione». Una chiamata precisa, che tuttavia «non significa abbandonare la Chiesa», ma, anzi, il contrario, perché «se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui l’ho fatto fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze». Per l’ultima volta prima dell’annunciata rinuncia al ministero petrino, che scatterà il prossimo 28 febbraio alle 20, Benedetto XVI domenica scorsa s’è affacciato alla finestra del suo studio privato, a guidare per l’ultima volta la recita dell’Angelus. E con quelle parole sem-plici, lineari, ha ribadito il perché della sua decisione, maturata per amore della Chiesa. Riservando ai saluti finali, di fronte alle migliaia di persone - oltre 100mila, come avrebbe detto più tardi padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana - che riempivano piazza San Pietro fin quasi a metà di via della Conciliazione, la sua gratitudine ai fedeli, che avevano voluto essere presenti accanto a lui quel giorno: «Vi ringrazio per l’affetto e la condivisione, specialmente nella preghiera, di questo momento particolare per la mia persona e per la Chiesa». Affacciato su una piazza piena di striscioni e bandiere, continuamente interrotto dagli applausi dei presenti e con molte improvvisazioni a braccio, proprio in ri-sposta al calore manifestatogli dalla folla, papa Ratzinger ha preso spun-to per il suo congedo dal racconto della Trasfigurazione, proposto dal

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Vangelo della seconda domenica di Quaresima, con la quale «il Signore, che poco prima aveva preannunciato la sua morte e risurrezione offre ai discepoli un anticipo della sua gloria». Anche nella Trasfigurazione, ha osservato papa Ratzinger, «come nel Battesimo, risuona la voce del Padre celeste: “Questi è il figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”. La presenza poi di Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti dell’antica Alleanza, è quanto mai significativa: tutta la storia dell’Alleanza è orien-tata a Lui, il Cristo, che compie un nuovo “esodo”, non verso la terra promessa come al tempo di Mosè, ma verso il Cielo». In questo racconto, ha aggiunto, «l’intervento di Pietro: “Maestro, è bello per noi essere qui”, rappresenta il tentativo impossibile di fermare tale esperienza mistica. Commenta sant’Agostino: “[Pietro]sul monte aveva Cristo come cibo dell’anima. Perché avrebbe dovuto scendere per tornare alle fatiche e ai dolori, mentre lassù era pieno di sentimenti di santo amore verso Dio e che gli ispiravano perciò una santa condotta?”». È «meditando questo brano del Vangelo», ha quindi spiegato Benedetto XVI, che possiamo trarne «un insegnamento molto importante». Il «primato della preghiera», innanzitutto, «senza la quale tutto l’impegno dell’apostolato e della carità si riduce ad attivismo». Così, infatti, «nella Quaresima impariamo a dare il giusto tempo alla preghiera, personale e comunitaria, che dà respiro alla nostra vita spirituale». Inoltre, ha aggiun-to, «la preghiera non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro, ma l’orazione riconduce al cammino, all’azione». E, citando il suo messaggio per la Quaresima di quest’anno, ha ribadito come «l’esistenza cristiana consiste in un conti-nuo salire il monte dell’incontro con Dio, per poi ridiscendere portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio». «Cari fratelli e sorelle – ha quindi concluso – questa Parola di Dio la sento in modo particolare rivolta a me, in questo momento della mia vita. Grazie! Il Signore mi chiama a “salire sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede

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questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedi-zione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze. Invochiamo l’intercessione della Vergine Maria: lei ci aiuti tutti a seguire sempre il Signore Gesù, nella preghiera e nella carità operosa».Lombardi, ha definito «un bel momento» e che è stato «particolarmente intenso e cordiale, data la grande stima reciproca e la ormai lunga fami-liarità dei due illustri interlocutori», come ha confermato la nota distribu-ita dalla Sala stampa vaticana a fine mattinata.«Il presidente Napolitano - prosegue il comunicato - ha manifestato al Papa non solo la gratitudine del popolo italiano per la sua vicinanza in tanti momenti cruciali e per il suo altissimo magistero religioso e mo-rale, ma anche l’affetto con cui esso continuerà ad accompagnarlo nei prossimi anni». E il Papa «ha ancora una volta espresso al presidente e alla signora la gratitudine per la loro amicizia e i migliori auspici per il bene dell’Italia, in particolare in questi giorni e in questo tempo di scelte impegnative».

Da parte sua il sito internet del Quirinale sottolinea: «Il colloquio ha offerto una nuova occasione di dialogo sulle grandi questioni dell’Ita-lia e del mondo. Il Pontefice ha mostrato interesse per i risultati della recente visita del presidente Napolitano negli Usa e curiosità e piacere per il prossimo viaggio del capo dello Stato in Germania che comincerà proprio da Monaco», la città dove Joseph Ratzinger è stato vescovo. «Il ricordo umano dei tanti momenti di incontro con il Pontefice nel corso del settennato del presidente Napolitano – aggiunge la nota – si è intrec-ciato con la riflessione su momenti istituzionali particolarmente signi-ficativi come quelli in occasione del 150° dell’Unità d’Italia». Anche il Quirinale mette l’accento sulla dimensione umana dell’incontro, «segna-to dalla forte emozione per la “straordinaria dimensione e novità” della scelta compiuta dal Pontefice».Insieme al suo affetto il capo dello Stato ha portato in dono al Papa una prima edizione definitiva dei Promessi

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Sposi, datata 1840, ricevendo dal Pontefice una stampa della Basilica in costruzione. Era stato lo stesso Napolitano a chiedere l’incontro. Come del resto aveva fatto il presidente del Consiglio, Mario Monti, ricevuto sabato 16 febbraio.

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L’affetto della piazzadi Pino Ciociola

Un papà, anziano, ha spinto la carrozzella di suo figlio gravemente disabile fino al cuore di piazza San Pietro. Si sono fermati un po’

prima del colonnato e della fontana del Bernini, quella di destra, quella più prossima al Palazzo Apostolico. A testa in sù, insieme, ascoltano le parole del Papa. Fra centomila persone e più. Poi, subito dopo la bene-dizione, s’accuccia di fronte a suo figlio che, con le mani, gli accarez-za come può, come riesce, i capelli. Commovente. Anche questo. Come l’intera mattinata dell’ultimo Angelus di Benedetto XVI. Del suo com-miato con la gente, cioè. Una festa, anche di colori e di mondo, eppure velata di malinconia.

Il meteo ha previsto nuvole e acqua sulla capitale per stamani. Sbagliava almeno quanto alla seconda. I primi fedeli arrivano alle otto, gli ultimi quando manca qualche minuto a mezzogiorno. Tanti vogliono esserci, salutarlo, ringraziarlo, fargli capire che a loro volta hanno capito le sue ragioni, il suo gesto, e gli restano al fianco, che non c’è più sbandamento e nemmeno paura. E la piazza della cristianità alle dieci è già piena per un quarto.I ragazzi ballano e cantano, chiunque scatta fotografie, sono in molti a pregare. Qualcuno mangia un panino, perché il viaggio è costato e «non posso proprio permettermi anche il ristorante». Una insegnante di un liceo a Trento racconta che «siamo partiti ieri sera, in pullman, ab-biamo impiegato sette ore e mezza, appena finirà l’Angelus ripartiremo subito, c’è tanta neve e domattina in molti abbiamo la prima ora di lezio-ne...». Una coppia napoletana che vive ad Empoli si è mossa in auto «alle quattro di stamattina, abbiamo incontrato una gran nevicata, venendo a

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Roma, ma non poteva fermarci». C’è gente dalla Polonia e dalla Baviera. Da Cuneo, Udine, Reggio Calabria.

Hanno preparato con cura mille striscioni, sventolano la bandiera del loro Paese (dal Brasile agli Stati Uniti...), spesso hanno il fazzoletto giallo e bianco al collo oppure legato alla borsa. Ci sono sacerdoti con le loro chitarre, uno, messicano, ha il sombrero in testa: «Benedetto è un grande Papa, un esempio per tutti». Gli scout, specie i più piccoli, aspettano sor-ridendo con i loro fazzolettoni. Una signora sulla settantina è venuta dalla Spagna col braccio ingessato fino alla spalla, con la schiena poggiata a una transenna e seduta a terra legge “El Pais”.Le parole che si leggono più diffusamente sono «Grazie» e «Viva il Papa». La suggestione quasi quasi diventa palpabile. Il colpo d’occhio che Ratzinger avrà affacciandosi sarà emozionante... Alle undici e cinquanta ci sono tutti. Fino oltre l’inizio di via della Conciliazione. Adesso la piazza è silenziosa, aspetta, sa che fra pochi minuti l’orologio della Storia scoccherà un’ora che resterà scritta.E alla fine tutto sarà filato liscio, senza alcun tipo di problema. Anche gra-zie al dispositivo di sicurezza delle grandi occasioni, con seicento uomini delle forze dell’ordine, gli uomini in borghese della Digos mischiati tra i fedeli e i tiratori scelti appostati sui tetti degli edifici intorno alla piazza.

E grazie al migliaio di persone messo in campo tra Protezione Civile, Ama, Polizia di Roma Capitale, personale Atac, Ares 118.Appena Benedetto XVI s’affaccia l’applauso esplode e sale dritto verso la sua finestra. Poi lo si ascolta in silenzio, per interromperlo solamente con altri applausi. Tutti scattano un mare di fotografie, non importa che il Santo Padre sia lassù e troppo lontano per gli zoom dei cellulari. Dopo averlo salutato e mostratogli affetto, la gente vuole portare via con sé il ricordo del Papa che sta lasciando, è arrivata qui anche per questo. Vuole fissare nelle fotografie anche la commozione, anche la grande gioia vela-ta di piccola malinconia.Papa Ratzinger saluta e la finestra si chiude. Si riavvolgono gli striscioni, le bandiere. Si va via lentamente, con ordine, nuovo silenzio. Soltanto alcuni fra i più giovani restano ancora nella piazza. Cantano, ballano an-cora. E del resto lui l’ha appena detto: «Non abbandono la Chiesa».

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Con lui nella trincea della preghieradi Gloria Riva

Sono uscita all’alba nel parco del nostro monastero, in cuore avevo le parole dell’Angelus del Papa: vado sul monte, non abbandono, con-

tinuerò il mio compito di pastore nella preghiera. Parole folgoranti per il mio quotidiano. Anch’io sono sul monte e vivo una vita di preghiera. Pre-ghiera che non è rifugio, ma presenza davanti alla Presenza, lotta, amore, silenzio. Spazio di profondità del cuore. I passi che mi separano dal parco sembrano eterni dentro il flusso dei pensieri. «Prego per l’Italia», ha detto il Papa a Napolitano: il mio Paese, amato e tormentato, incapace di de-collare eppure mai sconfitto. Un Paese che è Mistero agli stessi italiani.Il parco bagnato dal chiarore del mattino, riluce di splendore. La neve è intatta, come un’anima vergine che attende l’incontro con Dio. Rileggo in essa le tante discese dentro il mio cuore: nelle orazioni serali, nelle lectio divine, nel canto dei salmi. Un’attesa di Dio, cercato in un gelo che sembra non finire mai. I miei passi affondano nella neve, la graffiano appena e mi duole rompere un silenzio così profondo. D’un tratto però scorgo delle orme freschissime: sono tracce di capriolo. D’improvviso il parco non è più teatro di solitudine, è colmo di questa presenza, invisibile ma certa. Con trepidazione seguo le orme, i miei passi si fanno più decisi e insieme cauti nel desiderio di scorgere il miracolo di quel capriolo, sce-so a valle in cerca di cibo.

Ecco a quale preghiera allude il Papa: vedere una Presenza dove altri non vedono che neve e deserto; avvertire l’urgenza di tacere per fissare lo sguardo su quelle tracce, invisibili ai più ma chiare ai vigilanti. Il Santo Padre vede le tracce di quel Capriolo, di quell’Agnello ritto e Immolato

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che tiene nella sua mano i sigilli della storia. Cristo è l’unico che può aiutarci a comprendere noi stessi, nel caotico vociare che confonde animi e sguardi. La Chiesa non può essere solo la Croce Rossa dell’umanità, la diplomazia efficace che pesa atti di pace fra i popoli. La Chiesa, come scrisse Eliot, è la Straniera, Colei che vede e sa. Il “vedere della preghie-ra”, dunque, non è quiete né fuga, dalla trincea. Al contrario è intercede-re, stare tra chi si ama e il nemico, accettare su di sé i colpi prima di altri, per segnalare il pericolo imminente.Siedo sul muretto che separa il sentiero dal resto del parco. Qui più facil-mente posso osservare le tracce. Avverto la stanchezza della corsa nella neve alta e mi ricordo solo ora del libro che ho in mano: Etty Hillesum, Diario. Lo sguardo cade su un passo che diventa eco profonda dei miei pensieri: «Credo di poter sopportare e accettare ogni cosa di questa vita e di questo tempo. E quando la burrasca sarà troppo forte e non saprò più come uscirne, mi rimarranno sempre due mani giunte e un ginocchio piegato».

Non è vero che solo chi ha fede, solo chi vive una sorta di pauperismo del cuore per cui la gravità della vita sembra insopportabile, può scegliere la via della preghiera. Etty non era né tra gli uni né tra gli altri. Ebrea, agnostica, scopre da un cristiano il mistero dello stare in ginocchio, come partecipazione radicale alla realtà, come giudizio critico sulla storia, e percepisce la preghiera come la più grande risorsa del cuore umano: «Di notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, […] me ne stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti, le fin troppe impres-sioni di un giorno fin troppo lungo e pensavo: “Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca”».Sì, il Santo Padre dice a noi contemplativi: è l’ora di essere il cuore pen-sante di questa baracca che è il mondo, sempre chiassoso, in lite, sempre vagabondo sotto la pressione dei suoi istinti, eppure bisognoso di salvez-za.Il suono della campana rompe il silenzio del bosco: è l’ora della preghie-

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ra. Mai rientro mi è risultato sì caro. Nella penombra del coro, risplende il Santissimo Sacramento. Mi inginocchio con tutte le altre, mentre ripenso alle orme di quel capriolo sulla neve. Eccola, davanti a me, la traccia eterna di cui parlava Peguy nel suo Ve-ronique! Il Papa l’ha messa a sigillo del suo Pontificato. Questa traccia eterna ci salverà e noi contemplativi dobbiamo indicarla agli uomini. Un giorno altri agnostici come Etty, o cristiani dal battesimo sgualci-to, ne avranno bisogno. Benedetto XVI, chiude il suo Pontificato con l’«enciclica» migliore: la sua vita che sale sul monte per continuare a lottare con la preghiera.

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«Nella Curia limiti e imperfezionima anche tanta generosità»

di Matteo Liut

L’indagine sulla fuga di notizie riservate svolta dalla Commissione cardinalizia composta dai cardinali Julián Herranz, Jozef Tomko e

Salvatore De Giorgi «ha consentito di rilevare, accanto a limiti e imper-fezioni propri della componente umana di ogni istituzione, la generosi-tà, rettitudine e dedizione di quanti lavorano nella Santa Sede a servizio della missione affidata da Cristo al Romano Pontefice». Lo sottolinea una nota diffusa ieri dalla Sala stampa vaticana dopo che in mattinata Benedetto XVI ha incontrato i tre porporati assieme al segretario della Commissione, padre Luigi Martignani. «A conclusione dell’incarico – si legge ancora nel documento diffuso dalla Sala stampa –, il Pontefice ha voluto ringraziarli per il proficuo lavoro svolto, esprimendo soddisfazio-ne per gli esiti dell’indagine». Esiti, inoltre, che non verranno divulgati perché, si legge ancora nella nota vaticana, il Papa «ha deciso che gli atti dell’indagine, del cui contenuto solo Sua Santità è a conoscenza, riman-gano a disposizione unicamente del nuovo Pontefice».

In seguito alla pubblicazione e alla diffusione da parte di alcuni media di notizie riservate riguardanti il Papa e la Santa Sede, a metà marzo 2012 era stata annunciata l’istituzione dell’organo d’indagine. A darne noti-zia era stato il sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Angelo Becciu, in un’intervista all’Osservatore Romano. In quell’occasione il presule aveva reso noto anche l’avvio di un’inchiesta a livello penale condotta dal promotore di giustizia del Tribunale vaticano e, a livello amministrativo, dalla stessa Segreteria di Stato. La Commissione cardi-

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nalizia, presieduta da Herranz, si era poi insediata il 24 aprile successivo. Le indagini hanno portato all’arresto e al successivo processo a carico dell’aiutante di camera del Papa, Paolo Gabriele. La Commissione, che nel frattempo ha continuato il suo lavoro in parallelo a quello dei giudici vaticani, ha consegnato un rapporto conclusivo alla fine di luglio 2012. In agosto, poi, nell’ambito dell’indagine penale, sono stati rinviati a giu-dizio Paolo Gabriele e il tecnico informatico Claudio Sciarpelletti. Per il primo, cui il Papa ha concesso la grazia, la condanna è arrivata il 6 otto-bre 2012 mentre il tecnico è stato condannato il 10 novembre successivo. I tre cardinali, poi, hanno proseguito i lavori d’indagine e, lo scorso 18 dicembre, sono stati ricevuti in udienza da Benedetto XVI, che ha sem-pre seguito da vicino – anche attraverso incontri con i cardinali – i lavori della Commissione. L’ultima udienza, quindi, si è svolta ieri in occasione della conclusione dell’incarico affidato ai tre porporati e durato in defini-tiva circa 10 mesi.

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27 febbraioLo sguardo va oltre

Benedetto XVI sarà Papa emeritodi Mimmo Muolo

Continuerà a chiamarsi Sua Santità Benedetto XVI. E dopo una con-sultazione con gli esperti è stato stabilito che sarà «Papa emerito»

o «Romano Pontefice emerito». Anche la veste rimarrà bianca, ma sarà una semplice talare di colore candido, senza mozzetta. E l’anello del pe-scatore, così come il sigillo, verrà annullato. Il Papa metterà al dito un altro anello. Quanto poi alle scarpe saranno marroni e non più rosse. In Vaticano si mettono a punto gli ultimi dettagli prima che, alle 20 di do-mani, inizi la Sede vacante. Ieri papa Ratzinger, come è sua consuetudine il martedì, non ha avuto udienze pubbliche, dedicando la giornata alla preghiera, a preparare l’udienza generale odierna (l’ultima del suo ponti-ficato e si prevede grande partecipazione dei fedeli in Piazza San Pietro) e a finire di riordinare i propri documenti. «Quelli che attengono al suo ministero petrino o al periodo in cui era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede – ha detto ieri il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi – andranno nei rispettivi archivi. Gli appunti e gli scritti perso-nali di Joseph Ratzinger lo seguiranno nella sua nuova dimora».

Il direttore della Sala Stampa Vaticana ha fatto il punto nell’ormai quo-tidiano incontro di fine mattinata con i giornalisti accreditati. C’è attesa, naturalmente, anche per le decisioni del sacro collegio in merito all’inizio del Conclave. «Il 1° marzo – ha spiegato Lombardi – il cardinale decano invierà ufficialmente le lettere di convocazione ai cardinali. È verosimile

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dunque che le Congregazioni generali non vengano convocate il sabato e la domenica, ma che comincino il più presto possibile». Perciò da lunedì prossimo ogni giorno è buono. Nelle Congregazioni generali, che si ter-ranno nell’Aula Nuova del Sinodo e che potranno svolgersi sia di mattina che di pomeriggio, verrà decisa la data d’inizio del Conclave. I porporati elettori, ha aggiunto il portavoce, «non abiteranno subito a Santa Marta, anche perché ora ci sono alcuni lavori di riadattamento delle stanze, che come stabilisce la Universi Dominici Gregis verranno sorteggiate duran-te le Congregazioni dei cardinali. Nell’imminenza del Conclave, ogni cardinale si trasferirà nella sua».Intanto continuano a giungere a Benedetto XVI «moltissimi messaggi da ogni parte del mondo, con l’espressione di sentimenti di gratitudine e di vicinanza, da parte di personalità anche di grande rilievo, come i capi di Stato». Lombardi, anzi, ha sottolineato a tal proposito il «clima di preghiera» con cui la Chiesa sta vivendo questi giorni. Un clima favorito anche dal «bel messaggio del cardinale segretario di Stato ai monasteri di vita contemplativa».

Il direttore della Sala Stampa vaticana ha anche riepilogato gli impegni di oggi e di domani per Papa Ratzinger. «Sono già 50mila i biglietti pre-notati per l’odierna udienza generale in Piazza San Pietro che avrà uno schema abituale. È previsto solo un giro un po’ più ampio tra la folla, a bordo della papamobile. Non ci sarà, inoltre, il baciamano finale, ma non per motivi di sicurezza, quanto per il fatto che il Pontefice non ha voluto escludere nessuno». Dopo l’udienza invece ci sarà il saluto con alcune autorità che hanno il rango di Capi di Stato, come il presidente della Slo-vacchia, i capitani di San Marino, il presidente della Baviera e il principe di Andorra. Domani, a partire delle 11, il Papa saluterà nella Sala Clementina i car-dinali presenti a Roma, che sono già in buon numero. Nel pomeriggio, stando al programma messo a punto dalla Prefettura della Casa Pontifi-cia, alle 16.55 il Papa partirà in auto dal Cortile di San Damaso, dove sa-

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luterà i superiori della Segreteria di Stato alla presenza del picchetto d’o-nore della Guardia Svizzera. All’eliporto riceverà il saluto del cardinale decano, mentre l’arrivo a Castel Gandolfo è previsto per le 17.15. Ad accogliere Benedetto XVI saranno tra gli altri il presidente e il segretario del Governatorato (cardinale Giuseppe Bertello e monsignor Giuseppe Sciacca) e il vescovo di Albano, monsignor Marcello Semeraro. Alle 17.30, il Papa si affaccerà dalla loggia centrale del palazzo apostolico per salutare i fedeli. Sarà la sua ultima uscita pubblica prima dell’inizio della Sede Vacante.

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Siamo per serviredi Gennaro Matino

Poche ore ancora e il Pontificato di Benedetto XVI chiuderà il suo cor-so. L’anello del pescatore verrà frantumato e la memoria dell’evento

lascerà carico di commozione il cuore di chi ha amato Joseph Ratzinger, e non solo. Provocherà riflessioni di senso anche in chi ha imparato a co-noscerlo nei suoi ultimi giorni di pastore della Chiesa universale, in chi, benché lontano dalle sue parole per diversa sensibilità, non ha potuto che apprezzare il coraggio profetico di un vecchio Papa che ha trasformato il tempo di una rinuncia, dolorosa e sofferta, in un potente grido di futuro, carico di responsabilità e impegno per tutta la Chiesa. Grido potente di speranza, impastato di verità evangelica.

Dall’11 febbraio, dopo la prima scossa emozionale, quasi una perdita di orientamento, giorno dopo giorno sembra emergere nella Chiesa sempre più chiara la consapevolezza di una precisa e strutturata volontà di Be-nedetto di accompagnare la sua uscita, di voler raccontare senza enfasi il suo percorso e consegnarsi al giudizio di Dio e degli uomini nella verità che rende liberi. La consegna di un Papa che, non senza motivazioni, cer-ca – nei segni e nelle parole – di congedarsi senza clamore, benché il suo gesto resti naturalmente senza enfasi, come lo stile di tutto il pontificato. Le ultime omelie e le espressioni a braccio possono ben definirsi una “catechesi del congedo”, e forse nel tempo qualcuno potrebbe ritrovare tra le righe l’ultima enciclica che per impeto e affetto potremmo intitola-re: Sumus ad servandum, rievocando le parole pronunciate domenica da Benedetto nell’ultimo Angelus a piazza San Pietro.Carezze di profondo significato le sue parole vestite di sobrietà, capa-

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ci di trapassare il luogo dell’apparenza e comunicare una forza inaudita nonostante il Papa stesso confessi la sua mancanza di vigore. Una nuova luce circonda la sua persona, mai come in questi giorni luminosa, che trasmette serenità e pace. Gesti e parola di consegna passati con la cer-tezza che faranno il loro corso nella nostra storia individuale, affidati alla riflessione della Chiesa che non potrà che farne tesoro per ripartire da dove Benedetto si congeda. Un testamento, le sue ultime parole, che trac-ciano un confine tra il prima e dopo e indicano un percorso: la preghiera, la vocazione, la gratitudine, l’abbandono a Cristo che guida la sua barca.

Non è possibile organizzare il tempo della comunità cristiana senza un recupero della sua ascesi credente, la preghiera come spazio di fede e come offerta di nuova sostanza di appartenenza. La vocazione è memoria di un incontro, rimando al primo “sì” dato al Maestro di Galilea, che ogni credente deve tenere sempre presente, che deve tener presente la Chiesa per dare risposta alla sua stessa vita. Come non vivere la fede e la sto-ria con gratitudine, originando uno stile rivoluzionario di vita che nella Chiesa offra al mondo la sua testimonianza di impegno alla gioia.Il tempo ci dirà quanto di ciò che ci sta consegnando in questi giorni Benedetto resterà, in un’epoca capace di emozionarsi velocemente e ve-locemente dimenticare. La storia futura di sicuro non dimenticherà Be-nedetto, non dimenticherà che un uomo, il successore di Pietro, ha avuto il coraggio della profezia, mentre parole di fumo avanzano nel consesso degli uomini. Domani sera il Santo Padre lascerà il pontificato, e si comincerà a parlare del dopo Ratzinger. Nel frattempo, c’è ancora spazio per raccogliere la sua testimonianza e fare tesoro di tanta ricchezza. Nel frattempo, il suc-cessore di Pietro, Vicario di Cristo, è Benedetto XVI, e chi ascolta lui ascolta il Maestro di Galilea: dopo ci attrezzeremo al dopo, ora è tempo di godere – e soffrire – il presente che ci è concesso.

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28 febbraio“La croce e voi, per sempre”

L’abbraccio commosso della piazzadi Pino Ciociola

Tutto dentro gli occhi. Quelli della gente in piazza San Pietro e in via della Conciliazione. Tutto davvero: la moltitudine e l’amore, le

speranze e la riconoscenza, «la soddisfazione e la serenità», il calore e i colori di una piazza vestitasi a festa per lui. Un’ultima volta che sarebbe uguale anche fosse stata una prima. Affettuosa e solenne.Il sole alle dieci e mezza tratteggia chiaroscuri sulle colonne del Bernini e accende, letteralmente, la facciata della Basilica. C’è suggestione ne-gli occhi della gente, dei bambini, di anziani e disabili, di mamme con figli piccoli, di sacerdoti giovanissimi e suorine, camminando fra mille pelli diverse e diversamente colorate come le bandiere. E tra i sorrisi s’incontra anche qualche lacrima, senza capire se sia gioia o dispiacere o entrambi. «L’incredibile libertà di un uomo afferrato da Cristo» è scritto su un lungo striscione. E «Santo Padre ti vogliamo bene, prega per noi», su un altro. «Ci mancherai!», su un altro ancora che ha disegnata una “faccina” triste.

I primi sono entrati nella piazza quando il cielo era ancora illividito dall’alba e dal freddo, gli ultimi intorno alle dieci, tutti pazientemente in fila per attraversare i controlli meticolosi di Polizia e Carabinieri, rispon-dendo alle domande degli oltre tremilacinquecento giornalisti accreditati per l’udienza che chiude il pontificato di Benedetto XVI e arrivati da tutto il mondo.

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È diverso da domenica scorsa, dall’ultimo Angelus. Non c’è stamane, prima, un silenzio melanconico. E la gioia per il Papa non è quasi costret-ta a non apparire troppo, perché sembrerebbe stridere con la sua rinuncia a continuare il ministero petrino. «Ci ha indicato soprattutto la presenza di Gesù nella vita di tutti i giorni», spiega Maria, milanese quarantaquat-trenne che, col marito, ha viaggiato in treno l’intera notte. Ci sono pal-loncini nella piazza. Ci sono bande musicali, compresa quella bavarese. Tanti «Grazie!» come ce n’erano domenica mattina e davvero tanti «Ti vogliamo bene». Un grande «Tu sei Pietro e noi giovani ti amiamo».Spiccano tre, quattro bandiere rosse con le cinque stelle della Cina e forse è la prima volta che si vedono sventolare qui. C’è una coppia musulmana. Tre suore che tengono ben tesa una sciarpa rossa, nera e gialla di «Timor Est». Ci sono molte mamme col pancione. C’è Eva, tedesca di un paesino vicino Colonia, che ha gli occhi blu profondo e probabilmente è la più piccola della piazza: ha un mese e mezzo e il ciuccio in bocca nella sua carrozzina.

Ci sono famiglie italiane e immigrate, volontari e disabili delle associa-zioni: «Per dirgli grazie dei suoi sette anni di pontificato al costante ser-vizio della Chiesa con una straordinaria umiltà. Per ribadire che siamo tutti all’unisono con il Santo Padre», avevano fatto sapere insieme le Acli di Roma, le Acli del Lazio, il Centro italiano di solidarietà di don Mario Picchi, il Banco farmaceutico-Roma e l’Unitalsi. Tanti bavaresi indossano il loro costume tipico, come pure le donne messicane di Leon e tanti scozzesi in kilt. I romani del don Orione innalzano uno striscione: «Il Papa è er core de sta città».Quando s’intravede uscire la Papamobile ci sono oltre centocinquanta-mila persone e l’applauso che esplode è immenso. Urlano «Be-ne-det-to-Be-ne-det-to». Si emozionano aspettando passi loro vicino. E forse questo è più un saluto festoso della gente al Padre che viceversa. Poi lui parla, fa il suo discorso che suona dolce e personale e la gente alla fine lo applaude due lunghi minuti, sventolando bandiere, scandendo di nuovo

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quel «Be-ne-det-to-Be-ne-det-to», battendogli le mani. Nei maxischermi lo si vede bene sorridere. Contento: «Penso che dobbiamo ringraziare an-che il Creatore per il tempo bello che ci dona nell’inverno», aveva detto.Infine arriva il momento del commiato, vero, definitivo. Ecco, forse ora, forse subito dopo la benedizione di Joseph Ratzinger, per qualche istante è la commozione a coprire gli altri sentimenti. Ma solo qualche istante. Perché non ci si saluta con tristezza, lo aveva appena spiegato il Papa per primo. Allora nuovi applausi, nuovo sventolio di bandiere, nuovo strari-pante affetto fino alla fine, finché non rientra in Vaticano nuovamente a bordo della Papamobile.

E la piazza pian piano si svuota. Ordinatamente. Senza fretta. A chiedere quali sono le sensazioni la risposta è quasi un coro: «Siamo soddisfatti e sereni». Perché – aggiungono – «ce l’ha detto ora: “Non abbandono la Croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore crocifisso”».

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La fedeltàdi Riccardo Maccioni

Quasi sempre un sorriso vale più di tante parole e c’è più affetto in una sola carezza che in mille discorsi. La sapienza dei semplici è fatta

di piccoli gesti, sa custodire i segreti di un animo ferito, non ha paura di dire a un amico, che sbaglia. Come una bussola che guarda sempre all’es-senziale, preferisce il silenzio alla popolarità di plastica, il linguaggio del cuore alle frasi forbite, la verità magari ruvida ai complimenti di facciata. Piange se necessario e, cosa molto più difficile, sa applaudire quando hai successo. È una vela capace di navigare nella bonaccia, l’abbraccio che consola chi si sente solo, la persona che ti resta accanto quando gli altri se ne sono andati e le tue certezze crollano come un fragile castello di carte.Uno scrigno di umanità, di vicinanza preziosa, che il Papa ha voluto ri-cordare durante l’udienza generale di ieri, l’ultima del suo pontificato. Oltre a quelle dei capi religiosi e di Stato, ha detto Benedetto XVI, «rice-vo moltissime lettere» da uomini e donne semplici. Persone che non scri-vono al «principe» o a un «grande» della terra ma all’uomo, al pastore, al vicario di Cristo. Nelle loro frasi, apparentemente banali, c’è tutta la grandezza dei piccoli del Vangelo, il legame che nasce dalla condivisio-ne, l’umiltà di chi cerca risposte nel cuore più che nella ragione. Scrivono come fratelli e sorelle o, se si preferisce, come figli e figlie. Uomini e donne che fanno parte di un’unica famiglia, riunita attorno allo stesso Signore, che cresce alla scuola della medesima Parola.

Perché la Chiesa non è un’organizzazione umanitaria, ma «un corpo vivo» dove il più grande sceglie di farsi servo e la ricchezza non è un insieme di beni materiali ma il coraggio di annullare se stessi per farsi

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abitare dall’eterno presente di Dio. Una comunità in cui tutti sono impor-tanti ma che privilegia gli ultimi, i più poveri, dove la lingua ufficiale è quella del silenzio alimentato dalla preghiera. «Sperimentare la Chiesa in questo modo – ha aggiunto ieri mattina il Papa – e poter quasi toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia».Bene, libertà, coraggio i suoi punti cardinali. Il bene che si impara alla scuola del Vangelo, la libertà dei figli di Dio, il coraggio di andare con-trocorrente. A ben vedere sono gli stessi criteri che hanno guidato la ri-nuncia di Benedetto XVI.

Una scelta fatta per il bene della Chiesa, nella libertà di chi segue una co-scienza sempre orientata verso l’Assoluto, con il coraggio di restare sulla Croce ma in modo diverso, a rischio di non essere capito. Perché amare la Chiesa vuol dire anche avere la forza di fare scelte difficili e sofferte. Detto in altro modo, la fede è un dono infinitamente prezioso e uno riceve la vita proprio quando la dona. La nostra piccolezza, la nostra fragilità umana in fondo non sono nient’altro che un appello alla misericordia del Signore, il desiderio di imparare alla sua scuola la forza del perdono e della condivisione. Proprio come succede in famiglia, dove si corregge per amore e anche le parole più dure verso un figlio spesso nascondono in sé una benedizione. Ma per capirlo bisogna rinunciare ai titoli e alla gran-dezza, al prestigio apparente e alla ricchezza di facciata. Serve la sapien-za e la intatta fedeltà dei semplici, quella che alle belle parole preferisce i piccoli gesti purché autentici e alle frasi forbite il vocabolario del cuore.

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Conquistati di nuovodalla promessa antica

di Marina Corradi

«Non abbandono la Croce, ma resto in modo diverso presso il Si-gnore crocifisso». Un grande applauso, di tutti il più commosso,

riempie piazza San Pietro, a queste parole di Benedetto XVI.Non abbandono, ma resto, sotto alla Croce, accanto a voi. E la gente venuta da lontano, partita nella notte, stanca, infreddolita dall’alba inver-nale, ha da queste parole il cuore come colmato. Perché in fondo siamo venuti qui per questo: per sentirci dire che questo non è un addio, ma un rimanere assieme in un altro, e più profondo modo. Il modo della preghiera: che è invisibile, che per il mondo è solo pia intenzione, o non esiste. Ma la faccia di Benedetto XVI testimonia tutta un’altra certezza, granitica: «Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio». In un tempo dunque che non è il nostro, affannato, sfuggente, tempo che erode e corrompe, ma è tempo di Dio, in cui tutto è vivo, per sempre. E noi in piazza, e soprattutto i più anziani, confortati; portati dentro all’orizzonte infinito testimoniato dal Papa, pa-radossalmente, nel giorno in cui lascia il soglio di Pietro.

Cosa è successo, cosa sta accadendo, ci chiediamo fra noi; e com’è possi-bile che un addio si trasformi oggi, sotto a un cielo di un azzurro perfetto, invece, in una promessa? Stamattina si tocca con la mano come il ritirarsi del Papa sia iscritto dentro a un bene più grande; dentro alla libertà as-soluta che un uomo ha, nell’affidarsi totalmente a Dio. Benedetto XVI testimonia che la barca della Chiesa non è nemmeno del Papa, ma di Cristo: che non la lascia affondare. Solo dentro a questa libertà estrema

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è stato possibile che un uomo anziano, nel sentire le sue forze scemare, abbia chiesto a Dio «con insistenza» di fargli capire cosa doveva fare, per il bene della Chiesa. E infine abbia scelto, «con profonda serenità d’animo». Ma, andandosene, il Papa rimane dentro il «per sempre» di Pietro. Lo dice espressamente: la mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo «per sempre». Resta, spiega, «nel servizio della preghiera», nell’esempio di san Benedetto, che ha mostrato la via per una vita di totale appartenenza a Dio. E a noi qui in piazza, scaldati finalmente da un sole che si alza e sa di primavera, si allarga il cuore; è come se quella stretta di smarrimento e confusione che ci ha preso all’annuncio dell’11 febbraio, in queste parole e in questo sole si sciogliesse. Non è sconfitta o resa, quella di Benedetto XVI; è, nella lucide coscienza delle forze che vengono meno, un gettare il cuore audacemente, più in là.

Dentro a una ampia, pacificata fiducia che la mite voce di quest’uomo contagia: occorre «affidarci come bambini nelle braccia di Dio». Insom-ma tutto ciò che anche tra molti di noi credenti è, sì, speranza, ma non ancora certezza; desiderio, ma non ancora fede su cui giocarsi la vita, in Benedetto XVI ha invece subìto questa metamorfosi. L’acqua del pozzo della Samaritana in lui, realmente, è diventata acqua viva. E chi di noi era arrivato partecipe, ma dolente, e con affetto, ma come an-dando a un lutto, se ne esce dalla piazza come interiormente riedificato. Credevamo di venire per un addio, e invece quest’uomo ci ha mostrato che è possibile osare un abbandono totale. Che un vecchio, anche se è il Papa, può lasciare la gestione della Chiesa eppure restarle dentro, profon-damente, come un cuore pulsante. Benedetto XVI ha osato il salto asso-luto di cui è capace solo chi non dubita delle braccia di Dio. E noi venuti qui stamani, partiti nel fondo di una notte invernale, ce ne usciamo dalla piazza commossi e un po’ sbalorditi: un grande testimone ci ha credibil-mente detto che è vera, è tutta vera, la promessa antica.

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La rispostadi Salvatore Mazza

Dalle otto di questa sera, la Sede di Pietro sarà vacante. Secondo una modalità senza precedenti nei duemila anni di storia della Chiesa.

Il Papa rinuncia al ministero petrino senza, per questo, scendere dalla barca di Pietro. Perché il suo accettare «sempre» e «per sempre» la chia-mata rivoltagli dal Signore il 19 aprile del 2005, non è contraddetto dalla sua scelta. Perché «il “sempre” è anche un “per sempre”», e non c’è, da questo, ritorno a una vita “normale”. «Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di San Pietro».

Congedandosi ieri dai fedeli, nella sua ultima udienza generale, Benedet-to XVI ci ha fatto l’ultimo regalo di un altro, indimenticabile discorso. Intriso di commozione per il momento e di amore per la Chiesa, e di riconoscenza per quanto ricevuto. Un discorso semplice e, a un tempo, altissimo, per ringraziare di quanto gli è stato donato, e senza un cenno a quanto lui ha dato. Alla Chiesa, a tutti noi. A un mondo che ieri ha seguito il suo saluto in silenzio, trovando nelle sue parole pacate, quiete, serene, le risposte a tutti i “perché” – gli umanissimi, sgomenti perché? di chi il Papa lo ama, ma anche i perché, senza punto interrogativo, di chi ha preteso di spiegare le “dimissioni” in una logica mondana – che in questi giorni si sono affastellati l’uno sull’altro attorno alla rinuncia.Adesso capiamo, sappiamo. Da stasera, il Papa è nascosto “agli occhi del mondo”, ma non “nascosto al mondo”. C’è. Ci è vicino. Un distacco necessario, dopo che «in questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze

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erano diminuite», maturato nella preghiera «per farmi prendere la deci-sione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa». Fino a una scelta compiuta «nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo». Perché «amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi». Scelta grave, dunque. Stridente con un mondo che cerca disperatamente, quasi a tutti i costi, di vivere sotto i riflettori, e rispetto al quale Papa Benedetto ci ha mostrato l’imprescindibile valore dell’essere.

Un essere contrapposto a un apparire che, sempre più spesso, malinconi-camente, è solo un sembrare. Essere uomo di fede radicalmente, fino in fondo, senza compromessi. Testimoniando, ancora una volta, la coerenza con la sua idea di essere sacerdote, che non può, non deve coincidere mai, in nessun modo, con l’attaccamento a un ruolo o a una carriera, ma mini-stero, servizio, a ogni livello, in ogni momento, della Chiesa e alla Chie-sa. Chiesa che non è nostra, ma di Dio. C’è voluto un coraggio da leone, e una fede incrollabile, per fare quello che Papa Benedetto ha fatto. Non lo potremo mai ringraziare abbastanza, per questo e per come, da padre e da maestro, ce lo ha spiegato e sempre meglio fatto comprendere. E se, umanamente, non riusciamo a non sentirci un po’ tristi, anche questo, paradossalmente, fa parte di quella «gioia di essere cristiano» che Papa Benedetto, salutandoci, ci augurato di poter noi tutti, sempre, sentire.

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Un teologo, capace di farsi capiredi Salvatore Mazza

La capacità di rendere in parole semplici concetti complessi. E la pa-zienza di farlo, sempre. Per aiutare tutti a riflettere fornendo, ogni

volta, le chiavi giuste per farlo, rendendo immediatamente accessibili anche i “misteri” della teologia più elevata. Il Benedetto XVI catechista è stato, probabilmente, una delle prime scoperte di cui la Chiesa ha fatto esperienza dall’elezione di Joseph Ratzinger a successore di Pietro. Sco-perta del tutto inaspettata, almeno per i più, che probabilmente si aspet-tavano di doversi confrontare con le asperità teologiche di un professore chiuso nel recinto linguistico della sua accademia. Ma lui, il Papa, indi-scutibilmente uno dei massimi teologi contemporanei, dimostrando an-che in questo la sua grandezza e la sua umiltà, ha voluto e saputo mettere sempre la sua cultura a servizio di tutta la Chiesa, a partire da quelle «per-sone semplici che – come ha detto ieri parlando delle tante lettere che gli sono arrivate in queste ultime settimane – mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto». Come il suo ultimo discorso del mercoledì, ieri, ha una volta di più testimoniato, le udienze generali, di questa paziente determinazione a far comprendere come fa un padre affettuoso, piuttosto che spiegare come un professore, sono state lo spec-chio primo e più immediato. I suoi cicli di catechesi – dieci in otto anni, dal primo a concludere quello lasciato in sospeso da papa Wojtyla, fino all’ultimo, per l’Anno della fede, passando attraverso l’esperienza degli apostoli, i cristiani della Chiesa nascente, i Padri della Chiesa, san Pao-lo, le figure della Chiesa di Oriente e Occidente, l’Anno sacerdotale, le figure femminili, e i dottori della Chiesa – restano pagine indimenticabili e da rileggere continuamente, un vero tesoro di spiritualità di trasparen-

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te chiarezza. Ma lo stesso linguaggio lo si è visto, e ascoltato, nei suoi viaggi, dove proprio le sue parole sono state capaci di capovolgere ogni preconcetto. Indimenticabili, a questo riguardo, soprattutto le visite negli Stati Uniti, in Israele, e nel Regno Unito, ognuna delle tre - per ragio-ni diverse: l’indifferenza americana, l’ombra dell’Olocausto, la secola-rizzazione britannica – pronosticate come missione impossibile, si sono trasformate in altrettanti, indiscussi trionfi per la spinta irresistibile di un’opinione pubblica folgorata nel contatto diretto col Papa. Scoprendo, senza finalmente più nessuna mediazione, un Benedetto XVI diverso da come gli era stato raccontato fino a quel giorno, capace di parlare allo stesso tempo al cuore e all’intelligenza di ciascuno, direttamente.Tutto questo, come detto, per una voglia di “farsi capire” che, in Benedet-to XVI, nasce innanzitutto dalla passione per Cristo e per la sua Chiesa. Un amore traboccante, che sa farsi piccolo e umile per arrivare a toccare tutti. I tre libri su Gesù, in questo senso, ne sono l’ulteriore dimostrazio-ne. A partire da quella stupefacente chiosa nelle prefazione del primo: «Ognuno è libero di contraddirmi».

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Maestro in pedagogia della fededi Enrico Lenzi

Un grande teologo capace di diventare un ottimo catechista compren-sibile a tutti. Ecco l’immagine che Benedetto XVI lascia nelle ca-

techesi del mercoledì. «Un pedagogo della fede» commenta monsignor Guido Benzi, direttore dell’Ufficio catechistico nazionale della Cei

Che tipo di catechista è stato papa Ratzinger? Quale stile è emerso?

È evidente che papa Benedetto XVI, in quanto successore di Pietro e grande teologo, è anche un grande catechista. Ognuno, tuttavia, che abbia potuto ascoltare o leggere le omelie, le catechesi, le risposte date spesso a viva voce alle domande che di volta in volta gli rivolgevano giovani, donne e uomini adulti, sacerdoti, religiose o bambini, si è reso conto che oltre alla scienza e alla dottrina in Benedetto XVI, c’era un qualcosa in più, che direi essere una pedagogia della fede, cioè la capacità di interpre-tare la teologia con la vita e la propria esperienza umana. E questa è una grande dote di catechista.

Quale filo rosso possiamo individuare nel percorso di catechesi che Benedetto XVI ha svolto negli otto anni di pontificato?

Credo che il punto distintivo del magistero di Benedetto XVI sia il tema dell’incontro personale con il Cristo risorto. Questa dimensione è pre-sente in tutti i suoi discorsi ed ancor più nel suo modo di vivere il suo ministero e di celebrare l’Eucaristia. Il cristiano - come ha detto il Papa in tante occasioni - non è uno che segue prima di tutto un’idea o una morale,

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ma è colui che attraverso il Vangelo annunciato nella Chiesa ha incontra-to Gesù ed è diventato suo discepolo. Mi piace rileggere in questa pro-spettiva i tre anni speciali che hanno costellato il ministero di Benedetto XVI: l’Anno Paolino, l’Anno Sacerdotale, l’Anno della fede.

Il «genio femminile» è stato uno dei cicli delle catechesi di papa Ratzinger. Come leggerlo all’interno del pontificato che si conclude oggi?

Il tema è molto attuale. In un passaggio della lettera apostolica Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II si legge: «La Chiesa - ringrazia per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità femminile». Con le sue catechesi Benedetto XVI ha voluto attualizzare questo messaggio narrando molte figure di sante medioevali - alcune anche poco conosciute - come una galleria di volti esemplari e amici: dalla carismatica monaca benedettina Ildegarda di Bingen - mistica, letterata, musicista, farmacista e cosmologa - alla combattiva Giovanna d’Arco. Attraverso questa galleria il Papa ha voluto mostrare, fuori da stereotipi oleografici, cosa significhi narrare e vivere il Vangelo al femminile.

Anche la «preghiera» o proprio in questi ultimi mesi «il Credo» sono stati un tema forte nelle catechesi del Papa. Un forte richiamo a un fede da riscoprire. Un messaggio anche per la catechesi delle nostre parrocchie?

L’educazione ad una vita interiore, alla preghiera del cuore, all’ascolto ed alla lettura orante della Sacra Scrittura, ad una fruttuosa e intensa parte-cipazione alla liturgia, soprattutto all’Eucaristia sono dimensioni impre-

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scindibili per ogni vera educazione alla fede. Dare un’anima educativa alle tante dimensioni della pastorale significa, infondo, cogliere questa dimensione spirituale di risposta all’amore per Dio e per i fratelli che in Gesù ha trovato l’espressione massima. Il papa, particolarmente rivol-gendosi ai giovani - fin dagli inizi del suo pontificato - non ha mai cessato di invitare tutti a questa avventura dello spirito indicandola come la più alta espressione di vita cristiana.

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Il vescovo Semeraro:«A Castel Gandolfo accoltoda un popolo in preghiera»

di Mimmo Muolo

Come un pellegrinaggio. Tre chilometri a piedi da Albano a Castel Gandolfo. E poi l’attesa orante in piazza con la recita del Rosario,

fino all’affaccio di Benedetto XVI previsto per le 17.30. La diocesi di Albano attende così l’arrivo del Papa. Un arrivo tanto diverso da quelli degli anni scorsi, quando egli andava nella cittadina affacciata sul lago per trascorrervi il periodo estivo. Allora a prevalere era la gioia, oggi sarà soprattutto la commozione e l’affetto. «Ci siamo predisposti ad acco-glierlo in un clima di preghiera – spiega il vescovo di Albano, Marcello Semeraro – per accompagnare e in qualche modo ricambiare la sua pre-ghiera per la Chiesa e per tutti noi».

Che cosa avverrà concretamente?

Ci siamo dati appuntamento alle 16.30 sulla piazza antistante il Palazzo Apostolico per recitare il Rosario, con meditazioni che saranno tratte dai discorsi del Santo Padre. Verranno fedeli da tutta la diocesi e da Albano è stato organizzato un vero e proprio pellegrinaggio a piedi. Quando il Papa atterrerà all’eliporto delle ville pontificie, suoneranno le campane sia in Cattedrale, sia nella chiesa parrocchiale di Castel Gandolfo. Infi-ne ascolteremo il saluto del Papa che ha scelto di affacciarsi al balcone esterno del Palazzo, e non nel cortile interno, perché si prevede che sa-ranno molti i fedeli presenti.

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Che cosa significa per la sua comunità diocesana questa presenza?

È una presenza che ci riempie di emozione, ma anche di responsabilità e che vogliamo accompagnare spiritualmente, rispettando il suo ritiro con amore e discrezione. Domenica prossima pregheremo in tutte le Messe per Benedetto XVI in attesa di pregare per il nuovo Papa, quando sarà eletto.

Qual è stato il rapporto di papa Ratzinger con Castel Gandolfo?

Al Santo Padre piace stare a Castel Gandolfo. E non a caso abbiamo scelto di salutare il suo arrivo di oggi stampando alcuni volantini con una sua fotografia mentre dalla terrazza del Palazzo guarda il lago. Una volta disse: «Da qui vedo il lago, il mare, la montagna e anche gente buona. Vi benedico nel nome del Signore». Oggi quella frase è incisa anche in una lapide vicino al Comune ed è solo uno dei tanti segni di predilezione e di affetto che abbiamo ricevuto in questi anni di pontificato. Predilezione e affetto che Benedetto XVI ha sempre esteso all’intera diocesi. Anzi, spesso, quando parlava con me, diceva «la nostra diocesi» e questo fatto mi ha sempre commosso. Noi tutti ricordiamo l’incontro con il clero dio-cesano nel 2006, quando per due ore rispose alle domande che gli aveva-mo preparato. E anche la bella celebrazione in Cattedrale per la consacra-zione del nuovo altare, della cattedra episcopale e del presbiterio. Infine non mancava mai di ricevere una delegazione di giovani alla «festa delle pesche», in giugno, e di celebrare la Messa dell’Assunta il 15 agosto nella chiesa parrocchiale di Castel Gandolfo. Stasera il Papa viene qui a concludere il suo pontificato e a darci la sua benedizione, aggiungendo così un ulteriore motivo di gratitudine ai tanti che abbiamo verso di lui.

Lei sarà tra coloro che lo accoglieranno al suo arrivo. Quali sono i suoi sentimenti di vescovo in questo momento?

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Permane lo stupore di fronte a una scelta coraggiosa che da secoli non veniva effettuata. Ma io sono convinto che il tempo ci aiuterà a com-prenderla nel suo effettivo valore. Intanto, senza prestare l’orecchio alle tante ipotesi che vengono avanzate, lasciamo che siano le stesse parole del Papa a indicarci le ragioni. A me pare di ravvisare due punti di rife-rimento, di cui il primo è l’intima coscienza del Santo Padre. Per noi la parola coscienza non è sinonimo di individualismo, ma è il luogo in cui l’Io incontra Dio, quindi un sacrario, la parte più intima a nobile di ogni uomo. Il secondo riferimento è la parola servizio. Benedetto XVI lascia l’esercizio del primato di giurisdizione connesso con il ministero petrino, ma non lascia la Chiesa e tanto meno la paternità. Il vincolo sacramentale non viene meno, perché da questi vincoli non ci si dimette.

Scherzando, Benedetto XVI la chiamava «il mio vescovo». Com’è papa Ratzinger, visto da vicino?

Come Papa ha indicato alla Chiesa le questioni fondamentali e in primo luogo la questione di Dio. Inoltre ha portato la sua specifica sensibilità di teologo e l’esperienza vissuta al Concilio. Sotto il profilo umano ho sempre ammirato in lui la mitezza. Davvero si può applicare a Benedetto XVI questa beatitudine: «Beati i miti perché erediteranno la terra».

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1 marzoIl pellegrino obbediente

«Piena obbedienza al nuovo Papa»di Mimmo Muolo

Quando il rotore del bianco elicottero ha cominciato a muoversi, lassù nell’eliporto in cima al Colle Vaticano, a quasi tutti è venuto sponta-

neo guardare l’orologio. Le 17,04 di giovedì 28 febbraio 2013. Momento storico in una data storica. Da lì a qualche secondo il velivolo con a bordo Benedetto XVI e il suo segretario personale, monsignor Georg Gänswein, si è librato in aria e persino gli alberi intorno, frustati dal vortice d’aria delle pale, sembravano agitare i rami come braccia in segno di commosso saluto. Quel gesto, in verità, è stato il vero fil rouge dell’ultima giornata da Romano Pontefice di Joseph Ratzinger. Ripetuto da migliaia di fedeli con il naso all’insù in piazza San Pietro, dove hanno atteso che passasse l’elicottero papale. E anche – pur in atteggiamento consono alla dignità cardinalizia – dai 144 cardinali presenti a Roma, che in mattinata, a uno a uno, sono sfilati davanti a Benedetto XVI, dopo averne ascoltato l’ultimo discorso (che Avvenire pubblica integralmente).

Naturalmente, però, il più atteso, il più cercato, il più prezioso è stato alla fine il saluto del Papa. A Roma e a Castel Gandolfo (nel breve affac-cio sulla piazza, che riferiamo in altra parte del giornale). Ai fedeli e ai membri del suo “Senato”. E a sorpresa anche verso colui che, proprio da quel “Senato”, cioè dal collegio cardinalizio, sarà chiamato a succeder-gli. «Che il Signore vi mostri – ha detto il Pontefice sollevando gli occhi dal discorso scritto e guardando intensamente i suoi interlocutori – quello

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che è voluto da Lui. Tra voi, tra il Collegio cardinalizio, c’è anche il fu-turo Papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza».

Ha parlato della Chiesa, papa Ratzinger, citando Romano Guardini («Non è una istituzione escogitata e costruita a tavolino, ma una realtà vivente» e «il suo cuore è Cristo»). E ha ringraziato i cardinali («per me è stata una gioia camminare con voi in questi anni»), auspicando che il sacro collegio sia sempre più «come un’orchestra, dove le diversità, espressione della Chiesa universale, concorrano sempre alla superiore e concorde armonia». Così, quando qualche minuto dopo è cominciato il baciamano individuale dei porporati, quell’orchestra ha “suonato” nelle lingue di tutto il mondo l’ultimo inno di affetto e di fedeltà al Pontefice nel giorno della sua scelta più difficile. Un inno che può essere riassunto nelle parole del saluto del cardinale decano: «Sappia, Padre Santo – ha detto Angelo Sodano parafrasando le parole dei discepoli di Emmaus –, che ardeva anche il nostro cuore quando camminavamo con lei in questi ultimi otto anni. Oggi vogliamo ancora una volta esprimerle tutta la no-stra gratitudine».

E infatti la si è vista eccome, quella gratitudine, sul volto dei cardinali. Giovani e anziani, alcuni anche in carrozzina, europei o giunti da altri continenti, di pelle bianca o scura. Con gli occhi a mandorla o con i tratti tipicamente latinoamericani. Un mappamondo vivente in cui le singole identità, e le tante differenze, non sono di ostacolo alla comunione. Per tutti il Papa ha avuto un sorriso e una parola. Da tutti ha ricevuto conforto e sostegno. Anche dai capi dicastero non cardinali presenti all’udienza e dai cerimonieri, con i quali ha posato per l’ultima fotografia, prima di riti-rarsi per «il pranzo con la famiglia pontificia e senza alcun ospite partico-lare» (come ha riferito il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi).Infine, poco prima delle 17, il congedo dall’appartamento (quasi con-temporaneamente all’ultimo tweet), la discesa nel cortile di San Damaso,

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dove era schierato il picchetto d’onore e, ad attenderlo c’era il segreta-rio di Stato, cardinale Tarcisio Bertone (che alle 20, nella sua qualità di camerlengo, ha fatto sigillare l’appartamento e fatto chiudere le finestre che danno su piazza San Pietro), quindi il breve tragitto in auto fino all’e-liporto. È iniziato così l’ultimo viaggio di Benedetto XVI. Il più breve o il più lungo, a seconda dei punti di vista. Certamente il più sorprendente e coraggioso.

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La Chiesa di Guardini, «realtà vivente»di Elio Guerriero

Nel prendere congedo dai cardinali, Benedetto XVI ricordava ieri uno dei suoi maestri e amici, Romano Guardini. Nel 1922 il pen-

satore italo-tedesco, che già aveva entusiasmato i lettori con Lo spirito della liturgia, pubblicava un volume, Il senso della Chiesa, destinato a risvegliare la coscienza dei credenti, in particolare dei giovani. Scrive-va l’autore che un fatto nuovo si segnala nei primi decenni del secolo ventesimo: «La Chiesa si risveglia nelle anime», in quelle che celebrano la liturgia e, come Maria, accolgono la parola di Dio e la fanno rivivere nella loro vita di modo che la Chiesa non è più una realtà esteriore, ma una realtà viva nella quale i fedeli possono incontrare Gesù, il Signore. Tra i numerosi giovani conquistati da Guardini vi era Joseph Ratzinger. Proprio l’amore alla liturgia e alla vita della Chiesa fu all’origine della vocazione del piccolo Joseph che presto scelse la via del seminario rima-nendo provvidenzialmente immune dal contagio del nazionalsocialismo. Possiamo allora immaginare i sentimenti con i quali, dopo circa 30 anni, egli giungeva a Roma per partecipare al Vaticano II. Era stato nominato esperto al Concilio proprio insieme a Guardini, l’antico maestro diven-tato intanto amico. Ratzinger accettò e svolse un importante lavoro per l’approfondimento di uno dei temi più delicati della costituzione sulla Chiesa: la natura sacramentale dell’ordinazione episcopale con la quale si entra a far parte del collegio apostolico in unione con il successore di Pietro che ha il compito di tenere unita la Chiesa. Guardini, invece, che aveva ormai 78 anni, dovette rinunciare all’incarico per motivi di salute. Egli, tuttavia, non mancò di accompagnare il lavoro conciliare con ri-flessioni raccolte nel volume La Chiesa del Signore, che era in profonda

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sintonia con la costituzione Lumen gentium. Guardini stesso regalò la sua opera autografata a Ratzinger, il quale ieri l’ha citata commosso ai cardinali. In essa l’antico maestro scriveva: «La Chiesa non è un’istitu-zione escogitata e costruita a tavolino... ma una realtà vivente... Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire come ogni essere vivente, trasfor-mandosi... Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa e il suo cuore è Cristo».

Questa realtà Papa Benedetto ha sperimentato negli anni giovanili e ,con rinnovato entusiasmo, nei giorni scorsi, questa eredità egli vuole lasciare ai cardinali e ai fedeli tutti. Non bisogna, dunque, lasciarsi intimorire dalle miserie umane, dalle tempeste che sembrano travolgere la barca del pescatore. Essa è affidabile per la presenza di Cristo che sempre la purifica, la rinnova, la rende bella e viva. Per questo il Papa emerito ha potuto rimettere il suo mandato con la fiducia, che viene dalla fede, che il Signore guiderà ancora la sua Chiesa. Con il suo Spirito egli sceglierà un nuovo pescatore che con rinnovata energia la condurrà al largo della storia per annunciare ancora la parola buona del Vangelo. Benedetto in-tanto, come un discepolo del padre dei monaci, si ritira per dedicarsi alla preghiera, l’opera di Dio, e così rimanere unito a Cristo, alla sua Chiesa, e ai fedeli tutti.

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«Ora sono un semplice pellegrino»da Castel Gandolfo Pino Ciociola

Vicino, vicinissimo al cuore, a volerlo sfiorare quasi con le dita. L’ul-tima volta. «Ora sono semplicemente un pellegrino che inizia la sua

ultima tappa su questa terra», confida Joseph Ratzinger a questa gente. Affacciato al balcone principale del Palazzo Apostolico di Castel Gan-dolfo, alle 17,40 del suo ultimo giorno di pontificato. È emozionato. Lo si vede. Allarga le braccia, le protende in avanti, e forse vorrebbe strin-gere a sé queste persone e il mondo intero. Si confonde due volte: «Non sono più il Sommo Pontefice della Chiesa cattolica... Lo sarò fino alle 20, poi non più». E di nuovo al momento della benedizione: «Sia benedetto Dio onnipotente... Vi benedica Dio onnipotente». Sì, è emozionato. Si potrebbe scommettere, da lontano, che abbia gli occhi appena un po’ più lucidi del solito. L’ultima volta. L’abbraccio è reciproco. Forte. E conta più di ogni parola, di ogni cronaca, conta più della storia stessa. Tanta gente ha le lacrime strozzate in gola e sul volto il sorriso più bello. È il momento del saluto e lui sa, loro sanno, che non ce ne saranno altri. Esce alla finestra alle diciassette e trentotto. L’applauso è tumultuoso, tanto da non lasciarlo parlare per quasi un minuto, durante il quale il Papa può, vuole, soltanto protendere in avanti le sue braccia. Poi dice: «Gra-zie, grazie di cuore cari amici. Sono felice di essere con voi, circondato dalla bellezza del creato e dalla vostra simpatia, che mi fa molto bene. Grazie della vostra amicizia». Deve interrompersi nuovamente per l’ap-plauso. Quindi continua: «Voi sapete che questo mio giorno è diverso da quelli precedenti: non sono più Pontefice sommo della Chiesa cattolica... Fino alle otto di sera lo sono ancora, poi non più. Sono semplicemen-te un pellegrino che inizia la sua ultima tappa in questa terra». Ancora

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un applauso, ma questo gli consegna più commozione degli altri. «Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghie-ra, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune, per il bene della Chiesa e dell’umanità». L’ultima volta. E questa piazza di Castel Gandolfo è piccola, adesso sembra un nonno che saluta la sua famiglia prima di partire per un lunghissimo viaggio. Sulla facciata del municipio, alla sinistra del Palazzo, campeggia una grande scritta con palloncini argentati: «Grazie Benedetto. Siamo tutti con te». Lui prosegue: «Mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia. Andiamo avanti insieme con il Signore per il bene della Chiesa e del mondo. Grazie, vi imparto adesso con tutto il cuore la mia benedizio-ne». Eccolo, il momento sta arrivando. «Sia benedetto Dio onnipotente... Vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo». Qualche istante ancora. Infine: «Grazie, grazie, buona notte. Grazie a voi tutti» e di nuovo allarga e protende le sue braccia verso la gente. Fa freddo. Su un cartello si legge: «La tua umiltà ti ha fatto ancora più grande. Grazie Benedetto». Il sole sta cominciando a scendere per disegnare un tramon-to che da qui, stasera, è mozzafiato. Benedetto XVI entra, la finestra si chiude e da questo istante sarà «invisibile agli occhi del mondo», come fece sapere poco dopo la sua rinuncia al ministero petrino. Lo salutano ancora i sette, ottomila fedeli che riempiono la piazza e le vie di Castel Gandolfo. Ripongono le bandiere, gli striscioni, i cartelli per Benedetto XVI. L’ultima volta. A ridosso della piazza ci sono decine di furgoni delle tivù arrivate da tutto il mondo, come le radio e i giornali. Per tutto il giorno i cronisti hanno intervistato la gente, messo in piedi dirette su dirette, preso appunti, preparato questo giorno che è uno dei sigilli della Storia. Nel frattempo arrivavano i fedeli e alle 16 la piazza era stata già chiusa, perché non c’era più posto. Alle 16,30 si era aperto il portone del Palazzo e due Guardie svizzere erano state schierate ai suoi lati. Poco dopo, sotto la finestra principale era stato calato il drappo pontificio. E al rumore delle pale di un elicottero la piazza aveva applaudito d’istinto, non importava che lassù non si potesse sentire e nemmeno che potesse

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non essere l’elicottero sul quale stava arrivando il Papa. Quando alle 20 manca un soffio, è rimasta tanta gente, con le Guardie svizzere e le tivù ad attendere le 20. Il tramonto se n’è andato, ha ceduto il posto alla sera e le stelle, alzando la testa, si possono distinguere una per una. Ci siamo: alle 20 in punto il portone del Palazzo Apostolico si chiude. Nello stesso momento a Roma, in Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, in qualità di camerlengo, sigilla l’appartamento papale. Le agenzie di stampa battono un flash di una sola riga: «Papa: termina pontificato Benedetto XVI».

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Coccopalmerio: sede vacante,un tempo d’attesa

di Gianni Cardinale

Da ieri sera alle 20 la Chiesa è entrata nel periodo della cosiddetta Sede vacante. Per spiegare le caratteristiche di questo particolarissimo periodo della vita della comunità cattolica, Avvenire ha interpellato il cardinale Francesco Coccopalmerio, 74 anni, presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi. Incontriamo il porporato, lombardo ma con radici abruzzesi per via paterna, poco dopo che ha salutato Benedetto XVI, in-sieme agli altri membri del Collegio cardinalizio, nella Sala Clementina. «Era sereno – racconta – con occhi luminosi che lasciavano trasparire il suo amore per il Signore e quindi la sua delicatezza per le persone che incontra». Ecco l’intervista.

Eminenza, quando si verifica la cosiddetta Sede vacante?

Quando il Papa non c’è più: il che si verifica o nel momento della morte oppure nel momento stabilito dal Papa stesso nel caso in cui egli abbia dato le dimissioni.

In questo periodo cosa cambia per la vita delle diocesi e delle par-rocchie?

Nella vita delle diocesi e delle parrocchie non cambia nulla: i vescovi diocesani e i parroci continuano nel loro ministero, le celebrazioni litur-giche continuano come sempre, con il solo particolare che nella preghiera eucaristica della Messa non si nomina il Papa per il semplice motivo che

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il nuovo Papa non c’è ancora. Pertanto viene ricordato solo il nome del vescovo della diocesi.

E nel governo della Chiesa universale?

Come stabilisce l’articolo 14 della Costituzione apostolica Universi Do-minici gregis emanata da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996, cioè la legge canonica per il periodo di Sede vacante «alla morte del Pontefi-ce», oggi diciamo anche: nel momento delle dimissioni del Pontefice, «tutti i capi dei dicasteri della Curia Romana … come anche i membri dei medesimi dicasteri cessano dall’esercizio del loro ufficio. Viene fatta eccezione per il Camerlengo di Santa Romana Chiesa e il Penitenziere Maggiore…».

Qual è la ratio di questa norma?

Motivo di questa norma è che i capi o i membri dei dicasteri della Curia Romana agiscono per mandato del Papa per cui, se il Papa non c’è, non possono continuare ad agire. Il Camerlengo (incarico attualmente rico-perto dal cardinale Tarcisio Bertone, ndr), però, è colui che compie gli adempimenti necessari in periodo di Sede vacante, mentre il Penitenzie-re Maggiore deve provvedere ai casi di coscienza anche gravi e a volte urgenti. Come stabilito dallo stesso articolo 14 e dai seguenti, non cessa neppure il cardinale vicario per la città di Roma né i cardinali che gover-nano la Basilica di San Pietro e la Città del Vaticano.

Chi presiede al governo della Curia in questo periodo?

Come già detto, è l’ufficio del Camerlengo, cioè di quel cardinale che dal Papa precedente è stato nominato a questo importante ministero, eviden-temente con l’assistenza del Collegio dei cardinali.

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Cosa è che si può decidere in questo periodo?

Diciamo in genere: le questioni ordinarie, che non rivestano particolare importanza, salvo i casi di urgenza, come previsto dagli articoli dal 24 al 26 della Costituzione apostolica sopra citata. Per esempio nei dicasteri prosegue lo studio delle varie questioni la cui decisione, se si stratta di temi importanti, sarà sottoposta al futuro Pontefice.

E cosa no?

Per esempio la nomina dei vescovi.

Quando finisce la Sede vacante?

Quando c’è il nuovo Papa, e cioè nel momento in cui il cardinale valida-mente eletto ha espresso la sua accettazione.

Ma può essere eletto Papa un non cardinale?

Certamente: basta leggere il primo paragrafo del canone 332 del Codice di diritto canonico. Qualsiasi battezzato cattolico, di sesso maschile, può essere eletto Papa; nel caso non sia ancora vescovo deve ricevere subito la consacrazione.

Come ipotesi di scuola, che tutti non ci auguriamo: quali sono i pro-blemi che possono sorgere se il Conclave e così anche la Sede vacante durasse troppo a lungo?

Si rischierebbe di limitare o, eventualmente, di bloccare la vita della Chiesa a livello di governo della Chiesa universale. Per esempio, richia-mandoci a quanto detto sopra, si rischierebbe di avere diocesi senza ve-scovo per un tempo eccessivamente lungo.

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Vista l’esperienza che stiamo vivendo, prevede che in futuro ci pos-sano essere ritocchi legislativi per meglio definire la figura del Papa emerito?

Credo che qualche precisazione sarà utile e necessaria.

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Questa capìta bellezzadi Pierangelo Sequeri

Grazie a Dio, la musica della Chiesa è per orchestra, non per solisti e primedonne. Il canto nuovo dell’Agnello che è stato immolato –

l’unico che conosce alla perfezione i toni della voce del Padre – è affidato alla coralità delle voci. Il direttore, le prime parti, le file degli orchestrali, i coristi, ciascuno col proprio ruolo e il proprio timbro, sono al servizio di una musica di Dio, che solo il Figlio poteva comporre per gli uomini. E l’ha affidata alla Chiesa. Avevo appena detto, parlando di estetica della santità e della testimonian-za, di un cristianesimo che deve diventare più musicale. Il Papa Benedet-to XVI ha indicato al Collegio dei Cardinali, riuniti ieri mattina in Vati-cano per il suo congedo, l’icona dell’orchestra. La più adatta a intendere il valore aggiunto della collegialità apostolica. È la metafora giusta. Non si tratta di assemblare una macchina burocraticamente efficiente, né di lavorare col bilancino delle dosi per una ricetta di successo. Si tratta del senso della fede, della giusta intonazione, dell’intesa che nasce dall’abi-tudine a suonare insieme e del gusto per l’accordo migliore. Il Collegio dei Cardinali deve dare la percezione di un’orchestra dove le diversità, che sono «espressione della Chiesa universale», concorrono alla bellezza e alla ricchezza «di una superiore e concorde armonia». E tutti devono poterla sentire.

Il popolo di Dio, sorprendentemente affollato di molti dei quali «nep-pure conosciamo i nomi», come dice il libro dell’Apocalisse, ha colto il segnale. Il Papa Benedetto ha dato il “la” alla giusta accordatura degli strumenti, per la prova d’orchestra che deve incominciare: con un nuovo

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direttore. Le moltitudini hanno sentito che questo Papa, con lo storico gesto di un congedo umile e fermo dal ministero petrino, in favore della Chiesa, la incoraggia – a cominciare dalle prime parti – a inaugurare l’epoca di una nuova performance sinfonica della fede. Gli ultimi giorni, le ultime ore, del ministero petrino di Joseph Ratzinger sono stati af-fettuosamente restituiti alla loro verità e alla loro grandezza, proprio da questo popolo pellegrinante. Il suo ascolto fine dei toni di voce e dei gesti profetici di Benedetto XVI è apparso di gran lunga l’interpretazione mi-gliore. Più acuta e precisa di molte lenzuolate giornalistiche, ossessionate dalla ricerca delle note false (con le loro sussiegose deduzioni apocalitti-che, più ispirate a Nostradamus che al preteso rigore teologico delle loro proiezioni). Il sensus fidei fidelium, l’istinto della fede, ha letteralmente circondato Papa Ratzinger, mostrandosi più ammirato e intenerito di un dono alto e inatteso, di quanto non fosse – giustamente – addolorato e commosso per il distacco che lo accompagna. «È bene per voi che io me ne vada». Senza potersi liberare del tutto dallo struggimento, questo popolo ha capito la bellezza dell’atto di fede che gli è stato consegnato. L’Anno della Fede ha avuto il suo gesto profetico. Non potrà più essere una commemorazione: sarà azione della fede, o non sarà.

Quanto a lui stesso, il piccolo grande uomo che ora, nei suoi ultimi ge-sti del ministero che conferma la fede, ringrazia tutti e incoraggia tut-ti, ha sentito benissimo l’intensità di questo ascolto ammirato e attento. «Vedo una Chiesa viva», ha detto, abbracciando un’ultima volta il po-polo pellegrinante che lo circondava di ammirazione e di stima. E li ha chiamati amici, con una frequenza inconsueta, in queste ultime ore. Tra poco, sarò «semplicemente un pellegrino che inizia la sua ultima tappa su questa terra», sono state le sue ultime parole da Papa, nel saluto finale a Castel Gandolfo. Congedo dalla direzione dell’orchestra, non senza lo splendido atto della conferma del suo intatto significato: tra voi, ha detto Benedetto XVI ai cardinali, «c’è anche il futuro Papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza e obbedienza». Congedo dal

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ministero petrino della Chiesa, ma non dal servizio totalmente dedicato alla Chiesa che ne ha indelebilmente plasmato la persona. «Vorrei ancora lavorare con tutte le mie forze, con il mio cuore e la mia preghiera, per il bene della Chiesa e del mondo». Quando racconteremo tutto questo, nella Chiesa, alle generazioni che oggi non c’erano, dovremo alzarci in piedi, e chinare lievemente il capo. E tendere l’orecchio, nella speranza di poter ascoltare, insieme con loro, la musica che deve seguire.

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Vingt-Trois: atto di fede nella Chiesadi Daniele Zappalà

La sua visita del 2008, dal celebre discorso al Collège des Bernardins alla Messa per il 150° anniversario delle apparizioni a Lourdes è

rimasta nel cuore dei francesi. E oggi, mentre è ancora fortissima l’emo-zione per la rinuncia di Benedetto XVI, il presidente della Conferenza episcopale d’Oltralpe, il cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Pa-rigi ha accettato d’illustrare come il mondo cattolico francese vive questi giorni di grande attesa e speranza. «È un momento al contempo di stupefazione e di tristezza – sottolinea il porporato –. Sapevamo che Benedetto XVI aveva considerato questa possibilità, ma non pensavamo che il momento sarebbe arrivato così pre-sto. Credo che tutti siano stati colpiti dal coraggio e dalla determinazio-ne del Papa. Ricordiamo con emozione e gratitudine la visita che Be-nedetto XVI ha effettuato in Francia nel mese di settembre 2008. Fu un vero momento di comunione e di fervore a Parigi così come a Lourdes. Comprendiamo la decisione del Papa come un atto di fede nella Chiesa. Siamo dunque chiamati a vivere quest’evento condividendo l’intenzione del Papa: restare in questa fase nella fede totale nell’assistenza che Dio accorda alla sua Chiesa».

Ha l’impressione che quest’annuncio giunga in una fase cruciale per il cattolicesimo in Europa?

Ci sono forse fasi che non siano cruciali? Certo, constatiamo che il cat-tolicesimo europeo è spinto verso una profonda mutazione che giunge in contemporanea rispetto alle trasformazioni della società e a un reale im-

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poverimento delle forze alle quali eravamo abituati. Assistiamo a un’au-tentica rottura culturale con le radici giudeo-cristiane della nostra società. Nel vedere ciò che perdiamo, ci si potrebbe limitare all’afflizione, anche se si tende ad abbellire il passato. Ma mi pare che stiamo vivendo piutto-sto una fase di forte provocazione spirituale per riprendere la missione su nuove basi: la nuova evangelizzazione. I cattolici sono meno numerosi, ma devono essere più determinati nella loro decisione di seguire Cristo.

Di fronte ai “rapidi cambiamenti” e alle “questioni di grande im-portanza per la vita della fede” evocati da Benedetto XVI, le Chiese d’Europa hanno oggi un dovere particolare di coesione e di assisten-za reciproca?

Abbiamo soprattutto un dovere di più grande disponibilità per rispondere all’appello che Dio ci rivolge attraverso questi avvenimenti. L’attacca-mento alla fede e alla Chiesa non può più accontentarsi del conformi-smo sociale, come Benedetto XVI ha indicato così bene nel suo libro intervista Luce del mondo. I cristiani sono chiamati più che in passato a scegliere di seguire Cristo e le sue conseguenze concrete, a diventare dei veri testimoni della fede. Ciò suppone un rinnovamento nella nostra adesione al Vangelo e uno sforzo di formazione particolare per darne testimonianza nella nostra società. Sappiamo che la Chiesa non coincide con nessuna società storica e l’appello alla santità non può confondersi con i riferimenti di una società di consumo e di liberismo morale. In questo contesto, non siamo chiamati a rinchiuderci in noi stessi ma, al contrario, ad andare incontro ai nostri contemporanei per annunciare loro la Buona Novella.

In Francia, l’Assemblée Nationale ha appena adottato in prima let-tura il progetto di legge sul “matrimonio per tutti”. Ha l’impressione che i francesi, in maggioranza, abbiano realmente compreso tutte le poste in gioco legate ai cambiamenti promossi dal governo?

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Parliamo più precisamente di matrimonio degli omosessuali rispetto al “matrimonio per tutti” che è un’espressione pubblicitaria senza gran si-gnificato. Non penso che la maggioranza dei francesi ne abbiano perce-pito le conseguenze. Dovrei aggiungere che non sono sicuro che tutti i deputati che hanno votato questo progetto di legge ne abbiano valutato la portata. A partire da uno slogan sull’uguaglianza e sulla possibilità di aprire il matrimonio agli omosessuali, abbiamo visto apparire, man mano che il dibattito avanzava, le modificazioni profonde che questo progetto di legge apporta ed implica, in particolare per il legame filiale. Il bene del bambino è stato il grande assente di questo progetto concepito principal-mente in funzione dei desideri degli adulti.

Da dove possono giungere le nuove risorse per un sussulto di coscien-za del Paese, di fronte ai rischi di derive legati a questo progetto di legge?

Tutti gli argomenti sono stati ampiamente esposti. Ma sappiamo bene che il dibattito non è solo razionale. In buona parte, riconduce all’affettività. In questo campo, più degli argomenti, è la testimonianza che può spinge-re a riflettere. La nostra risorsa principale sono le famiglie che si sforzano di vivere le virtù naturali dell’amore umano e le famiglie cristiane che mostrano la potenza del Vangelo. Se nessuno vive davvero il matrimonio e non ne mostra i frutti, perché continuare a battersi? Per difendere cosa? Per questo penso che tutti sono chiamati a riprendere coscienza delle poste in gioco del matrimonio eterosessuale, unico, definitivo e orientato verso l’educazione dei figli. È un obiettivo che riguarda evidentemente i cristiani nella loro fedeltà all’Alleanza. Ma più largamente riguarda tutte le persone di buona volontà decise ad impiegare gli strumenti necessari per assumere la loro responsabilità di genitori.

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Da dove arriva Pietrodi Mimmo Muolo

Sarà bianco o nero, italiano o no, europeo o di un altro continente? Da quando il Papa ha annunciato la sua rinuncia, domande più o meno

simili si susseguono nelle chiacchiere della gente come pure nelle dotte analisi degli opinionisti. Tuttavia dubitiamo fortemente che saranno que-sti i dilemmi che guideranno i cardinali incaricati di disegnare l’identikit del prossimo Papa prima nelle Congregazioni generali (una sorta di anti-camera del Conclave che serve innanzitutto ad assicurare una guida alla Chiesa nel periodo di Sede Vacante, ma anche a permettere ai porporati di svolgere insieme «ponderate meditazioni circa i problemi della Chiesa») e poi nel Conclave vero e proprio.Che il Papa sia bianco o nero, ad esempio, è più un problema mediatico che una delle preoccupazioni del Sacro Collegio. Ricordate la canzon-cina che si cantava negli anni ’70 nei nostri gruppi giovanili? «Di che colore è la pelle di Dio?/ È nera, rossa, gialla, bruna, bianca perché/ lui ci vede uguali davanti a sé». Dunque agli occhi della Chiesa (e perciò dei cardinali elettori) il colore della pelle del nuovo Papa è costitutivamente irrilevante.

Analoghi ragionamenti possono essere fatti per le altre due alternative. Solo chi non ha presente l’enorme cambiamento geografico avvenuto nel collegio cardinalizio dai tempi di Paolo VI a oggi può pensare che la pro-venienza geografica abbia ancora un peso decisivo. La Chiesa non è mai stata “italiana”, anche se per molto tempo i cardinali nativi della Penisola erano in maggioranza (e questo spiega in massima parte la lunga teoria dei Papi italiani interrotta dagli ultimi due pontificati). Oggi che non è

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più così – pur restando il gruppo degli italiani il più consistente –, e che i fedeli nostri connazionali hanno dimostrato di saper amare Pontefici venuti da altri Paesi, anche questa alternativa non è dirimente. Né tanto meno è ipotizzabile che si vada verso un’alternanza del tipo “dopo tanti Papi europei è ora di farne uno extraeuropeo”. Queste sono tutt’al più lo-giche da “toto-papa” o da campagna elettorale politica. E perciò del tutto inapplicabili al Conclave.

Ben diverso è il modo di ragionare del collegio cardinalizio, all’interno del quale, prima della persona, dovrà essere individuata la priorità pasto-rale per la Chiesa degli anni futuri. Benedetto XVI, da questo punto di vista, ha detto – anche con la sua rinuncia e con gli ultimi discorsi – cose fondamentali. Per esempio ha ricordato a tutti che la questione fonda-mentale oggi è quella della fede. E dunque della nuova evangelizzazione. In pratica come ripresentare agli occhi del mondo la bellezza, la signi-ficatività e, perché no, anche la convenienza e infine l’unicità della fede cristiana in quanto risposta di senso alle grandi domande dell’uomo. E come fare in modo che il cristianesimo smetta di essere percepito come una dottrina morale e non come l’incontro con la persona di Cristo; e che la Chiesa sia sempre più un corpo vivo e non una semplice associazione.Non ci stupiremmo, dunque, se a continuare la missione di Papa Ratzin-ger fosse chiamato un cardinale che per nascita – o almeno per forma-zione – provenga da una Chiesa che abbia già avviato il confronto con le correnti di pensiero dominanti nel nostro tempo e dunque abbia imparato a esprimere la novità dirompente del Vangelo anche in contesti molto se-colarizzati. Competenza teologica, esperienza pastorale e dimestichezza con le tecniche di comunicazione, oltre che una buona dose di fantasia, doti personali che non sono certo mancate (sia pure in forme diverse) nei Papi degli ultimi 150 anni, dovranno essere messe a servizio di que-sta priorità. E per quanto infine riguarda l’età, il segnale che viene dalla rinuncia di Benedetto XVI, pur non essendo cogente, contiene una no-tevole dose di buon senso. Un Papa del terzo millennio non può essere

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stanziale. Fa parte del suo ministero prendere aerei e visitare terre lonta-ne. Dunque energia fisica e buona salute sono caratteristiche da mettere in conto.Quando fra qualche giorno, esaurite le Congregazioni generali, i cardi-nali entreranno nella Cappella Sistina e si vedranno avvolti dalla policro-mia michelangiolesca, è molto probabile che l’identikit umano sarà già a buon punto. E che tornino loro in mente i versi di Giovanni Paolo II nel Trittico Romano: «Con-clave: una compartecipata premura/ del lascito delle chiavi del Regno./ (…) Non dimenticate: Omnia nuda et aperta sunt ante oculos Eius./ Tu che penetri tutto - indica!/ Lui additerà». Ecco. Lo Spirito additerà. E sarà allora che, al di là di ogni umano disegno, emer-gerà il volto reale del nuovo Papa. Bianco o nero, italiano, europeo o di altri continenti che sia.

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La salvezza che passa dalle domandedi Alessandro Zaccuri

L’uomo delle risposte ci ha insegnato ad amare le domande. Quelle che Gesù prediligeva, quelle che i discepoli non si stancavano di

rivolgergli. Volete andarvene anche voi?, chiedeva il Maestro. E loro, per bocca di Pietro, non riuscivano a replicare se non con un’altra domanda: Signore, da chi andremo? È come una danza, che si ripete per tutto il Van-gelo. Pilato che vuol sapere che cosa sia questa famosa verità. E Gesù che dalla Croce rivolge al Padre la domanda di tutte le domande: Dio mio, perché mi hai abbandonato? Accadrà ancora, qualche giorno dopo, sulla strada per Emmaus, quando lo Sconosciuto si avvicinerà ai discepoli e inizierà a interrogarli: di che cosa parlate, che cosa è successo? Sulle pri-me saranno loro a usare le domande come atto d’accusa (tu solo sei così straniero a Gerusalemme?), poi toccherà a Lui svelare, domanda dopo domanda, la loro incapacità di comprendere. Sappiamo come andrà a finire. Gesù spezza il pane e nello stesso tempo si sottrae allo sguardo dei due, che finalmente trovano la risposta giusta. Una risposta che, una volta di più, ha la forma di una domanda. Il cuore ci bruciava in petto, come abbiamo fatto a non riconoscerlo? La vita di ciascuno di noi, in fondo, è legata a quel “come”, in attesa di quel “perché”.

Per anni, anche prima che diventasse Papa, Joseph Ratzinger è stato pre-sentato come l’uomo delle risposte. Per via della generosità con cui, già all’epoca in cui guidava la Congregazione per la Dottrina della Fede, non si sottraeva alle interviste, non importa quanto articolate e impegnative. Ma anche e specialmente per colpa del pregiudizio che si compiace delle parti assegnate. Il conservatore, il progressista, il grande comunicatore.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Sappiamo bene quale ruolo fosse stato destinato al cardinal Ratzinger, sappiamo bene attraverso quale lente deformante siano stati interpretati gli atti – anche i più clamorosi e intensi – del pontificato di Benedetto XVI. Un copione che il colpo di scena dell’11 febbraio scorso ha gio-iosamente scompaginato con un gesto di abissale e toccante semplicità. La rinuncia, certo. E insieme quell’affollarsi di domande che, in un solo istante, ha accomunato credenti e non credenti nello stesso tempo sospe-so. Come è successo di nuovo ieri, nei lunghi minuti del volo in elicottero da San Pietro a Castel Gandolfo.

Che cosa siete andati a vedere nel deserto?, chiede Gesù riferendosi alla folla curiosa della sorte del Battista. Che cosa abbiamo visto, in questi giorni? Di sicuro siamo stati testimoni di uno di quei rari momenti in cui il segreto di un uomo coincide con il mistero della storia. L’uno è illuminato dall’altro, ma in modo tanto abbacinante da rendere quasi im-possibile distinguere i dettagli della visione. Un pellegrino, ecco quello che abbiamo visto, perché è questa la definizione che Benedetto XVI ha scelto per sé nel brevissimo – e bellissimo – saluto finale ai fedeli. Un pellegrino come tutti, impegnato come tanti altri nell’ultimo tratto del cammino sulla terra. Uno che continua ad avanzare, a cercare, a farsi do-mande. Non perché le risposte non esistano, sia chiaro. Questa è l’illusio-ne colpevole del nostro tempo, smanioso di ridurre a parodia la radicale inquietudine del Vangelo. Con i gesti e le parole delle ultime settimane, Benedetto XVI ci ha mostrato, in maniera davvero memorabile, quale differenza corra tra salvezza e sicurezza. Sicuro è chi sfugge deliberata-mente alle risposte, per paura della verità da cui sarebbe altrimenti giudi-cato. Salvo è chi non smette mai di interrogare, e di interrogarsi, anche a costo di mettere in discussione ogni presunta certezza. Essere cristiani è un rischio, ci ha insegnato il pellegrino Joseph Ratzinger. Un magnifico, umanissimo rischio. Grandioso, come ogni domanda che sappia incrinare la durezza del nostro cuore.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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La Chiesa è di Cristoma resta affidata a noi

di Maurizio Patriciello

Una cosa è certa: Gesù non ci ha mai ingannati. I Vangeli non ci han-no nascosto niente, nemmeno le miserie e i tradimenti dei suoi ami-

ci. San Pietro, l’Apostolo che avrebbe dovuto ricordare a tutti che Dio c’è e veglia su di loro; che ogni lamento, ogni ingiustizia ogni lacrima versata non vanno perduti ma raccolti e custoditi negli scrigni dei cieli; che il passaggio in questo mondo – davvero tanto breve – non è che l’in-troduzione al libro della vita, nel momento più difficile lo lasciò solo in mezzo ai degli energumeni che lo sbeffeggiavano flagellandolo e sputan-dogli addosso. «Il Vangelo – ha detto il Papa nella sua ultima catechesi di mercoledì 27 febbraio – purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia… Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano». Parole che avevano il sapore di un testamento spirituale che lascia alla Chiesa da lui amata e servita.Il termine gioia è risuonato diverse volte. Non il peso, non il dovere, ma la gioia di essere cristiano. Il Papa ha candidamente confessato che «vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate e il vento contra-rio, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire». Chi di noi non ha vissuto momenti in cui Dio sembrava essere lontano, inafferrabile? Chi non gli ha chiesto, almeno una volta nella vita, con il cuore stretto in una morsa: «Signore dove sei? Perché te ne stai lonta-no?». Eppure, ha detto il Papa, «ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare». Quanta serenità

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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traspare in queste parole. La Chiesa è di Cristo. È lui che l’ha acquistata a prezzo del suo sangue. E in questa Chiesa, come nella rete di Pietro il pescatore, finiscono pesci di ogni tipo. E insieme ai pesci qualcosa che con il mare non dovrebbe avere niente a che fare.

La Chiesa è sua, ma è affidata a noi. A noi che dovremo tremare ogni volta che accostiamo un fratello per annunciargli il Regno. Dio nessuno mai lo ha visto. Ai suoi figli è affidato il compito di renderlo presente agli uomini. E la nostra serietà, la nostra coerenza, la nostra santità possono facilitare l’incontro. Quale responsabilità. Una missione ardua, affasci-nante, unica, certamente. Ci mette al riparo da ogni sciocca presunzione il fatto che non siamo stati noi, ma Lui a volere così. Fu Lui infatti che, pur sapendo di rischiare, volle mettere nelle nostre mani la Parola e i Sacramenti. L’Eucarestia, un Pane che nella sua semplicità nasconde una Presenza vera. La presenza stessa di Cristo. I cristiani lo mangiano, lo conservano, lo adorano, ma potrebbero anche – e tante volte è accadu-to – rigettarlo, calpestarlo, profanarlo. Così come la vita, che può essere accolta, apprezzata, custodita, ma anche rinnegata, maltrattata, uccisa.Questa libertà non dice il fallimento di Dio quanto piuttosto l’immensa considerazione che Dio ha di ognuno di noi. E anche dopo essere stato maltrattato e rinnegato Dio non si arrende ma continua imperterrito a cer-care l’uomo per ricominciare daccapo. Come se lo spuntare di ogni alba fosse l’inizio di una nuova umanità. È stato emozionante vedere il Papa, il vicario di Cristo in terra, mentre ci apriva il cuore: «Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi». Parole che i cristiani cattolici non dimenticheranno facilmente. Siamo stati chiamati a servire la Chiesa, sposa e corpo di Cristo e farla, con la nostra vita di preghiera e di fedeltà al Vangelo, più bella e trasparente. Servirci della Chiesa per noi stessi sarebbe tradire e rinnegare la vocazione ricevuta in dono. Grazie, Santo Padre.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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«Non ci ha lasciato orfani»di Javier Echevarría *

«Non vi lascerò orfani» (Gv 14, 18), disse Gesù agli apostoli: pro-mise che avrebbe mandato loro lo Spirito Santo che, a sua volta

li avrebbe costituiti pienamente figli di Dio Padre. Non vi lascerò orfa-ni: sono queste le parole che affiorano nella mia anima mentre finisce il pontificato. Benedetto XVI non ci lascia orfani, perché prosegue vivo il suo magistero, perché ci farà compagnia con la sua preghiera e con il suo affetto paterno, perché ogni giorno diventa più forte la sua figura di Buon Pastore e, infine, perché lo Spirito Santo continuerà a guidare la sua Chiesa con un nuovo romano Pontefice.Il ricco magistero di Benedetto XVI manifesta la sua straordinaria ca-pacità di coniugare verità profonde con parole semplici. Ha approfittato dell’apparente «eclissi di Dio» per invitarci a riscoprire il senso di Dio, Creatore e Redentore, che opera sempre nel nostro mondo.Ci ha ricordato con forza l’essenza amorevole di Dio e, di conseguenza, la ragion d’essere dell’uomo e del suo cammino che, in questo Anno del-la fede, trova un riferimento sicuro nel Catechismo della Chiesa cattolica e nel suo Compendio, frutti del Concilio. Nell’omelia di inaugurazione del suo ministero petrino, Benedetto XVI ci aveva invitati a incamminarci verso l’intima amicizia con il Figlio di Dio, da cui tutto dipende. Dio parla e risponde ai nostri quesiti: non si disinteressa di noi. Ricordo come, in occasione della canonizzazione di san Josemaría, l’allora cardinale Ratzinger glossava l’espressione «Opus Dei», Opera di Dio: il senso profondo di queste parole consiste nel lascia-re che Dio agisca, perché la vita del cristiano si traduce soprattutto nel de-siderio che la grazia e la carità di Cristo operino nella propria esistenza.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Così, acquista anche un particolare rilievo la sua riflessione sullo spirito della liturgia che, nell’esprimere l’intima unione della Parola con il Pane eucaristico, aggiunge la dimensione essenziale dell’adorazione e risolve, elevandoli, tanti dibattiti. La partecipazione di ogni cristiano all’Eucari-stia è, prima di ogni cosa, interiore, perché nella liturgia Dio prende l’i-niziativa: quello che viviamo nella Messa è performativo, sempre nuovo, perché lì Cristo ci trasforma.Alla fine di una giornata di faticoso lavoro, uno stretto collaboratore invi-tò Giovanni Paolo II a risparmiarsi. «Dopo un Papa, ne viene un altro», fu la risposta. Dunque, anche ora siamo tranquilli e pieni di speranza nelle mani di Santa Maria, Madre di Dio e Madre nostra: la Sede di Pietro sarà sempre principio e fondamento dell’unità della Chiesa, e stabile punto di riferimento per il mondo. Il Papa ha preso una decisione libera, meditata nella preghiera, per il bene della Chiesa; per questo abbiamo accolto con pena questa notizia, ma con animo affettuosamente filiale e rispettoso. Lo stesso Benedetto XVI ci ha assicurato che continuerà ad aiutarci con la sua preghiera: una preghiera sulla quale tutti noi, figli e figlie della Chiesa, possiamo riposare fiduciosamente, come negli anni del suo pon-tificato.Ringrazio Dio per le diverse occasioni nelle quali, come Prelato dell’O-pus Dei, sono stato ricevuto da Benedetto XVI. Mi commuovo, ora, ripen-sando alla sua semplicità e disponibilità, alla sua benevola accoglienza, alla sua capacità di ascolto, al suo interesse per le notizie sull’espansione apostolica della Prelatura. Ho potuto toccare con mano la sua attenzione, da quell’autentico professore universitario che è, quando gli si parlava di qualche iniziativa di carattere più intellettuale o del lavoro a servizio dei malati terminali o di altre persone in difficoltà.Il Papa non esitava a prendere paternamente tra le sue mani quelle del suo interlocutore, infondendogli coraggio con affetto, con gesti attenti e pazienti: sì, è veramente un padre, colmo di zelo per l’attività di evange-lizzazione che tanti cristiani compiono a tutte le latitudini.Assecondando l’invito di Benedetto XVI durante l’Angelus del 17 feb-

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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braio, preghiamo già per il prossimo Papa. Sentirci orfani? No! Lo Spiri-to Santo opera in questo tempo della Chiesa. Un altro Pietro verrà, con le sue reti in spalla, nuovo vescovo di Roma e nuovo Padre per la famiglia dei figli di Dio. E al papa Benedetto XVI, che sta per passare al suo suc-cessore il timone della barca del pescatore di Galilea, diciamo di tutto cuore: grazie, Santo Padre, perdono per le nostre mancanze di corrispon-denza ai suoi richiami di Buon Pastore; la preghiamo di non cessare di aiutare tutto il popolo di Dio con la fecondità del suo pensiero e della sua preghiera!

* prelato dell’Opus Dei

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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2 marzoOra la Chiesa attende

La tranquilla giornata di Benedetto XVI tra preghiera, riflessione e lettura

di Gianni Cardinale

«Il Santo Padre è sereno», ha detto il “portavoce” vaticano padre Federico Lombardi nel briefing con i giornalisti di ieri, riferendo

i contenuti di un colloquio avuto con l’arcivescovo Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia e segretario del Papa emerito che ha ac-compagnato a Castel Gandolfo. Il direttore della Sala Stampa vaticana ha riferito che Benedetto XVI nella serata di giovedì, quando era già entrata in vigore la Sede Vacante, «ha seguito come le televisioni hanno raccontato le tante emozioni del pomeriggio di ieri» ed «ha apprezzato il buon lavoro e la buona informazione». Il Papa ha seguito e apprezzato le tv italiane, in particolare tutti i servizi del Tg2 e - per motivi di orario - parte di quelli del Tg1. Dopo aver consumato la cena, Benedetto XVI come suo solito ha fatto una passeggiata, questa volta all’interno degli ampi saloni del Palazzo apostolico, quindi si è ritirato per la preghiera e il riposo. Il Papa ha «dormito benissimo» ha aggiunto padre Lombardi, spiegando poi che nella mattinata di ieri ha celebrato Messa, quindi ha re-citato il breviario e ha fatto colazione. La giornata - ha riferito ancora - è poi trascorsa nella preghiera e nella riflessione, leggendo i tanti messaggi che gli sono arrivati e la consueta passeggiata nei giardini. Padre Lom-bardi ha anche detto che Benedetto XVI ha portato con sé alcuni libri di teologia, spiritualità e storia, tra i quali “L’estetica teologica” di Hans

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Urs von Balthasar. «Nei giorni passati, – ha quindi riferito il “portavoce” vaticano – il Papa suonava il pianoforte alla sera, dopo la cena - e questo anche nelle settimane scorse - come segno, direi, della distensione e del-la serenità del suo animo. Ieri sera, in particolare, monsignor Gänswein non lo ha sentito suonare, ma pensa che nei giorni prossimi riprenderà sicuramente».

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Re: «E’ stato il Papadella fede amica della ragione»

di Mimmo Muolo

È stato «il Papa mite», «il Papa della fede profondamente amica della ragione». Ma di «una ragione che va oltre i ristretti confini dell’intel-

ligenza umana». E proprio per questo «è stato anche il Papa che i cultori della ragione pura e del laicismo non hanno voluto comprendere, ostaco-landolo in tutti i modi». Tuttavia, per il cardinale Giovanni Battista Re, nonostante le difficoltà, «gli otto anni di Benedetto XVI rimarranno nella storia» e il Papa ora emerito deve essere considerato «un protagonista del pensiero e della coscienza». Il prefetto emerito della Congregazione per i vescovi (incarico mantenuto fino al 30 giugno 2010), 79 anni ben portati, accetta di fare in questa intervista ad Avvenire una riflessione a caldo del pontificato appena concluso. Dall’inizio della Sede vacante non sono ancora passate 24 ore e all’interno delle Mura Leonine, dove si trova la residenza del porporato, c’è uno strano silenzio. Qui sembra quasi di poter toccare con mano il Cupolone e le mura esterne della Sisti-na. E la Domus Sanctae Martae, che ospiterà i cardinali elettori durante il Conclave, è a meno di 100 metri. Ma il pensiero del cardinale Re per il momento è rivolto soprattutto a Benedetto XVI e alla «grande eredità spirituale che ha lasciato».

Eminenza, che cosa ha pensato alle otto di giovedì sera, quando si è chiuso il grande portone del Palazzo di Castel Gandolfo?

Ho avvertito, penso come tutti, una grande emozione. Vedere chiuso quell’imponente portone mi ha stretto il cuore, perché si è chiuso un pe-

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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riodo in cui Benedetto XVI ha dato molto con i suoi discorsi e con il suo insegnamento. Ma si è aperta una nuova fase nella quale il Papa si dedi-ca al ministero della preghiera e lascia a energie nuove il governo della Chiesa. Abbiamo in sostanza anche noi un Mosè sul monte. Benedetto XVI infatti ha detto che non lascia la croce e che non ci abbandona. Egli continuerà ad esserci vicino mediante il ministero dell’intercessione a favore della Chiesa e dell’umanità. Come Mosè è salito sul monte per aiutare il suo popolo a vincere contro Amalek, così Benedetto XVI si dedicherà al bene della Chiesa con le mani alzate nella preghiera.

Come definirebbe il pontificato di Benedetto XVI?

Questi otto anni resteranno nella storia per l’alto insegnamento che egli lascia con le tre encicliche, con i suoi numerosi documenti, con i tanti discorsi e con i tre volumi dedicati a Gesù di Nazaret. Si è rivelato un protagonista sul piano del pensiero e delle coscienza, nello sforzo di aiu-tare tutti a dare spazio alla luce che viene da Dio e che dà senso all’umana esistenza.

Qual è a suo avviso la cifra distintiva della sua eredità?

Benedetto XVI ha detto chiaramente al mondo che senza Dio non c’è fu-turo. Dobbiamo infatti ricordare la sua ferma opposizione alla «dittatura del relativismo» e la continua riaffermazione dei valori morali, facendo leva sulla legge naturale, iscritta nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. Tutto il suo pontificato, inoltre, è stato orientato a ravvivare e irrobu-stire nei cristiani la fede in Dio, e in questo senso va anche l’indizione dell’Anno che stiamo vivendo. In pari tempo però ha cercato di valoriz-zare la ragione e di ampliare il suo spazio, nella profonda convinzione che «il mondo della ragione e il mondo della fede hanno bisogno l’uno dell’altro».

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Perché allora si ha come l’impressione che su molte questioni egli non sia stato capito?

Effettivamente questo è un paradosso, anche perché a non volerlo capire sono stati soprattutto i cultori della ragione pura e assoluta. Amalek, in fondo, esiste anche oggi e si nasconde sotto le forme del secolarismo. Di qui l’indicazione fondamentale di questo pontificato. Il mondo, dice in pratica papa Ratzinger, ha molti problemi sociali, economici, politici, ma quello che sta alla radice di tutto è la mancanza di fede in Dio. Perciò Benedetto XVI ha mirato dritto al cuore e questo ha dato molto fastidio a chi vorrebbe cancellare Dio dall’orizzonte umano. Bisogna però dire che le sue riflessioni sui temi culturali, morali ed esistenziali sono state ascoltate anche da persone lontane e illuminate, perché Joseph Ratzinger oltre che un grande teologo, è stato un grande pensatore. E in tale veste ha cercato di capire il nostro mondo moderno nel quale la globalizzazione – come afferma nella Caritas in veritate – ha reso gli uomini più vicini, ma non più fraterni.

C’è un messaggio anche nella sua rinuncia?

Secondo me è un gesto che va apprezzato e ammirato per l’alto senso di responsabilità che l’ha ispirato. Ad esempio, so per certo che si preoccu-pava di non avere le forze sufficienti per fare un viaggio lungo e faticoso come quello a Rio de Janeiro per la prossima Gmg. Ma lì il Papa deve esserci, diceva. In un tempo in cui domina l’attaccamento ai centri di potere, il gesto del Papa ora emerito ci insegna che quando non si è più in grado di compiere il proprio servizio, bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro e di lasciare spazio ad altri.

Qualcuno ha visto nei discorsi degli ultimi giorni di papa Ratzinger il valore di una indicazione di prospettiva destinata ai cardinali che eleggeranno il suo successore. Lei che ne pensa?

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Penso che questo discorsi vadano letti nella prospettiva di tutto il suo pontificato e ci consegnano l’immagine di una Chiesa realtà viva, che si alimenta della forza di Dio. Una Chiesa solidale con i problemi dell’uo-mo e che cerca ovunque di aiutare e di seminare il bene.

Ma in definitiva quando si aprirà la porta della Cappella Sistina, quale sarà il suo stato d’animo?

Sicuramente avvertirò un grande senso di responsabilità, per aiutare a scegliere il Papa di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno in questo momento.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Purissima gioia, scintilla divinaRaffaele Vacca

Nel momento in cui Benedetto XVI ha lasciato volontariamente il pa-pato, è opportuno non fare entrare nell’animo tristezza ed amarez-

za, ma quella gioia alla quale egli ha invitato durante tutto il suo pontifi-cato, quantunque sapesse che il mondo tendeva sempre più ad abbassare il nobile e l’alto e a far perdere le dimensioni più profonde dell’esistenza. E quindi ad allontanare dalla vera gioia. Per comprendere bene qual sia la gioia alla quale Benedetto XVI ha invitato, ci possono aiutare due testi della letteratura tedesca. Uno è la prima delle Lettere sull’autofor-mazione di Romano Guardini, pubblicate nel 1921; l’altro è l’ode alla gioia (An die Freude) scritta da Friedrich Schiller nel 1786, che Ludwig van Beethoven usò in parte per il finale della sua grandiosa Nona Sinfo-nia, che esprime il passar della solitudine desolata alla gioia universale. Subito all’inizio della sua lettera, Romano Guardini, considerato da Jo-seph Ratzinger “grande maestro”, scrive che c’è completa diversità tra l’essere allegri e la gioia. Questa vive nell’intimo, è silenziosa, profon-damente radicata, ed è sorella della serietà. L’essere allegri invece è un fatto esterno, rumoroso, che presto si dissolve. La gioia trasforma ogni cosa ed illumina il mondo. Viene e va a piacer suo. Tuttavia ognuno può tendere verso d’essa; ciascuno la può possedere. «Non proviene dal de-naro, da una vita comoda, o dal fatto d’essere riveriti dalla gente, anche se da tutto questo possa essere influenzata». Viene piuttosto dalle cose nobili, da un lavoro intenso, da una parola gentile, che si è sentita o si è potuta dire, dall’essersi opposti coraggiosamente all’errore di qualcuno o dall’aver raggiunto una veduta chiara in qualche questione importante. Dopo aver ricordato che è nell’interiore che abita Dio, che è la verità,

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Romano Guardini afferma che è Lui la fonte vera della gioia. Se si è una sola cosa con Dio allora la sua gioia fluisce in noi, anche se il mondo esterno è contrario. Ma l’essere una sola cosa con Dio deve essere libero, coraggioso, non forzato, angosciato o diffidente. Prima di ogni lavoro o al sopraggiungere di qualcosa di nuovo ci si deve domandare lietamente che cosa si debba fare, senza lasciarsi ingannare dal capriccio, dalla vo-lubilità, dall’indolenza verso se stessi. E bisogna sempre tener presente che due sono i grandi nemici della gioia: il malumore e la malinconia. Il malumore deriva dal prendere sempre tutto a male, dal non saper ridere, dal non saper rinunciare, dal non saper lasciar correre. La malinconia, che infonde vaga tristezza, struggente inquietudine, e spinge a rinchiu-dersi in se stessi, è una forza oscura che disgrega l’anima, se non la si ferma al primo avvertirla, e porta a non padroneggiare più la propria vita. Friedrich Schiller inizia la sua ode invitando gli amici a tralasciare i soliti suoni e ad intonarne altri, più piacevoli e più gioiosi. Poi scrive che la gioia è una bella scintilla divina, che ha la magia di ricongiungere ciò che la moda ha rigidamente diviso, e di far sì che tutti gli uomini che l’avvertano diventino fratelli. Gioia vien donata agli uomini dalla natura con i suoi luoghi di divina bellezza. Sia i buoni che i malvagi seguono la traccia della gioia. Schiller invita tutti a percorrere gioiosamente la propria strada, così come gli astri percorrono la loro nella splendida volta del cielo. Dopo aver esortato le moltitudini del mondo ad abbracciarsi, ad essere fratelli, dice: «Sopra il cielo stellato deve abitare un padre affet-tuoso». E domanda: «Vi inginocchiate, o moltitudini? Intuisci il tuo cre-atore, o mondo?». E conclude: «Cercalo sopra il cielo stellato! Sopra le stelle deve abitare!». Aveva scritto Romano Guardini che ogni volta che sinceramente diciamo: «Signore, io voglio ciò che tu vuoi», è aperta la via verso la gioia di Dio. Per questo siamo certi che per Benedetto XVI, il quale ha compreso che per il bene della Chiesa il Signore ha voluto la sua rinuncia al papato, si sia aperta la via verso quella gioia di Dio, che costantemente ha augurato a tutti gli uomini del mondo di buona volontà. E ciò sentendo anche in noi stessi quella purissima gioia che è stata spes-so goduta nei tempi che sono svaniti.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Rusconi: «Una decisione spontaneae un atto di libertà»

di Marco Roncalli

Pensato e scritto in tempi record Il gran rifiuto. Perché un Papa si di-mette (Morcelliana, pp.152, euro 7,90) non va confuso con le raccol-

te giornalistiche appena uscite su quella che dall’11 febbraio scorso con-tinua ad essere la “notizia”. E non solo perché a firmare l’instant-book è professore di Storia del cristianesimo all’Università di Roma Tre, ma perché Roberto Rusconi, l’autore, ha già dedicato al papato opere im-portanti. Così la vera difficoltà non è stata raccontare e interpretare – tra storia, spiritualità e politica – le rinunce di lontani predecessori di Bene-detto XVI: quelle alle origini della Chiesa,ad esempio con Ponziano (ve-rosimilmente nel 235), quella volontaria di Celestino V (Papa per pochi mesi nel 1294), quelle coatte fra ’300 e ’400, durante lo scisma e la crisi conciliare della Chiesa d’Occidente (alle quali segue il consolidamento del potere dei successori di Pietro). E nemmeno dar conto delle ipotesi che tentarono Pio XII e Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. La vera difficoltà è stata quella di spiegare quanto appena successo, preso atto che - dopo più di sette secoli - Benedetto XVI ha reso effettiva una possibilità astrattamente prevista dal Diritto canonico, e che la sua rinun-cia torna a segnare una cesura nella storia della Chiesa.

Professor Rusconi è così?

Sì. Se le precedenti rinunce da parte di un Papa regnante sono state for-malmente volontarie, in un certo senso erano forzate dagli avvenimenti, anche esterni alla Chiesa. Mentre la rinuncia da parte di Benedetto XVI è

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spontanea e apre oggettivamente scenari inattesi.

Decisione spontanea e atto di libertà. Lei però nel suo libro evoca anche il Vaticano II...

Sì. Alla base della decisione c’erano già precise premesse anche oltre la biografia di Ratzinger : Concilio e post Concilio…Ci pensi .Lo stesso profilo individuale di Benedetto XVI per molti versi richiama la persona-lità di Paolo VI. E non è per nulla casuale che due pontefici di una simile caratura intellettuale, all’indomani del Vaticano II, abbiano pensato di rinunciare al papato e che Ratzinger lo abbia fatto.

La tentazione della rinuncia, ha sfiorato anche altri papi del ’900...

In ben altri contesti. Si pensi alla lettera di rinuncia al pontificato, che Pio XII avrebbe preparato, davanti ai rischi di rapimento da parte di Hitler : «Così avrebbero portato via il cardinal Pacelli non il Papa», secondo quanto riferì il cardinal Tardini. E fu sempre lui, anni dopo, ad affermare che Pio XII avrebbe dato disposizioni perché l’elezione del suo successo-re si tenesse a Lisbona, nel territorio neutrale del Portogallo.

Un Conclave dell’esilio dopo quasi un secolo e mezzo...

Sì: come non si vedeva dal 1800, anno in cui a Venezia, sotto la prote-zione dell’imperatore d’Austria, Pio VII fu eletto a succedere a Pio VI, morto in Francia, dove era stato deportato dalle armate repubblicane..

A giorni inizierà il Conclave. Vi sono possibilità che il successore si avvalga dell’aiuto non solo spirituale di Benedetto XVI? Cosa dice la storia?

L’unica coesistenza fra due Pontefici legittimi è quella di Bonifacio VIII

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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e Celestino V, ma il primo mise letteralmente sotto chiave il secondo sino alla morte. C’era il timore che i suoi sostenitori dessero vita a uno scisma. Tuttavia facendo riferimento a quanto potrà accadere oggi, per Benedetto XVI la natura dei rapporti dipenderà molto dalla scelta del suo succes-sore e dagli orientamenti che vorrà imprimere al suo nuovo pontificato.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Il presidente della nuova Accademiadi latinità, Ivano Dionigi: il «suo» latino,

lingua del dialogodi Matteo Liut

Nello scrigno dei tesori che il pontificato di Benedetto XVI lascia in eredità alla Chiesa c’è anche una rinnovata attenzione al latino.

Un amore, quello per la classicità, coltivato a lungo dal teologo Joseph Ratzinger e culminato nell’istituzione della Pontificia Accademia di la-tinità. Secondo il presidente del nuovo organo, Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna, quella auspicata dal Pontefice tedesco non è un’attività da archeologi ma un’opera «di cultura» in grado di dare soli-de fondamenta a tutta la Chiesa e di rispondere alle domande del tempo attuale.

Professore, da dove nasce questa premura per il latino da parte di Ratzinger?

Da uomo colto quale è, nasce di certo dalla sua sensibilità, dal suo gu-sto estetico letterario. Ma a questo si aggiunge la consapevolezza che il latino nella storia è stato la lingua dell’«imperium», dello «studium» e dell’«ecclesia». Inoltre questa lingua ha in sé tre proprietà che trovano corrispondenza nelle caratteristiche della fede: l’eredità, l’universalità e l’immutabilità. Innanzitutto, infatti, essa è stata la lingua dei Padri della Chiesa, la lingua dei teologi, la lingua del diritto canonico, la lingua dei Concili, la lingua della liturgia. Poi è la lingua con cui la Chiesa si è rivol-ta a tutti i popoli. Infine, nella fissità di quella che tutti considerano una

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lingua morta si rispecchia l’immutabilità del nucleo della fede. È chiaro quindi che alcune letture della scelta di Ratzinger di rilanciare il latino sono limitate e banali. A spingere Benedetto XVI in questa direzione non è stata, come qualcuno ha detto, la volontà di ricomporre la frattura con i lefebvriani o un semplice ritorno al passato, ma qualcosa di più grande e complesso, qualcosa che viene da lontano. D’altra parte l’attenzione alla lingua e alla cultura latine – che andrebbero accompagnate anche con quelle greche classiche – è un’eredità che Benedetto XVI ha raccolto dai Pontefici suoi predecessori. E forse l’allarme è partito anche dal fatto che oggi pure tra il clero il latino è poco conosciuto.

Ma a cosa può servire il latino oggi alla Chiesa?

Negli ultimi tre lustri a forza di chiederci cosa serve e cosa non serve, in realtà, ci siamo tutti impoveriti. A forza di ragionare in questo modo ci siamo creati un deficit di pensiero e di attenzione all’anima, come ha ben compreso Benedetto XVI. Certo si potrebbe obiettare che oggi la Chiesa ha ben altre priorità, come l’evangelizzazione. Ma con il “benaltrismo” si fa poco, anche perché io credo che oggi la riscoperta del latino non abbia solo un valore fondativo, di ritorno alle radici. In realtà questo rilancio può offrire un contraltare alla modernità, può essere sanamente e positi-vamente antagonistico al presente.

E in che modo questo sarebbe costruttivo?

Il latino è una lingua tutta imperniata sulla temporalità, sul verbo, è una lingua «sub specie temporis». Questo è il «di più» della riscoperta della lingua e della cultura latina oggi, in un momento in cui tutto è sincronico e c’è la dittatura del presente. In latino anche l’«ordo verborum», l’ordine delle parole, ti fa riscoprire la dimensione del tempo e la vita dell’uomo è tempo. Noi oggi abbiamo bisogno della storia. Inoltre il latino insegna la complessità.

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Lei auspica, insomma, che tutti studino il latino?

No, non penso che tutti obbligatoriamente debbano sapere il latino. Ma credo che, come ha saputo ben cogliere anche Ratzinger, il latino sia una ricchezza da spendere. Per questo sono convinto della necessità che nella Chiesa e nelle università ci sia ancora chi capisce il latino, lo insegna e lo sa scrivere. È necessario per permetterci di continuare oggi a essere mediatori culturali: per tradurre i padri, gli autori classici e tutto il patri-monio della Chiesa bisogna sottoporre i testi alle sollecitazioni del tempo attuale e allora a domande nuove bisogna dare risposte nuove. È falsa, insomma, la contrapposizione tra i «progressisti» che sono per l’inglese e internet e i «conservatori» che sono per il latino.

Non c’è il rischio che il latino venga percepito come «lingua del pote-re» che allontana la Chiesa?

Io penso che la Chiesa debba continuare a farsi capire il più possibile e che anche in quest’opera debba guardare al latino come a uno strumento, non un fine. È vero, poi, che nel passato alcuni hanno fatto un uso ideo-logico dei classici, mettendoli al servizio del potere, ma il latino non è un fatto ideologico è un fatto culturale. Per usare un’espressione di Massimo Cacciari in realtà i classici non sono al servizio del potere, ma ci liberano dal potere, ci insegnano ad ascoltare senza ubbidire passivamente. D’al-tra parte l’attenzione ai nuovi media ha dimostrato che Ratzinger è un uomo sensibile al dialogo e l’amore per il latino rientra in questo solco. Il latino, insomma, a mio parere è un supplemento al dialogo in senso etimologico: avvicina al logos, insegna a parlare e a ragionare bene.

Cosa ha provato quando Benedetto XVI ha annunciato le sue dimis-sioni in latino?

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Ho pensato che non poteva darle se non in latino, in coerenza con l’an-nuncio dell’«habemus Papam». Un gesto in linea con il suo amore per questa lingua, che ha voluto affidare anche ai nuovi media. E poi giusta-mente quello era un contesto solenne, un Concistoro. Confesso, infine, di aver pensato che quell’annuncio dava un bel «vantaggio» al latino.

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3 marzoIn preghiera verso il Conclave

Conclave, in arrivo i cardinali elettoridi Gianni Cardinale

È una domenica senza Angelus papale in piazza San Pietro, quella odierna. La prima della Sede vacante iniziata giovedì sera alle 20

con l’entrata in vigore della rinuncia di Benedetto XVI. Ma nella Basi-lica Vaticana i momenti di preghiera si moltiplicano. C’è l’adorazione permanente iniziata nella cappella del Santissimo in San Pietro, dove tre religiose contemplative messicane si alternano davanti a Gesù Eucaristia. Mentre prima della Messa della sera, sempre in Basilica, viene elevata una preghiera speciale per il Collegio dei cardinali e per la preparazione all’elezione del nuovo Papa. Lo ha precisato ieri il portavoce vaticano pa-dre Federico Lombardi nel corso del consueto briefing con i giornalisti.

Nell’occasione il direttore della Sala Stampa vaticana, ha puntualizzato che ancora non è chiaro quanti saranno i cardinali elettori presenti do-mani, quando alle 9,30 inizieranno i lavori della Congregazione genera-le, nell’Aula Nuova del Sinodo, attigua alla Sala Nervi in Vaticano. «A Roma - ha detto padre Lombardi - risultano risiedere permanentemente 75 cardinali». E ha aggiunto: «66 cardinali, che non risiedono a Roma, hanno già indicato esattamente la loro residenza, in modo che il Collegio cardinalizio possa essere in contatto con loro, e hanno indicato anche la data del loro arrivo. Altri stanno arrivando». Tuttavia «gli officiali del Collegio ritengono che prima di lunedì, alla prima riunione, non avremo ancora un conto preciso dei presenti». Inoltre «sono arrivate anche alcune

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informazioni di cardinali che non parteciperanno: non solo i due elettori di cui abbiamo già parlato, ma anche diversi non elettori hanno comu-nicato che per motivi di salute non verranno». Come è noto i cardinali sono complessivamente 207, di cui 117 elettori, e di questi hanno già dichiarato di non venire a Roma l’indonesiano Julius Darmaatmadja e lo scozzese Keith Michael Patrick O’Brien.Il portavoce vaticano ha inoltre spiegato che l’«anello piscatorio» di Be-nedetto XVI non è stato ancora annullato, ma che la segreteria di Stato ha consegnato alla Camera Apostolica i sigilli con cui si bollavano le lettere a nome di Sua Santità: in pratica i timbri sono stati rigati, in modo da non essere più utilizzabili.

In un suo editoriale per la Radio Vaticana, di cui è direttore, padre Lom-bardi ha inoltre osservato come «gli ultimi due giorni del pontificato di Benedetto XVI rimarranno certamente scolpiti nella memoria di innume-revoli persone e segneranno una tappa importante, nuova e inedita, della storia della Chiesa in cammino». «Se papa Wojtyla - ha aggiunto - aveva dato con coraggio ammirevole davanti agli occhi del mondo la sua testi-monianza di fede nella sofferenza della malattia, papa Ratzinger con non minore coraggio ci ha dato la testimonianza dell’accettazione davanti a Dio dei limiti della vecchiaia e del discernimento sull’esercizio della re-sponsabilità che Dio gli aveva affidato». «Come ci ha detto efficacemen-te lui stesso, la rinuncia del Papa non è in nessun modo un abbandono, né della missione ricevuta, né tanto meno dei fedeli», ha puntualizzato padre Lombardi. Che ha così proseguito la sua riflessione: «In questo senso il lascito di papa Benedetto XVI è oggi un invito alla preghiera e alla responsabilità per tutti. Anzitutto naturalmente per i cardinali su cui incombe il compito dell’elezione del Successore, ma anche e non meno per tutta la Chiesa, che deve accompagnare nella preghiera il discerni-mento degli elettori e dovrà accompagnare il nuovo Papa nel compito di annunciare efficacemente il Vangelo “per il bene della Chiesa e dell’u-manità”, e di guidare la comunità ad una fedeltà sempre più grande allo

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stesso Vangelo di Cristo».Come già detto, domani mattina ci sarà la prima delle Congregazioni ge-nerali dei cardinali che precedono il Conclave vero e proprio, il cui inizio verrà stabilito non subito ma nel corso delle riunioni successive. Con le vecchie norme si dovevano tassativamente attendere 15 giorni dall’inizio della Sede vacante. Ora con il recentissimo motu proprio emanato da Be-nedetto XVI se al netto degli assenti «giustificati» - saranno presenti tutti i porporati elettori, la data di inizio del Conclave potrà essere anticipata. Saranno tutti i cardinali presenti, votanti e no, a deciderlo a maggioranza semplice.

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Ore 20, la porta è chiusaMa lui rimane con noi

di Lucia Bellaspiga

Da tempo ormai conoscevamo tutto, il giorno e perfino l’ora: sareb-be accaduto il 28 febbraio, alle 20. Abbiamo avuto due settimane

per arrivare pronti all’evento e infatti credevamo di esserlo. Invece c’era ancora qualcosa cui nessuno era preparato, qualcosa che non avevamo previsto: la chiusura del grande portone. Alle 20, quando già avevamo consumato (credevamo) tutte le nostre emozioni - il Papa che per l’ultima volta esce dal Vaticano, il pianto del suo autista, quel volo su Roma in elicottero per salutare ancora una volta l’Urbe e il mondo, il commiato dal balcone di Castel Gandolfo e alla fine quella finestra rimasta zitta e vuota - i due battenti di legno del Palazzo Apostolico si sono serrati. Dentro lui, fuori noi. Ultima immagine attraverso l’estremo spiraglio, il volto impassibile di una guardia svizzera. Ammutolita a un tratto la folla che fino a poco prima aveva urlato a gara con le campane a festa. Sguardi smarriti, in piazza come nelle case, tra chi era lì e chi seguiva dalle tele-visioni, perché il brivido era lo stesso per tutti: e adesso? C’è sempre un senso di ineluttabilità in una porta che si chiude, il presagio di qualcosa di irrimediabile, specie se chi ha varcato la soglia ci ha detto che non uscirà più. È come se un muro invalicabile fosse improvvisamente cresciuto e ci dicesse «mai più». Ricordo il giorno in cui mia sorella, oggi suora di clausura, varcò senza voltarsi indietro quella stessa soglia, e il silenzio in cui rimanemmo tutti al serrarsi dei battenti. Dentro lei, fuori noi. Ma così non è, ce l’ha predetto tante volte Benedetto XVI in queste due settimane di congedo: vi resterò accanto nella preghiera, ci aveva avvertiti, non vi lascio soli, pur nel silenzio e nel nascondimento io sarò sempre con voi

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e al servizio della Chiesa. Parole che avevamo ascoltato, accolto, ama-to, che ci avevano confortato e commosso, ma che abbiamo capito solo quando quel portone ci ha detto che il tempo era finito, che ora tutto si sa-rebbe avverato. Benedetto ce lo ha annunciato fino all’ultima occasione, due ore prima del futuro silenzio: «Sono sommo Pontefice della Chiesa cattolica fino alle otto di sera, poi non più. Ma vorrei ancora con il mio cuore, con la mia preghiera, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune della Chiesa e dell’umanità», ha detto prima di sparire forse per sempre alla nostra vista, ma solo a quella. Ci sono porte che si chiu-dono per spalancarsi al mondo, come ben sa chi entra per sua scelta e, varcata la soglia, comincia il grande viaggio («Voi sapete che questo mio giorno è diverso da quelli precedenti. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio su questa terra»), mentre chi resta fuori fatica ad accettare, guarda a quei battenti come a una pietra tombale, piange e pensa sia finita. E invece no, ci soccorrono ancora una volta le parole dell’ormai Papa emerito, che la mattina rivolto ai cardinali aveva raccomandato la preghiera, «autentica gioia che nessuno ci può togliere», nemmeno un muro altissimo o la più gigantesca delle porte. Ai cardinali e a tutti noi ha chiesto di crederci, di saperlo. Di rimanere «uniti in questo mistero» che è la preghiera, certi che lui continuerà a farlo al nostro fianco. Noi piangiamo e lui ci parla di gioia. Noi di «mai più», lui di «per sempre». Questione di prospettive: tre ore prima, alle 17.08, all’annuncio del decollo dell’elicottero con il Papa a bordo, mentre a Roma si piangeva una partenza a Castel Gandolfo la folla scoppiava in un applauso che annunciava un arrivo. Come avviene con il Veliero di Wil-liam Blake, che in piedi sulla spiaggia qualcuno vede salpare, ma su una riva lontana altri vedono apparire: «La sua scomparsa dalla mia vista è in me, non in lui - scrive il poeta. - E giusto nel momento in cui qualcuno vicino a me dice “è partito”, ce ne sono altri che lo vedono apparire all’o-rizzonte, puntare verso di loro esclamando di gioia “Eccolo!”». Questo ci dice il portone che alle 20 ha sbarrato il nostro sguardo miope per aprirci l’orizzonte dove il «mai più», figlio della nostra umana limitatezza di vo-ler vedere con gli occhi e toccare con mano, diventa il «per sempre» che travalica i sensi, i muri, le porte.

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Fisichella: “Ci ha indicatola centralità di Cristo”

di Mimmo Muolo

Sorprendente dall’inizio alla fine. Da quella elezione avvenuta a 78 anni (cioè 20 in più dell’età che aveva Giovanni Paolo II all’inizio del

suo pontificato) e dopo appena un giorno e mezzo di conclave, fino alla rinuncia compiuta dopo una profonda riflessione davanti a Dio e alla sua coscienza. E poi sorprendente nei gesti e nei discorsi, nella sua capacità di dialogare con la cultura e trasmettere il messaggio del Vangelo. In definitiva «è stato il Papa che ha creato stupore e meraviglia, perché se a molti era noto il pensiero di Joseph Ratzinger, pochi ne conoscevano l’af-fabilità, la mansuetudine e l’umiltà». Questo è papa Ratzinger visto da monsignor Rino Fisichella. Circondato dai libri, nello studio biblioteca del suo appartamento a due passi da piazza san Pietro, dove troneggiano tra gli altri i volumi di Hans Urs von Balthasar (che Benedetto XVI ha portato con sé a Castel Gandolfo) e di Romano Guardini (che il Papa ha citato nel suo ultimo discorso, mercoledì scorso) l’arcivescovo cui il Pontefice ora emerito ha affidato la responsabilità del nuovo dicastero per la promozione della nuova evangelizzazione ripensa a questi otto anni di pontificato e li vede fondati soprattutto su due pilastri: «La centralità di Cristo e l’affermazione che la Chiesa è viva».

Monsignor Fisichella, quindi la rinuncia non è stata l’unica sorpresa di Benedetto XVI.

Certamente no. Basti pensare a come era stato presentato da certi media e a come ha saputo mostrare la sua vera personalità, ad esempio in certi

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viaggi (Gran Bretagna, Stati Uniti). La seconda sorpresa è stata poi la ca-pacità con cui ha trasmesso la profondità del suo pensiero, lui grande te-ologo e memoria viva del Concilio, in una semplicità di linguaggio. Così abbiamo scoperto anche un grande predicatore e un grande catecheta.

Quindi quali sono i pilastri di questo pontificato?

Innanzitutto la centralità di Cristo. Benedetto XVI ci ha ricordato ciò che è l’essenziale del cristianesimo. Poteva sembrare una constatazio-ne ovvia, ma il Papa l’ha riproposta con intelligenza e con forza come l’orizzonte sul quale far convergere gli sguardi. Quanto alla Chiesa, poi, pur con tutte le difficoltà, egli ha sempre tenuto a sottolineare - dal pri-mo all’ultimo dei suoi discorsi - che essa è viva e presente. Del resto basta vedere quanto è avvenuto in questi giorni per rendersene conto. E ciò contraddice certa stampa che pretende di delineare le cause della decisione di Benedetto XVI in base a fatti, pur sempre gravi, ma solo contingenti.

Eppure si ha l’impressione che questo Papa non sia stato capito.

Piuttosto non lo si è voluto capire. Soprattutto da parte di una certa cul-tura che ha rigettato il suo messaggio. Benedetto XVI infatti ha proposto un insegnamento basato sul Vangelo e sostenuto da un pensiero forte. Ricordo ad esempio il discorso al College des Bernardins, a Parigi, quan-do affermò la cultura è sempre in movimento e questo movimento è un ricercare Dio. Quindi una cultura che non ricerca Dio non solo non è coerente con se stessa ma devia dal suo percorso naturale. Si immagini che cosa significa questo per i sostenitori del secolarismo, che prescinde completamente da Dio. Oppure si pensi ai discorsi in cui ha parlato della necessità di una intelligenza della fede per capire più a fondo la realtà, quando invece il pensiero scientifico vorrebbe relegare la religione nel privato se non proprio nel pietistico. E ancora: l’insistenza - come ad

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esempio nell’intervento al parlamento tedesco - sul rispetto della vita e del creato, che proprio in quanto creato chiede responsabilità, a fonte di un utilizzo invece strumentale della creazione da parte di tante multina-zionali. Tutto questo è stato davvero dirompente per le centrali del pen-siero debole e questo spiega perché spesso non si è voluto comprendere il messaggio del Papa.

Ma la resistenza è penetrata anche all’interno della Chiesa o questa è solo una costruzione mediatica?

La resistenza nella Chiesa è stata fortunatamente limitata ad alcuni pen-satori che hanno voluto vedere nel magistero di Benedetto XVI solo l’e-spressione della sua personale teologia. Con molta probabilità, è stata invece la dimensione liturgica che può avere coagulato forme di “conte-stazione”, soprattutto da parte di alcune frange che non hanno compreso il vero motivo che stava alla base del pensiero di Benedetto XVI. Il Papa ci ha ricordato infatti che non può esserci discontinuità nella interpreta-zione della Parola di Dio e nella liturgia. Perciò c’è un solo rito e in que-sto rito hanno diritto di cittadinanza le due forme: quella ordinaria voluta dal Concilio e anche, per chi lo desidera, quella straordinaria.

Il Papa ha insistito sul Concilio reale, abbandonando invece quello virtuale. C’è ancora molto da realizzazione del Concilio Vaticano II?

Sì. E tra i contenuti più urgenti c’è la costituzione Dei Verbum che è stata letta solo a metà. Soprattutto deve essere ripresa la parte in cui si parla della trasmissione della fede e della ispirazione della Parola che non è degli uomini, ma di Dio.

In definitiva come immagina la Chiesa con un Papa emerito orante e quello che il Conclave sta per eleggere?

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Benedetto XVI ancora una volta ci mostra l’essenziale, cioè il mettersi davanti a Dio e invocarlo. Ma la Chiesa è anche popolo in cammino che ha ben presente la sua missione e la sua meta. Sa quindi di avere alle spalle una storia di santità e di amore, nonostante le infedeltà di alcuni cristiani, e sa che in questo cammino deve coinvolgere gli uomini e le donne del nostro tempo. Io credo che realmente l’immediato della Chiesa lasciatoci da Benedetto XVI sia la nuova evangelizzazione, da intrapren-dere con fedeltà, entusiasmo e intelligenza e credo che questo lo si debba fare in modo particolare nell’Occidente, il quale sta perdendo sempre di più la propria identità perché ha perso le proprie radici e non sa più chi è e dove sta andando. Benedetto XVI, nell’ultimo discorso ai cardinali ha ricordato: «Noi abbiamo portato speranza». Dunque anche il prossimo Papa avrà questa missione: dare speranza al mondo di oggi attraverso una rinnovata e sempre più convinta opera di evangelizzazione.

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CAPITOLO 2

Grazie Benedetto

I testi di questa sezione dell’e-book sono tratti dall’inserto speciale alle-gato all’edizione di Avvenire di domenica 24 febbraio, diffuso anche in piazza San Pietro all’Angelus e all’ultima udienza generale di mercoledì 27. L’inserto integrale è disponibile in versione digitale sul sito www.avvenire.it.

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1In dialogo con il mondo

Quante lezioni sulla cultura della fededi Francesco Botturi

Un aspetto non secondario del vasto magistero di Benedetto XVI ri-guarda il rapporto tra la cultura umana e la civiltà, e in questo il

ruolo storico e teologico della fede cristiana. Questa infatti, come aveva insistito ad affermare Giovanni Paolo II, non si dà mai disgiunta da un impegno culturale, che scaturisce dall’intimo della fede stessa in quanto origine e fondamento di una visione del mondo che illumina ogni aspet-to dell’esperienza umana. La “cultura della fede”, poi, porta in sé un inevitabile germe di civiltà, cioè una forza vitale in grado di plasmare, integrando, innovando e inventando, le strutture fondamentali della con-vivenza storica tra gli uomini. Non si tratta di un progetto di conquista e di dominio, ma della inevitabile efficacia evangelica di un “lievito che fa fermentare tutta la pasta”. Ed è, perciò, secondo le leggi del lievito – nascosto ma attivo, minoritario ma onnicomprensivo, lento ma duraturo – che il germe della fede trova espressioni culturali e getta le basi di una civiltà. In questo aspetto del magistero vengono ricordate tali verità, che sembrano così sproporzionate per un cristianesimo che si sente spesso culturalmente marginale e quasi espulso da un progetto di civiltà, mentre il Papa sembra invece voler ricordare che esse non sono presuntuosi resti di una mentalità “costantiniana” e trionfalista, ma esigenze inevitabili di una fede non ridotta e decurtata nel suo significato proprio. Piuttosto, si tratta di comprendere bene in che cosa consista tale logica del lievito e come essa agisca all’interno di una condizione storica e culturale se-

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colarizzata, spinta sino ai suoi esiti peggiori, relativisti e nichilisti, che sembrano prevalere oggi sui suoi esiti migliori.

A questo fine assumono un rinnovato significato quattro grandi discorsi, pronunciati da Benedetto XVI in luoghi altamente significativi, di cui possiamo riprendere solo qualche punto essenziale. Al Collège del Bernardins (Parigi, 12 settembre 2008), luogo legato alla grande cultura monastica medievale, il Papa svolge una profonda rifles-sione sull’origine della cultura e della cultura cristiana quale matrice della stessa cultura occidentale. Nella grande, millenaria esperienza del monachesimo occidentale di impronta benedettina il Papa vede un para-digma della cultura della fede. Un paradigma paradossale, perché tanto più efficace quanto meno programmato per realizzare una grande opera storica: «Non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di con-servare una cultura del passato». La motivazione del lavoro culturale del-la grande tradizione monastica non era culturale, ma di fede, di una fede dinamica, fondata nella certezza e aperta alla ricerca di Dio, quaerere Deum: «Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa». È il paradosso della fede che dà frutto oltre se stessa, solo nella misura in cui essa è cercata e vissuta per se stessa, per il suo valore di “vita eterna”. Insegnamento fondamentale per una fede come la nostra, incapace di sostare e di contare sull’essen-ziale e anch’essa paradossale, ma in modo diverso e sterile: sfiduciata di sé e della propria capacità generativa, e insieme affannata a trovare forme culturali convincenti gli altri. Mentre, conclude Benedetto XVI, «ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura».Gli altri tre discorsi portano indicazioni preziose sul metodo con cui la cultura della fede e, analogamente, le grandi tradizioni religiose, possono intrattenere rapporti con le istituzioni pubbliche delle società secolariz-zate; come cioè, la cultura delle fede, germe di rinnovata civiltà, contri-

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buisca alla maggior verità delle istituzioni della stessa civiltà secolare e secolarizzata.

Nel discorso alle autorità civili in Westminster Hall (Londra, 17 settem-bre 2010), durante il suo viaggio nel Regno Unito, il Papa pone l’interro-gativo «sul giusto posto che il credo religioso mantiene nel processo po-litico» e, in correlazione con questo, su quale sia il giusto fondamento dei «princìpi morali che sostengono il processo democratico». Le due pro-spettive convergono, perché è proprio della religione il «purificare e get-tare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei princìpi morali oggettivi», soprattutto nel caso della «tradizione cattolica» che ritiene che «le norme obiettive che governano il retto agire siano accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione», in opposizione a ogni «fondamentalismo»; mentre le esigenze di una razionalità politica a loro volta chiedono che la ragione abbia il suo ruolo «purificatore e strutturante [...] all’interno della religione». Dunque, «è un processo che funziona nel doppio senso»: il mondo della ragione, della secolarità ra-zionale e il mondo della fede, del credo religioso «hanno bisogno l’uno dell’altro» per non «cadere preda di distorsioni», ripete Papa Benedetto, riprendendo ciò che aveva detto come cardinale in dialogo con Haber-mas. «La religione, in altre parole, per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pub-blico nella nazione», per cui ogni «marginalizzazione» della religione è un sintomo di crisi di una società democratica, segnale di un’incapacità di gestire produttivamente per la nazione i «diritti fondamentali della li-bertà religiosa, della liberà di coscienza e di associazione». Nei due altri discorsi all’Assemblea delle Nazioni Unite (New York, 18 aprile 2008) e al Parlamento federale tedesco (Berlino, 22 settembre 2011) Benedetto XVI approfondisce un tema tipico del magistero papa-le contemporaneo, quello di un’etica personalista fondata sulla “legge naturale”; tema difficile e ostico alla cultura contemporanea, ma che nel contesto dei discorsi che abbiamo considerato assume tutta la sua im-

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portanza. Qui si misura infatti la portata dell’istanza che la cultura della fede avanza nei confronti della cultura secolarizzata, quella cioè di non rinunciare alla centralità dell’uomo e alla normatività della sua natura personale. Come, su un versante, il Papa afferma l’importanza delle re-ligioni nello spazio pubblico delle istituzioni secolari e secolarizzate e la rilevanza della correlazione di ragione e religione affinché tale ruolo pubblico sia svolto e accolto correttamente, così, su un altro versante, Benedetto XVI richiama la necessità che le istituzioni politiche nazio-nali e internazionali riconoscano criteri di giudizio superiori alla legge del consenso e delle convergenze minimali e contingenti. Alle Nazioni Unite il Papa ricorda che il diritto internazionale si fonda in ultima istan-za sui diritti umani che hanno come loro referente la persona umana e trovano fondamento nella «legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà». Il merito avuto dalla Dichiara-zione Universale dei Diritti umani (1948), infatti, fu di aver reso possibi-le una convergenza di diverse culture, ordinamenti e istituzioni «attorno a un nucleo fondamentale di valori e, quindi, di diritti». Nel discorso al Parlamento federale tedesco Benedetto XVI discute con impegno l’idea di natura a proposito dell’uomo, evidenziando che solo un pregiudizio «positivista», che riduce alla conoscenza scientifica ciò che dell’uomo si può sapere, è obiezione a riconoscere che la natura corporea e spirituale dell’uomo porta in sé indicazioni fondamentali per agire in modo morale. In fondo l’idea di una legge morale istruita dalla «natura umana» porta in sé l’elementare messaggio che «l’uomo non crea se stesso» e non può decidere arbitrariamente di sé: basilare senso religioso che fa parte del «patrimonio culturale dell’Europa» e ne esprime «l’intima identità».

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Il coraggio di affrontarela «religione» della laicità

di Salvatore Mazza

Parigi, Londra, Berlino. E, dall’altra parte dell’Atlantico, New York. Città-simbolo, ciascuna a suo modo, quasi paradigmi di quel mondo

contemporaneo che ha scelto di vivere “come se Dio non esistesse”. Che è qualcosa di molto diverso, più subdolo e, per molti versi, più arido, dell’ateismo: perché Dio non lo ignora ma, semplicemente, lo mette di lato. Orpello da tollerare, forse da sopportare, in ogni caso da escludere da qualsiasi ruolo pubblico, senza riconoscergli né peso né valore. Sul quale si può sempre scherzare, anche pesantemente, salvo poi meravi-gliarsi, addirittura indignarsi, se poi qualcuno se ne ha a male, in nome di quella nuova religione chiamata laicità per cui non serve fede ma che non disdegna il fanatismo.

Non c’è stato nulla di casuale nella scelta di Benedetto XVI di portare proprio nel cuore di queste città i discorsi più densi del suo pontificato. Sfidando la cultura, l’idea “moderna” di democrazia, la politica, il con-cetto di coesistenza tra i popoli non sul terreno delle posizioni preconcet-te e contrapposte, ma su quello che, nel suo pensiero, vede fede e ragione quasi obbligate a declinarsi l’una con l’altra, l’una nell’altra, indissolubil-mente, naturalmente legate come sono. Parole chiare, semplici; immagini a volte folgoranti come quando, a Westminster Hall, ricordando gli sforzi fatti per salvare le banche in quanto troppo grandi per fallire, disse: «Cer-tamente lo sviluppo integrale dei popoli della terra non è meno impor-tante: è un’impresa degna dell’attenzione del mondo, veramente “troppo grande per fallire”». Spiazzando continuamente ogni attesa, previsione,

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commento. E senza mai sacrificare nulla all’altare laico del politicamente corretto così come, dal versante contrario, senza concedere nulla al fon-damentalismo confessionale. Benedetto XVI ha scelto la strada del dialo-go col mondo a partire da quella ragione che, come è capace di illuminare la fede, a sua volta può essere da questa illuminata. Scegliendo la strada faticosa di comunicare direttamente con tutte le persone, credenti e non, in un modo che nessuno aveva tentato prima.

Salutandolo alla sua partenza dal Regno Unito, il premier britannico Da-vid Cameron, in un discorso improvvisato, disse: «Lei ci ha dato davvero qualche cosa su cui riflettere». Potrebbero sembrare, rilette adesso su una pagina di giornale, semplici parole di circostanza. Ma chi ricorda il tono, e la faccia, di Cameron in quel momento, sa molto bene che non lo erano.

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Con Twitter versoil «prossimo digitale»

di Antonella Mariani

Forse è la domanda più spiazzante, per chi non è nativo digitale (i più giovani di certo non si pongono il problema): «Chi è il mio “prossi-

mo” in questo nuovo mondo?». Chi è il “prossimo” nel mondo della rete, dei social network, della miriade di incontri senza volto dei nostri giorni? Il Papa poneva questa domanda essenziale nel Messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali del 2011 («Verità, annuncio e autenticità di vita nell’era digitale»), in cui delineava uno “stile cristiano” per stare sul Web. La risposta verrà due anni più tardi, il 12 dicembre 2012, quando Benedetto XVI ha lanciato nel World Wide Web il primo tweet firmato @pontifex_it. Con il suo clic sul tasto “invia” il Papa più che ottuagenario ha indicato che nel mondo dei media digitali tutti sono “prossimo”. Il suo voler essere accanto ai navigatori del terzo millennio non è un semplice “stare al passo con i tempi”, bensì il cercare «le menti e il cuore» delle persone laddove oggi stanno, ossia nelle nuove piazze incorporee. «Se la Buona Notizia non è fatta conoscere anche nell’ambiente digitale, po-trebbe essere assente nell’esperienza di molti», scrive nel Messaggio del 2013. Il Vangelo però non viene buttato nella mischia, rumore in mezzo al frastuono. Il Papa ha privilegiato Twitter: messaggi lunghi al massimo 140 caratteri consentono uno spazio di riflessione «e di autentica doman-da» in un ambiente, quello digitale, fin troppo affollato e dispersivo, se-condo le suggestive indicazioni di «Silenzio e Parola: cammino di evan-gelizzazione» (Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni sociali del 2012). Questa, allora, è la cifra del dialogo di Benedetto con tutto il mondo, che si è reso visibile, perfino esposto, in account Twitter declinati

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in (quasi) tutte le lingue, latino e arabo compresi, ed è stato raccolto da 3 milioni di navigatori in tutto il pianeta: esserci, offrire la bellezza del Vangelo, eterna, immutabile, tangibile, fin nelle pieghe della contempo-raneità più mutevole e sfuggente.

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2Parole per il XXI secolo

Una lingua oltre Babeledi Joseph H.H. Weiler

Sarebbe difficile trovare, un po’ dovunque nel mondo, una persona che non mantenga vivo il ricordo di qualcuna delle apparizioni più im-

portanti di Benedetto XVI sulla scena mondiale: all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, forse, o forse il famoso discorso a Parigi, al Collège des Bernardins, o alla Westminster Hall di Londra, o forse ancora al Bun-destag tedesco - e quasi tutti, poi, avranno sentito parlare del discorso tenuto a Ratisbona. Come si spiega una tale capacità di catturare l’atten-zione di un intero mondo? È semplicemente a causa del suo ufficio, il Papato? Il suo essere a capo di una Chiesa che comprende un miliardo e duecento milioni di persone? In Genesi, Capitolo 11, si legge la vicenda iconica della Torre di Babele: tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’o-riente gli uomini …si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lin-gua dell’altro».

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La vicenda raccontata nel libro della Genesi, ingannevolmente semplice, va al cuore della condizione umana. Viviamo in un mondo guidato da hýbris e superbia, e perciò diviso da lingua, cultura, e diverse religioni, ideologie e visioni del mondo. A volte dominato dai conflitti, spesso san-guinari.

Qual è la «sola lingua», quali sono queste «stesse parole» capaci di tra-scendere sia l’hýbris che le divisioni culturali, linguistiche e di altro ge-nere? Come un uomo può «parlare al mondo», a un mondo al di fuori del proprio? I sapienti vi hanno riflettuto nel corso degli anni. Ebraico? Greco? Latino? Benedetto, nel suo carisma unico, nel suo magistero e nel suo stesso modo di essere, offre a questa domanda una delle risposte più interessanti e persuasive: è la lingua della ragione! Questo è il filo rosso che unisce il suo intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il suo discorso di Parigi, il suo intervento a Westminster Hall, le confe-renze di Ratisbona e il suo intervento, probabilmente il più importante, al Bundestag tedesco.Non si fraintenda: quando si muove sulla scena del mondo, del mondo al di fuori del suo, Benedetto non mette da parte la sua fede. La Rivelazione e la costante presenza di Dio in questo mondo definiscono il suo essere, sono parte della sua continua testimonianza. Ma questo è ciò che egli offre. Nell’espressione del suo grande predecessore, la Chiesa propone, mai impone.Ma quando egli avanza richieste al mondo, quando afferma con sicurezza la legittimazione della Chiesa e del messaggio cristiano a prendere parte al dialogo sui valori nella vita pubblica, il suo linguaggio, le sue parole appartengono alla sola lingua che può trascendere la differenza e la divi-sione, la ragione umana.Non si corre il rischio di esagerare nel sottolineare l’importanza di questa lingua Benedettina. Essa è allo stesso tempo audace e coraggiosa. È au-dace in due modi. Innanzitutto, si ha di fronte un uomo, il cui solo metro è sempre stata la verità, anche quando la verità è sconcertante, che distin-

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gue il cristianesimo da altre religioni, la cui normatività pubblica è invece stata e rimane tuttora una combinazione di rivelazione e ragione. Per lui questa è una cosa impossibile: imporre nell’ambito pubblico una prescri-zione fondata sulla sola rivelazione, a persone che possono non accettare quella od ogni altra rivelazione, offende non solo la dignità dell’uomo, ma la dignità della religione e di Dio stesso. Per Benedetto la libertà di religione è necessariamente anche libertà dalla religione. Sì, la libertà di dire “no” a Dio. Ritenere diversamente significa negare la nostra stessa ontologia di esseri morali liberi creati a immagine di Dio.

In secondo luogo, questa lingua Benedettina si misura audacemente con una comoda argomentazione, che esclude la voce cristiana dal dibattito pubblico proprio perché, essendo basata sulla Rivelazione, mancherebbe con essa un punto di partenza comune. In un certo senso, possiamo dire che il mondo intero è stato dominato dal pensiero del grande filosofo americano John Rawls, il quale ha articolato le condizioni di legittima partecipazione alla discussione normativa delle nostre democrazie. Per tale partecipazione ci doveva essere una premessa comune di ciò che contava come un argomento convincente basato su un fondamento cul-turale condiviso. Ogni religione, tra cui il cristianesimo, era considerata settaria, non condivisa, basata su una rivelazione e, quindi, ontologica-mente poco convincente per i non credenti. Nel nostro sistema demo-cratico i fedeli dovevano dunque godere della libertà di religione, ma avrebbero dovuto lasciarla a casa, quando si fosse trattato di entrare nella discussione pubblica. Nella storia delle idee, la lezione di Benedetto al Bundestag sarà considerata come la risposta più autorevole a Rawls. Il Papa accetta la premessa di Rawls, ma dimostra le sue incomprensioni e il suo distorcere il carattere del cristianesimo.È poi una lingua coraggiosa perché non soltanto è un visto di ingresso nella pubblica piazza, ma impone anche una seria e severa disciplina alla comunità cristiana di fede. Le vie della ragione potrebbero portare a ri-vedere articoli di Fede, a rovesciare precedenti giudizi. Viene a mancare

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il jolly: «Questo è ciò che Dio ha comandato». Questa non è ragione. Si potrebbe anche soccombere, ragionevolmente, in una discussione radica-ta nella ragione. Se si adotta una lingua, occorre parlarla correttamente per essere compresi, per essere persuasivi. E ciò vale anche per la lingua della Ragione.

In tutti i suoi principali incontri con il mondo al di fuori del suo, abbia-mo assistito allo stesso scenario, continuamente ripetuto: i mass media scettici in attesa di un rigido dottrinario, “Il Professore” – per ricordare uno dei suoi più gentili appellativi –, “L’Inquisitore”, “Il Rottweiler”, tra quelli peggiori. E invece, puntualmente, ogni volta, egli riesce in modo tranquillo e convincente ad avvincere, non il suo gregge, ma persone di altre fedi o senza nessuna fede - chi può dimenticare il suo trionfo totale, per esempio, nel Regno Unito?Qual è il segreto? Egli è la personificazione di Gerusalemme e Atene, una metafora che ama usare nel descrivere il Cristianesimo. Un uomo di evidente grande fede, che però non predica, soltanto insegna. Audace, ma anche coraggioso e in grado di auto-limitarsi. E, infine, una capacità comunicativa unica, l’abilità di rendere semplice e accessibile ciò che a volte è complesso e profondo.Sarà un esempio difficile da seguire.

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Una voce «ragionevole»che non esclude nessuno

di Carlo Cardia

A Benedetto XVI è stata affidata la cura della Chiesa, in certo modo del mondo intero. La paternità universale chiede al Papa di diffon-

dere il Vangelo presso tutti i popoli, per renderli amici gli uni agli altri, di difendere i deboli ovunque e chiunque siano. Questo nostro Papa ha agito a favore dei popoli e dei loro diritti, ha promosso la dignità umana, ha insegnato che ogni persona è amata da Dio, destinata a una pienezza di vita senza che nessuno possa dominare sui propri simili. Il suo magistero è tanto radicato in quello dei predecessori quanto innovatore, e ha stupito il mondo perché ha incarnato la spiritualità e i valori cristiani nella storia d’oggi, e nessuno si è sentito escluso dalle sue parole. Benedetto XVI si è ispirato al programma indicato da Paolo VI nell’Ecclesiam Suam del 1964 dove si parla dei tre cerchi, o raggi, entro i quali il magistero pon-tificio opera. Il primo cerchio, i cui confini sono gli stessi dell’umanità, comprende anche coloro che non credono o negano Dio, e che la Chiesa vuole avvicinare, ascoltare. Il secondo raggio è quello degli uomini che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo. Infine il cer-chio più vicino alla Chiesa, nel quale il dialogo diviene ecumenico, è quello del mondo che s’intitola a Cristo, cioè di coloro che si riconoscono nella fede cristiana. Giovanni Paolo II ha dato nuova forza alla cattedra di Pietro recandosi ovunque, facendo del Papa l’amico di ogni uomo, incontrando uomini di tutte le fedi e opinioni. Con Benedetto XVI il ma-gistero e l’azione pontificia ampliano l’universalità del Papato oltre l’im-maginabile, moltiplicano relazioni con religioni e culture, estendono la paternità del Papa a ogni uomo: e ciascun uomo, in questi giorni difficili e

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appassionanti, ha come avvertito quel punto di congiunzione fra trascen-denza e umanità che è proprio del successore di Pietro. Benedetto XVI ha riproposto l’essenzialità del rapporto con gli ebrei, predecessori del cri-stianesimo, titolari di una promessa divina mai esaurita. E ha consolidato l’amicizia con gli Ortodossi, avviando con il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I una nuova stagione spirituale per l’Europa perché confermi identità e radici cristiane. Benedetto XVI s’è fatto interprete di tutti i cre-denti chiedendo con forza che la fede in Dio sia sempre strumento di pace e di amore, mai di violenza. E ha aperto, più d’ogni altro Pontefice, un grandioso dialogo con chi non crede, parlando come Paolo parlò ad Ate-ne del «Dio sconosciuto», per affermare nelle sue encicliche e nella sua catechesi che la ragione porta alla fede, mentre la fede completa l’uomo e lo innalza. L’attrazione che Benedetto XVI ha esercitato su chi è lontano dalla Chiesa è ancora da comprendere appieno, ma certamente il Papa s’è fatto pastore tra i non credenti, dialogando con i maestri della cultu-ra contemporanea, rispondendo ai dubbi della modernità, chiedendo di usare la ragione per progredire in un’etica superiore, non regredire verso un’etica che dimentica l’uomo. Per questo, l’annuncio della sua rinuncia ha coinvolto intensamente chiunque abbia ascoltato la sua parola, dentro o fuori i confini della cristianità. C’è, poi, un carattere del pontificato di Benedetto XVI rimasto un po’ in ombra nelle più recenti riflessioni, ed è il suo impegno eccezionale, continuo, per i diritti umani, in difesa dei più deboli, dei più poveri, di chi non ha voce, e che merita invece un’at-tenzione speciale da chi è testimone della voce di Dio in terra. Benedetto XVI è stato il cantore dei diritti umani ovunque, mentre altre voci si sono affievolite o sono scivolate nello scetticismo. Nelle encicliche, ne-gli incontri con istituzioni internazionali, statisti e diplomatici di tutto il mondo, ha posto la persona al centro d’ogni cosa, promuovendo la sua dignità, la dignità delle donne, dei bambini, di malati e sofferenti, contro dimenticanze e oltraggi da parte di chi segue la strada dell’egoismo o cede alle lusinghe del nichilismo. E ha proclamato che la dignità della persona, i suoi diritti fondamentali, hanno un solido fondamento nella

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fede e nella ragione perché da esse traggono la garanzia della loro univer-salità e inalienabilità. Il veleno del relativismo che corrode la modernità pone a rischio i diritti umani perché se questi – afferma il Papa nel 2010 al bureau dell’assemblea del Consiglio d’Europa – «fossero privi di un fondamento razionale, oggettivo, comune a tutti i popoli, e si basassero su decisioni legislative e di tribunali particolari, come potrebbero offrire un terreno solido e duraturo per le istituzioni sopranazionali?». C’è qual-cosa che precede Stati, legislatori, giudici: è una volontà che parla alla nostra coscienza, indica la strada da seguire, dà alla libertà dell’uomo la più alta dignità che è quella di poter scegliere il bene. Benedetto XVI consegna al mondo intero un messaggio di speranza e d’amore, ed esten-de il ruolo del pontificato oltre i confini della Chiesa e della cristianità, quasi una garanzia per tutti gli uomini che vedono e sentono il Papa, oggi più di ieri, come parte integrante e insostituibile del proprio orizzonte umano e spirituale.

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3Il volto e le radici

Forza e misura: il teologodiventato Pietro

di Elio Guerriero

Roma agli inizi degli anni ’70 era una città viva, e al Sant’ Anselmo, sull’Aventino, dove studiavo teologia – un luogo stimolante nel qua-

le si respirava ancora l’aria del Vaticano II –, si provava l’ebbrezza gio-iosa della cattolicità, l’entusiasmo della fede vissuta fianco a fianco con giovani provenienti da ogni parte del mondo. Ma non era l’isola di uto-pia, Sant’Anselmo. Anche lì arrivavano i proclami dei sostenitori dell’u-manesimo ateo, del principio speranza, della ricerca del piacere come scopo della vita. Ci vennero in aiuto due voci flebili e tuttavia capaci di farsi breccia in quel rumore che, anche tra i teologi, diveniva assordante. De Lubac: «La Chiesa è fatta per i santi e per i peccatori, più per i pec-catori», che ci rassicurava sulle contestazioni interne negli anni del dopo concilio. Ratzinger: «Il credente deve vagliare la sua fede alla prova cor-rosiva del dubbio, il non credente, invece, se ne può stare tranquillo nella sua non fede?».Una parola di verità che ci liberava dallo stato quasi di minorità nel quale volevano costringerci i cantori della morte di Dio. Non sapevo allora che i due uomini di Chiesa erano legati da stima e amicizia e che presto avrei avuto modo di incontrarli. Qualche anno dopo ero in Germania, a Mona-co, e potei ascoltare di persona l’autore di Introduzione al cristianesimo che avevo letto e riletto quasi a conferma di quella intuizione liberante.

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Ricordo la sorpresa di trovarmi di fronte un uomo ancora giovanile, con la chioma folta, ma interamente bianca, quasi resa tale dalla conoscen-za che in lui diveniva sapienza di vita. Seguì dopo poco tempo l’invi-to a partecipare alla rivista Communio e un accostamento graduale alla sua persona favorito dal padre von Balthasar che con decisione levava la voce contro il troppo facile dissenso interno alla Chiesa, contro una sorta di iconoclastìa antiromana, e rimandava noi più giovani al senso d’equilibrio, alla misura di Ratzinger. Cominciai allora a tradurre alcuni articoli del teologo che sottolineava la ricchezza del dogma cristiano, la continuità nella tradizione viva della Chiesa. Lavorava su queste temati-che Ratzinger che aveva lasciato la turbolenta Tubinga e si era trasferito a Frisinga dove il raccoglimento della piccola università vicina al luogo d’origine favorì un rinnovato entusiasmo per la ricerca messa al servizio della fede. «Cercai anzitutto di ripensare nuovamente la mia dogmatica secondo il taglio del Concilio... Maturai una visione del tutto, che si nu-triva delle molteplici esperienze e conoscenze… Provai la gioia di poter dire qualcosa di mio, di nuovo e, insieme, di pienamente inserito nella fede della Chiesa».

Anche la voce della musica che giungeva da Salisburgo con i concerti mozartiani e più da vicino dalle esecuzioni di Bach, Vivaldi, Monteverdi, dirette dal fratello Georg, suggeriva l’armonia della fede. Poi nel 1977 l’inattesa e sofferta nomina a vescovo di Monaco e l’inizio di quel viag-gio che doveva portarlo dove «egli non voleva». Seguirono la svolta del 1978 con l’elezione di Giovanni Paolo II e la convocazione a Roma come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Continuò, tutta-via, a dedicarsi allo studio e a pubblicare opere che erano punti fermi del-la fede, testimonianze di fedeltà alla Chiesa e al Pontefice. Da parte mia mi accostavo sempre più alla sua opera e alla sua persona. Mi colpivano nei nostri incontri la perspicacia delle sue intuizioni teologiche capaci sempre di portare ogni controversia al centro pulsante della fede, di illu-minare gli ambiti della vita e la grettezza dei tanti che lo consideravano

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superato, relegato nel campo dei conservatori ostili al rinnovamento. E poi la delicatezza del tratto umano: la capacità di ascolto, l’attenzione di chi non faceva pesare il suo grado e la sua conoscenza e con piccoli gesti d’amicizia si sforzava di mettere l’interlocutore a suo agio. In occasione di un convegno romano organizzò nel 1985 un grande ricevimento in onore di von Balthasar. Colsi l’occasione per invitarlo a Brescia per un incontro finalizzato al sostegno dell’edizione italiana di Communio. In una mirabile lezione a Palazzo della Loggia evidenziò un altro dei trat-ti salienti del suo pensiero: la dimensione pubblica della fede cui sono dedicati i libri sull’Europa, dalla speranza generata dalla svolta per la caduta del muro di Berlino alla delusione per il prevalere del relativismo, il vero tarlo dell’eredità europea.Nel 1992 lo ricordo a Milano dove ricevette il premio Penna d’argento come autore dell’anno delle edizioni San Paolo, e a me toccò l’onore di tenere la sua laudatio. Con il volume Introduzione allo Spirito della litur-gia, che richiamava l’opera d’inizio Novecento di Romano Guardini, la sua attenzione si volgeva nuovamente alla liturgia, luogo della presenza viva del Signore risorto nella Chiesa. Lo invitai a presentare questa sua opera a Milano, al Museo diocesano, e ancora una volta emerse la sua ca-pacità di dare spessore di cultura e di attrazione alla pienezza della fede. Lo incontrai, infine, l’ultima volta da cardinale, a poco più di un mese dalla morte di Giovanni Paolo II. Appariva disteso, raccontò del ritorno in Germania, della possibilità di dedicarsi ancora allo studio nell’amata Baviera. Gli chiesi di portare a termine la sua autobiografia, rifiutò deci-samente. Doveva scrivere ancora di Gesù.

Poi ci fu l’elezione inattesa e la tenerezza per quelle spalle esili già grava-te negli anni da tanti fardelli, ma anche la consapevolezza che nella forza dello Spirito avrebbe richiamato la Chiesa all’essenziale, alla carità, alla speranza e alla fede. Anche da Pontefice, però, non venne meno il filo del lavoro e dell’amicizia. Mi disse in un’udienza: «Ma non è ancora stanco di lavorare ai miei libri?», e poi quei biglietti scritti con grafia minuta,

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inconfondibile. Nonostante il peso del servizio petrino, subito gravoso, i libri su Gesù divennero tre. In essi egli ritornava sulla presenza viva del Signore risorto nella comunità cristiana di modo che ogni fedele possa entrare in dialogo con lui. Suggeriva poi elementi di una ecclesiologia nuova, particolarmente attenta al dialogo con Israele. Indimenticabile re-sta la successione di catechesi sui santi, quasi un accenno di successione nella santità accanto alla successione apostolica. Infine il gesto epocale della rinuncia e di nuovo la tenerezza e l’affetto per quella decisione pre-sa nella solitudine davanti a Gesù.Nei giorni scorsi ha dichiarato il cardinale Kasper: «Benedetto XVI pas-serà alla storia per tutto ciò che ha fatto. Ha confortato e consolidato la fede della Chiesa. E lascia un’eredità enorme, ricchissima, probabilmen-te non avremo presto un altro Papa di questo livello intellettuale e spiri-tuale». A noi resta il debito della gratitudine e della preghiera per l’uomo devoto alla cultura e all’amicizia, per il testimone tenace, il padre nella fede.

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«La mia Baviera, scuola di gioia»di Gianni Cardinale

«La cultura bavarese è una cultura allegra: noi non siamo persone rudi, non si tratta di semplice divertimento, ma è una cultura al-

legra, imbevuta di gioia; nasce da un’interiore accettazione del mondo, da un sì interiore alla vita che è un sì alla gioia». Con queste parole, calde e spontanee, Benedetto XVI ha spiegato il suo legame profondo con la sua terra d’origine, la Baviera. Lo ha fatto salutando la “serata bavarese” organizzatagli a Castelgandolfo la sera del 4 agosto dello scorso anno per e festeggiare il suo 85° genetliaco. All’evento, promosso dall’arcidiocesi di Monaco, hanno partecipato anche artisti che hanno eseguito musiche, canti e danze della tradizione bavarese. Particolarmente folta la rappre-sentanza degli alpini Bayerische Gebirgsschützen, che prima dell’ingres-so al Cortile, in Piazza della Libertà a Castel Gandolfo, nei loro costumi folkloristici e con armi a salve hanno sparato in onore del Papa. E proprio a prosposito di questo gesto il Pontefice si è lasciato andare a una scher-zosa confidenza: «Certo, i Gebirgsschützen, che ho potuto sentire solo da lontano, meritano un ringraziamento particolare, perché io sono un Schütze onorario, anche se, a suo tempo, sono stato un schütze medio-cre». Ma nel suo discorso Benedetto XVI si è lasciato andare a un elogio della sua terra. Sincero e commovente. «È vero, – ha detto – si deve dire che Dio, in Baviera, ci ha facilitato il compito: ci ha donato un mondo così bello, una terra così bella che diventa facile riconoscere che Dio è buono ed esserne felici». «Allo stesso tempo, però, – ha subito aggiunto – Egli ha anche fatto in modo che gli uomini che vivono in questa terra pro-prio a partire dal loro “sì” hanno saputo darle la sua piena bellezza; solo attraverso la cultura delle persone, attraverso la loro fede, la loro gioia, i

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canti, la musica e l’arte è diventata così bella come il Creatore, da solo, non voleva fare, ma solo con l’aiuto degli uomini». Questa “elegia bava-rese” pronunciata dal Papa non era fine a se stessa, ma è stata l’occasione per proporre una “catechesi” semplice e profonda allo stesso tempo sul senso autentico dell’”amor di patria” per un cristiano. «Ora – ha infatti osservato il papa Ratzinger – qualcuno potrebbe dire: ma sarà lecito esse-re tanto felici, quando il mondo è così pieno di sofferenza, quando esiste tanta oscurità e tanto male? È lecito essere così spavaldi e gioiosi?». «La risposta – ha continuato – può essere soltanto: “sì”! Perché dicendo “no” alla gioia non rendiamo servizio ad alcuno, rendiamo il mondo solamente più oscuro. E chi non ama se stesso non può dare nulla al prossimo, non può aiutarlo, non può essere messaggero di pace».

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4Il linguaggio della bellezza

L’estetica del testimonedi Pierangelo Sequeri

La bellezza, nel cristianesimo, non è soltanto una questione di arte sa-cra. Nella Prima Lettera di Pietro (di Pietro!) si trova un’espressione

che gli studenti di teologia imparano sin dall’inizio del loro curricolo: «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speran-za che è in voi» (1Pt 3, 15). La formula è adattata in special modo alla cosiddetta “teologia fondamentale”, che una volta si chiamava “apologe-tica”, per lungo tempo dedicata all’illustrazione delle ragioni che sosten-gono, umanamente parlando, l’adesione della fede.Sia o non sia questo il significato principale della formula di Pietro, in questo momento interessa di più il contesto di quella antica raccomanda-zione. (Oltretutto, l’aderenza del testo all’ora presente ci emoziona – ci trafigge, persino – in modo speciale: sono sicuro che colpirà anche voi). Ecco dunque il pensiero di Pietro nella sua interezza: «E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo nei vostri cuori, pronti sempre a risponde-re a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia, questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male» (1Pt 3, 13-17). L’espressione da sottolineare, anzitutto, è questa: «con

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dolcezza e rispetto, con una retta coscienza». Traduco: con grandezza d’animo e onestà intellettuale. Una questione di stile, che è in realtà una questione di sostanza. Rendere testimonianza del logos che sostiene la nostra speranza, non deve suonare come una intimidazione, né esibire superiorità saccente o disprezzo per l’interlocutore. È il legame col bene, convintamente cercato e onorato, che affiora nello stile e lo rinsalda. La cattiva coscienza ne perde lo stile: mostra lo sforzo, cerca il diversivo, trucca le carte. Le ragioni del bene perdono la loro bellezza, travolte dal risentimento. Il logos della speranza perde la sua forza: in primo piano viene la paura, non la fede. Lo stile del testimone che attinge all’adorazione del Signore, nelle pro-fondità del cuore, non perde questa bellezza: neppure quando è incalzato da spiriti ostili, insidiato dal fraintendimento, messo alla prova della sua passione per la giustizia. E questo fa la differenza decisiva. La bellezza dello stile cristiano in cui traspare l’adorazione di Dio non ha niente a che fare con la sciocca innocenza che non ha cognizione del dolore; non è l’estetica sognante dell’anima bella che parla con gli angeli perché non gli importa degli uomini. Perché insisto su questo? Perché il mio argomento è l’eredità di Bene-detto XVI a riguardo del Logos della bellezza che è in noi. Lo stile del suo papato corrisponde all’estetica del testimone di cui parla il brano della prima lettera di Pietro. Alla lettera. La grazia signorile del testimo-ne della fede, non senza paziente restituzione della speranza, espone il suo logos con dolcezza e rispetto: fidando nell’intima giustizia del bene, senza turbamento o paura. Uno stile aggressivo, risentito, scandalistico, già suona male. Né la devozione alla verità, radicata nell’adorazione del Signore, ha bisogno di effetti speciali e di espedienti retorici per irradiare la sua bellezza sostanziale. Questa bellezza riflette la forma di Cristo, at-tingendo a ciò che le è consostanziale: ossia l’intimo legame d’amore con l’Abbà-Dio. Quel misterioso legame che dà forma e senso, voce e ritmo, all’esistenza umana del Logos: dalla prima parola all’ultima, incantando persino sulla croce. «Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Pa-

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dre mio?». «Chi vede me, vede il Padre». «Padre, nelle tue mani, metto la mia anima». Se questo è il segreto della bellezza di Dio, ossia la genera-zione del Figlio in cui tutte le cose vengono al mondo; e se è lo Spirito di Dio che ci rende partecipi di questa suprema verità, facendosi grembo in cui siamo rigenerati alla vita destinata da Dio, allora la grammatica della santità e quella della bellezza coincidono in molti punti. Indicarli, è un compito non marginale della fede. Trovarli, è un azzardo non impossibile dell’arte.La sovrapposizione ha un campo di escursione vastissimo. I santi segni che la fede indica (facendo tesoro della memoria del Figlio), e che l’arte può abitare (rimanendo vigile ai passaggi dello Spirito), sono inesauribili. Di impensata semplicità, come anche di stupefacente grandezza. Un’ac-quasantiera può risplenderne, come una sinfonia di Bruckner. Identico splendore, secondo la misura – chiarezza e proporzione – che a ciascuna opera compete. Sono i due punti forti dell’estetica teologica del papa Benedetto XVI, che Joseph Ratzinger ha profondamente assimilato mediante la lezione di Hans Urs von Balthasar. Le opere della santità e quelle della bellezza, sono i due fuochi della prova che la fede è vera. Questi due fuochi sono imperdibili e insostituibili, per il logos cristiano della speranza. Sono il riflesso dell’enigmatico splendore della fede, di cui parla un celebre passo della Lettera agli Ebrei: dare sostanza alle cose sperate, essere argomento per le cose invisibili. Il papa Benedetto XVI, di suo, ha portato l’estetica teologica alla sua intonazione con la forma del ministero petrino. Il can-tus firmus della scienza dei santi genera contrappunti creativi nel logos umano, rendendolo sensibile allo Spirito Santo. L’arte autentica insegna a frequentare le cose dell’anima con dolcezza, rispetto e retta coscienza. Da questa interpretazione del ministero petrino, che ci conferma nella fede, forse soltanto adesso incominciamo ad apprendere ciò che doloro-samente ci manca. Un cristianesimo così poco musicale, come il nostro, rischia di diventare insensibile anche al logos della verità. Dovevamo avere un Papa musicista, per essere ricondotti al ritmo dell’adorazione in

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cui la fede vive e fa vivere? L’abbiamo avuto, per tutto il tempo che era necessario. Il resto è chiacchiera e rumore di fondo. La vera domanda è un’altra: siamo preparati a fare tesoro di questa felice ricomposizione del ritmo e del logos della speranza che è in noi? Perché essa infallibilmente risuona, quando la Chiesa attrae a sé, persuasivamente, l’impensata alle-anza degli artisti e dei santi.

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«Nelle partiture la voce di Dio»di Giacomo Gambassi

Benedetto XVI al pianoforte nello chalet della Valle d’Aosta dove nel 2005 trascorre la prima estate di riposo da Papa è forse l’immagine-

chiave per riassumere il profondo rapporto fra Ratzinger e la musica. Non è un caso che sia stato definito il «Mozart della teologia» e che pubblicamente abbia ringraziato Dio «per avermi posto accanto la mu-sica quasi come compagna di viaggio che sempre mi ha offerto conforto e gioia». Anche nel suo appartamento all’interno del Palazzo apostolico ha voluto il pianoforte. Perché la «meraviglia» che crea il «linguaggio universale» delle note – entrate nella sua vita fin dall’infanzia – è quella di «rimandare, al di là di se stessa, al Creatore», ha detto il Papa. È il «valore spirituale» delle grandi composizioni che invitano a «elevare la mente verso Dio» e che sono state proposte a Benedetto XVI anche nei numerosi concerti offerti in suo onore. Esecuzioni durante le quali il Papa ha proposto analisi dei brani da profondo conoscitore e musicologo. Fra i suoi autori preferiti Mozart e Bach. Ascoltando gli spartiti sacri del genio austriaco è «come se il cielo si aprisse», ha raccontato il Papa. E Bach è stato definito da Ratzinger uno «splendido architetto della musica».

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«La preghiera apre alla vera bellezza»di Giacomo Gambassi

Hanno appena compiuto mezzo millennio gli affreschi della Cappella Sistina. E lo scorso 31 ottobre, ricordando l’inaugurazione com-

piuta cinquecento anni prima da Giulio II, Benedetto XVI tornava su uno dei temi cari al suo magistero: il rapporto fra liturgia e arte. Queste «opere artistiche – affermava – trovano nella liturgia, per così dire, il loro ambiente vitale, il contesto in cui esprimono al meglio tutta la loro bellezza, tutta la ricchezza e la pregnanza del loro significato. È come se, durante l’azione liturgica, tutta questa sinfonia di figure prendesse vita. In poche parole: la Cappella Sistina, contemplata in preghiera, è ancora più bella, più autentica; si rivela in tutta la sua ricchezza». Parlando della volta di Michelangelo, il Papa spiegava che «il grande artista disegna il Dio creatore, la sua azione, la sua potenza, per dire con evidenza che il mondo non è prodotto dell’oscurità, del caso, dell’assurdo, ma deriva da un’intelligenza, da una libertà, da un supremo atto di amore». E leggeva nella Sistina «un invito alla lode» del Signore «redentore e giudice, con tutti i santi del cielo».

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5La memoria e l’identità

Una guida alle radici della fede»di Filippo Rizzi

Compirà 80 anni il 5 marzo il cardinale dell’ecumenismo, teologo di fama mondiale, presidente emerito del Pontificio Consiglio per l’u-

nità dei cristiani. Il tedesco Walter Kasper di certo non si sarebbe aspetta-to, a pochi giorni dal suo compleanno, un gesto così forte e dirompente, come quello delle dimissioni di un Pontefice, Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, suo antico collega nelle università di Münster e Tubin-ga. Un gesto che, per pochi giorni, porterà Walter Kasper a essere uno dei 117 cardinali elettori del prossimo Conclave. «Ci conosciamo dal 1963, sono stato addirittura suo successore sulla cattedra di Dogmatica a Münster – racconta – e devo ammettere che questo gesto della rinuncia ha colto di sorpresa un po’ tutti. Un atto che non solo fa riflettere ma che potrà permettere di ripensare in modo nuovo la Chiesa universale e la Curia vaticana per la sua agenda futura affidata nelle mani del successore di Ratzinger: dalla nuova evangelizzazione al dialogo con i lontani, alla secolarizzazione “galoppante” dell’Europa, all’Asia che rappresenta, a mio giudizio, il futuro del cristianesimo mondiale». Kasper dal suo appartamento non distante dal colonnato di San Pietro non si sente solo di tracciare un bilancio sui suoi 80 anni di vita e sullo stato di salute dell’ecumenismo e sulla «crisi di Dio in veste religiosa» del Vecchio Continente, come direbbe il suo amico e teologo Johann Baptist Metz, ma anche di riflettere, nel profondo, sul gesto della rinuncia di Be-nedetto XVI: «In questo atto non ho solo visto un grande gesto di amore

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e di sacrificio ma una sintesi dello stile di Ratzinger. Un Pontefice e un fine teologo che in tutti i suoi scritti, a partire dal libro Introduzione al cristianesimo, ci ha sempre aiutati ad andare alle radici della nostra fede, a riscoprire l’identità cattolica. E rileggendo tutto il suo pontificato a par-tire dai grandi gesti ecumenici verso gli ortodossi, i protestanti ma anche gli ebrei, quello che forse mi ha sempre sorpreso in lui è la sua attenzione alle radici della nostra fede ma anche al primato della spiritualità rispetto a tutto».

Eminenza, cosa ricorda degli anni di Tubinga, della protesta studen-tesca del 1968 e di Hans Küng, di cui fu assistente universitario?

Ricordo la contestazione degli studenti, le difficoltà della recezione del Concilio nella sua giusta interpretazione. Di quegli anni ricordo la mia collaborazione non solo con Küng ma anche con Leo Scheffczyk, dei quali come lei accennava ero assistente universitario. A Küng devo mol-to: mi ha sostenuto nel mio dottorato e nell’esame di libera docenza, abbiamo lavorato assieme per molti anni, poi col tempo le nostre strade si sono divise. Oggi tra noi esiste un rapporto di rispetto. Ma nulla di più. Devo dire che Ratzinger intuì prima di altri la deriva “antiromana” di Küng e la sua intenzione di costruire una teologia alternativa al magistero della Chiesa cattolica. Anche in questo il futuro Papa aveva compreso prima di altri la scelta di Küng di divenire, soprattutto per i media, una specie di contraltare in tema di fede e di morale rispetto agli insegnamen-ti della Chiesa cattolica e alla questione dell’infallibilità papale.

Per lei ancora oggi resta centrale e decisivo il Concilio Vaticano II. Ci può spiegare perché?

Perché lì ho visto il risveglio in un certo senso “creativo” della fede cat-tolica ma anche un prolungamento ideale con le lezioni di vita e di te-ologia recepite da grandi maestri come Romano Guardini, Josef Rupert

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Geiselmann e Karl Rahner di cui rammento ancora, a memoria, alcuni passi degli esercizi spirituali che mi diede da giovane seminarista. Il Con-cilio, la cui recezione e applicazione completa si compirà in non meno di cent’anni, può veramente rappresentare la bussola più adeguata per il terzo millennio e il punto di riferimento per un rinnovamento e una purificazione, anche alla luce degli scandali che hanno colpito la Chiesa.

Nello spirito del Concilio, lei si è trovato a guidare per nove anni, dal 2001 al 2010. il Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Che bilancio si sente di fare di questo intenso periodo?

«Mi sono trovato a raccogliere il peso di grandi eredità come quella di Bea, Willebrands e Cassidy. Sono stati anni importanti, sotto vari profili: dai grandi gesti di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nel campo ecu-menico all’enciclica Ut unum sint, alla stesura della Dichiarazione co-mune luterano-cattolica sulla giustificazione della fede del 1999. Quello che oggi posso affermare è che la mia azione ha avuto come riferimento l’ecclesiologia di Yves Marie Congar. Trovandomi a confronto con le tante diversità del mondo cristiano, dagli ortodossi ai protestanti, mi sono spesso ritrovato in questa frase del teologo domenicano francese: «Tutto, o quasi tutto, è uguale, eppure tutto è diverso». Mi torna spesso in mente la proibizione che esisteva per noi cattolici di frequentare le lezioni nelle facoltà evangeliche, un fatto che oggi sarebbe impensabile. Anche questo è un frutto del Vaticano II. Rammento spesso le parole di Giovanni Paolo II, il suo desiderio di arrivare a una reale unità delle Chiese e il suo met-tersi a disposizione in ogni modo «perché il cammino di unità non venga disperso». Come si dice, spesso i muri nel cammino ecumenico sono stati abbassati ma non certo abbattuti.

Quali sono le sue attese per la Chiesa del terzo millennio soprattutto in Europa, anche alla luce del prossimo Conclave?

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Una sfida che ci attende è la riscoperta ma anche la rivitalizzazione delle radici cristiane dell’Europa alla luce di una nuova evangelizzazione che risvegli i segni della nostra fede, anche quelli culturali, e riscopra il va-lore dei sacramenti, come la confessione: dove non c’è più una pratica dei sacramenti rischia anche di scomparire la fede. Un uomo che non ha memoria delle sue radici è destinato a non avere un orientamento. È su questo snodo che si gioca il cristianesimo in Europa. E poi credo che dall’Asia e in particolare dalla Cina, come intuì Giovanni Paolo II, verrà il futuro della Chiesa. Di fronte alla secolarizzazione a noi europei toccherà di essere minoranza creativa e qualitativa, se saremo in grado.

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Quei libri come una carezzasul volto di Cristo

di Davide Rondoni

Sono libri carezze sul viso di Gesù. Se così si può dire. Sono libri dove tutto l’impiego della intelligenza, della finezza e anche del duro scon-

tro esegetico formano infine la forza tremante di chi allunga una carezza estrema al volto amato. Per liberarlo dalle ombre. Dalle ragnatele della dubbiosità. Dalla falsa devozione che fa diventare quel viso una masche-ra di cera. E sono stati libri bomba. Hanno riproposto al centro il vero centro. Hanno insomma detto quale è la vera questione su cui discutere, la cosa da raccontare e su cui ritrovarsi.Era un suo sogno. Forse la sua lieta ossessione. Per il teologo di lungo corso Joseph Ratzinger il desiderio di scrivere un libro su Gesù si doveva compiere – secondo i progetti che aveva confessato – terminando una lunga carriera come Bibliotecario Vaticano. Invece. L’elezione a Papa lo ha distolto da quella meta sognata di definitiva curvatura sugli studi e sulla scrittura. Ma non lo ha strappato dal suo sogno. E il libro su Gesù lo ha scritto. Il suo libro su Gesù, anzi, direi, il suo libro “per” Gesù. La prima caratteristica che ho scorto in questi libri è d’essere un gesto deli-cato di rispetto, appunto una specie di carezza dell’anziano teologo sul viso di Gesù, così impolverato e offeso, così tenuto nell’ombra. L’anda-mento pacato e deciso dello stile con cui si addentra in questioni ardue, persino il modo in cui sosta davanti a problemi inestricabili, sono indizi di un procedere rispettoso dell’oggetto e anche della fatica di quanti con tale oggetto si sono misurati. Lo sviluppo del ritratto di Gesù compiuto da Ratzinger ha come primo obiettivo assicurarci che non abbiamo a che fare con un fantasma. Aver fede in Gesù non significa “annaspare nel

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vuoto”. Il rapporto con Gesù non è una fantasia. Se così fosse, la fede sarebbe un affare per gente spostata. Per chi non usa più la ragione. Per chi insomma non è più un uomo. Gesù non è una ricostruzione, una fin-zione creata a posteriori magari proprio in nome della fede. La sua pacata ma ferma decostruzione – o meglio ridimensionamento – del cosiddetto metodo storico-critico si svolge in nome di una ermeneutica di più ampio respiro che non ne elude le sfide e le possibilità. Il Papa sa che la pretesa di leggere i Vangeli come puri documenti è errata. Perché la loro natura di testo non è d’esser semplici documenti. Sarebbe come se noi leggessi-mo una poesia d’amore principalmente come fonte documentaria di una certa epoca. Il che non significa che i “vangeli” siano invenzione, ma che la preoccupazione dei loro estensori e la natura del loro parlare non è documentario ma di annuncio. E dunque solo l’esperienza di stare in quell’annuncio rende veramente intellegibili i loro testi.Ratzinger sembra attento al richiamo di Guardini: non si può fare una psi-cologia del personaggio Gesù. Almeno in chiave teologica. Noi scrittori ci proviamo ed è il nostro meraviglioso disastro. Dunque nei tre libri su Gesù non c’è indugio di carattere psicologico sull’uomo di Nazareth. Si tratta di una opera di “pulitura” ovvero di liberazione da incrostazioni. La carezza che solleva le ombre. Sembra che il Papa non sia preoccupato di donarci il “suo” Gesù, non intende consegnarci un suo ritratto personale del Nazareno. Sa che lo conosciamo o lo possiamo riconoscere. La sua ricerca del volto di Gesù non coincide con una “invenzione”. O meglio è una “inventio” ma nel senso di una “ricerca”, di una messa a fuoco. Per il Papa, il popolo conosce Gesù, o può conoscerlo se ne fa esperienza. Il Papa non cerca tinte nuove per il suo personaggio principale. Piuttosto attraverso l’attenzione che dedica in particolare al Vangelo di Giovanni e a certi episodi, ci avvicina al fulcro stesso della figura di Gesù: il suo mi-sterioso legame con il Padre. La sua natura straordinaria. Non si intende il Gesù storico astraendolo dalla portentosa e drammatica storia del po-polo dell’Antico Testamento e della sua fede in un Dio impronunciabile e inattingibile. Il fascino e la “questione” Gesù è tutta nel suo misterioso

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legame di immedesimazione con Dio Padre. Lì sta il motivo di interesse ultimo e decisivo della sua figura e non in uno o l’altro dei caratteri di umanità eccezionale che ne sono il segno. La carezza di Joseph Ratzinger a Gesù è cosciente che non è data a un volto solo umano. Per questo men-tre avvicina il lume della candela del suo ingegno a quel Viso, lui stesso trema, si concentra e sorride.

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6La svolta della “Caritas in veritate”

Il dono, rivoluzione per l’economiadi Stefano Zamagni

Quale è stato il contributo di pensiero di papa Benedetto XVI all’ap-profondimento e alla dilatazione del raggio d’azione della Dottrina

sociale della Chiesa (Dsc)? Chiaramente, il riferimento è qui sia alla Ca-ritas in veritate (Cv, 2009) e all’enciclica per così dire preparatoria, Deus Caritas Est, sia ai messaggi che, in varie occasioni, sono stati pubblicati successivamente. Prima di suggerire tre sottolineature di centrale rilevan-za, una annotazione di carattere generale. La grande novità dell’opera del Papa risiede nel metodo, cioè letteralmente nella via tracciata per leggere le res novae di un tempo, quale è l’attuale, connotato da due eventi as-solutamente inediti: la globalizzazione dell’economia e soprattutto della finanza – che spesso viene confusa con l’internazionalizzazione delle re-lazioni economiche, che esiste da secoli – e la terza rivoluzione industria-le, quella delle nuove tecnologie, che ha modificato alla radice i modi di produzione e, in particolare, l’organizzazione del lavoro nelle impre-se. Alla luce dei quattro principi immutabili della Dottrina sociale, Papa Ratzinger legge la realtà offrendoci una interpretazione del tutto origina-le: dopo la necessaria denuncia di un certo modello di ordine sociale e i suggerimenti per lenirne gli effetti a volte devastanti, vanno altresì indi-cate quali alternative, tra quelle realisticamente possibili, sono in grado di catturare lo spirito, l’anima del messaggio cristiano. Il Cristianesimo è infatti una religione incarnata, non una religione “incartata”, fissata cioè sulla “carta”.

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Un primo punto cui volgo l’attenzione è l’ampliamento della nozione di giustizia cristiana, la quale non può essere ristretta al giudizio sul mo-mento distributivo della ricchezza, ma deve spingersi fino al momen-to della sua produzione. Non basta, cioè, reclamare la «giusta mercede all’operaio» – come si legge nella Rerum Novarum (1891). Occorre chie-dersi se il processo produttivo si svolge o meno nel rispetto della dignità del lavoro umano; se accoglie o meno i diritti umani fondamentali; se è compatibile o meno con la norma morale. Già nella Gaudium et Spes, al n. 67, si era letto: «Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita». Ma in nessun’altra enciclica di DSC si nota un’insistenza così decisa su tale punto come nella Caritas in veritate. Il lavoro non è un fattore della produzione che, in quanto tale, deve adattarsi, anzi adeguarsi alle esigenze del processo produttivo per accrescerne l’efficienza. Al contrario, è il processo produt-tivo che deve essere organizzato in modo tale da consentire alle persone la loro fioritura umana e da rendere possibile l’armonizzazione dei tempi di vita familiare e di lavoro. Papa Benedetto ci dice che un tale progetto è oggi, nella stagione della società post-industriale, fattibile, purché lo si voglia. Ecco perché invi-ta con insistenza a trovare i modi di applicare nella pratica la fraternità come principio regolatore dell’ordine economico. Laddove le encicliche precedenti parlano di solidarietà, la Caritas in veritate parla di fraternità, perché una società fraterna è anche solidale, ma il viceversa non è vero. L’appello è a porre rimedio all’errore fondamentale della cultura contem-poranea che ha fatto credere che una società democratica potesse progre-dire tenendo tra loro disgiunti il codice dell’efficienza – che basterebbe da solo a regolare i rapporti entro la sfera dell’economico – e il codice della solidarietà – che regolerebbe i rapporti intersoggettivi entro la sfera del sociale. È questa dicotomizzazione ad avere impoverito, senza alcuna ragione oggettiva, le nostre società.Un secondo punto è degno di sottolineatura. Nella Caritas in veritate i

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termini impresa e imprenditore sono quelli che ricorrono più frequen-temente. Nulla di simile si riscontra nelle encicliche precedenti, dove il termine impresa veniva evocato solo di sfuggita. Perché? Benedetto XVI dimostra di aver afferrato il proprium dell’attività imprenditoriale, che è quello non di mirare alla massimizzazione del profitto, ma del “va-lore condiviso” – come oggi lo si chiama. Il profitto è la misura, non il fine di fare impresa. Ecco perché nell’enciclica si rifiuta l’identificazione dell’imprenditore con la figura del capitalista e quindi si riconosce che, accanto alla forma capitalistica di impresa, devono poter trovare posto, nel mercato, altre forme di impresa, da quella cooperativa a quella socia-le, a quella di comunione, a quella non profit. (È la prima volta che in un documento magisteriale di DSC queste tipologie di impresa ricevono un riconoscimento ufficiale).

È a partire da quanto detto al punto precedente che il Papa si spinge, con un’audacia fuori dal comune, fino ad affermare che il principio del dono come gratuità – non il dono come regalo – deve entrare nell’ordinaria at-tività economica. Questa è la “bestemmia” che i poteri forti del mercato, soprattutto finanziario, non gli hanno perdonato. Cosa ha mai a che fare la dimensione dell’economico con il dono? Non è forse vero che l’agire economico è retto dalle ferree leggi del mercato? Non è per caso suffi-ciente che l’impresa pratichi la filantropia, il welfare aziendale per dirsi socialmente responsabile? Il Papa, raffinato teologo, nel rispondere con un deciso no ad interrogativi del genere, viene a ribadire che la logica della gratuità non può essere ridotta ad una dimensione puramente etica, perché la gratuità non è una virtù. La giustizia è una virtù etica e non si dirà mai abbastanza della sua importanza; la gratuità riguarda piuttosto la dimensione sovra-etica dell’agire umano, perché la sua logica è la so-vrabbondanza – mentre quella della giustizia è la logica dell’equivalenza. È in ciò il novum dell’economia civile di mercato, un modello questo diverso sia dall’economia sociale di mercato sia dall’economia liberista di mercato.

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Infine, di un terzo aspetto preme dire. Esso riguarda il sottotitolo della Caritas in veritate: «Per lo sviluppo umano integrale». La parola chiave è qui “integrale”. Lo sviluppo umano si compone di tre dimensioni: la crescita (misurata ancor oggi dal Pil); la dimensione socio-relazionale; la dimensione spirituale. Ebbene, lo sviluppo umano è integrale quando le tre dimensioni sono prese in modo congiunto, cioè in forma moltipli-cativa e non additiva, come invece si ritiene comunemente. Ciò significa che non è lecito, allo scopo di aumentare la crescita, sacrificare una o en-trambe le altre dimensioni. Ad esempio, non sono legittimi leggi o decreti che, nel tentativo di corto respiro di aumentare il Pil, annullino la festa, il cui senso è radicalmente diverso da quello del riposo. Ovvero, varare provvedimenti che, per aumentare le entrate fiscali, sanciscano, di fatto, la legalizzazione delle ludopatie. O ancora, intervenire sul mercato del lavoro con misure che, al fine lodevolissimo di migliorare la partecipa-zione della donna all’attività lavorativa, mettano a repentaglio la tenuta del progetto educativo della famiglia. E così via.Ora, a prescindere dal fatto che – come si dimostra – provvedimenti del genere conseguono gli effetti desiderati solo nel breve termine, la que-stione centrale che papa Ratzinger pone è quella della libertà. Sviluppo, letteralmente, significa assenza di “viluppi”, di impedimenti di varia na-tura. Battersi per lo sviluppo vuol dire allora battersi per l’allargamento dello spazio di libertà delle persone: libertà intesa, però, non solo in senso negativo come assenza di impedimenti, e neppure solo in senso positivo come possibilità di scelta. Bisogna aggiungervi la libertà “per”, cioè la li-bertà di perseguire la propria vocazione. È questa prospettiva di discorso che, nelle condizioni storiche attuali, mentre permette di superare sterili diatribe a livello culturale e dannose contrapposizioni a livello politico, permette di trovare il consenso necessario per nuove progettualità.

Il XV secolo è stato il secolo del primo Umanesimo; all’inizio del XXI secolo sempre più forte si avverte l’esigenza di un nuovo Umanesimo. Allora fu la transizione dal feudalesimo alla società cittadina il motore

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decisivo del mutamento; oggi, è un passaggio d’epoca altrettanto radi-cale: quello dalla società industriale a quella post-industriale. Questio-ne migratoria, aumento endemico delle diseguaglianze sociali; conflitti identitari; questione ambientale; problemi di biopolitica e biodiritto sono solamente alcune delle espressioni che dicono dell’attuale «disagio di ci-viltà» (S. Freud). Di fronte a tali sfide, il mero aggiornamento di vecchie categorie di pensiero o il ricorso a raffinate tecniche di decisione colletti-va non servono alla bisogna. Occorre osare vie nuove. Rispetto a ciò, non si potrà negare che l’opera e l’apporto di papa Benedetto XVI sono stati – e sperabilmente continueranno ad essere – semplicemente decisivi.

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Attenti all’uomo, non solo alla finanzadi Massimo Calvi

La Caritas in veritate è l’enciclica che fissa il pensiero sociale di Be-nedetto XVI, ma in diverse occasioni papa Ratzinger ha trattato temi

economici rimarcando l’importanza di concetti chiave come “etica” e “fiducia”, invitando agli investimenti nell’economia reale e condannan-do gli eccessi della speculazione finanziaria. «L’economia non funziona solo con un’autoregolamentazione di mercato, ma ha bisogno di una ra-gione etica per funzionare per l’uomo», dice Benedetto XVI, nell’ago-sto 2011, ai giornalisti in viaggio verso la Gmg di Madrid. Nel marzo dell’anno precedente parlando agli industriali romani in udienza aveva sottolineato l’importanza di non cedere alla tentazione di «distogliere gli investimenti dall’economia reale per privilegiare l’impiego dei propri ca-pitali nei mercati finanziari, in vista di rendimenti più facili e più rapidi», ricordando che «l’accesso a un lavoro dignitoso per tutti» deve costituire «un obiettivo prioritario». Nel maggio 2011, nell’udienza ai partecipanti al congresso internazionale del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, la sua attenzione si era concentrata sui gravi danni che può arrecare «una speculazione senza limiti» nei mercati finanziari e in quelli delle derrate alimentari. Il 20 dicembre scorso, Benedetto XVI ha firmato un articolo sul quotidiano finanziario Financial Times, vera novità per un Papa, nel quale ricordando le parole di Gesù «rendi a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», mette in guardia nei confronti «sia della politiciz-zazione della religione sia della deificazione del potere temporale, come pure dell’instancabile ricerca della ricchezza». I cristiani «si oppongono all’avidità e allo sfruttamento nel convincimento che la generosità» e l’amore «sono la via che conduce alla pienezza della vita». Ancora, nel

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Messaggio per la XLVI Giornata della Pace, il primo gennaio 2013, il Papa afferma che uno dei diritti oggi più minacciati è il diritto al lavoro, mentre sembra dominare una visione per cui «lo sviluppo economico dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà dei mercati».

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7I punti fermi

Vita e famiglia verità per tuttidi Luciano Moia

La nuova evangelizzazione dell’Europa passa attraverso la famiglia, realtà insostituibile per la trasmissione della vita, per l’educazione

delle coscienze e per ridare fiducia a una società sempre meno aperta a prospettive di speranza. Ne è convinta Monique Baujart, avvocato, ma-dre di quattro figli, responsabile del settore Famiglia e società della Con-ferenza episcopale francese.

Più volte il Papa in questi anni ha fatto riferimento a vita, famiglia e libertà educativa come a temi non negoziabili. Come è possibile in una società sempre più laicizzata mostrare la verità profonda di questa affermazione?

Papa Benedetto XVI ha parlato di principi non negoziabili in un discorso ai parlamentari europei nel marzo 2006. E ha avuto cura di precisare che quei principi sono comuni a tutta l’umanità, anche se non sono verità di fede. Secondo il Papa la loro difesa non ha alcunché di confessionale ma riguarda il rispetto della dignità umana e l’illuminazione delle coscienze.

D’altra parte non possiamo neppure presentare questi aspetti, che sono le strutture portanti della società, come verità relative

È qui tutto il problema. Quando la Chiesa interviene nel campo della giu-

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stizia sociale, per difendere i poveri e gli esclusi, la sua parola è ascoltata e accettata. Al contrario, sono tanti quelli che considerano l’inizio e la fine della vita e l’organizzazione della famiglia espressioni della libertà individuale. Costoro sono convinti di non dover rendere conto a nessuno di queste scelte e non riconoscono alcuna incidenza sociale per le loro decisioni personali.

Come entrare in dialogo con queste persone?

Una prima pista per fare intendere la parola della Chiesa è quello di divul-gare meglio l’antropologia cristiana, di ristabilire una visione dell’uomo come essere razionale. È solo prendendo coscienza della nostra interdi-pendenza – un punto sul quale Papa Benedetto ha spesso insistito – che le persone possono cominciare a misurare l’impatto delle proprie decisioni sulla vita degli altri e sul bene della società.

Vita e famiglia possono diventare punti determinanti per quella nuo-va evangelizzazione dell’Europa auspicata dal Papa?

La famiglia è sempre stata un vettore fondamentale di evangelizzazione e sempre lo sarà. In famiglia non si trasmette solo la fede, ma si im-parano condivisione, perdono, riconciliazione, attenzione ai più piccoli, tenerezza, gratuità. Come la gratuità potrebbe trovare posto nell’ambito dell’economia se questo sentire non è stato già trasmesso in famiglia? Le famiglie, anche quelle ferite, offrono cammini d’umanizzazione e mo-menti privilegiati per percepire la presenza di Dio.

Rimane il problema di trasmettere tutto ciò in una realtà sociale che appare sempre meno sensibile a questi valori.

Eppure, in Francia l’89% dei giovani dai 25 ai 34 anni spera di costruire il proprio futuro familiare con una solo persona. E sempre con quella.

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D’altra parte il 40% dei matrimoni termina con un divorzio. La nuova evangelizzazione potrà aiutare le famiglie a riscoprire le risorse della tra-dizione cristiana che permettono alle coppie di nutrire il proprio amore e di fare del tempo un alleato e non un nemico per la vita coniugale.

Oggi però le coppie sono sempre più sole. E, quando cominciano i problemi, non possono contare su alcun sostegno.

Purtroppo è vero. Il tempo consacrato alla famiglia non gode di alcun riconoscimento sociale, visto che gli unici aspetti che contano sono quelli economici. Inoltre viene valorizzato il cambiamento permanente (moda, tecnica, lavoro) e deprezzato lo sforzo dei legami familiari nel tempo.

La Chiesa però deve incidere nella cultura della provvisorietà. Non è forse il momento di intercettare queste urgenze con nuove sensibilità pastorali?

Dobbiamo innanzi tutto comprendere le domande che le coppie e le fa-miglie oggi si pongono e che non sono le stesse di ieri. Occorre fare at-tenzione a non dare risposte prima di aver ascoltato i problemi autentici. Occorre anche armonizzare meglio le indicazioni dell’etica sociale con quelle della morale individuale. Ma la Chiesa può attingere al tesoro del-la sua eredità per rinnovare i simboli di matrimonio e famiglia e renderli più accessibili ai giovani di oggi.

Forse troppe famiglie cristiane oggi hanno dimenticato la forza della testimonianza.

È vero, dobbiamo incoraggiare le famiglie a testimoniare la positività rappresentata proprio dalla vita familiare. Ma in modo realistico. Il per-corso della famiglia non è un lungo fiume tranquillo. Ci sono alti e bassi, avvisi di tempesta e attraversamenti di deserto. Tutto questo fa parte della

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vita e, quando si superano le crisi, il legame se ne rafforzato.

Le crisi non superate aprono però sofferenze che si allargano a tutta la società. Qual è il valore mancante che rende più pesante il quadro sociale?

La fiducia. In sé, nell’altro, in Dio. Senza fiducia, non sono possibili né promesse né alleanze. Papa Benedetto ha sottolineato a più riprese la gravità di questa perdita di fiducia nella società. La famiglia che funziona resta il luogo in cui la fiducia si può imparare e sperimentare. Ecco per-ché, per la società e per la Chiesa, il suo valore è inestimabile.

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Da Valencia all’Italia in tre tappe

«Educazione alla fede». «Educazione ai valori». «Lavoro e festa». Sono gli argomenti dei tre Incontri mondiali delle famiglie pre-

sieduti da Benedetto XVI. Un percorso coerente, da Valencia 2006 a Mi-lano 2012, in cui il Papa ha ribadito alcuni punti chiave del suo magiste-ro. «L’affetto con il quale i nostri genitori ci accolsero nei primi passi in questo mondo – disse Papa Ratzinger a Valencia, nell’omelia della Messa conclusiva – è come un segno e prolungamento sacramentale dell’amore benevolo di Dio dal quale veniamo. L’esperienza di essere accolti e amati da Dio e dai nostri genitori è il fondamento solido che favorisce sempre la crescita dell’uomo». Concetti ribaditi tre anni più tardi, nel gennaio 2009, all’Incontro di Città del Messico, dove il Papa non riuscì ad essere presente ma dove fece arrivare il calore della sua vicinanza, grazie a un collegamento via satellite. Il ricordo dell’Incontro di Milano, nel giugno scorso, è ancora freschissimo. L’intensità di quelle giornate, l’entusiasmo degli incontri – dal saluto di cinquantamila cresimandi a San Siro alla festa delle testimonianze – è rimasto nel cuore di tutti coloro che hanno vissuto direttamente o seguito via tv o internet, quei momenti straordinari culminati nella celebrazione eucaristica della domenica, alla presenza di oltre un milione di persone.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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8Uno sguardo più grande

Verso i lefebvriani con cuore di padredi Andrea Galli

Il giorno in cui il mondo ha appreso della rinuncia di Benedetto XVI al pontificato, l’11 febbraio, è circolato anche un comunicato stampa da

Menzingen, paesino di 4mila abitanti nel Cantone di Zugo, in Svizzera, dove ha sede la casa madre della Fraternità sacerdotale San Pio X. Poche righe con le quali si rendeva omaggio, «nonostante le differenze dottri-nali», al «coraggio» di Ratzinger nell’aver ricordato «che la Messa tradi-zionale non era mai stata abrogata» e per aver rimesso le scomuniche ai quattro vescovi consacrati in modo illecito da Lefebvre nel 1988; inoltre un grazie «per la forza e la costanza» dimostrata negli ultimi anni, oltre all’assicurazione di preghiere per lui da parte dei sacerdoti del sodalizio tradizionalista. Poche righe che potrebbero essere l’ultimo atto di una vicenda pluridecennale, costata tempo, fatica e sofferenze. Un rapporto, quello fra i lefebvriani e il teologo bavarese, che per i primi si può sinte-tizzare con “odi et amo”, per il secondo con l’immagine evangelica del padre in attesa del figliol prodigo.

Ratzinger per Lefebvre fu in principio un avversario: l’enfant prodige del Concilio, ispiratore del cardinale Frings, uno degli esponenti insieme a Rahner, Küng e altri della teologia renana riversatasi nel Tevere. Uno dei sovvertitori della Chiesa, insomma. Dopo la sua nomina a prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nel 1981, divenne però un interlocutore prezioso e rispettato: uno dei cardinali più sensibili alle

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istanze del mondo anti-conciliare. Fu lui il protagonista delle trattative che portarono a un memorandum di intesa firmato dallo stesso Lefebvre, nel 1988, e che sembrava il passo finale verso una piena riconciliazione. Poi il colpo di scena, uno dei tanti: il 30 giugno dello stesso anno si arrivò infatti allo scisma.

Uno strappo di tale gravità avrebbe prostrato molti e ne avrebbe dissuasi ancora di più dal continuare sulla strada del dialogo. Non Ratzinger, però. Nemmeno un mese dopo, il 18 luglio, a Santiago, di fronte ai vescovi del Cile, tenne un discorso memorabile. «È un compito necessario difendere il Concilio contro monsignor Lefebvre, come valido e vincolante per la Chiesa», disse chiaramente all’assemblea. Con altrettanta chiarezza spie-gò poi che la reazione lefebvriana era sì una risposta sbagliata, ma a un problema reale: la falsificazione del Concilio, con la conseguente seco-larizzazione penetrata dentro Chiesa, la disobbedienza, la deformazione della liturgia, l’irenismo dottrinale. E richiamò la necessità di salvaguar-dare il bene sommo dell’unità della Chiesa, con la stessa carità e umiltà spese nel processo ecumenico con confessioni cristiane divise da Roma da ben più tempo e da ben più profonde divergenze rispetto a chi rifiutava il Concilio.

Ratzinger ha continuato a tendere la mano anche una volta divenuto Be-nedetto XVI. Avrebbe potuto farne a meno e risparmiarsi sospetti, in-comprensioni, campagne di stampa al vetriolo. Invece, il 29 agosto 2005, solo quattro mesi dopo l’elezione al soglio pontificio, ha voluto ricevere in udienza il vescovo Bernard Fellay, superiore generale dei lefebvriani. Con il motu proprio Summorum Pontificum, il 7 luglio 2007, ha libe-ralizzato l’antica forma del rito romano. Il 24 gennaio 2009 ha tolto le scomuniche del 1988. E alle contestazioni ha risposto, in modo simile a quanto fatto 20 anni prima in Cile, con una lettera inviata ai vescovi di tutto il mondo il 10 marzo 2009 e che resterà tra gli scritti più intensi del suo pontificato. «Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla

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nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo – scriveva nella missiva –, da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti». E in un altro passaggio: «Può lasciarci totalmente indiffe-renti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e mi-gliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa?». E ancora: «A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno al quale non riserva-re alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio, senza timore e riserbo». Sono seguiti, tra il 2009 e il 2011, i colloqui dottrinali tra la Santa Sede e Menzingen. Il 14 settembre 2011 il car-dinale Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha sottoposto a Fellay un preambolo dottrinale, la cui sottoscrizione era considerata indispensabile per il riconoscimento dei lefebvriani e il loro collocamento nella Chiesa dal punto di vista canonico. Ne è nato un rim-pallo, andato avanti fino al 13 giugno 2012, quando Levada ha presentato le valutazioni riguardo all’ultima mezza risposta dei lefebvriani, ritenuta insufficiente, sollecitandone una definitiva e prospettando ufficialmente, nel caso di un superamento della frattura, la concessione alla Fraternità San Pio X dello status di prelatura personale. Quella risposta definitiva da parte di Fellay e confratelli non è però arrivata. Il pontificato di Benedet-to XVI è al termine: a un padre, a un Santo Padre, non sarà così concesso di riabbracciare, come vorrebbe la parabola, «il figlio che era perduto ed è stato ritrovato».

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Nel solco di Benedetto ha colto l’essenza. “Nulla anteporre all’amore di Cristo”

di Enzo Bianchi

Subito dopo l’elezione a Papa di Joseph Ratzinger osservavo come non fossero estranei alla scelta del nome la sosta compiuta a Subiaco alla

vigilia del Conclave, l’amore sempre mostrato per la regola di Benedetto e il significato che il padre dei monaci d’Occidente ha per il cristianesimo europeo. E sottolineavo come il cardinal Ratzinger fosse sempre stato convinto testimone di una parola in particolare della regola benedetti-na: «Nulla assolutamente anteporre a Cristo, nulla anteporre all’amore di Cristo». Anche oggi questo precetto monastico può essere preso come chiave di lettura della sorprendente rinuncia compiuta: Papa Benedetto XVI non ha voluto anteporre a Cristo nemmeno la sua persona chiamata a svolgere il ministero petrino. Più volte Benedetto XVI ha sorpreso per la sua acuta comprensione del monachesimo, anche perché, pur avendo frequentato sovente monasteri, non aveva mai scritto su tematiche mo-nastiche. Nel settembre 2007, durante la visita a all’Abbazia di Heili-genkreuz in Austria, ebbe modo di sottolineare la dimensione liturgica della testimonianza monastica per il mondo contemporaneo: «Noi stiamo davanti a Dio – disse ai monaci austriaci –. Egli ci parla e noi parliamo a Lui. Là dove, nelle riflessioni sulla liturgia, ci si chiede soltanto come renderla attraente, interessante e bella, la partita è già persa. O essa è opus Dei, con Dio come specifico soggetto, o non è. In questo contesto io vi chiedo: realizzate la sacra liturgia avendo lo sguardo a Dio nella comunione dei santi, della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tem-pi, affinché diventi espressione della bellezza e della sublimità del Dio amico degli uomini».

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Ma fu l’anno successivo a Parigi, nello straordinario discorso rivolto al mondo della cultura tenuto al Collège des Bernardins – edificato dai mo-naci “figli” di san Bernardo di Chiaravalle come luogo di studio e di formazione – che Benedetto XVI sviluppò una lettura «delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea», identificando-le con il monachesimo medievale, animato dalla complementarietà tra «desiderio di Dio» e «amore per la parole»: il quaerere Deum e le let-tere, la cultura umanistica. Ne scaturì un discorso proprio di chi «dietro le cose provvisorie cerca il definitivo», affrontando tematiche universali e aprendo vasti orizzonti di senso. Lì mise in risalto come «la cultura della parola», prezioso patrimonio europeo, grazie al monachesimo si sia sviluppata a partire dalla ricerca di Dio e come questo «cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui oggi non è meno necessario che in tempi passati». Ne consegue, fu la riflessione di Benedetto XVI, la necessità di un ap-proccio interpretativo della Scrittura alla luce della Scrittura stessa, che rifugga da qualsiasi fondamentalismo nella lettura della Bibbia perché «la parola di Dio stesso non è mai presente già nella semplice letteralità del testo». È il richiamo quanto mai attuale alla «misura interiore» della libertà, alla sua dimensione spirituale che «pone un chiaro limite all’ar-bitrio e alla soggettività» istituendo «un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore».

Oltre alla sottolineatura di una lettura orante della Scrittura e della sua dimensione liberante, alla dimensione della preghiera che diviene lettura della storia e lievito di cultura, il Papa volle ricordare anche come il mo-nachesimo benedettino abbia anche saputo dare dignità al lavoro umano, anche manuale, in un’epoca in cui «il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali» e chi saggio magari non era ma possedeva la terra o il potere si arricchiva con il lavoro degli altri. Così il cristianesimo non sarà estraneo alla nascita della «cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione

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nel mondo sono impensabili».Sì, Benedetto XVI ha sempre colto il monachesimo come «ciò che ha fon-dato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltar-lo» e come forma radicale di sequela cristiana che «rimane ancora oggi il fondamento di ogni vera cultura». Così i monaci, se fedeli al Vangelo e alla loro grande tradizione, possono ricordare all’insieme della Chiesa il contributo prezioso che la società attende dai cristiani per la costruzione di una polis segnata da giustizia, pace, libertà e qualità della convivenza.

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9Un cammino di purificazione

«Abusi, la svolta definitivaè arrivata così»

di Elena Molinari

L’ “avvocato del Papa” – almeno negli Stati Uniti – è un 54enne ca-liforniano con una moglie italiana e una casetta di famiglia a Ber-

keley, che non si fa mai fotografare ed è convinto, prima ancora come legale che come cattolico, che «sotto la guida di questo Pontefice è stato fatto di più da parte della Chiesa cattolica per affrontare la questione degli abusi sessuali di qualsiasi altra organizzazione», civile o religiosa. Jeffrey Lena rappresenta la Santa Sede dal 2000, e ha seguito l’evolversi dello scandalo degli abusi sessuali di preti ai danni di minori negli Usa. Negli ultimi tre anni si è trovato a rispondere ad accuse mosse personal-mente nei confronti di Benedetto XVI, secondo le quali vi sarebbe una responsabilità penale del Pontefice nelle vicende di abuso. Tutti questi casi, sostiene Lena, si sono sgonfiati a uno a uno, ma non prima di avere sollevato un polverone mediatico. Due anni fa, Jeffrey Anderson, avvo-cato di un gruppo di vittime, addirittura accusò il Papa di crimini contro l’umanità di fronte alla Corte penale internazionale dell’Aja.

Avvocato Lena, come si è conclusa quella vicenda?

Anderson ha ritirato “silenziosamente” le accuse. L’idea che la Corte pe-nale internazionale potesse prendere in esame un caso contro Benedetto

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XVI, considerato senza riserve uno dei più grandi difensori dei diritti umani del nostro tempo, è sia insensata sia offensiva. Non c’è niente che il Papa ha fatto che possa essere considerato un crimine contro l’umanità. Semplicemente, le accuse non erano sostenibili. Non c’è stato bisogno di alcuna pressione da parte nostra. I giudici non avrebbero mai preso in esame il caso. Anderson l’ha presentato per far notizia e l’ha ritirato prima che venisse clamorosamente respinto.

In questi giorni si parla della presunta perdita di immunità legale di Ratzinger una volta che non sarà più Pontefice. È davvero così?

In realtà, contrariamente alle riflessioni disinformate di una manciata di imprudenti, la rinuncia del Santo Padre di fatto avrà nessun impatto sulla sua posizione legale.

Può spiegare meglio?

Un capo di Stato, quando è in carica, gode dell’immunità per tutti i suoi atti, sia pubblici sia privati. Quando non si è più capo di Stato, gli atti ufficiali compiuti durante lo svolgimento delle proprie funzioni sono an-cora coperti dall’immunità. Mi è impossibile pensare a un atto del Papa, quando è in carica, che non si legato alla sua funzione. L’immunità quindi non sparisce...L’unico elemento che un ex capo di Stato perde è l’inviolabilità personale, che non permette che ci si possa avvicinare a un capo di Stato, rivolgergli la parola o consegnargli qualcosa. Ma generalmente gli ex leader conti-nuano a godere di questa protezione, come consuetudine, anche dopo la fine del loro mandato. Questo è il motivo per cui qualunque ipotesi che il Papa possa essere citato in giudizio è totalmente senza fondamento.

Che cosa è cambiato nell’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli abusi sessuali negli ultimi dieci anni?

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Molto. Si tratta di una “storia di successo” che non viene mai raccontata in modo adeguato. Se è vero che si può sempre fare di più, questo Papa ha il merito di aver riconosciuto il problema e di aver aiutato la Chiesa a cambiare atteggiamento.

Che cosa si voleva dimostrare nei casi in cui è stato chiamato in causa il Papa personalmente?

L’accusa sosteneva che il Papa è responsabile per tutti gli abusi sessuali commessi da preti in tutto il mondo. Ma non è una tesi giuridica valida. L’idea che il Papa controlli tutte le diocesi o tutti i preti del mondo è falsa. Il Papa stabilisce le regole per la Chiesa, ma farle rispettare spetta alle diocesi. Una struttura governativa gerarchica non si traduce nella respon-sabilità diretta della persona al suo vertice.

Non si tratta dunque solo di dimostrare che un sacerdote di una dio-cesi è un dipendente del Vaticano, come alcuni legali hanno tentato, invano, di fare?

No, perché se anche un prete della curia romana si rendesse colpevole di un crimine, il Papa non ne sarebbe responsabile. La responsabilità penale è personale e non si trasferisce attraverso le organizzazioni.

A che punto sono i casi aperti contro il Vaticano?

Ce n’erano tre negli Usa. Il più famoso verteva attorno a padre Lawrence Murphy, a Milwaukee (Wisconsin). Si sosteneva che Joseph Ratzinger si fosse rifiutato di ridurre il sacerdote allo stato laicale. Un’accusa fal-sa. L’avvocato dei querelanti, ancora una volta Anderson, ha ritirato la denuncia un anno fa. Un’altra querela era stata avanzata a Chicago nel 2010, sempre da Anderson, con molta fanfara. Anche quella è stato riti-

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rata, senza pubblicità. Infine, c’era il caso dell’Oregon, nel quale sempre Anderson voleva dimostrare che un sacerdote di una diocesi americana è implicitamente un impiegato del Vaticano. In questo caso è stato il giudi-ce a respingere la tesi, lo scorso agosto, ma il querelante ha fatto appello.

Pensa che altri casi potranno essere presentati?

Abbiamo già una serie di giudizi a nostro favore. È difficile pensare a nuove denunce.

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Dalla parte delle vittime per una pulizia radicale

di Salvatore Mazza

Ci sono le vittime. E i carnefici. E poi ci sono i complici, a diversi livelli e gradi di responsabilità. Le vittime vengono prima. E i colpe-

voli vanno puniti. Così come i loro complici, che anche nelle circostanze meno dirette, o suggerite da intenzioni “buone”, ma sicuramente distorte, che non implicano rilievi penali, devono fare ammenda dei loro compor-tamenti. Volendo riassumere nella più estrema delle sintesi la dottrina Ratzinger sui casi di abusi sessuali perpetrati sui minori da parte di perso-nale ecclesiastico, sono quelli i termini essenziali da riassumere. Termini che, tuttavia, non danno conto della vera e propria rivoluzione portata da Benedetto XVI, che della lotta contro la pedofilia nella Chiesa ha fatto un punto fermo del suo pontificato, proseguendo nell’azione che aveva ini-ziato ancora da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Una “operazione pulizia” radicale, minuziosa – iniziata dal giorno dopo la sua elezione, e cioè ben prima che i contorni di quella vera e propria tragedia riesplodessero sui media di tutto il mondo, tentando – in modo anche ridicolo, a volte, come nei casi ricordati qui a fianco dall’avvocato Jeff Lena – di tirarlo in ballo anche personalmente.

Più dei passaggi “tecnici” – spesso complessi – attraverso i quali que-sta lotta s’è dispiegata passo dopo passo, quello che ancora di più va sottolineato è come Papa Ratzinger sia intervenuto con determinazione assoluta a smontare prima di tutto quell’idea omertosa che, in nome di un presunto “bene superiore” – l’integrità dell’immagine della Chiesa – ha portato per decenni a nascondere, minimizzare, insabbiare i casi che

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di volta in volta venivano fuori, senza che ci si preoccupasse che, in tal modo, una nuova violenza fosse compiuta sulle vittime, che diventavano così vittime due volte.Papa Ratzinger, in sostanza, ha detto chiaramente e inequivocabilmente che nessun presunto “bene superiore” della Chiesa può essere anteposto alle vittime. Che vengono prima di tutto, che vanno ascoltate e aiutate, accompagnate se e quando necessario. Ha detto, con altrettanta chiarez-za, che non si dovrà mai più tacere di fronte allo scandalo; e che non ha nessuna importanza il fatto, pur accertato, che le statistiche dicano il contrario di quanto strillano i giornali, riconoscendo la minima incidenza percentuale nella Chiesa di tali casi rispetto ad altre istituzioni, perché anche un solo ministro di Dio che si macchi di questo “crimine orrendo” è già uno di troppo, e sporca tutta la Chiesa, che è di Dio. Mai più deve succedere.

Il risultato di questa ferrea determinazione del Papa è sotto gli occhi di tutti, e non lo vede solo chi non vuole riconoscerlo. Sono cadute teste illustri, a cominciare da Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Le-gionari di Cristo, e ben 77 vescovi in tutto il mondo hanno presentato le proprie dimissioni per le loro corresponsabilità. Soprattutto, dallo scor-so dicembre tutte le Conferenze episcopali del mondo si sono dotate di proprie linee-guida per affrontare nuovi casi che dovessero ripresentarsi. Perché la vergogna del passato non possa ripetersi.

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10Un cuore solo

«Il Pontefice dell’ecumenismo»di Salvatore Mazza

Un contributo «sostanziale e decisivo», quello di Papa Benedetto, al progresso ecumenico. A metterlo in evidenza è il Patriarca Ecume-

nico di Costantinopoli, Bartolomeo I, che in questa intervista esclusiva sottolinea la decisione con cui Papa Ratzinger nel 2006 ha voluto ripren-dere il dialogo teologico, interrotto dal 2000, e come questo oggi sia ar-rivato a discutere il «tema decisivo» dell’esercizio del primato petrino.

Tutti ricordiamo la visita del Papa a Istanbul. Che cosa ha segnato quel momento?

È stata una risposta diretta a un invito personale a partecipare ai festeg-giamenti della festa di S. Andrea “primo chiamato degli Apostoli e fra-tello maggiore di San Pietro”, il 30 novembre 2006. Come il suo prede-cessore, il compianto Papa Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI ha deciso di visitare il Fanar (il Patriarcato) quale gesto simbolico del suo impegno per le relazioni ecumeniche, oltre che una conferma del dialogo di amore e di verità tra le nostre Chiese sorelle. E, così come era stato con Giovanni Paolo II, al termine della visita abbiamo firmato una dichiara-zione congiunta per sottolineare l’esigenza di proteggere le minoranze, la libertà religiosa, e l’ambiente naturale. La visita, pertanto, è stato un modo sincero e significativo di rinnovare il nostro impegno e la notra responsabilità, come leader delle Chiese cristiane in Oriente e Occidente,

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a seguire e realizzare il comandamento di Nostro Signore, che i suoi di-scepoli «siano una cosa sola».

Qual è stato il suo rapporto personale con Benedetto XVI?

Sempre molto stretto, sia sul piano cooperativo sia su quello costruttivo. Abbiamo seguito con grande interesse e amore il suo ministero come pro-fessore, erudito e prolifico, di teologia, in Germania, come un vescovo stimato e fedele della tradizione petrina, come Prefetto della Congrega-zione per la Dottrina della Fede, e ora come il venerabile capo spirituale della Chiesa cattolica romana. Molti dei nostri attuali più rappresentativi membri della Gerarchia ortodossa hanno avuto il privilegio di apprez-zare le sue lezioni e di imparare dalla sua saggezza. In tutti questi anni, abbiamo mantenuto relazioni cordiali e fraterne col Papa attuale, fondata sul nostro impegno comune per l’unità delle nostre due Chiese. Per que-sto motivo, dopo la sua elezione, abbiamo proseguito nella tradizione, iniziata dal patriarca Atenagora e da Paolo VI, dello scambio formale di delegazioni, ogni anno, nelle rispettive feste patronali delle nostre Chie-se. A sua volta, Papa Benedetto generosamente ci ha invitato nel 2008 a parlare al Sinodo dei Vescovi, cosa senza precedenti, e, lo scorso ottobre, a portare l’unico saluto di un leader ecumenico durante le celebrazioni ufficiali in Piazza San Pietro per il 50 ° anniversario dall’apertura del Concilio Vaticano II.

Già il cardinale Kasper parlava di un dialogo cattolico-ortodosso en-trato nella sua “terza fase”. Quale è stato, per lei, il contributo di Benedetto XVI a questo progresso?

Le discussioni teologiche tra Ortodossi e Chiesa cattolica è stato al cen-tro del nostro amore e attenzione dal 1980, quando dopo il periodo noto come “dialogo della carità”, inaugurato dal compianto patriarca Atena-gora e dai papi Giovanni XXIII e Paolo VI, il patriarca Dimitrios e papa

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Giovanni Paolo II istituirono la Commissione mista internazionale per il dialogo teologico. Conosciuta come “dialogo della verità”, tale Commis-sione nel corso dei suoi incontri ha pubblicato documenti condivisi sul mistero della Chiesa, sui sacramenti, sulla visione dell’unità e il proble-ma della uniatismo, su ecclesiologia e conciliarità e, più recentemente, circa il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa. Come si può immaginare, questi non sono argomenti facili da discutere aper-tamente e onestamente, in particolare dopo i secoli trascorsi dall’ultima volta che le nostre due Chiese s’erano incontrate a uno stesso tavolo, nei secoli XIII e XIV. Tuttavia, eravamo convinti che si debba persistere nel dialogo nonostante gli ostacoli, consapevoli che, se ancora non non pos-siamo trovare un accordo su un’unità teologica e sacramentale, possiamo almeno concordare nel nostro rammarico per le tragiche divisioni e le dolorose ferite del passato. A questo proposito, il ruolo di Papa Benedetto è stato sostanziale e decisivo, in quanto ha condiviso la nostra preoccu-pazione e sostenuto il nostro appello per il ripristino nel 2006 del dialogo teologico, che era purtroppo stato interrotto nel 2000.

Si aspettava che un giorno la Commissione potesse arrivare a parla-re dell’esercizio del primato di Pietro? Che venisse approvato un do-cumento al riguardo, e che la discussione potesse ancora progredire?

Come abbiamo già accennato, lo sviluppo e il progresso del dialogo te-ologico non è sempre stato senza ostacoli e sfide. Tuttavia, noi siamo convinti che un dialogo autentico e aperto, che miri a una piena unità sacramentale, non possa realizzarsi senza costi. Non possiamo sperare di obbedire al comandamento del Signore di «amarsi l’uno con l’altro» e di «essere l’uno per l’altro» senza un vero spirito di sacrificio. Non ci può essere sicuramente alcun modo confortevole o indolore di portare la croce di Cristo. Certo, c’è stato uno scopo e una pianificazione dietro gli incontri in riunioni plenarie e nel consenso crescente tra le nostre due Chiese. Ecco perché abbiamo iniziato con questioni come la Santissima

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Trinità, la Chiesa, e l’Eucaristia, così che si possa avanzare verso questio-ni quali il rapporto tra la nostra fede comune e comunione sacramentale, così come il significato e la teologia del ministero ordinato, in particolare il ruolo del vescovo. Abbiamo sempre saputo che la questione decisiva su cui discutere e deliberare è il ruolo del papato nella vita della Chiesa locale, regionale e universale. Tuttavia, tutti i nostri principi essenziali della fede sono interconnessi in modo vitale, e non possono essere isola-ti nella loro importanza ecclesiologica, canonica, e sacramentale. È una benedizione, allora, che abbiamo perseverato nel corso degli ultimi due decenni di dialogo teologico, e nelle due decadi precedenti di rapporti fraterni tra le nostre due Chiese. Per ora siamo in grado di aprire nuovi orizzonti e crescere ancora più vicino alla realtà che esisteva nella Chiesa del primo millennio, quando eravamo un solo corpo, sia pure con molte membra.

(ha collaborato Nikos Tzoitis)

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Rowan Williams: «E’ un passoche aiuta a capire»

di Silvia Guzzetti

Lungi dall’indebolire la Chiesa cattolica, come ha scritto una parte della stampa britannica, la rinuncia di Benedetto XVI «arricchirà

spiritualmente» il ministero petrino e dimostrerà la vera natura di questa missione. Lo ha detto ad Avvenire Rowan Williams, già arcivescovo di Canterbury e già primate della Comunione anglicana al quale è sempre stata attribuita una particolare intesa con Joseph Ratzinger. Gli inglesi ri-cordano l’abbraccio caloroso che i due si sono scambiati a Lambeth Pala-ce quando Benedetto XVI ha visitato il Regno Unito nel settembre 2010.Williams, che ha lasciato il suo incarico lo scorso dicembre, scegliendo il ruolo di preside del Magdalene College di Cambridge, ha ammesso di aver discusso con il suo compagno di viaggio ecumenico «le pressioni degli incarichi che avevamo e di aver parlato della promessa di dedicare più tempo alle riflessioni e alla preghiera».La rinuncia del Papa, secondo il già arcivescovo di Canterbury, aiuta a capire quale è il vero ruolo del Pontefice. «Il ministero petrino è qualcosa di diverso dai doni e dalle competenze di chiunque, per quanto saggio egli sia – spiega il teologo –. È un servizio al quale Dio chiama una per-sona, forse per la vita, forse per una stagione». E le parole di omaggio che Williams, seguito dal suo successore Justin Welby e da diversi altri vescovi anglicani, ha voluto dedicare al Papa, sarebbero state impensa-bili fino all’800 quando i cattolici non godevano ancora nel Regno Unito dei diritti civili. Segno dei rapporti sereni che adesso corrono tra le due Chiese che collaborano, attraverso l’associazione «Churches together in Britain and Ireland», in diverse iniziative parrocchiali e diocesane.

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«Questa decisione del Papa testimonia la maturità spirituale e il coraggio di una persona che sono onorato di aver conosciuto», aggiunge ancora Willams, secondo il quale «la decisione del Papa e il modo in cui l’ha presa e l’ha comunicata testimoniano una preoccupazione profonda per il bene della Chiesa e dimostrano umiltà e capacità di discernimento». Così il già primate ha reso omaggio al Pontefice con il quale ha condiviso la preoccupazione per l’ordinazione episcopale delle donne e quella degli omosessuali dichiarati.

Porta la data del 4 novembre 2009 la costituzione apostolica Anglicano-rum coetibus voluta da Benedetto XVI che prevede l’istituzione di or-dinariati personali per anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa cattolica. Spiega il documento che l’ordinariato è formato da laici, sacerdoti e religiosi d’istituti di vita consacrata o di società di vita apostolica, «originariamente appartenenti alla Comunione anglicana e ora in piena comunione con la Chiesa cattolica, oppure che ricevono i sacramenti dell’Iniziazione nella giurisdizione dell’ordinariato stesso». La costituzione apostolica stabilisce anche che «senza escludere le cele-brazioni liturgiche secondo il Rito romano, l’ordinariato ha la facoltà di celebrare l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, la Liturgia delle ore e le altre azioni liturgiche secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana approvati dalla Santa Sede, in modo da mantenere vive all’interno della Chiesa cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Co-munione anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere».«Ringrazio Dio per una vita sacerdotale completamente dedicata, in pa-role e opere, alla preghiera e al difficile servizio di seguire Cristo», aveva detto del Papa l’arcivescovo JustinWelby, successore di Williams.

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11Religioni in dialogo

Con l’ebraismo segnali importantidi Riccardo Maccioni

Un pontificato aperto al dialogo con l’ebraismo. Un Papa teologo ca-pace di amicizia, che ha dimostrato “sul campo” attenzione e vici-

nanza al popolo dell’Alleanza. Il 17 gennaio 2010, 24 anni dopo la sto-rica prima volta di Wojtyla, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni ha accolto Benedetto XVI nella Sinagoga di Roma, in quella che resta una delle tappe più significative degli otto anni di Ratzinger sul soglio di Pietro. «È stato un pontificato – spiega Di Segni – in cui ci sono stati dati segnali importanti, nella linea della continuità con i Papi precedenti».In qualche modo l’incontro romano è stato il punto d’arrivo di un itinera-rio contrassegnato da altri momenti significativi, dall’incontro alla Sina-goga di Colonia del 19 agosto 2005 alla preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme nel 2009, passando per la visita al campo di concentra-mento di Auschwitz-Birkenau, durante il viaggio in Polonia, nel 2006.

Un percorso di riconciliazione della memoria che ha fatto trasparire il tratto umano del Pontefice. «Nelle occasioni, non molte, in cui ci siamo incontrati – sottolinea Di Segni – ho potuto progressivamente scoprire la sua sensibilità esegetico-scritturale, che per un rabbino rappresenta un importante tramite di comunicazione». Qualità emersa con forza durante il discorso alla Sinagoga di Roma, con il richiamo alla «comune eredità tratta dalla Legge e dai Profeti» e l’indicazione della centralità del Deca-logo «che proviene dalla Torah» come «fiaccola dell’etica, della speranza

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e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio» che «illumina e guida anche il cammino dei cristiani». Diciamo – aggiun-ge il rabbino capo della comunità ebraica di Roma – che «l’insegnamento di questo Papa ha rimarcato il legame profondo del cristianesimo con le radici ebraiche e bibliche, spesso in passato trascurato nel mondo cattoli-co. Fa parte poi della “dottrina” cristiana il richiamo ai Dieci Comanda-menti che sono, attraverso la Bibbia ebraica, un patrimonio condiviso».

Nel 2010, Di Segni dedicò buona parte del suo discorso nella Sinagoga di Roma al rapporto tra fratelli che, nella Bibbia, inizia molto male. Come noto Caino uccide Abele, Isacco e Ismaele per dimenticare le loro rivalità devono attendere la morte del padre Abramo, mentre le strade di Esaù e Giacobbe si incontrano solo per un breve tratto di cammino. «Finalmen-te» la storia di Giuseppe e i fratelli, che inizia in maniera conflittuale per concludersi con una conciliazione finale. In questo senso, Di Segni si do-mandava a che punto fosse il rapporto tra ebrei e cristiani. «Il problema riguarda le responsabilità che derivano dalla fratellanza, come sottolinea il discorso della Genesi». Per esempio, richiama alla necessità di una te-stimonianza comune in campo etico nell’Europa secolarizzata. «Decisa-mente sì – continua Di Segni – il patrimonio condiviso dev’essere sotto-lineato e ci mette di fronte alla responsabilità, visto che il mondo sceglie altre direzioni, di trovare elementi comuni su cui agire». Costante nel pontificato di Ratzinger il richiamo alla dichiarazione conciliare Nostra Aetate così come la totale condanna della Shoah. Un rifiuto ribadito con forza da Benedetto XVI tanto nella Sinagoga di Roma che ad Auschwitz-Birkenau. «Diciamo – osserva Di Segni – che il discorso nel campo di concentramento circa l’interpretazione del ruolo della Germania e del popolo tedesco nella Seconda guerra mondiale, non ci ha entusiasmato. Al di là di questo, però, resta l’importanza del gesto, del rifiuto». Rabbino Di Segni, a suo modo di vedere qual è l’eredità di questo Papa? «Ci lascia l’invito ad andare avanti e a far crescere il dialogo. Un testimone che va raccolto e non lasciato cadere».

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Allora, cosa aspettare, cosa chiedere al suo successore? «Noi ci auguria-mo che ci sia una linea di continuità con il pontificato di Benedetto XVI – conclude il rabbino capo della comunità ebraica di Roma – nel rispetto e nella collaborazione».

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L’invito ai musulmani:allarghiamo la ragione

di Giorgio Paolucci

Il merito principale di Benedetto XVI nei confronti dei musulmani? L’in-vito ad allargare la ragione, lo stesso invito che ha fatto all’Occidente. Parola di Samir Khalil, gesuita, egiziano, islamologo di fama internazio-nale, chiamato da Ratzinger nel 2005 a tenere una lezione sull’islam in occasione degli incontri annuali del Papa con i suoi ex allievi a Castel-gandolfo.

Di questo Papa si ricorda soprattutto il discorso tenuto all’università di Ratisbona nel 2006, che scatenò un mare di polemiche…

Un intervento fondato sul concetto che l’uomo è anzitutto un essere ra-gionevole e che in ogni persona è presente l’aspirazione al bene, alla dignità e alla libertà, e a partire da questo è possibile costruire insieme una società dove ci sia posto per tutti. Benedetto XVI ricordava all’islam la strada percorsa tra il nono e il tredicesimo secolo, nel periodo abassi-de, quando si verificò l’incontro fecondo con l’ellenismo che venne fatto conoscere ai musulmani dai cristiani arabi e siriaci e si ripensò la teologia partendo dalla filosofia, in una fecondazione reciproca tra fede e ragione che poi è purtroppo degenerata nella chiusura autoreferenziale del mondo islamico. Una situazione analoga vive l’islam contemporaneo, dove si fronteggiano coloro che invitano a rileggere la tradizione usando la ra-gione e gli strumenti della modernità, e quanti invece sostengono un’in-terpretazione meccanica del Corano e della sharia. La frase chiave di Ratisbona è: “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”.

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A giudicare dalle reazioni delle piazze islamiche, il messaggio non fu recepito…

Ricordo che in quei giorni partecipai a numerosi dibattiti televisivi sul discorso tenuto da Ratzinger, e rimasi stupito dal fatto che molti degli interlocutori musulmani con cui mi confrontavo non l’avevano letto, ma ne parlavano alla luce delle riduzioni operate dai media arabi. Analoga considerazione si può fare sulle manifestazioni di piazza che si scatena-rono in quei giorni, frutto più di reazioni istintive che di un esame appro-fondito delle parole del Papa.

Che cosa rappresenta la lettera firmata da 138 saggi islamici un anno dopo e indirizzata al Papa e ad altri leader cristiani?

Testimonia che all’interno del mondo musulmano, pur con sensibilità differenti, c’è chi desidera aprirsi a un confronto. Il punto di partenza era la fede nell’unicità di Dio. La Santa Sede rispose a quel documento, ci fu anche un incontro in Vaticano per cominciare ad affrontare alcune questioni fondamentali come i diritti dell’uomo, la libertà religiosa, la reciprocità, la violenza. Fu un segnale positivo, che andrebbe ulterior-mente sviluppato. Perché per dialogare con l’islam è inutile partire dalla teologia, ancor meno dal dogma.

In che senso?

Il cristianesimo è fondato su un dato assolutamente originale: l’incarna-zione di Dio, il Mistero che si rende incontrabile all’uomo. Un concet-to inimmaginabile nella cultura e nella teologia islamica. A Ratisbona e nei suoi interventi successivi, Benedetto XVI ha puntato sui dati che accomunano il genere umano: la razionalità e l’aspirazione al bene, alla giustizia, alla libertà. Lo scopo è costruire una civiltà in cui sia possibile

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vivere insieme pur essendo diversi. La violenza, tanto più se usata in nome di Dio, è la negazione di questa possibilità. E questo è il dramma con cui si misura il mondo islamico: penso al terrorismo e alla degenera-zioni delle primavere arabe.

Uno degli ultimi documenti “forti” di questo pontificato è l’esorta-zione apostolica per il Medio Oriente firmata in Libano nel settem-bre dell’anno scorso, che analizza questi ed altri temi cruciali legati anche alla condizione delle minoranze cristiane nei Paesi islamici.

In effetti vi sono contenute indicazioni preziose. Si afferma che le reli-gioni sono al servizio del bene comune per edificare una società comune, che la libertà religiosa è fondamento e culmine di tutte le libertà, e si sviluppa magistralmente la nozione di laicità positiva: «La sana laicità significa liberare la religione dal peso della politica e arricchire la politica con gli apporti della religione, mantenendo tra loro una chiara distinzione e la necessaria collaborazione». È un monito che vale tanto per le società musulmane, dove spesso la religione determina la politica, quanto per quelle occidentali, che considerano l’esperienza religiosa un fatto privato e ritengono che la fede non deve «contaminare» la ragione. Un’eredità preziosa che questo Papa lascia al mondo intero.

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12La Chiesa di tutti

Un vero maestro per tutti i carismidi Matteo Liut

Li ha accolti, accompagnati, incoraggiati e indirizzati sempre verso la comunione ecclesiale. Quello tra Benedetto XVI e i movimenti e

le associazioni laicali è stato, in otto anni di pontificato, un rapporto di affetto, stima, guida paterna. E con i suoi gesti, le sue scelte, le sue parole Ratzinger ha saputo valorizzare ogni singolo carisma per il rinnovamento della Chiesa. D’altra parte, ricordava il Papa nella veglia di Pentecoste il 3 giugno 2006, “i movimenti sono nati dalla sete della vita vera; sono movimenti per la vita sotto ogni aspetto”.

In questo cammino condiviso ogni movimento, ogni comunità, ogni as-sociazione ha i suoi momenti forti da ricordare. Una memoria che traccia il profilo di un Papa che ha saputo fare da padre ai diversi carismi nella Chiesa.

«Ci restano nel cuore alcuni particolari “messaggi” del Papa – ricorda Franco Miano, presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana –. Il ri-chiamo alla tensione alla santità come propria dei laici, nel 140° anniver-sario dell’Ac del 2008. La coniugazione di santità e impegno educativo, nell’incontro con gli oltre 100mila ragazzi e adolescenti dell’Associazio-ne, nel 2010. La sottolineatura della corresponsabilità dei laici nella vita della Chiesa, nel messaggio all’Assemblea del Forum internazionale di Ac, nel 2012. Infine, l’invito alla gioia e alla speranza, pur nelle fatiche,

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nelle parole pronunciate l’11 ottobre 2012, in occasione della fiaccolata con cui l’Ac ha celebrato il 50° del Concilio».

Ricordando «i grandi doni» che Ratzinger ha voluto «elargire alla fami-glia di Rinnovamento nello Spirito Santo», il presidente Salvatore Mar-tinez cita quello della Fondazione vaticana «Centro Internazionale Fa-miglia di Nazareth» istituita proprio nelle scorse settimane. Un gesto del Papa, come anche la sua rinuncia, che «smentisce chi lo presentava come “cardinale di ferro” testimoniando rara magnanimità di cuore e umiltà di servizio, proprie di chi ama il Signore e il suo Vangelo più di se stesso e della propria vita. Ha difeso la Chiesa dallo spirito del mondo – nota ancora Martinez – riaccendendo la luce della fede nelle anime, ridando un cuore alla modernità, offrendo Cristo come esperienza ragionevole, umanizzante e salvifica per l’uomo. Si congeda all’insegna della libertas in veritate».

Benedetto XVI, d’altra parte, ha avuto stretti rapporti anche con i fonda-tori dei movimenti che oggi segnano il volto della Chiesa. «Don Gius-sani dialogava già col cardinale Ratzinger per l’autorevolezza che gli riconosceva – ricorda don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Cl –. Divenuto Papa, è stato per noi un faro sicuro per la percezione acuta del dramma di un io ridotto e quindi per l’invito ad allargare la ragione fino a scoprire il rapporto tra le domande umane e la risposta della fede; per l’insistenza sulla natura del cristianesimo come avvenimento e non come creazione dell’uomo, per la testimonianza della fede come metodo, il dialogo interreligioso e la sottolineatura che il contributo dei cristiani sarà decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà».

Giampiero Donnini, responsabile della prima comunità del Cammino ne-ocatecumenale italiana a Roma, ricorda l’antico legame tra Ratzinger e l’iniziatore dello stesso Cammino Kiko Argüello: «Quando era docente

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a Ratisbona lo volle conoscere – ricorda Donnini – e lo presentò ad al-cuni parroci tedeschi, che poi diedero inizio alle catechesi del Cammino. Siamo profondamente grati a Ratzinger per quello che ha fatto sia da pre-fetto della Congregazione della dottrina della fede sia da Pontefice, con l’approvazione di diversi documenti fondamentali per la vita del Cammi-no. Egli ha anche inviato le missio ad gentes in territori bisognosi di una nuova evangelizzazione, dimostrandosi quindi un pastore davvero pre-occupato dell’evangelizzazione, che ci è stato vicino con gesti concreti».

E anche la Comunità di Sant’Egidio è tornata con la memoria a uno dei più recenti gesti concreti di attenzione di Benedetto XVI: la visita del 12 novembre 2012 alla casa «Viva gli Anziani». E lo scorso 6 febbraio, al termine dell’udienza generale il Papa ha incontrato alcuni vescovi che hanno preso parte a un convegno promosso dalla Comunità nell’anni-versario della fondazione, invitando Sant’Egidio a continuare nell’im-pegno a favore «dei deboli e dei poveri». Riflettendo sulla sua rinuncia, il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, così riassume gli otto anni di pontificato: «Papa Ratzinger ha puntato sul “governo spirituale” con il suo insegnamento».

Un Papa quindi che ha saputo sempre mostrare la via ad associazioni e movimenti.

«Ero stata appena eletta presidente dei Focolari – ricorda da parte sua Maria Voce –. Insieme all’assemblea generale ci recammo in udienza da Benedetto XVI. Era il 27 luglio 2008. Ci incoraggiò con forza “a pro-seguire con gioia e coraggio nel solco dell’eredità spirituale di Chiara Lubich, incrementando sempre più i rapporti di comunione”. Poi disse a me, come in confidenza: “Dio la aiuterà”». Poi la responsabile del mo-vimento ricorda un’udienza privata del 2010: «Vedeva il “carisma dei focolarini” come quello “che costruisce ponti, che fa unità”, palestra di un amore profondo e personale con Dio, fonte di ogni altro amore e di

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santità. A conferma, e ciò gli diede particolare gioia, la testimonianza del-la beatificazione imminente di Chiara Luce Badano e le 17 cause avviate per altri membri del Movimento».

Nell’album dei ricordi, che in questo momento è eredità per il futuro, anche il Movimento Cristiano Lavoratori (Mcl), presieduto da Carlo Co-stalli, aggiunge la sua immagine. «Serbiamo nel cuore il commovente incontro con il Mcl il 19 maggio scorso per il nostro 40° anniversario – ricorda il presidente Carlo Costalli –: ci ha lasciato un programma che sarà guida per i prossimi anni».

«Fra i tanti ricordi del rapporto di Benedetto XVI con le Acli – ricor-da Gianni Bottalico, presidente delle Acli – forse quello che più rimarrà impresso in noi è quello dell’Angelus a Castelgandolfo a conclusione dell’Incontro nazionale di studi delle Acli dedicato alla Laborem exer-cens, il 4 settembre 2011. Nel nostro cammino vogliamo continuare a riferirci alla straordinaria sintesi che egli ci ha proposto tra l’esperienza di fede e i valori che animano la vita economica, sociale e politica nel mondo attuale».

Ma raccogliere l’eredità di Benedetto XVI significa anche guardare avan-ti. Come fanno ad esempio i responsabili dell’Agesci, Giuseppe Finoc-chietti e Rosanna Birollo, capo scout e capo guida, Matteo Spanò e An-gela Maria Laforgia, presidenti del Comitato nazionale, assieme a padre Alessandro Salucci, assistente generale: «Preghiamo ora per chiedere allo Spirito Santo di far sorgere tra noi un pastore che ci aiuti con il suo sostegno a portare avanti i valori del movimento scout: pace, giustizia, fratellanza universale e comunione tra i popoli».

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Il Papa professore e catechista capacedi «farsi capire da tutti»

di Enrico Lenzi

È il Papa catechista che non ti aspetti. Un teologo capace di «sminuzza-re» i grandi temi ed «essere comprensibile a tutti». Benedetto XVI ha

sorpreso molto sotto questo profilo. «Attraverso le catechesi del mercole-dì all’udienza generale – dice monsignor Walther Ruspi, segretario della sezione catechesi del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa – ci ha aiutato a conoscerlo e ad apprezzarlo per questa sua capacità». Non solo un «vero catechista», ma anche un pastore «capace di coinvolgere le folle dei fedeli presenti, trasformando le udienze generali da momenti di happenig a uno spazio di silenzio e di preghiera». Era in grande dilemma che gli osservatori esterni avevano all’inizio del pontificato di Jospeh Ratzinger, noto al grande pubblico come «il teologo, il professore uni-versitario. Comunicatore «di grandi verità e concetti», capace «di farsi comprendere da tutti», ma «mai banale» sottolinea monsignor Ruspi, che ricorda come anche i temi affrontati nelle catechesi del mercoledì «han-no voluto mostrare la testimonianze di santità dei Padri della Chiesa, ma anche di altre figure della storia del cristianesi dai suoi inizi fino ai giorni nostri, per dimostrare la ragionevolezza della fede, avvicinandoci a una fede pensata, senza aver paura delle domande profonde». Una carrellata che non ha toccato soltanto Apostoli o Dottori della Chiesa, ma «anche il genio femminile, con le catechesi si alcune sante e beate, proprio per far sentire che tutto il popolo di Dio è valorizzato in questo cammino verso il Padre e nel compito della testimonianza». Insomma un percorso di otto anni nel quale «ha mostrato la vita ricca della Chiesa e ha indicato sem-pre la centralità di Gesù, della sua persona, da incontrare in modo perso-

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nale, aprendoci alla sua conoscenza». Significativo, secondo monsignor Ruspi anche la scelta di dedicare una serie delle catechesi «alla preghiera e alla preghiera di Gesù, che anche in questo ci è maestro».«Potrebbe essere preso di esempio da tutti i catechesti» aggiunge don Danilo Marin, responsabile regionale della catechesi nella regione eccle-siastica del Triveneto. «Ho partecipato a qualche udienza generale e ho potuto apprezzare questo linguaggio semplice e chiaro, ma ricco di con-cetti e di messaggi». E, altro elemento a sorpresa, «mi ha colpito la sua capacità di rapportarsi con i fedeli. L’ho potuto sperimentare in un’udien-za più ristretta a cui partecipai come responsabile di una casa di Esercizi spirituali della Fies: davvero grande umanità e attenzione agli altri».Una caratteristica che don Dino Pirri, responsabile della catechesi per la regione ecclesiastica delle Marche e assistente spirituale nazionale dell’Azione cattolica ragazzi (Acr), ha potuto verificare anche nell’in-contro con i più piccoli, con i bambini. «Mi ha sempre colpito la capacità di Benedetto XVI di mettersi in rapporto con i bambini. L’ho visto in oc-casione degli incontri che ha con l’Acr per Natale. Colpisce l’attenzione, la tenerezza e anche lo stupore che Benedetto XVI esprime incontrando anche i più piccoli». E quest’ultimi «ne sono conquistati, dopo l’iniziale emozione e timidezza di trovarsi davanti al Papa». Quest’anno, racconta ancora don Pirri, «abbiamo notato come il Papa abbia dedicato molto più tempo all’incontro con i piccoli dell’Acr in quello che è stato il loro ultimo incontro con Benedetto XVI». Sembrava quasi che volesse pro-lungare quell’incontro. Grandi o piccoli che fossero i suoi interlocutori, il Papa catechista «ha voluto indicare con chiarezza la strada verso il Padre» dice monsignor Ruspi. Sapendo entrare nel cuore del messaggio, così «come ha fatto anche nei tre libri sulla persona di Gesù». E «senza tirarsi indietro dal confronto con altri contributi culturali e di pensiero», ma mantenendo con tutti «un linguaggio comunicativo chiaro con ogni suo interlocutore». Anche monsignor Ruspi ha un ricordo legato al Papa con i giovani. «Eravamo alla Giornata mondiale della gioventù a Sydney nel 2008 e stavamo navigando sulla nave. È stato bellissimo vedere come

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Benedetto XVI ascoltava con interesse e sincera curiosità le parole del giovane ragazzo maori che stava al suo fianco e gli illustrava il pano-rama. Colpiva il suo stupore e la sua meraviglia per quanto gli veniva spiegato. Il Papa si lasciava istruire con grande passione».

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13Un padre e un maestro

Dritto al cuore dei giovanidi Mimmo Muolo

Che sarebbe stata una sintonia a prima vista lo si era capito subito. Per la precisione il 23 aprile 2005, appena quattro giorni dopo l’elezio-

ne. Quella mattina Benedetto XVI tenne la sua prima udienza pubblica nell’Aula Paolo VI, udienza formalmente rivolta agli operatori dei mass media che avevano seguito il Conclave. Ma a sorpresa ci trovò anche diverse migliaia di giovani che lo circondarono con il loro affetto e ritma-rono il suo nome alla maniera dei vecchi cori dedicati a Giovanni Paolo II. Da allora in poi il legame tra Papa Ratzinger e il «volto giovane della Chiesa» è andato via via alimentandosi grazie a tre Gmg (Colonia 2005, Sydney 2008 e Madrid 2011), numerosi incontri durante i viaggi nelle diocesi italiane e all’estero e soprattutto grazie alla profonda tensione spirituale che Benedetto XVI ha saputo instillare nei cuori dei ragazzi dei cinque continenti incontro dopo incontro. Il suggello, probabilmente, il Pontefice l’ha posto a Cuatro Vientos, l’aeroporto madrileno che ha ospitato gli atti conlusivi della terza Gmg di Papa Ratzinger. Era la sera del 19 agosto 2011 e chi c’era non potrà mai dimenticarlo. Lo scatenarsi improvviso degli elementi atmosferici, acqua, vento, grandine. Tenso-strutture che non reggono, pezzi di palco che cadono pericolosamente vicini al Papa, ma lui che, contro i consigli dei suoi collaboratori, deci-de di non cercare rifugio altrove. «Se restano loro, resto anch’io», dice indicando i due milioni di giovani fradici di pioggia davanti sé. E il suo gesto di fermezza e di coraggio non solo scatena l’entusiasmo e infonde

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sicurezza, ma diventa un’immagine emblematica. Che lo stesso Benedet-to XVI traduce così: «Abbiamo vissuto un’avventura insieme. Saldi nella fede in Cristo, avete resistito alla pioggia. Vi ringrazio per il meraviglioso esempio che avete dato. Come questa notte, con Cristo potrete sempre affrontare le prove della vita. Non lo dimenticate». Parole pronunciate a braccio che restano scolpite nei cuori, oltre che negli annali della cronaca papale. E diventano perciò parte integrante della grande eredità lasciata da Benedetto XVI ai giovani. Con i suoi gesti, con il suo magistero e con la sua spiritualità semplice ed esigente al tempo stesso, Papa Ratzinger ha infatti dimostrato che il rapporto instaurato dal suo predecessore con le nuove generazioni di tutto il mondo è un patrimonio ormai stabilmente acquisito alla Chiesa. Egli, anzi, ha lavorato perché quel rapporto fosse approfondito grazie alla preghiera, al silenzio, al raccoglimento e affin-ché nessuno fosse tentato di scambiare i grandi raduni delle Gmg per una variante cattolica di quelli che andavano di moda negli anni ’70 presso il popolo hippy. Ora, dunque, l’eredità delle Gmg che Benedetto XVI consegna al suo successore è fatta sì di gioia e di canti, di applausi ed entusiasmi tipicamente giovanili, ma anche e soprattutto di adorazione. In altre parole è riempita sempre più di una Presenza, quella del Signore contemplato sotto le specie eucaristiche, verso la quale il Papa ha saputo indirizzare – quasi come un vivente cartello stradale – il percorso di vita di tanti ragazzi e ragazze che lo hanno seguito durante i suoi quasi otto anni di Pontificato. Lo si era già visto a Marienfeld, la località poco di-stante da Colonia della sua prima Gmg. Se ne è avuta conferma a Sydney, nell’ippodromo di Randwick trasformato in un cenacolo a cielo aperto, e soprattutto a Madrid, quando – dopo la tempesta – era giunta la quie-te di quei minuti in ginocchio davanti al tabernacolo in un silenzio che potevi tagliare quasi con il coltello, tanto era spesso, eppure così leggero da portare in alto i cuori di tutti. Quegli stessi cuori ai quali il Pontefice ha puntato dritto per trasmettere il suo amore verso Gesù. Perciò, an-che nel dopo Papa Ratzinger, la pastorale giovanile non potrà non tenere conto della sua “lezione”, in cui gesti e parole sono come le due facce

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della stessa medaglia. Chi non ricorda ad esempio le splendide immagini dell’arrivo a Colonia e Sydney a bordo due bianche imbarcazioni, quasi a sottolineare, anche visivamente, che la Chiesa è da sempre come una barca che solca le onde ora calme, ora agitate della storia? E a commento di quelle immagini ecco l’insegnamento di Benedetto XVI: «Spalancate il vostro cuore, lasciatevi sorprendere da Cristo e dalla Chiesa. Solo da Dio infatti viene la vera rivoluzione» (Gmg di Colonia). «La vita non è semplicemente accumulare ed è ben più che avere successo» (Gmg di Sydney). E infine, forse l’insegnamento che li riassume tutti e che proiet-ta il rapporto Chiesa-giovani nel futuro, all’insegna della speranza. «Dio ci ama. Questa è la grande verità della nostra vita che dà senso a tutto il resto. Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all’origine della nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio» (Gmg di Madrid). Quel progetto Papa Ratzinger l’ha testimoniato con la sua vita tutti i giorni. Persino con la decisione della sua rinuncia. Adesso tocca ai giovani se-guirne l’esempio lungo la rotta che porta a Rio de Janeiro e oltre. Sotto la guida del nuovo Papa.

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«Ha saputo incantarlicon parole piene di senso»

di don Michele Falabretti *

Chi è stato – qualche volta – sulla spianata di una Gmg, ha visto que-sta scena: a un certo punto viene annunciato l’ingresso della jeep

bianca che porta il Papa in mezzo ai giovani. Come allo sparo dello star-ter di una corsa, improvvisamente tutti scattano in piedi e si mettono a correre. Gli spazi al centro dei settori di colpo si svuotano e tutti si accal-cano a ridosso delle transenne. Rigorosamente con il telefonino in mano per scattare una foto. Era quello l’inizio di un dialogo che poi proseguiva sul palco papale: parole, gesti e canti erano l’inizio di un coinvolgimento anche spettacolare.Poi le cose sono un po’ cambiate. A Colonia le transenne non c’erano e fu impossibile far passare la jeep. Ultimamente era ripreso il giro prima della Messa della domenica mattina. Ma niente corse. Perché l’appunta-mento con Benedetto XVI è da un’altra parte. Ricordo soprattutto la notte di Sydney, quando il Papa ha parlato ai giovani utilizzando sant’Agosti-no: «L’allontanamento dal Signore è solo un futile tentativo di fuggire da noi stessi».

Lì per lì rimango perplesso: chissà cosa avranno capito. Poi, con una semplicità quasi disarmante, il Papa comincia a scavare nel profondo del cuore di ciascuno. Sempre utilizzando Agostino. Rimango sospeso: trop-po bello, ma non sarà troppo difficile per loro? A un certo punto incrocio lo sguardo di qualcuno: aveva gli occhi lucidi…Era iniziata una nuova stagione. L’euforia si trasforma in incanto. Le parole, misurate, pronunciate con dolcezza e delicatezza, manifestano

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sempre di più tutta la loro potenza. E la capacità di andare dritte al cuore dell’esistenza. La scuola del silenzio sembra la pia illusione di chi è an-corato a forme ormai superate: chi si sarebbe aspettato di poter ancora far sognare i giovani facendo loro attraversare un silenzio abitato da parole di senso? Soltanto chi non ha visto questo percorso, non è riuscito a com-prendere i famosi dieci minuti di adorazione della spianata di Madrid. Ma noi, mentre il vento caldo ci asciugava dalla pioggia appena ricevuta, ce ne stavamo in ginocchio a vedere le spalle del Papa. Poco più oltre la Presenza: dell’Unico per cui vale la pena vivere. C’era un Papa al quale quella sera non era stato concesso di parlare: il temporale sembrava aver-la vinta. Sorridente, non si era scomposto. Paziente, aveva atteso. Quella sera il discorso l’avrebbe fatto in ginocchio, voltando le spalle alla marea di giovani. Ma portandoci tutti con sé: il maestro ci aveva preso per mano per portarci dal Maestro aspettava tutti e ciascuno.

* direttore del Servizio nazionale di pastorale giovanile

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14La fede e il rito

Nella liturgia il primato di Diodi Gianni Cardinale

«Quando ho deciso, dopo qualche esitazione, di accettare il proget-to di una edizione di tutte le mie opere, mi è stato subito chiaro

che vi dovesse valere l’ordine delle priorità del Concilio, e che quindi il primo volume a uscire doveva essere quello con i miei scritti sulla liturgia. La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita, ed è diventata, alla scuola teologica di maestri come Schmaus, Söhngen, Pascher e Guardini, anche il centro del mio lavoro teologico». Queste parole Benedetto XVI le ha scritte nella prefazione del primo volume dell’opera omnia pubblicato in Germania nel 2008 e in Italia, per i tipi della Libreria editrice Vaticana, nel 2010. E spiegano bene la centralità che la liturgia, studiata e praticata, ha avuto e continua ad avere nella vita di Joseph Ratzinger. Centralità che papa Benedetto non attribuisce ad un suo gusto personale, ma proprio al Con-cilio Vaticano II il cui primo documento fu proprio la Costituzione sulla Sacra Liturgia solennemente votato il 4 dicembre 1963. Sempre nella stessa prefazione scrive infatti il Pontefice che regnerà fino al prossimo 28 febbraio: «Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un caso, si rivela, guardando alla gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa, come la cosa anche intrinsecamente più giusta». Infatti «cominciando con il tema “liturgia”, si mise inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità del tema “Dio”. Dio innanzitutto, così ci dice l’inizio della costituzione sulla liturgia». Perché «quando lo sguardo su Dio non è determinante ogni

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altra cosa perde il suo orientamento». E «le parole della regola benedet-tina “Ergo nihil Operi Dei praeponatur” (43, 3: “Quindi non si anteponga nulla all’Opera di Dio”) – ricorda papa Ratzinger – valgono in modo spe-cifico per il monachesimo, ma hanno valore, come ordine delle priorità, anche per la vita della Chiesa e di ciascuno nella sua rispettiva maniera». Questo insomma è stato il filo d’oro che ha guidato Benedetto XVI in questi suoi otto anni di pontificato. Un filo d’oro che è passato attraverso grandi atti magisteriali o di governo della Curia. È il caso ad esempio l’e-sortazione Sacramentum caritatis del febbraio 2007 che contenendo im-portanti insegnamenti liturgici, (come quando spiega che «l’ars celebran-di deve favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell’arte e del luogo sacro», o che «la celebrazione eucaristica trova giovamento là dove i sacerdoti e i responsabili della pastorale li-turgica si impegnano a fare conoscere i vigenti libri liturgici e le relative norme...»). Ed è anche il caso del Motu proprio Summorum Pontificum del luglio dello stesso anno che ha dato piena cittadinanza alla liturgia preconciliare nella vita della Chiesa (vedi box), e dell’altro Motu proprio Quaerit semper del 2011 con cui viene ristrutturata la Congregazione per il culto divino liberandola da alcune attribuzioni “giudiziarie”, come il trattamento dei casi di dispensa dal matrimonio rato e non consumato, per concentrarla di più proprio sulle questioni liturgiche. La sensibilità di papa Ratzinger in questo campo si è manifestata anche con il suo esem-pio, tramite le celebrazioni pontificie, e i ritocchi nei riti della Consegna del Pallio agli Arcivescovi metropoliti o in quello delle Canonizzazioni e dei Concistori. Ritocchi curati dall’Ufficio delle Cerimonie liturgiche del Sommo pontefice presieduto dal monsignor Guido Marini, avendo sem-pre come obiettivo quello di distinguere gli atti più “giuridici” da quelli strettamente liturgici. Significativa anche la decisione del Papa di distri-buire l’eucaristia, nelle messe da lui presiedute, solo in ginocchio e solo nella bocca. Una decisione che il cardinale Antonio Canizares Llovera, prefetto della Congregazione per il culto divino, ha spiegato come «ini-

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ziativa bella e edificante del vescovo di Roma» per «dare maggiore risal-to alla dovuta reverenza con cui dobbiamo accostarci al Corpo di Gesù». Il pontificato ratzingeriano è stato poi impreziosito anche da una serie di provvedimenti “piccoli” ma assolutamente non secondari. Intanto il varo della nuova traduzione inglese del Messale, più fedele all’originale latino come previsto dall’istruzione Liturgiam authenticam del 2001, e dallo stesso Benedetto XVI incoraggiata. Poi il ritocco della traduzione del “pro multis” (da “per tutti” a “per molti”) della Consacrazione del calice nella Messa già avvenuta in tante nazioni e che papa Ratzinger chiesto spiegandolo in una lettera personale all’episcopato tedesco scritta nell’a-prile 2012. Infine è da segnalare un ultimo ritocco nel rito del Battesimo di bambini, con la sostituzione di una parola ritenuta teologicamente am-bigua, che è stata già decisa ma che deve essere ancora pubblicata. Ma papa Ratzinger non ha parlato solo con atti magisteriale di governo, ma anche con la sua predicazione lungo l’anno liturgico, con le sue splendide e inconfondibili omelie pronunciate nel corso delle grandi solennità. «Per me – confessa monsignor Juan-Miguel Ferrer y Grenesche, sottosegreta-rio della Congregazione per il culto – l’insieme delle sue omelie lungo il ciclo liturgico costituiscono davvero un vero modello d’insegnamen-to liturgico-spirituale di grandissimo valore per capire la liturgia come “fons et culmen” della vita della Chiesa». Una scelta ragionata di alcuni brani dei queste omelie, insieme a brani tratti da libri o da conversazioni a braccio, è stata selezionato dall’Ufficio delle cerimonie pontificie che lo ha messo a disposizione di tutti nel proprio sito ufficiale (http://www.vatican.va/news_services/liturgy/index_it.htm). È lì che si possono tro-vare, tra l’altro, alcune spiegazioni importanti come quella relativa alla “partecipazione attiva” dei fedeli nella liturgia, che «non va confusa con l’agire esterno» (Messaggio per la chiusura del 50° Congresso eucaristi-co internazionale celebrato in Irlanda nel giugno 2012). È lì che si ritrova il richiamo al fatto che nel campo liturgico «ogni vero riformatore, infat-ti, è un obbediente della fede: non si muove in maniera arbitraria, né si arroga alcuna discrezionalità sul rito; non è il padrone, ma il custode del

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tesoro istituito dal Signore e a noi affidato» (dal discorso ai vescovi italia-ni riuniti in assemblea generale nel novembre 2010). La Chiesa intera è presente in ogni liturgia: aderire alla sua forma è condizione di autenticità di ciò che si celebra. È lì che si trovano le memorabili risposte che il Papa pronunciò a braccio nell’incontro di catechesi e di preghiera con i bambi-ni della prima comunione a piazza San Pietro il 15 ottobre 2005. In essa il pontefice, da grande catechista, spiegò con parole semplici e profonde il significato della presenza reale di Gesù nell’eucaristia («l’elettricità, la corrente non le vediamo, ma la luce la vediamo», «e così anche il Signore risorto non lo vediamo con i nostri occhi, ma vediamo che dove è Gesù, gli uomini cambiano, diventano migliori»), sull’importanza di confessar-si regolarmente («se non mi confesso mai, l’anima rimane trascurata e, alla fine, sono sempre contento di me e non capisco più che devo anche lavorare per essere migliore, che devo andare avanti»), o cosa fosse l’a-dorazione eucaristica («nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel quale gli dico: “Io sono tuo e ti prego sii anche tu sempre con me”»). Insomma, è un patrimonio ricco quindi, quello che Benedetto XVI lascia alla Chiesa. Un patrimonio di cui il successore farà certamente tesoro.

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Con il «Summorum Pontificum»torna il messale preconciliare

Con il Motu proprio «Summorum Pontificum», emanato nel luglio 2007, Benedetto XVI ha voluto dare piena cittadinanza nella Chiesa

al messale in uso prima del Concilio, con la puntualizzato che non c’è «nessuna contraddizione» tra il Messale pre e quello post-conciliare, che costituiscono, rispettivamente, la forma straordinaria e ordinaria dell’u-nico Rito Romano. Il Papa ha voluto offrire a tutti i fedeli la liturgia anti-ca, «considerata tesoro prezioso da conservare»; «garantire e assicurare» effettivamente l’uso della forma straordinaria, «nel presupposto che l’uso della Liturgia Romana in vigore nel 1962 sia una facoltà elargita per il bene dei fedeli e pertanto vada interpretata in un senso favorevole ai fedeli che ne sono i principali destinatari»; e infine ma, non per ultimo, «favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa». Con l’Istruzione appli-cativa «Universae Ecclesiae», emanata nel maggio 2011, si ribadisce che spetta al vescovo «adottare le misure necessarie per garantire il rispetto» della forma straordinaria, la quale può essere richiesta da un gruppo di fe-deli – senza che venga indicato un numero minimo di aderenti –, che può essere costituito anche da persone «che provengano da diverse parroc-chie o diocesi» e si sottolinea che i richiedenti la messa del 1962 non de-vono in nessun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla «validità o legittimità» delle liturgie postconciliari. (G.C.)

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15La Città di Pietro

Il legame con Romadai poveri ai parroci

di Angelo Zema

La consegna della lettera «sul compito urgente dell’educazione», ri-volta alla diocesi e alla città. Il dialogo da «padre» con i detenuti

di Rebibbia. La visita in Campidoglio con l’appello alla città perché re-cuperi le sue «radici civili e cristiane». L’ingresso nella Sinagoga tra i «fratelli ebrei». Sfogliando idealmente l’album di otto anni di pontificato di Benedetto XVI a Roma, sarebbe difficile indicarne l’immagine più si-gnificativa. Tanti i momenti che, nella sobrietà dello stile, risaltano come piccole grandi luci destinate a lasciare il segno, soprattutto nei cuori di chi li ha potuti vivere di persona.Più facile, invece, individuare un filo conduttore che si esprime in alcuni temi chiave: la centralità della questione della verità; l’impegno a mettere in guardia da un relativismo distruttivo, diventato «una sorta di dogma», che offusca il senso religioso; l’appello all’evangelizzazione – meglio, alla rievangelizzazione – in un contesto dove la fede non si può dare più per scontata; la riaffermazione della centralità della famiglia e della dife-sa della vita, dal concepimento sino alla fine naturale; la sollecitudine per la condizione dei poveri. Grandi linee del pontificato declinate sul territo-rio della sua Chiesa locale e della città che Benedetto XVI ha vissuto pie-namente nella sua identità, cioè più come pastore di anime che come «cit-tadino adottivo». «Vivendo a Roma da tantissimi anni – dice parlando il 9

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marzo 2009 dal Campidoglio – ormai sono diventato un po’ romano; ma più romano mi sento come vostro vescovo». E come vescovo interpreta al meglio il suo ministero, andando incontro alla gente, sia pure nella so-brietà dei numeri delle visite, dettata dallo sguardo realista sulla sua età. Ecco allora i dodici incontri con le comunità parrocchiali, con la dedica-zione di tre chiese nelle periferie della Capitale, gesto di grande signifi-cato per un vescovo. Senza contare la presenza in altre due parrocchie, Santa Maria del Divino Amore, con il suo santuario caro ai romani, per la recita del Rosario, e San Lorenzo fuori le Mura, per una celebrazione a 1.750 anni dal martirio del santo. Ai «suoi» preti – di cui, dice, conosce la «fatica quotidiana» – Benedetto XVI riserva un’attenzione particolare: dal primo appuntamento, meno di un mese dopo l’elezione, assurto alle cronache per l’annuncio della dispensa dai cinque anni di attesa per l’a-pertura della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, fino all’ultimo, commovente, pochi giorni fa, con i suoi ricordi del Concilio Vaticano II. Non solo: ogni anno conferisce le ordinazioni sacerdotali per la diocesi, rinnovando l’appello alla preghiera per le vocazioni; e ogni anno riceve l’abbraccio degli alunni dei seminari romani, a cominciare da quel marzo 2006 in cui al Seminario Maggiore ricorda don Andrea Santoro, ucciso poche settimane prima in Turchia.

Ma Benedetto XVI è dentro il cuore della città, accanto alla fede del po-polo. Lo testimonia il bagno di folla in occasioni come la celebrazione del Corpus Domini a San Giovanni in Laterano, con la processione fino a Santa Maria Maggiore; il rito della Via Crucis al Colosseo; l’atto di venerazione all’Immacolata in piazza di Spagna. Ne è prova l’affetto dei giovani e degli universitari che pregano con lui in alcuni appuntamenti nei «tempi forti» dell’anno liturgico. Sono tre le università che lo accol-gono (Cattolica, Gregoriana, Lateranense), ma è costretto a rinunciare alla visita alla Sapienza a causa di proteste che Ruini addita come «tristi vicende». Il Papa teologo si fa piccolo tra i piccoli, visitando l’ospeda-le Bambino Gesù, per testimoniare l’amore che Cristo rivolge ai bimbi.

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Dialoga con i fanciulli in uno speciale incontro per coloro che hanno ricevuto la prima comunione. Riceve i ragazzi dell’Azione cattolica per la Carovana della pace e guarda sorridente le colombe, lanciate dal suo studio, che di volare non vogliono saperne.Nel suo itinerario romano non mancano le visite ai luoghi della carità, della sofferenza e della cura. Segno della sua predilezione per i poveri, che definisce «il tesoro della Chiesa». Entra nella mensa e nell’ostello della Caritas diocesana, siede a tavola con i poveri assistiti dalla Comu-nità di Sant’Egidio, porta la sua carezza ai degenti dell’hospice Sacro Cuore, dove la vita è custodita fino in fondo come dono prezioso. Il suo amore per Roma emerge con chiarezza anche nelle udienze agli ammini-stratori locali, dove insiste sul sostegno alla famiglia e sulla difesa della vita.Ma è al Convegno diocesano che Benedetto XVI offre le grandi linee pa-storali per la diocesi: otto interventi, sempre in apertura dei lavori, anno dopo anno. Invoca una «pastorale dell’intelligenza» di fronte alle sfide che attendono la Chiesa, auspica che le nuove generazioni possano «fare esperienza della Chiesa come di una compagnia di amici affidabile», in-vita a fare tesoro della «via della bellezza» nella catechesi. Ancora, rilan-cia l’impegno per «una rinnovata stagione di evangelizzazione». Forse la principale consegna affidata alla comunità ecclesiale per la Roma che verrà.

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L’emergenza educativadi Daniela Pozzoli

Di emergenza educativa Benedetto XVI aveva parlato chiaro già nel giugno del 2005, nel discorso d’apertura del Convegno ecclesiale

della diocesi di Roma. Senza «la luce della verità», metteva in guardia il Santo Padre, non è possibile una vera educazione. E a insidiare l’opera educativa era ed è proprio quel relativismo «che non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima cultura solo il proprio io con le sue voglie». Nella Lettera alla diocesi di Roma «sul compito urgente dell’e-ducazione» (21 gennaio 2008) Papa Ratzinger rassicura genitori, inse-gnanti, educatori: «Non temete», dice loro, perchè le difficoltà non sono insormontabili. Anche se «ogni vero educatore deve innanzitutto donare qualcosa di sé». E non serve tenere al riparo i più giovani da ogni difficol-tà ed esperienza del dolore perchè così «rischiamo di far crescere persone fragili e poco generose». Occorrono ai bambini e ai giovani regole certe anche nella vita di tutti i giorni altrimenti, avverte, «non si va da nessuna parte. E se il rapporto educativo è l’«incontro tra due libertà», Benedetto XVI chiama in causa la responsabilità dell’educatore ma anche, in misura che cresce con l’età, la responsabilità del figlio, dell’alunno, del giovane che deve rispondere a se stesso e agli altri.

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E il grande teologotenne ferma la scala dell’elettricista

di Giovanni Ruggiero

Sorride ancora un po’ divertita: «Qualche volta – dice la signora Vene-rina – l’abbiamo mandato via!» Con il figlio, Nicola Marchesani, con-

duce il ristorante del Borgo che porta il suo nome. Tante volte al vescovo e poi cardinale Joseph Ratzinger toccò di cercarsi un altro ristorante. Un giorno il suo segretario, Joseph Clemens, trovando per l’ennesima volta la porta sbarrata, la prese di petto: «Ma lei, signora, sa chi è il cardinale Ratzinger?» «E certo che lo so! – replicò lei – Ma se il posto non c’è... non c’è!» Per quindici anni Benedetto XVI è venuto in questo ristorante da dove, prima o poi, passano per pranzo o per cena tutti i cardinali. Lei li chiama «i miei vicini di bottega». «I primi tempi – dice – mio figlio, giovane e poco pratico, mica l’aveva capito che se un cardinale tendeva la mano era per farsela baciare. Nicola stringeva la mano a tutti. Con il Papa non c’è mai stato problema perché ci abbracciava». Si aspettava la signora Venerina la decisione del Papa? «Qui non è che stiamo ad origlia-re – precisa – ma è ovvio che, servendo a tavola, qualche parola si afferra. Ma non so – aggiunge dubbiosa – forse è impressione mia, ma un po’ me l’aspettavo». Il motivo per andare da Venerina c’è sempre: le fettuccine con gamberi, zucchine e zafferano. Dice che era il piatto preferito di Be-nedetto XVI.

O forse la carbonara, come assicura invece Roberto Fulvimari, proprieta-rio del “Passetto del Borgo” che pure ha visto il Papa tra gli avventori per molti anni, il Papa che volle la fotografia del suo cane Billy quando morì. «Specie la sera – dice l’anfitrione Roberto – il cardinale Ratzinger veniva

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da noi, finché non è entrato lì dentro». Quel lì dentro sta per il Conclave che lo elevò al Soglio pontificio. Il prossimo Papa quasi certamente al-meno una volta ha mangiato qui. Ieri a pranzo Roberto si è avvicinato a un porporato che aveva appena pagato il conto: «Eminenza – gli ha detto – si lasci salutare perché magari dopo che è entrato lì dentro qui non verrà più». Non se l’aspettava proprio che il Papa rinunciasse: «Si vede – dice – che proprio non ce la faceva più». Ha il ricordo del Papa che cenava da lui con la sorella Maria e il cardinale Mayer. Ma si parla di venti anni fa o forse più.

Angelo Mosca, sempre al Borgo, ha un negozio di materiale elettrico. Per una cosa o per un’altra passava di qui la segretaria di Benedetto XVI, In-grid. «Nel negozio il cardinale – dice Angelo Mosca – non è mai venuto. Andavo io da lui!». Il primo intervento, tanti anni fa, fu per un blackout nell’abitazione di Piazza della Città Leonina. Mosca cominciò a darsi da fare dopo essere salito su una scala. Il Papa si preoccupò: «Faccia atten-zione. È sicuro di non cadere?» E l’elettricista: «Se m’arregge lei non cado». E il futuro Papa tenne ferma la scala per tutto il tempo che durò l’intervento. La segretaria Ingrid ha continuato a servirsi nel negozio per conto del Papa. Mosca una volta le chiese: «Ma il Papa si ricorda ancora di noi?» Ingrid lo rassicurò. Pochi giorni dopo l’invito a partecipare alla Messa nella cappella privata. Ecco la prova: due belle foto che lo mostra-no insieme a Benedetto XVI subito dopo il rito. Mosca le fa vedere poi le ripone nella cartellina rossa. «Ma il Papa come sta?», ha sempre chiesto alla segretaria Ingrid tutte le volte che è passata per il negozio e lo rassi-curava. Poi l’annuncio clamoroso: «E certo che no, non me lo aspettavo. Ma era stanco. Si capiva. Non ha potuto fare diversamente!».

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16Un Paese con lui

La sua mano sulla spalla dell’Italiadi Mimmo Muolo

Una foto per riassumere il rapporto tra Benedetto XVI e l’Italia. Il Papa appoggia la mano sulla spalla del presidente della Repubblica

Giorgio Napolitano in un atteggiamento che sa di amicizia e stima, ma anche di sostegno e incoraggiamento. È la sera del 4 febbraio scorso e nell’Aula “Paolo VI” in Vaticano è appena terminato il concerto offerto dal capo dello Stato al Pontefice. Quel gesto, però, è ben più che un sem-plice ringraziamento. Diventa quasi un simbolo di questi quasi otto anni di Pontificato nei quali, si potrebbe dire, Papa Ratzinger (che l’Italia la conosceva bene anche prima di essere eletto) ha veramente appoggiato la mano sulla spalla dell’intera Penisola. Su quella della comunità eccle-siale nazionale, in primis, con la sua guida pastorale discreta nelle for-me, ma ferma nei principi, a cominciare dal primato di Dio. E anche su quella dell’intero corpo sociale italiano al quale – sia nel rapporto con le Istituzioni, sia nei contatti con la gente – ha sempre indicato la via di una fede amica dell’intelligenza, attenta ai bisogni degli ultimi e soprattutto desiderosa di dare il proprio contributo alla costruzione della città terre-na. Anzi, da questo punto di vista, il magistero “italiano” del Pontefice tedesco ha costituito un sicuro punto di riferimento per tutti coloro che hanno a cuore e la ricerca del bene comune e l’unità nazionale (si veda a tal proposito la Lettera inviata proprio a Napolitano per il 150° anniver-sario dello Stato unitario, di cui parliamo a parte). In sostanza il Papa ha offerto alle Chiese della Penisola un paradigma di dialogo con il mondo

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non a prescindere, ma anzi a partire dal proprio credo. Emblematica da questo punto di vista è l’omelia pronunciata al Congresso eucaristico di Bari nel 2005, primo viaggio in assoluto del Pontificato, poco più di un mese dopo l’elezione. In pratica il suo biglietto da visita per le comunità ecclesiali dalle Alpi alla Sicilia. «Noi dobbiamo riscoprire con fierezza – disse in quella assolata domenica di fine maggio – la gioia della domeni-ca cristiana. Dobbiamo riscoprire con fierezza il privilegio di partecipare all’Eucaristia, che è il sacramento del mondo rinnovato». Da qui, da que-sto primato di una liturgia, fonte e culmine della vita cristiana, Benedetto XVI ha invitato tutti a ripartire. E infatti un anno dopo, al Convegno di Verona (in pratica gli stati generali della Chiesa in Italia), quell’invito è risuonato all’interno di uno dei discorsi più importanti del Pontificato. «Il nostro atteggiamento non dovrà mai essere quello di un rinunciatario ripiegamento su noi stessi: occorre invece mantenere vivo e se possibile incrementare il nostro dinamismo, occorre aprirsi con fiducia a nuovi rapporti, non tralasciare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia». È in sostanza l’invito a rendere visibile anche nell’Italia toccata dalle correnti della secolarizzazione «il grande sì della fede». Ed eccola allora la mano poggiata sulla spalla del-la Chiesa italiana. Se si ripercorrono infatti i sette discorsi pronunciati all’Assemblea generale della Cei, guidata prima dal cardinale Camillo Ruini e poi dal cardinale Angelo Bagnasco, non è difficile accorgersi di quante volte il Papa abbia messo l’accento sulla grande tradizione cattoli-ca dell’Italia (definita nel 2006 «la principale ricchezza del Paese») e in-coraggiato i vescovi a rafforzarla soprattutto attraverso la cura pastorale dei giovani. «La fede cattolica e la presenza della Chiesa – affermava nel 2007 – rimangono il grande fattore unificante di questa amata Nazione ed un prezioso serbatoio di energie morali per il suo futuro». Invece, il gran-de nemico, più volte denunciato, è «la cultura improntata al relativismo morale, povera di certezze e ricca invece di rivendicazioni non di rado in-giustificate». In questo quadro, perciò, Benedetto XVI inserisce la difesa della vita dal concepimento al suo termine naturale, la promozione della

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famiglia fondata sul matrimonio tra l’uomo e la donna e la riaffermazione della libertà di educare i figli. Cioè i temi che dal 30 marzo 2006 (gior-no del suo discorso ai parlamentari del Ppe) verranno designati come i «principi non negoziabili» più volte sottolineati anche negli incontri con i vescovi italiani riuniti in assemblea. Ciò che spinge il Papa non è però (discorso del 2005 all’Assemblea della Cei) l’esigenza di difendere gli interessi cattolici, ma l’uomo «creatura di Dio». Benedetto XVI è infatti convinto – e lo dirà apertamente il 29 maggio 2008 – che è questo «il problema fondamentale oggi». «Nessun altro problema umano e sociale potrà essere davvero risolto se Dio non torna al centro della nostra vita». Per questo egli riformula anche il principio di una «sana laicità» e affer-ma, sempre nello stesso discorso, che «occorre resistere ad ogni tendenza a considerare la religione, e in particolare il cristianesimo, come un fatto soltanto privato: le prospettive che nascono dalla nostra fede possono offrire invece un contributo fondamentale al chiarimento e alla soluzione dei maggiori problemi sociali e morali dell’Italia e dell’Europa oggi». In tal modo il biglietto da visita presentato al Congresso eucaristico di Bari (centralità della domenica), e ribadito nel 2011 a quello di Ancona, diventa progetto anche pastorale, che si può cogliere persino nella spe-ciale geografia dei viaggi italiani di Papa Ratzinger. Trenta in tutto, che solcano la Penisola e le due isole maggiori in lungo e in largo e in cui, accanto alle grandi città (Torino, Milano, Cagliari, Palermo, Napoli, Ge-nova e Venezia), figurano i nomi dei più famosi santuari nostrani: Assisi, Pompei e Loreto (ultima tappa, prima di aprire l’Anno della Fede), ma anche La Verna, Montecassino, Serra San Bruno, San Giovanni Rotondo e Santa Maria di Leuca. Come dire che il Papa teologo e professore di università (che si reca a visitare a Pavia la tomba del suo amato Sant’A-gostino) non disdegna (tutt’altro) la fede degli umili e dei semplici, la religiosità popolare e capillarmente diffusa nel popolo italiano. A patto però che questa fede sappia coniugarsi con la vita vissuta. E anche in questo caso Benedetto XVI poggia una mano paterna sulla spalla della Chiesa italiana e offre il suo esempio e la sua guida. Nel 2011 presiede la

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recita del Rosario in Santa Maria Maggiore insieme con i vescovi della Cei e tocca una serie di problemi concreti, chiedendo ad esempio che sia superato il precariato dei giovani, che Nord e Sud d’Italia, anziché dividersi, si integrino meglio e che i cristiani partecipino alla vita politica (esigenza manifestata per la prima volta nel viaggio a Cagliari, settembre 2008). Giovani ed emergenza educativa sono gli altri due grandi temi di un magistero “tricolore” che ha avuto nelle visite ad limina dei vescovi, interrotte dalla rinuncia (il Papa ha ricevuto 13 dei 30 gruppi in agenda) e nel discorso alla Cei del 2012 i suoi punti di approdo. Quest’ultimo in-tervento diventa anzi, alle luce dei fatti di questi giorni, quasi una sorta di testamento spirituale di Benedetto XVI per l’Italia. «Gli uomini vivono di Dio e noi abbiamo il compito di annunciarlo, di mostrarlo, di guidare all’incontro con Lui. Ma è sempre importante ricordarci che la prima condizione per parlare di Dio è parlare con Dio, diventare sempre più uomini di Dio». In altri termini, lasciare che sia Lui a metterci una mano sulla spalla.

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La lettera per il 150°:«Ecco come il cristianesimo

ha plasmato la storia del Paese»di Mimmo Muolo

Ha riletto, lui tedesco, la storia italiana. Non solo quella degli ultimi 150 anni, ma anche tutto ciò che l’ha preceduta. E ci ha consegnato

un “ritratto di famiglia” che è una sintesi mirabile della migliore italiani-tà. Dove sta, infatti, la radice profonda dell’identità nazionale? Benedetto XVI, il 16 marzo 2011, nella lettera inviata a Giorgio Napolitano per il 150° anniversario dell’unità, risponde così: «Il Cristianesimo ha contri-buito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana at-traverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assisten-ziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali». L’analisi di Papa Ratzinger è a 360 gradi. Abbraccia la cultura italiana in tutte le sue espressioni: Dante, Giotto, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini, Borro-mini e Manzoni. Non dimentica le stelle di quel firmamento di santità che si stende ininterrottamente sopra i 2000 anni di storia cristiana della Pe-nisola (San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena, non caso i due patroni d’Italia) e cita anche tutti coloro che (Da Cesare Balbo a Massimo d’Azeglio, da Antonio Rosmini a Vincenzo Gioberti) si adoperarono per la costruzione di un’Italia unita e libera da condizionamenti stranieri. Ma soprattutto Benedetto XVI tiene a ribadire un concetto. Se «l’unità d’Ita-lia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata» è stato

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perché quell’identità formatasi anche grazie all’opera della Chiesa era «sussistente da tempo». «La comunità politica unitaria nascente a con-clusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa han-no dato un contributo fondamentale». È chiaro che queste notazioni, oltre a una serena analisi storica, contengono anche un’indicazione di prospet-tiva. Perché in tutte le fasi degli ultimi 150 anni «l’identità nazionale de-gli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica». Il Papa ricorda a tal proposito «l’apporto fondamentale dei cattolici italiani all’elabo-razione della Costituzione repubblicana» e l’Accordo di revisione del Concordato firmato nel 1984. Un atto che, conclude Banedetto XVI, ha visto ancora una volta «la Chiesa e i cattolici impegnati in vario modo a favore della “promozione dell’uomo e del bene del Paese”».

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17Le voci dei continenti

Con la fede oltre la muraglia cinesedi Bernardo Cervellera

Pochi giorni fa, alla notizia della rinuncia di Benedetto XVI al ministe-ro petrino, il portavoce del ministero cinese degli Esteri, Hong Lei,

incalzato dai giornalisti è stato costretto a dare una valutazione del gesto Papale. La sua risposta, che sa di imparaticcio, è che «il Vaticano non deve interferire negli affari interni della Cina» e che «il Vaticano deve interrompere le relazioni diplomatiche con Taiwan». Da quasi 40 anni la Cina continua a predicare queste due condizioni per giungere agli accordi diplomatici: le ha dette fin dai tempi di Pio XII, accusando la Chiesa cattolica di essere al servizio del capitalismo ame-ricano, fino a Giovanni Paolo II. Che Hong Lei le abbia ripetute, come un disco rotto, davanti a Benedetto XVI, non è segno del fallimento della politica vaticana, ma di Pechino che con sgomento balbetta qualcosa di ormai superato dai tempi.Il ministero di Benedetto XVI verso la Cina non ha mai avuto alcun aspetto politico, né in opposizione, né a favore della Cina o Taiwan, o del comunismo come sistema sociale. Egli ha sempre e solo posto la questio-ne della libertà religiosa della comunità cattolica in Cina, richiamandosi alla costituzione cinese, che difende (alquanto in teoria) la libertà reli-giosa, ai protocolli Onu sui diritti civili e politici, che Pechino ha firmato negli anni ’90, e alle caratteristiche dogmatiche della Chiesa cattolica, che implicano il ministero universale del Papa e il diritto alle nomine dei vescovi.

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Questo atteggiamento franco e amichevole (dicendo «la verità col lin-guaggio dell’amore») è emerso nella Lettera ai cattolici cinesi (maggio 2007), dove si sottolinea il desiderio di aprire «uno spazio di dialogo con le Autorità della Repubblica popolare cinese, in cui, superate le incom-prensioni del passato, si possa lavorare insieme per il bene del popolo cinese e per la pace nel mondo». In essa egli precisa che la Chiesa «non è legata a nessun sistema politico» e che la Chiesa cattolica in Cina «ha la missione non di cambiare la struttura o l’amministrazione dello Stato, bensì di annunziare agli uomini il Cristo, Salvatore del mondo».

A causa di ciò egli chiedeva per la Chiesa uno spazio di libertà nella so-cietà e la libertà ultima nella scelta dei vescovi (ammettendo anche una consultazione con il governo). In conseguenza di ciò egli rifiutava come «inconciliabili con la dottrina cattolica» gli organismi di controllo della Chiesa ufficiale: l’Associazione patriottica e l’Assemblea dei rappresen-tanti cattolici, entrambi fautori di indipendenza, autonomia, autogestione della Chiesa.Come segno di rispetto verso la leadership cinese, il Vaticano ha inviato le bozze della lettera a Pechino attendendo suggerimenti. Ma Pechino, dopo mesi di silenzio, ha chiesto di bloccare la diffusione della Lettera. Naturalmente il Papa ha optato per il diritto alla libertà religiosa, pubbli-cando lo scritto.In quel periodo ero in viaggio in Cina e ho potuto constatare come la Let-tera ha creato una profonda divisione nella leadership: membri del mi-nistero degli esteri la elogiavano come un documento importantissimo e aperto; membri del ministero degli affari religiosi la disprezzavano come un testo fatto da «ignoranti», che non capiscono la Cina.

A quasi sei anni di distanza da quel testo, possiamo dire che il Papa è stato il catalizzatore di una revisione all’interno del potere in Cina. Fino ad allora il potere del Partito comunista era giustificato dall’aver liberato il Paese dai giapponesi (insieme a Chiang Kai-shek); poi con Deng Xiao-

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ping, dall’aver dato ai cinesi la possibilità di diventare «ricchi e gloriosi»; con Jiang Zemin di divenire una potenza economica mondiale. Ma con Hu Jintao le contraddizioni della società cinese sono emerse cocenti: l’in-dustrializzazione selvaggia ha creato il Paese più inquinato della terra; il monopolio del potere ha creato la corruzione più aspra; l’enorme ricchez-za di pochi è affianco all’abissale povertà di molti. Le rivolte sociali – al ritmo di 300-500 al giorno – stavano e stanno ad indicare che per una «società armoniosa», tanto desiderata da Hu Jintao, occorre dare potere al popolo, creando riforme politiche e democratiche, con uno Stato che si distingua dal Partito, che serva i diritti inalienabili delle persone, anche il diritto alla libertà religiosa.Ancora oggi, con il passaggio del potere a Xi Jinping, questa discussione è fortissima: lo stesso Xi ha detto che se il Partito non cambia e fa le rifor-me, rischia di crollare. Ma accanto a lui vi sono gruppi che non vogliono cambiare. Fra questi il Fronte unito (che controlla gli affari religiosi) e l’oligarchia capitalista legata ancora a Jiang Zemin che non vuole mano-mettere questa gallina dalle uova d’oro che è il popolo cinese sfruttato dal Partito.

Dalla Lettera del Papa in poi, la politica del Partito comunista cinese ver-so la Chiesa cattolica è stata contraddittoria: apertura e libertà durante le Olimpiadi (2008); controllo e arresti domiciliari per i sacerdoti e vescovi non ufficiali; permesso di nomi e ed ordinazioni di vescovi approvati dalla Santa Sede e da Pechino; raffica di ordinazione di vescovi senza il mandato della Santa Sede; durezza verso le indicazioni vaticane; timidi tentativi di dialogo con personalità vaticane.Benedetto XVI non ha infierito su questa schizofrenia della leadership e si è preoccupato della missione della Chiesa. Dal 2007 egli ha anche istituito una Commissione per la Chiesa in Cina, a cui partecipano mem-bri della Segreteria di Stato, di Propaganda Fide, insieme a vescovi e cardinali cinesi di Hong Kong, Macao e Taiwan. Tale Commissione si è preoccupata di rafforzare l’unità della Chiesa cinese, ancora polarizza-

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ta fra ufficiali (riconosciuti dal governo) e non ufficiali (sotterranei); di potenziare la formazione fra i seminaristi, i sacerdoti, i vescovi e i fede-li; di denunciare gli arresti e le violenze contro i fedeli. Grazie ad essa è cresciuta la sensibilità e la partecipazione della Chiesa universale ai problemi e alla testimonianza dei cattolici cinesi. A questo ha anche con-tribuito l’istituzione – avvenuta con la Lettera del Papa – della Giornata mondiale di preghiera per la Chiesa e per la Cina, che cade il 24 maggio, festa della Madonna di Sheshan. Così, mentre la leadership di Pechino cerca di risolvere le contraddizioni al suo interno, cresce l’integrazione fra la Chiesa di Cina e la Chiesa universale, mentre i cattolici si guada-gnano uno spazio nella società cinese divenuta assetata di Dio e di valori spirituali dopo decenni di materialismo comunista e consumista.

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MESSICO

“Ha abbracciato un Paese ferito”Rodrigo Guerra López *

Il Messico non dimenticherà mai Benedetto XVI: il Papa ha lasciato un’impronta indelebile nel Paese, con la sua visita del marzo scorso. Il

ricordo vivo di un testimone che rompe con le norme del “politicamente corretto” è rimasto impresso nella memoria della gente. Il Santo Padre ci annunciato che Gesù vive e può essere incontrato da chiunque. E lo ha fatto con una freschezza e una libertà straordinarie. Uno stile che tocca-to nel profondo il cuore dei messicani. Nessuno si è sentito intossicato da un discorso moralista. Al contrario, la parola e la testimonianza del Pontefice hanno mostrato che Gesù è una presenza reale anche da questa parte del mondo, ferita dalla terribile narcoguerra. In mezzo alla violenza estrema, il Papa ha offerto l’abbraccio di Cristo – Colui che vince la mor-te – alle vittime e anche ai carnefici. La meraviglia del Vangelo consiste proprio nel suo essere la buona notizia per tutti, in qualunque circostanza si trovino. Nel contesto messicano, questo ha un’importanza straordi-naria: la lotta contro il crimine organizzato è destinata al fallimento se la soluzione non tocca il cuore delle persone. Per questo, il ruolo della Chiesa nel processo di riconciliazione nazionale è insostituibile. Uno dei momenti più toccanti è stata la moltitudinaria Messa che il Santo Padre ha celebrato ai piedi del monumento del Cristo Re. Un luogo chiave per-ché simboleggia la lotta dei cattolici in favore della libertà religiosa. Lì il Papa ha spiegato che il Regno di Dio non si impone con la forza. La sua essenza è l’amore che Dio ha trasmesso al mondo. Il Regno non è frutto della volontà umana, non è un progetto politico ma un dono immeritato che dobbiamo ricevere con docilità.

* filosofo

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EGITTO

“Ci ha insegnato la vera libertà”di Wael Farouq *

Non considero Benedetto XVI un intellettuale o un letterato eccezio-nale, e nemmeno un leader spirituale a capo di milioni di fedeli che

aspettano, appesi alle sue labbra, le direttive di un caro amico. Ratzinger rappresenta invece, per me, uno dei rari casi in cui l’uomo diventa even-to, e l’evento uomo. È uno dei rari casi in cui le risposte si tramutano in domande, e le domande in un percorso di stupore, la cui meta significa lo spalancarsi di un nuovo orizzonte di libertà. Una libertà, come la intende il Papa, che è l’unica garanzia perché l’amore e la fede non abbiano mai limiti.Senza libertà, infatti, l’amore e la fede diventano mera ideologia. Le mo-tivazioni e gli obiettivi dell’ideologia non sono necessariamente cattivi, ma essa rimane una prigione per i sentimenti, per i desideri e per le nobili aspettative. L’ideologia è un atto di amore e di fede privo di libertà. È una prigione perché non è in grado, senza libertà, di comunicare con la realtà. È come una madre amorevole che mette sotto una campana di vetro suo figlio perché lei stessa è preda delle sue paure. È per questo che l’ideolo-gia conosce solo il potere e ambisce soltanto ad esso. Il potere è, infatti, la sua unica garanzia per dominare la realtà. Il seguace dell’ideologia è un carcerato che lotta per diventare carceriere. La rinuncia del Papa al pontificato non è altro che l’incarnazione di questa libertà scaturita da una profonda modestia che considera se stessa, pur avendo raggiunto il vertice della gerarchia ecclesiastica, soltanto come uno dei sentieri di Dio, che sono tanti quante le persone che li percorrono. Ratzinger ci invi-ta ad avere il coraggio e la volontà di discernimento e di interazione con la nostra realtà sempre rinnovata.

* docente al Cairo(traduzione di Camille Eid)

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SUDAN

“Straordinaria prova d’umiltà”di William Deng *

La scelta del Papa di ritirarsi ha riempito di sorpresa gli africani: la gente per strada commentava la decisione con tono incredulo. Del

resto non è un evento che capito molto spesso. Dopo lo stupore iniziale, però, all’Africa – a tutti, cittadini, vescovi e soprattutto leader – resta una straordinaria lezione di umiltà da parte di Benedetto XVI. Il cuore del messaggio che il Papa, fino all’ultimo, ci ha donato è che il carisma del Santo Padre, successore di San Pietro, nasce dall’amore di Dio per gli uomini. Da questo amore è nata la sua scelta di rinunciare nel momento in cui ha sentito di non avere più le forze per portare avanti il suo ministe-ro. Con questo gesto, il Papa ha dato l’ennesima dimostrazione della sua profonda fede nel Signore. Ora tutta l’Africa è in trepidante attesa che lo Spirito Santo designi il successore di Benedetto XVI, il nuovo messag-gero di amore e speranza per il Continente. Tutte le volte che ha visitato le terre africane, il Papa ha saputo portare alle persone una testimonianza di speranza autentica, tanto importante per i nostri Paesi afflitti da grandi problemi di povertà, disuguaglianza, ingiustizia, violenza. Le parole di Benedetto XVI sono state un balsamo di forza per gli africani che si sono sentiti amati e accolti dal Pontefice. L’Africa si è sentita davvero dentro al cuore del Santo Padre. Per questo, non gli saremo mai grati abbastan-za. Ora, dopo il suo ritiro nel monastero romano, siamo certi che il pen-siero di Benedetto XVI non ci abbandonerà. Il Santo Padre continuerà a pregare per il bene e la salvezza del Continente e per l’intera Chiesa.

* segretario generale dell’Istruzione dell’Arcidiocesi di Khartoum

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18Grazie perché...

“Atto estremo d’amore”di Salvatore Mannuzzu

Le dimissioni di Benedetto XVI sono, fondamentalmente, un atto del suo magistero: un atto forte, altissimo, definitivo del magistero pa-

pale. Definitivo non tanto perché concludono un pontificato: ma perché segnano una curva nodale, di non ritorno, nelle vicende della Chiesa. Si tratta d’una delle lezioni più grandi, e più ardue, che un Papa possa dare. Rispetto a essa, le condizioni personali di Benedetto XVI – la sua vec-chiaia, la sua salute vacillante, la sua fragilità umana – sono l’occasio-ne necessaria: l’occasione provvidenziale. È la provvidenza di Dio che adesso ci vuole concedere un Papa vecchio e stanco, perché questo Papa trovi, nella sua santa vecchiaia e nella sua santa stanchezza, la condizio-ne per dire a tutti noi che non ci regge più. La condizione e insieme lo strumento – lo strumento capace d’una terribile, insostituibile eloquenza – per dire a tutti noi basta. Per sollecitare tutti noi, qualsiasi sia il livello delle nostre responsabilità, alla conversione. Dentro una fase storica nella quale la conversione è tale solo se comporta una rottura straordinaria e un radicale cambiamento: in modo che il viso materno della Chiesa non sia più deturpato da noi; in modo che Dio non venga più adoperato da noi per i nostri miserabili fini egoistici.

Così il Papa soccorre la sua Chiesa: con un atto estremo. E proprio perché si tratta d’un atto estremo, non ne possiamo ignorare l’insegnamento, che dice alla Chiesa dove è giunta: quali sono i rischi che in realtà corre, quali

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sono i pericoli gravi che la minacciano. Un atto estremo, ma insieme di estremo amore: dà al Papa il diritto di attendersi da noi una risposta che non si neghi all’amore. E quindi sia fatta d’una profonda presa di co-scienza e d’un ravvedimento completo, epocale. Aspetta questa risposta, il nostro Papa, sulla croce dalla quale adesso ci guarda; e sulla quale ha scelto di rimanere finché vive, nella posizione più difficile: quella della rinuncia, del silenzio, del buio.Sì, colui che è ancora il nostro Papa continuerà – anche quando non lo sarà più, quando noi non sapremo più niente di lui – a guardarci e a patire con noi, malgrado l’aggravarsi dell’età e della fatica. Continuerà a pre-gare per noi, finché Dio gli darà vita, da quella sua oscura croce uscita apparentemente dalla storia e confitta invece nel cuore vivo della storia.

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Francesco Totti: “Il Papaè il mio capitano”

di Lucia Bellaspiga

«Tra i ricordi più cari che conserverò sempre di lui c’è un Rosario che Papa Benedetto mi ha fatto recapitare dalle mani di monsi-

gnor Lucio Adrian Ruiz... Me lo ha consegnato proprio a nome del Santo Padre, che lo donava a me personalmente. È stato un onore inaspettato e commovente». Erano i tempi della Giornata mondiale della Gioventù di Madrid, nel 2011, e il capo del Servizio Internet vaticano era in visita a Trigoria, cuore della Roma ma, grazie al sito ufficiale di Francesco Totti che in quei giorni si faceva portavoce dei giovani di Papa Benedetto, anche cuore pulsante di tanti credenti (e tifosi). «La mattina in cui si è diffusa la notizia delle sue dimissioni prima ho stentato a credere che fosse vero, poi ho provato una profonda tristezza, ma anche tanta fidu-cia: se il Santo Padre aveva deciso così, certamente era per il bene della Chiesa e di tutti noi e la sua scelta anche questa volta, come sempre, andava prima accettata e poi capita». È una fiducia che parte da lontano, quella del capitano della Roma per la figura del Papa, un affidamento che inizia con l’incontro a sette anni con Papa Wojtyla e prosegue oggi con Papa Ratzinger: «La fede è sempre stata importante nella mia vita, prima di tutto grazie a mia madre Fiorella, cattolica osservante, e poi grazie a incontri fondamentali. Non ho mai scordato la carezza che mi diede da bambino Giovanni Paolo II quando ero in visita con i compagni delle elementari in Aula Nervi, ricordo che mi fece una grande impressione la forza che emanava. Ma quella stessa impressione è sempre riuscito a dar-mela anche Benedetto XVI, seppure in modo diverso... Perché il Papa, qualunque Papa, anche quello che avremo tra poche settimane, è l’uomo

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che Dio ci manda per rappresentarLo sulla terra. Insomma – sorride Totti – è lui il Capitano della grande squadra».Si definisce cattolico osservante, racconta che quando è possibile parte-cipa alla Messa e che gli anni del catechismo con don Aldo, nella par-rocchia di famiglia in via Latina, e successivamente i consigli spirituali di don Fernando lasciano ancora oggi il segno nel cuore del calciatore italiano più noto al mondo. «Spesso, quando mi capita di leggere o senti-re alla tivù le parole di papa Ratzinger, provo ancora lo stesso sentimento di allora, di quando a indicare la via era don Aldo. Questo Papa fino all’ultimo ci ha insegnato tanto, in periodi molto difficili per l’umanità e soprattutto per i giovani ci ha ricordato che cosa deve fare il buon cristia-no... la fatica è riuscirci».

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Paolo Portoghesi:“Ci ha mostrato la vera bellezza”

di Paolo Portoghesi

L’incontro con papa Benedetto, in occasione dell’omaggio degli arti-sti per il sessantesimo compleanno del suo sacerdozio, ha lasciato

nella mia memoria una traccia profonda. Mentre il Papa sostava davanti al modello di una chiesa che avevo progettata in omaggio alla sua vi-sione della liturgia, il gesto accogliente e prolungato delle sue mani che stringevano le mie, mi dava la sensazione del fluire dentro di me, insieme alla grazia della sua affettuosa indulgenza, di due sentimenti contrastanti, il disagio nei confronti di una società che giorno per giorno si allontana dalle verità del Vangelo e una piena fiducia nella possibilità che il mondo torni a sentire la forza del messaggio cristiano. Il Papa ascoltava con indulgenza le mie spiegazioni che collegavano le scelte architettoniche a ciò che, da cardinale e poi da Papa aveva scritto, in tanti anni di profonda riflessione e sorrideva con quell’inimitabile sor-riso tenero e mite quanto severo e deciso, così lontano dall’esibizionismo e dalla competitiva aridità che segna il nostro tempo.Nel discorso fatto agli artisti nella Cappella Sistina, Benedetto XVI ave-va ripreso i temi degli incontri con gli artisti dei due grandi Pontefici che l’hanno preceduto, ma aveva introdotto una distinzione che rivela la sua diffidenza verso il relativismo, che vorrebbe conciliare l’inconciliabile, mettere d’accordo la Chiesa con il consumismo e i suoi riti nel campo dell’arte. «Troppo spesso però la bellezza che viene propagandata è illu-soria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli a orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto li imprigiona in se stessi e li rende ancora più schiavi, privi

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di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della pro-vocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza invece schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Oltre da sé». Non sono parole di circostanza ma moniti da non trascurare, parte di questa eredità che la Chiesa si accinge a rac-cogliere mentre chi ha tentato la strada del cambiamento entra ora umil-mente nell’“Orto degli Olivi” indicando alla Chiesa la via della salvezza.

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Antonia Arslan“Fermezza in anni scomposti”

di Antonia Arslan

Molti anni fa lo sentii parlare, con quella sua voce coltivata e piena di intensità, e mi parve che vi affiorasse un sorriso nascosto, come

di chi è molto serio sulle cose in cui crede, ma di se stesso sempre un poco sorride.Era un’intervista televisiva, e quando guardai il suo viso mi tornò in men-te il professore che ci insegnava letteratura tedesca all’università di Got-tinga, un nobile vecchio dai capelli bianchissimi, senza nessuna arrogan-za accademica, ma che quando cominciava a recitare i poeti che amava ci portava tutti alle lacrime.Quando Joseph Ratzinger venne eletto Papa ero a St. Paul, Minnesota. Un’amica carissima mi telefonò di aprire il televisore, e lo vidi, con lo stesso sorriso, che sceglieva il nome di Benedetto, come il Papa che tanto si spese per la pace durante la prima guerra mondiale. «È un uomo coraggioso – pensai – ha la forza e la determinazione dei miti». E in questi anni scomposti e aggressivi, pieni di odio e di forzature a tutto campo, l’ho visto sempre conservare quel tocco di ritrosa eleganza e di quieta fermezza. Una visione del mondo profonda e agguerrita, che non fa sconti ma che è basata sull’amore; un’immagine di padre che con-sola e sostiene, a cui rivolgersi nei momenti di dubbio e di inquietudine, perché si è sicuri che non vacillerà.Ma lui, chi lo sostiene, quando il buio incombe? Papa Benedetto è diven-tato un guerriero in difesa dei valori in cui crede, ha guidato la Chiesa in questi tempi calamitosi. Ma certo è acutamente consapevole dell’im-mensa confusione del mondo occidentale, della fatua leggerezza con

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cui si autodistrugge, delle forze sotterranee che si sono scatenate, anche all’interno stesso della sua Chiesa. Lui si sente ormai stanco, il suo corpo lo tradisce. E decide di passare il testimone, a qualcuno più giovane e gagliardo, che possa combattere senza sfinirsi, con l’aiuto dello Spirito. Perché la strada rimanga aperta, nei secoli. Questa è la speranza.E allora auguri, vecchio Padre. Credo di sapere quanto ti costi andartene

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Pupi Avati:“Ho scoperto un uomo buono”

di Pupi Avati

Ho avuto una sola occasione di incontrare Benedetto XVI. Per cele-brare i 60 anni dalla sua prima Messa, invitò un anno fa in sala Ner-

vi artisti, musicisti, scultori, pittori. Sessanta personalità che avrebbero dovuto portare sessanta doni. Io rappresentavo il cinema, ma il cinema non è facile da “regalare”. Mi consultai con il cardinale Ravasi: “Che facciamo?”. L’idea fu quella di far fare gli auguri al Papa da parte di tutto il cinema italiano. Con il con-tributo della Cineteca Nazionale misi insieme un filmato con spezzoni di cinquanta film importanti girati da cinquanta grandi autori, che raccon-tava la storia del cinema italiano da Carmine Gallone a Matteo Garrone. Ogni frammento presentava una evocazione spirituale, un afflato che si ritrovava anche in autori ostentatamente laici o boriosamente atei. Per-ché, ne sono convinto, c’è sempre noi una crepa, uno spiraglio di trascen-dente. Il filmato durava 6 minuti e le immagini più belle e commoventi scorreva-no in un crescendo emotivo sulle note dell’”Inno alla gioia” di Beethoven che sapevamo essere molto amato da Papa Ratzinger. Il film si conclude-va con una sorpresa finale. Un archivista del Centro Sperimentale, Luca Pallanca, aveva scovato in una cineteca tedesca un piccolo documentario in 16 millimetri sulla consacrazione a sacerdote del Santo Padre. Così questo augurio del cinema italiano si concludeva con le immagi-ni dove si vedeva Ratzinger sdraiato davanti al vescovo, poi l’uscita in processione dei nuovi sacerdoti e, infine, un primo piano strettissimo di Joseph ventenne. Scattò un grande applauso, un momento di alta com-

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mozione. Il Papa, anch’egli commosso, mi chiamò a sé e mi disse cose di una dolcezza estrema. Da lì, ho scoperto oltre al grande intellettuale e teologo, anche la sua bon-tà. Io lo definirei un “Papa buono” proprio come Giovanni XXIII. E lo sta anche dimostrando in questo difficile momento di uscita.

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19Breve dizionario ratzingeriano

di Umberto Folena

AUSCHWITZ. «In un luogo come questo vengono meno le parole». Verrebbero meno a tutti. Figuriamoci a un Papa, e a un Papa tedesco. È il 28 maggio 2006 quando Benedetto XVI – commosso, dolente – varca la soglia di uno dei più noti e terribili campi di sterminio. Ed è un “Papa di-sarmato” quello che confessa: vengono meno le parole, qui, e «può resta-re soltanto uno sbigottito silenzio, un silenzio che è interiore grido verso Dio: perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto ciò?».

BUFALE. Ovvero menzogne spacciate per verità. Come le «scarpe Pra-da» del Papa, rosse per vezzo e non come simbolo del martirio. Una sciocchezza. È noto che dal 2003 le scarpe vengono donate da un artigia-no piemontese, Adriano Stefanelli («le regalo, perché a volte la passione paga più del denaro»). E quando si sciupano, perché graffiate o consu-mate, a metterle a nuovo ci pensa Antonio Arellano, ciabattino peruviano con bottega nei pressi del Vaticano. Ma la bufala appare perfino sulla “Repubblica” on-line, che molti, a torto, ritengono attendibile se non in-fallibile. La bufala ormai vola nel web, in mille e mille copie. Inafferra-bile...

CORTILE DEI GENTILI. O atrium gentium, idea lanciata alla vigilia del Natale 2009 e affidata al Pontificio Consiglio della cultura guidato dal cardinale Gianfranco Ravasi: «Luogo d’incontro e di dialogo – si legge sul sito ufficiale – spazio di espressione per coloro che non credono e per coloro che si pongono delle domande riguardo alla propria fede, una

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finestra sul mondo, sulla cultura contemporanea e un ascolto delle voci che vi risuonano».

DIALOGO INTERRELIGIOSO. È il 27 ottobre 2011. I leader religio-si, 25 anni dopo l’incontro voluto – fortemente, tenacemente, irresistibil-mente – da Giovanni Paolo II, si ritrovano ad Assisi per una «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo». Voluta altrettanto fermamente da Benedetto XVI. Che ammonirà: «L’as-senza di Dio porta al decadimento dell’uomo».

ENCICLICHE. Fede, speranza carità, tre virtù per tre encicliche, in un formidabile crescendo: Deus caritas est (2005), Spe salvi (2007) e Cari-tas in veritate (2009).

FURTO. Un ladro. Una delle persone a lui più vicine. A cui dava ogni giorno fiducia. Là dove lui, il Papa, avrebbe dovuto sentirsi più al sicuro. Alla fine, perdonare potrebbe essere stato più facile che vincere l’ama-rezza annidata nel cuore.

GMG. Gli uccellacci del malaugurio, quelli che la sanno lunga, quelli che non sono ingenui come noi, avevano pronosticato: Ratzinger non è Wojtyla, non ha il suo fascino magnetico e i giovani lo snobberanno. Colonia 2005, Sydney 2008, Madrid 2011. Tre Giornate mondiali della gioventù affollate quanto e forse più di prima. Il messaggio, in estrema sintesi, rimane lo stesso ed è il segreto per parlare al cuore dei giovani: «Il Signore vi vuole bene e vi chiama suoi amici – ricorda Benedetto XVI il 20 agosto 2011 a Cuatro Vientos, durante la veglia del sabato notte sot-to un acquazzone – e la vostra forza è più grande della pioggia». Frisinga, Seminario interdiocesano bavarese. Il giovane studente Joseph Aloisius Ratzinger qui vive, studia, si appassiona. Discute la tesi in teologia su sant’Agostino. Il correlatore – sorridiamo pure – lo accusa di «moderni-smo». Nasce l’amicizia con Karl Rahner. Gli anni della formazione.

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IRLANDA. «Avete tradito...». È uno dei capitoli più duri e dolorosi del pontificato. Il 20 marzo 2010, Benedetto XVI indirizza una lettera pasto-rale ai fedeli d’Irlanda. Rivolgendosi ai sacerdoti e ai religiosi colpevoli di abusi sessuali, scrive: «Avete tradito la fiducia riposta in voi da giova-ni innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio Onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti. Avete perso la stima della gente d’Irlanda e rovesciato vergogna e disonore sui vostri confratelli».

JOSEPH. Così decide di chiamarlo suo padre il 16 aprile 1927. D’altron-de anche lui si chiama Joseph, Giuseppe. E la mamma si chiama... Maria. Da sempre devoto di san Giuseppe, papa Ratzinger così dirà all’Angelus del 10 dicembre 2010: «In lui si profila l’uomo nuovo, che guarda con fiducia e coraggio al futuro, non segue il proprio progetto, ma si affida totalmente all’infinita misericordia di Colui che avvera le profezie e apre il tempo della salvezza».

KÜNG. Hans e Joseph, lo svizzero e il tedesco, giovani brillanti teologi al Concilio. Le loro strade divergono drasticamente alla fine degli anni Sessanta. Il Papa lo riceve a Castel Gandolfo il 26 settembre 2005. Ma nulla cambia. Il primo rimane acido e sprezzante, il secondo fermo ma accogliente. Da parte di Küng giudizi netti, vere sentenze: «Pontificato di opportunità mancate» (2012). Senza appello.

LATINO. Il 7 luglio 2007, con il motu proprio Summorum pontificum papa Ratzinger consente la celebrazione della messa secondo il rito latino tradizionale. Chi applaude, chi storce il naso. Carlo Cardia, su “Avveni-re”, commenta: «Può crescere l’armonia nelle diverse componenti della Chiesa. Una armonia fondata sulla possibilità di pregare secondo la sen-sibilità culturale, e linguistica, di ciascuna comunità, e di ciascun fedele. (...) Quindi il latino torna non per dividere ma per unire e arricchire».

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MOSCHEA. A Istanbul, la Moschea Blu (Sultan Ahmet Camii) è pro-prio di fronte a Santa Sofia. Benedetto XVI vi entra il 30 novembre 2006. Non è il primo Papa a entrare in una moschea, Giovanni Paolo II vi era stato ospite a Damasco. Ma è comunque un evento storico: «Preghiamo per la fratellanza e il bene dell’umanità».

NATURA. «Il rispetto per l’essere umano e il rispetto per la natura sono tutt’uno» (alla Fondazione “Sorella natura”, novembre 2011).

ORSO. Simbolo dell’arcidiocesi di Frisinga, è presente anche sullo stemma papale. Un orso gli uccise il cavallo e allora san Corbiniano gli fece portare il suo bagaglio fino a Roma. Il commento di sant’Agostino al salmo 72 ben si adatta all’orso, e a Ratzinger: «Sono divenuto per te come una bestia da soma, e così sono in tutto e per sempre vicino a te».

PIANOFORTE. Mozart, Beethoven, Chopin... Ratzinger studia musica fin da ragazzo con il fratello maggiore Georg, che sarà direttore della Cappella del Duomo di Ratisbona. Il pianoforte lo ha accompagnato sem-pre e sarà con lui anche dopo il 28 febbraio, nella sua nuova residenza.

QUARESIMA. «La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della speranza». (Messaggio per Quaresima 2013). Da rileggere e rimeditare oggi, dopo la rinuncia.

RINUNCIA. «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza da-vanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avan-zata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino...». È l’11 febbraio scorso, il Papa sta rivolgendosi ai cardinali in latino. Alcuni capiscono subito, altri pensano di non aver capito bene. La prima a dare la notizia è l’agenzia Ansa. Una sola riga. Che scuote il mondo.

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SINAGOGA. Domenica 17 gennaio 2010, 24 anni dopo papa Wojtyla, anche papa Ratzinger entra nella sinagoga di Roma, accolto da Riccar-do Pacifici e Renzo Gattegna, presidenti rispettivamente della Comunità ebraica di Roma e d’Italia. Scrive Gad Lerner sul mensile degli ebrei romani “Shalom”: «Ciò che per secoli e secoli fu semplicemente incon-cepibile – la visita di un papa cristiano nel tempio degli ebrei – risulta oggi accettato come gesto normale (...). Il papa non è solo il benvenuto. Ormai è il bentornato in sinagoga».

TWITTER. «Cari amici, è con gioia che mi unisco a voi via Twitter. Grazie per la vostra generosa risposta. Vi benedico tutti di cuore». È il 12 dicembre 2012 e il Papa si misura per la prima volta con le 140 battute di Twitter. «Che posto ha Dio nella mia vita? È Lui il Signore o sono io?» La domanda, posta all’Udienza dell’ultimo mercoledì delle Ceneri, è uno dei fili conduttori del pontificato. Fatto di udienze sempre affollate. Dove l’affetto dei fedeli è sempre stato tangibile.

VERITÀ. «Cooperatores veritatis» (collaboratori della verità) è il motto scelto da arcivescovo di Monaco e Frisinga, nel 1977. La passione per la verità è antica: «Ho scelto questo motto perché nel mondo d’oggi il tema della verità viene quasi totalmente sottaciuto; appare infatti come qualcosa di troppo grande per l’uomo, nonostante che tutto si sgretoli se manca la verità».

WOJTYLA. A 6 anni e un mese dalla morte, il primo maggio 2011, Karol Wojtyla viene proclamato beato: «Il giorno tanto atteso – annuncia Benedetto XVI – è arrivato; è arrivato presto, perché così è piaciuto al Signore: Giovanni Paolo II è beato!».

ZIZZANIA. Il cardinale Joseph Ratzinger conduce la Via Crucis, Gio-vanni Polo II è morente. «Signore – prega – spesso la tua Chiesa ci sem-

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bra una barca che sta per affondare (...). E anche nel tuo campo vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stesi a sporcarli (...). Abbi pietà della tua Chiesa». È il 25 marzo 2005. Pochi giorni dopo, il 19 aprile, il Signore chiama proprio lui, Joseph Ratzinger, a guidare la sua Chiesa.

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CAPITOLO 3

Parola di Ratzinger

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“Necessario il vigore di corpo e animo”

11 febbraio: la «declaratio» ai cardinali

Carissimi Fratelli,vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza da-vanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avan-zata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa

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Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghie-ra, la Santa Chiesa di Dio.

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Il Signore non si stanca di bussare alla nostra porta

13 febbraio: udienza generale

Cari fratelli e sorelle, oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo il tempo liturgico della Quaresima, quaranta giorni che ci preparano alla celebra-zione della Santa Pasqua; è un tempo di particolare impegno nel nostro cammino spirituale. Il numero quaranta ricorre varie volte nella Sacra Scrittura. In particolare, come sappiamo, esso richiama i quarant’anni in cui il popolo di Israele peregrinò nel deserto: un lungo periodo di for-mazione per diventare il popolo di Dio, ma anche un lungo periodo in cui la tentazione di essere infedeli all’alleanza con il Signore era sempre presente. Quaranta furono anche i giorni di cammino del profeta Elia per raggiungere il Monte di Dio, l’Horeb; come pure il periodo che Gesù passò nel deserto prima di iniziare la sua vita pubblica e dove fu tentato dal diavolo. Nell’odierna catechesi vorrei soffermarmi proprio su questo momento della vita terrena del Signore, che leggeremo nel Vangelo di domenica prossima.Anzitutto il deserto, dove Gesù si ritira, è il luogo del silenzio, della po-vertà, dove l’uomo è privato degli appoggi materiali e si trova di fronte alle domande fondamentali dell’esistenza, è spinto ad andare all’essen-ziale e proprio per questo gli è più facile incontrare Dio. Ma il deserto è anche il luogo della morte, perché dove non c’è acqua non c’è neppure vita, ed è il luogo della solitudine, in cui l’uomo sente più intensa la ten-tazione. Gesù va nel deserto, e là subisce la tentazione di lasciare la via indicata dal Padre per seguire altre strade più facili e mondane (cfr Lc 4,1-13). Così Egli si carica delle nostre tentazioni, porta con Sè la nostra

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miseria, per vincere il maligno e aprirci il cammino verso Dio, il cammi-no della conversione.Riflettere sulle tentazioni a cui è sottoposto Gesù nel deserto è un invito per ciascuno di noi a rispondere ad una domanda fondamentale: che cosa conta davvero nella mia vita? Nella prima tentazione il diavolo propone a Gesù di cambiare una pietra in pane per spegnere la fame. Gesù ribatte che l’uomo vive anche di pane, ma non di solo pane: senza una risposta alla fame di verità, alla fame di Dio, l’uomo non si può salvare (cfr vv. 3-4). Nella seconda tentazione, il diavolo propone a Gesù la via del pote-re: lo conduce in alto e gli offre il dominio del mondo; ma non è questa la strada di Dio: Gesù ha ben chiaro che non è il potere mondano che salva il mondo, ma il potere della croce, dell’umiltà, dell’amore (cfr vv. 5-8). Nella terza tentazione, il diavolo propone a Gesù di gettarsi dal pinnacolo del Tempio di Gerusalemme e farsi salvare da Dio mediante i suoi ange-li, di compiere cioè qualcosa di sensazionale per mettere alla prova Dio stesso; ma la risposta è che Dio non è un oggetto a cui imporre le nostre condizioni: è il Signore di tutto (cfr vv. 9-12). Qual è il nocciolo delle tre tentazioni che subisce Gesù? È la proposta di strumentalizzare Dio, di usarlo per i propri interessi, per la propria gloria e per il proprio successo. E dunque, in sostanza, di mettere se stessi al posto di Dio, rimuovendolo dalla propria esistenza e facendolo sembrare superfluo. Ognuno dovreb-be chiedersi allora: che posto ha Dio nella mia vita? È Lui il Signore o sono io? Superare la tentazione di sottomettere Dio a sé e ai propri interessi o di metterlo in un angolo e convertirsi al giusto ordine di priorità, dare a Dio il primo posto, è un cammino che ogni cristiano deve percorrere sempre di nuovo. «Convertirsi», un invito che ascolteremo molte volte in Quaresima, significa seguire Gesù in modo che il suo Vangelo sia guida concreta della vita; significa lasciare che Dio ci trasformi, smettere di pensare che siamo noi gli unici costruttori della nostra esistenza; significa riconoscere che siamo creature, che dipendiamo da Dio, dal suo amore, e soltanto «perdendo» la nostra vita in Lui possiamo guadagnarla. Questo

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esige di operare le nostre scelte alla luce della Parola di Dio. Oggi non si può più essere cristiani come semplice conseguenza del fatto di vivere in una società che ha radici cristiane: anche chi nasce da una famiglia cri-stiana ed è educato religiosamente deve, ogni giorno, rinnovare la scelta di essere cristiano, cioè dare a Dio il primo posto, di fronte alle tentazioni che una cultura secolarizzata gli propone di continuo, di fronte al giudizio critico di molti contemporanei. Le prove a cui la società attuale sottopone il cristiano, infatti, sono tante, e toccano la vita personale e sociale. Non è facile essere fedeli al matrimonio cristiano, praticare la misericordia nella vita quotidiana, lasciare spazio alla preghiera e al silenzio interiore; non è facile opporsi pubblicamente a scelte che molti considerano ovvie, quali l’aborto in caso di gravidanza indesiderata, l’eutanasia in caso di malattie gravi, o la selezione degli embrioni per prevenire malattie eredi-tarie. La tentazione di metter da parte la propria fede è sempre presente e la conversione diventa una risposta a Dio che deve essere confermata più volte nella vita.Ci sono di esempio e di stimolo le grandi conversioni come quella di san Paolo sulla via di Damasco, o di sant’Agostino, ma anche nella nostra epoca di eclissi del senso del sacro, la grazia di Dio è al lavoro e opera meraviglie nella vita di tante persone. Il Signore non si stanca di bussare alla porta dell’uomo in contesti sociali e culturali che sembrano inghiot-titi dalla secolarizzazione, come è avvenuto per il russo ortodosso Pa-vel Florenskij. Dopo un’educazione completamente agnostica, tanto da provare vera e propria ostilità verso gli insegnamenti religiosi impartiti a scuola, lo scienziato Florenskij si trova ad esclamare: «No, non si può vivere senza Dio!», e a cambiare completamente la sua vita, tanto da farsi monaco. Penso anche alla figura di Etty Hillesum, una giovane olandese di origine ebraica che morirà ad Auschwitz. Inizialmente lontana da Dio, lo scopre guardando in profondità dentro se stessa e scrive: «Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo. Talvolta mi ri-esce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri». (Diario, 97). Nella sua vita

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dispersa e inquieta, ritrova Dio proprio in mezzo alla grande tragedia del Novecento, la Shoah. Questa giovane fragile e insoddisfatta, trasfigurata dalla fede, si trasforma in una donna piena di amore e di pace interiore, capace di affermare: «Vivo costantemente in intimità con Dio».La capa-cità di contrapporsi alle lusinghe ideologiche del suo tempo per scegliere la ricerca della verità e aprirsi alla scoperta della fede è testimoniata da un’altra donna del nostro tempo, la statunitense Dorothy Day. Nella sua autobiografia, confessa apertamente di essere caduta nella tentazione di risolvere tutto con la politica, aderendo alla proposta marxista: «Volevo andare con i manifestanti, andare in prigione, scrivere, influenzare gli altri e lasciare il mio sogno al mondo. Quanta ambizione e quanta ricer-ca di me stessa c’era in tutto questo!». Il cammino verso la fede in un ambiente così secolarizzato era particolarmente difficile, ma la Grazia agisce lo stesso, come lei stessa sottolinea: «È certo che io sentii più spes-so il bisogno di andare in chiesa, a inginocchiarmi, a piegare la testa in preghiera. Un istinto cieco, si potrebbe dire, perché non ero cosciente di pregare. Ma andavo, mi inserivo nell’atmosfera di preghiera¿». Dio l’ha condotta ad una consapevole adesione alla Chiesa, in una vita dedicata ai diseredati.Nella nostra epoca non sono poche le conversioni intese come il ritorno di chi, dopo un’educazione cristiana magari superficiale, si è allontana-to per anni dalla fede e poi riscopre Cristo e il suo Vangelo. Nel Libro dell’Apocalisse leggiamo: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3, 20). Il nostro uomo interiore deve prepararsi per essere visitato da Dio, e proprio per questo non deve lasciarsi invadere dalle illusioni, dalle apparenze, dalle cose materiali. In questo tempo di Qua-resima, nell’Anno della fede, rinnoviamo il nostro impegno nel cammino di conversione, per superare la tendenza di chiuderci in noi stessi e per fare, invece, spazio a Dio, guardando con i suoi occhi la realtà quotidia-na. L’alternativa tra la chiusura nel nostro egoismo e l’apertura all’amore di Dio e degli altri, potremmo dire che corrisponde all’alternativa delle

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tentazioni di Gesù: lternativa, cioè, tra potere umano e amore della Cro-ce, tra una redenzione vista nel solo benessere materiale e una redenzione come opera di Dio, cui diamo il primato nell’esistenza. Convertirsi signi-fica non chiudersi nella ricerca del proprio successo, del proprio presti-gio, della propria posizione, ma far sì che ogni giorno, nelle piccole cose, la verità, la fede in Dio e l’amore diventino la cosa più importante.

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Le divisioni deturpano il volto della Chiesa

13 febbraio: omelia per il Mercoledì delle Ceneri

Venerati fratelli, cari fratelli e sorelle! Oggi, Mercoledì delle Ceneri, ini-ziamo un nuovo cammino quaresimale, un cammino che si snoda per quaranta giorni e ci conduce alla gioia della Pasqua del Signore, alla vit-toria della Vita sulla morte. Seguendo l’antichissima tradizione romana delle stationes quaresimali, ci siamo radunati per la celebrazione dell’Eu-caristia. Tale tradizione prevede che la prima statio abbia luogo nella Basilica di Santa Sabina sul colle Aventino. Le circostanze hanno sugge-rito di radunarsi nella Basilica Vaticana. Stasera siamo numerosi intorno alla tomba dell’apostolo Pietro anche a chiedere la sua intercessione per il cammino della Chiesa in questo particolare momento, rinnovando la nostra fede nel Pastore Supremo, Cristo Signore. Per me è un’occasione propizia per ringraziare tutti, specialmente i fedeli della diocesi di Roma, mentre mi accingo a concludere il ministero petrino, e per chiedere un particolare ricordo nella preghiera. Le Letture che sono state proclamate ci offrono spunti che, con la grazia di Dio, siamo chiamati a far diventare atteggiamenti e comportamenti concreti in questa Quaresima. La Chiesa ci ripropone, anzitutto, il forte richiamo che il profeta Gioele rivolge al popolo di Israele: «Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti» (2,12). Va sottolineata l’espressione «con tutto il cuore», che significa dal centro dei nostri pensieri e senti-menti, dalle radici delle nostre decisioni, scelte e azioni, con un gesto di totale e radicale libertà. Ma è possibile questo ritorno a Dio? Sì, per-ché c’è una forza che non risiede nel nostro cuore, ma che si sprigiona dal cuore stesso di Dio. È la forza della sua misericordia. Dice ancora il

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profeta: «Ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male» (v.13). Il ritorno al Signore è possibile come “grazia”, perché è opera di Dio e frutto della fede che noi riponiamo nella sua misericordia. Ma questo ritornare a Dio diventa realtà concreta nella nostra vita solo quando la grazia del Signore penetra nell’intimo e lo scuote donandoci la forza di «lacerare il cuore». È ancora il profeta a far risuonare da parte di Dio queste parole: «Laceratevi il cuore e non le vesti» (v.13). In effetti, anche ai nostri giorni, molti sono pronti a «stracciarsi le vesti» di fronte a scan-dali e ingiustizie - naturalmente commessi da altri -, ma pochi sembrano disponibili ad agire sul proprio «cuore», sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta.Quel «ritornate a me con tutto il cuore», poi, è un richiamo che coinvol-ge non solo il singolo, ma la comunità. Abbiamo ascoltato sempre nella prima Lettura: «Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra. Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (vv.15-16). La dimen-sione comunitaria è un elemento essenziale nella fede e nella vita cristia-na. Cristo è venuto «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (cfr Gv 11,52). Il «Noi» della Chiesa è la comunità in cui Gesù ci riunisce insieme (cfr Gv 12,32): la fede è necessariamente ecclesiale. E questo è importante ricordarlo e viverlo in questo tempo della Quaresima: ognuno sia consapevole che il cammino penitenziale non lo affronta da solo, ma insieme con tanti fratelli e sorelle, nella Chiesa.Il profeta, infine, si sofferma sulla preghiera dei sacerdoti, i quali, con le lacrime agli occhi, si rivolgono a Dio dicendo: «Non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti. Perché si dovrebbe dire fra i popoli: “Dov’è il loro Dio?”» (v.17). Questa preghiera ci fa riflettere sull’importanza della testimonianza di fede e di vita cristiana di ciascuno di noi e delle nostre comunità per manifestare il volto della Chiesa e come

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questo volto venga, a volte, deturpato. Penso in particolare alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale. Vivere la Quaresima in una più intensa ed evidente comunione ecclesiale, superan-do individualismi e rivalità, è un segno umile e prezioso per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti. «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2). Le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto risuonano anche per noi con un’urgenza che non ammette assenze o inerzie. Il termine «ora» ripetuto più volte dice che questo momento non può essere lasciato sfuggire, esso viene offerto a noi come un’occasione unica e irripetibile. E lo sguardo dell’Apostolo si concentra sulla condivisione con cui Cristo ha voluto caratterizzare la sua esistenza, assumendo tutto l’umano fino a farsi carico dello stesso peccato degli uomini. La frase di san Paolo è molto forte: Dio «lo fece peccato in nostro favore». Gesù, l’innocente, il Santo, «Colui che non aveva conosciuto peccato» (2 Cor 5,21), si fa carico del peso del peccato condividendone con l’umanità l’esito della morte, e della morte di cro-ce. La riconciliazione che ci viene offerta ha avuto un prezzo altissimo, quello della croce innalzata sul Golgota, su cui è stato appeso il Figlio di Dio fatto uomo. (...)Nella pagina del Vangelo di Matteo, che appartiene al cosiddetto Discor-so della montagna, Gesù fa riferimento a tre pratiche fondamentali pre-viste dalla Legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno; sono anche indicazioni tradizionali nel cammino quaresimale per risponde-re all’invito di «ritornare a Dio con tutto il cuore». Ma Gesù sottolinea come sia la qualità e la verità del rapporto con Dio ciò che qualifica l’autenticità di ogni gesto religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa, il comportamento che vuole apparire, gli atteggiamenti che cer-cano l’applauso e l’approvazione. Il vero discepolo non serve se stesso o il «pubblico», ma il suo Signore, nella semplicità e nella generosità: «E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4.6.18). La nostra testimonianza allora sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo la nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa del giusto è Dio

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stesso, l’essere uniti a Lui, quaggiù, nel cammino della fede, e, al termine della vita, nella pace e nella luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per sempre (cfr 1 Cor 13,12). Cari fratelli e sorelle, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresima-le. Risuoni forte in noi l’invito alla conversione, a «ritornare a Dio con tutto il cuore», accogliendo la sua grazia che ci fa uomini nuovi, con quella sorprendente novità che è partecipazione alla vita stessa di Gesù. Nessuno di noi, dunque, sia sordo a questo appello, che ci viene rivolto anche nell’austero rito, così semplice e insieme così suggestivo, dell’im-posizione delle ceneri, che tra poco compiremo. Ci accompagni in questo tempo la Vergine Maria, Madre della Chiesa e modello di ogni autentico discepolo del Signore. Amen!

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Il vero Vaticano II, via del rinnovamento

14 febbraio: discorso a parroci e sacerdoti della diocesi di Roma

Eminenza, cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio! È per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero pe-trino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. È sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vi-vente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vo-cazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore. Oggi avete confessato da-vanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’apostolo al quale il Signore ha detto: «A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa» (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: «Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo» (cfr Mt 16,15-16). Così cresce la Chiesa: insieme con Pie-tro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito l’ho detto mercoledì quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre

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vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto.Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho vi-sto. Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ‘59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della dio-cesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in con-tatto con il cardinale di Colonia, il cardinale Frings. Il cardinale Siri, di Genova mi sembra nel ‘61 aveva organizzato una serie di conferenze di diversi cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’arcivesco-vo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno. Il cardinale mi ha invitato il più giovane dei professori a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha pro-posto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il cardinale ha detto: «Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito». Poi è entrato, papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: «Grazie, eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole». Così, il cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo mi pare nel novembre ‘62 sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusia-smo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la

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Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuo-vo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, co-minciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensa-va di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusia-smo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse non so se sia vero che avessero letto i testi preparati, nella Ba-silica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I vescovi dis-sero: No, non facciamo così. Noi siamo vescovi, siamo noi stessi sogget-to del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo. Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo gior-no, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo si cercava imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezio-ni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I cardinali Liénart di Lille, il cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei

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Padri conciliari.Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al «Collegio dell’Anima», dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di monsignor Etchegaray, che era segretario della Conferenza episcopale francese, degli incontri con cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho co-nosciuto grandi figure come padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari vescovi; mi ricordo particolarmente del ve-scovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida naturalmente del Successore di Pietro.Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta «alleanza renana». E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi aveva-no diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice apparentemente semplice intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo. Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Eu-ropa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta del-la ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri

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di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia clas-sica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la neces-sità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse Et cum spiritu tuo eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia. Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. Operi Dei nihil praeponatur: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha par-lato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella co-mune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali. Ve n’erano, direi, diverse: soprat-tutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasqua-le e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In que-

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sto senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della creazione, è l’inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Ri-sorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della creazione, noi stiamo sul fondamento della creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Anti-co Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo. Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente era soltanto un elemento in un’ec-clesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’e-ra questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una

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data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era ri-nato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: «Nel-le anime comincia a risvegliarsi la Chiesa», e un vescovo protestante par-lava del «secolo della Chiesa». Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale – anche questo –, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano II.Direi che la discussione teologica degli anni ‘30-’40, anche ‘20, era com-pletamente sotto questo segno della parola Mystici Corporis. Fu una sco-perta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero «noi» dei credenti, insieme con l’«Io» di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non «un noi», un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo «noi siamo Chiesa» esige proprio il mio inserimento nel grande «noi» dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo te-ologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola «collegialità», molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa per esprimere che i vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli apostoli. Abbiamo detto: solo un vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel

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Corpo che continua il Corpo degli apostoli. Così proprio il Corpo dei vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della comple-mentarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i vescovi, successori degli apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.

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Rimettiamo il Signore al centro della nostra vita

17 febbraio: Angelus in piazza San Pietro

Cari fratelli e sorelle! Mercoledì scorso, con il tradizionale rito delle Ce-neri, siamo entrati nella Quaresima, tempo di conversione e di penitenza in preparazione alla Pasqua. La Chiesa, che è madre e maestra, chiama tutti i suoi membri a rinnovarsi nello spirito, a ri-orientarsi decisamente verso Dio, rinnegando l’orgoglio e l’egoismo per vivere nell’amore. In questo Anno della fede la Quaresima è un tempo favorevole per risco-prire la fede in Dio come criterio-base della nostra vita e della vita della Chiesa. Ciò comporta sempre una lotta, un combattimento spirituale, per-ché lo spirito del male naturalmente si oppone alla nostra santificazione e cerca di farci deviare dalla via di Dio. Per questo, nella prima domenica di Quaresima, viene proclamato ogni anno il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto.Gesù infatti, dopo aver ricevuto l’«investitura» come Messia - «Unto» di Spirito Santo - al Battesimo nel Giordano, fu con-dotto dallo stesso Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Al momento di iniziare il suo ministero pubblico, Gesù dovette smascherare e respingere le false immagini di Messia che il tentatore gli propone-va. Ma queste tentazioni sono anche false immagini dell’uomo, che in ogni tempo insidiano la coscienza, travestendosi da proposte convenienti ed efficaci, addirittura buone. Gli evangelisti Matteo e Luca presentano tre tentazioni di Gesù, diversificandosi in parte solo per l’ordine. Il loro nucleo centrale consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali. Il tenta-tore è subdolo: non spinge direttamente verso il male, ma verso un falso bene, facendo credere che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa

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i bisogni primari. In questo modo, Dio diventa secondario, si riduce a un mezzo, in definitiva diventa irreale, non conta più, svanisce. In ultima analisi, nelle tentazioni è in gioco la fede, perché è in gioco Dio. Nei momenti decisivi della vita, ma, a ben vedere, in ogni momento, siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio? L’interesse individuale oppure il vero Bene, ciò che realmente è bene?Come ci insegnano i Padri della Chiesa, le tentazioni fanno parte della «discesa» di Gesù nella nostra condizione umana, nell’abisso del peccato e delle sue conseguenze. Una «discesa» che Gesù ha percorso sino alla fine, sino alla morte di croce e agli inferi dell’estrema lontananza da Dio. In questo modo, Egli è la mano che Dio ha teso all’uomo, alla pecorella smarrita, per riportarla in salvo. Come insegna sant’Agostino, Gesù ha preso da noi le tentazioni, per donare a noi la sua vittoria (cfr Enarr. in Psalmos, 60,3: PL 36, 724). Non abbiamo dunque paura di affrontare anche noi il combattimento contro lo spirito del male: l’importante è che lo facciamo con Lui, con Cristo, il Vincitore. E per stare con Lui rivol-giamoci alla Madre, Maria: invochiamola con fiducia filiale nell’ora della prova, e lei ci farà sentire la potente presenza del suo Figlio divino, per respingere le tentazioni con la Parola di Cristo, e così rimettere Dio al centro della nostra vita.

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Avete portato con me il peso del ministero petrino

23 febbraio: discorso ai membri della Curia Romanaal termine degli Esercizi spirituali di Quaresima

Cari fratelli, cari amici! Alla fine di questa settimana spiritualmente così densa, rimane solo una parola: grazie! Grazie a voi per questa comunità orante in ascolto, che mi ha accompagnato in questa settimana. Grazie, soprattutto, a lei, eminenza, per queste “camminate” così belle nell’uni-verso della fede, nell’universo dei Salmi. Siamo rimasti affascinati dalla ricchezza, dalla profondità, dalla bellezza di questo universo della fede e rimaniamo grati perché la Parola di Dio ci ha parlato in nuovo modo, con nuova forza.«Arte di credere, arte di pregare» era il filo conduttore. Mi è venuto in mente il fatto che i teologi medievali hanno tradotto la parola “logos” non solo con “verbum”, ma anche con “ars”: “verbum” e “ars” sono inter-cambiabili. Solo nelle due insieme appare, per i teologi medievali, tutto il significato della parola “logos”. Il “Logos” non è solo una ragione ma-tematica: il “Logos” ha un cuore, il “Logos” è anche amore. La verità è bella, verità e bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità.E tuttavia lei, partendo dai Salmi e dalla nostra esperienza di ogni gior-no, ha anche fortemente sottolineato che il “molto bello” del sesto gior-no – espresso dal Creatore – è permanentemente contraddetto, in questo mondo, dal male, dalla sofferenza, dalla corruzione. E sembra quasi che il maligno voglia permanentemente sporcare la creazione, per contrad-dire Dio e per rendere irriconoscibile la sua verità e la sua bellezza. In un mondo così marcato anche dal male, il “Logos”, la Bellezza eterna e l’”Ars” eterna, deve apparire come “caput cruentatum”. Il Figlio incar-nato, il “Logos” incarnato, è coronato con una corona di spine; e tuttavia

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proprio così, in questa figura sofferente del Figlio di Dio, cominciamo a vedere la bellezza più profonda del nostro Creatore e Redentore; possia-mo, nel silenzio della “notte oscura”, ascoltare tuttavia la Parola. Credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così, nel silenzio, ascoltare la Parola, vedere l’Amore.Eminenza, grazie per tutto e facciamo ancora “camminate”, ulteriormen-te, in questo misterioso universo della fede, per essere sempre più capaci di orare, di pregare, di annunciare, di essere testimoni della verità, che è bella, che è amore.Alla fine, cari amici, vorrei ringraziare tutti voi, e non solo per questa set-timana, ma per questi otto anni, in cui avete portato con me, con grande competenza, affetto, amore, fede, il peso del ministero petrino. Rimane in me questa gratitudine e anche se adesso finisce l’”esteriore”, “visibi-le” comunione - come ha detto il cardinale Ravasi - rimane la vicinanza spirituale, rimane una profonda comunione nella preghiera. In questa cer-tezza andiamo avanti, sicuri della vittoria di Dio, sicuri della verità della bellezza e dell’amore.Grazie a tutti voi.

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Il Signore mi chiama a salire sul monte

24 febbraio: l’ultimo Angelus in piazza San Pietro

Cari fratelli e sorelle! Grazie per il vostro affetto!Oggi, seconda domenica di Quaresima, abbiamo un Vangelo particolar-mente bello, quello della Trasfigurazione del Signore. L’evangelista Luca pone in particolare risalto il fatto che Gesù si trasfigurò mentre pregava: la sua è un’esperienza profonda di rapporto con il Padre durante una sorta di ritiro spirituale che Gesù vive su un alto monte in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre discepoli sempre presenti nei momenti della manifestazione divina del Maestro (Lc 5,10; 8,51; 9,28). Il Signore, che poco prima aveva preannunciato la sua morte e risurrezione (9,22), offre ai discepoli un anticipo della sua gloria. E anche nella Trasfigurazione, come nel Battesimo, risuona la voce del Padre celeste: «Questi è il figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (9,35). La presenza poi di Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti dell’antica Alleanza, è quanto mai si-gnificativa: tutta la storia dell’Alleanza è orientata a Lui, il Cristo, che compie un nuovo «esodo» (9,31), non verso la terra promessa come al tempo di Mosè, ma verso il Cielo. L’intervento di Pietro: «Maestro, è bello per noi essere qui» (9,33) rappresenta il tentativo impossibile di fermare tale esperienza mistica. Commenta sant’Agostino: «[Pietro]…sul monte…aveva Cristo come cibo dell’anima. Perché avrebbe dovuto scendere per tornare alle fatiche e ai dolori, mentre lassù era pieno di sentimenti di santo amore verso Dio e che gli ispiravano perciò una santa condotta?» (Discorso 78,3: PL 38,491). Meditando questo brano del Van-gelo, possiamo trarne un insegnamento molto importante. Innanzitutto, il primato della preghiera, senza la quale tutto l’impegno dell’apostolato e

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della carità si riduce ad attivismo. Nella Quaresima impariamo a dare il giusto tempo alla preghiera, personale e comunitaria, che dà respiro alla nostra vita spirituale. Inoltre, la preghiera non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro, ma l’orazione riconduce al cammino, all’azione. «L’esistenza cristiana – ho scritto nel Messaggio per questa Quaresima – consiste in un continuo sa-lire il monte dell’incontro con Dio, per poi ridiscendere portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio» (n. 3).Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio la sento in modo particolare rivolta a me, in questo momento della mia vita. Grazie! Il Signore mi chiama a “salire sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze. Invochia-mo l’intercessione della Vergine Maria: lei ci aiuti tutti a seguire sempre il Signore Gesù, nella preghiera e nella carità operosa.

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Non mi sono mai sentito solo

27 febbraio: l’ultima udienza generale in piazza San Pietro

Venerati fratelli nell’episcopato e nel presbiterato! Distinte autorità! Cari fratelli e sorelle! Vi ringrazio di essere venuti così numerosi a questa mia ultima udienza generale.Grazie di cuore! Sono veramente commosso! E vedo la Chiesa viva! E penso che dobbiamo anche dire un grazie al Creatore per il tempo bello che ci dona adesso ancora nell’inverno.Come l’apostolo Paolo nel testo biblico che abbiamo ascoltato, anch’io sento nel mio cuore di dover soprattutto ringraziare Dio, che guida e fa crescere la Chiesa, che semina la sua Parola e così alimenta la fede nel suo popolo. In questo momento il mio animo si allarga ed abbraccia tutta la Chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie a Dio per le «notizie» che in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della carità che circola realmente nel corpo della Chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta verso la vita in pienezza, verso la patria del Cielo.Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto e tutti raccolgo nella preghiera per affidarli al Signore: perché abbiamo piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spi-rituale, e perché possiamo comportarci in maniera degna di Lui, del suo amore, portando frutto in ogni opera buona (cfr Col 1,9-10).In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e nella cari-

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tà. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia.

Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompa-gnato: questa certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze. E otto anni dopo posso dire che il Signore mi ha guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. È stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momen-ti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sem-brava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore.

Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la no-stra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secon-do piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che

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ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…». Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più pre-zioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo!Ma non è solamente Dio che voglio ringraziare in questo momento. Un Papa non è solo nella guida della barca di Pietro, anche se è la sua prima responsabilità Io non mi sono mai sentito solo nel portare la gioia e il peso del ministero petrino; il Signore mi ha messo accanto tante persone che, con generosità e amore a Dio e alla Chiesa, mi hanno aiutato e mi sono state vicine. Anzitutto voi, cari fratelli cardinali: la vostra saggezza, i vostri consigli, la vostra amicizia sono stati per me preziosi; i miei colla-boratori, ad iniziare dal mio segretario di Stato che mi ha accompagnato con fedeltà in questi anni; la segreteria di Stato e l’intera Curia Romana, come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra, ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile. Un pensiero spe-ciale alla Chiesa di Roma, la mia diocesi! Non posso dimenticare i fratelli nell’episcopato e nel presbiterato, le persone consacrate e l’intero popolo di Dio: nelle visite pastorali, negli incontri, nelle udienze, nei viaggi, ho sempre percepito grande attenzione e profondo affetto; ma anch’io ho voluto bene a tutti e a ciascuno, senza distinzioni, con quella carità pasto-rale che è il cuore di ogni Pastore, soprattutto del vescovo di Roma, del Successore dell’apostolo Pietro. Ogni giorno ho portato ciascuno di voi nella preghiera, con il cuore di padre.

Vorrei che il mio saluto e il mio ringraziamento giungesse poi a tutti: il cuore di un Papa si allarga al mondo intero. E vorrei esprimere la mia

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gratitudine al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, che rende pre-sente la grande famiglia delle Nazioni. Qui penso anche a tutti coloro che lavorano per una buona comunicazione e che ringrazio per il loro importante servizio.A questo punto vorrei ringraziare di vero cuore anche tutte le numerose persone in tutto il mondo, che nelle ultime settimane mi hanno inviato se-gni commoventi di attenzione, di amicizia e di preghiera. Sì, il Papa non è mai solo, ora lo sperimento ancora una volta in un modo così grande che tocca il cuore. Il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui. È vero che ricevo lettere dai grandi del mondo – dai capi di Stato, dai capi religiosi, dai rappresentanti del mondo della cultu-ra eccetera. Ma ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affet-to, che nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella Chiesa. Queste persone non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce. Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una co-munione di fratelli e sorelle nel corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare la Chiesa in questo modo e poter quasi toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del suo declino. Ma vediamo come la Chiesa è viva oggi!In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolez-za della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’ani-mo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte diffi-cili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi.

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Qui permettetemi di tornare ancora una volta al 19 aprile 2005. La gra-vità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi as-sume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto sperimentare, e lo spe-rimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio quando la dona. Prima ho detto che molte persone che amano il Signore amano anche il Successore di san Pietro e sono affezionate a lui; che il Papa ha veramen-te fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro nell’abbraccio della vostra comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui.Il «sempre» è anche un «per sempre» - non c’è più un ritornare nel priva-to. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incon-tri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio.Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accom-pagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che vorrei vivere sempre. Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito.Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio e della Chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità

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ecclesiale; a Lei ci affidiamo, con profonda fiducia.Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprat-tutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore. Grazie!

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La Chiesa è una realtà vivente

28 febbraio: il saluto al Collegio cardinalizionell’ultimo giorno di pontificato

Venerati e cari fratelli! Con grande gioia vi accolgo e porgo a ciascuno di voi il mio più cordiale saluto. Ringrazio il cardinale Angelo Sodano che, come sempre, ha saputo farsi interprete dei sentimenti dell’intero Collegio: Cor ad cor loquitur. Grazie eminenza di cuore. E vorrei dire – riprendendo il riferimento all’esperienza dei discepoli di Emmaus – che anche per me è stata una gioia camminare con voi in questi anni, nella luce della presenza del Signore risorto.Come ho detto ieri davanti alle migliaia di fedeli che riempivano piazza San Pietro, la vostra vicinanza e il vostro consiglio mi sono stati di gran-de aiuto nel mio ministero. In questi otto anni, abbiamo vissuto con fede momenti bellissimi di luce radiosa nel cammino della Chiesa, assieme a momenti in cui qualche nube si è addensata nel cielo. Abbiamo cercato di servire Cristo e la sua Chiesa con amore profondo e totale, che è l’anima del nostro ministero. Abbiamo donato speranza, quella che ci viene da Cristo, che solo può illuminare il cammino. Insieme possiamo ringraziare il Signore che ci ha fatti crescere nella comunione, e insieme pregarlo di aiutarvi a crescere ancora in questa unità profonda, così che il Collegio dei cardinali sia come un’orchestra, dove le diversità – espressione della Chiesa universale – concorrano sempre alla superiore e concorde armo-nia.Vorrei lasciarvi un pensiero semplice, che mi sta molto a cuore: un pen-siero sulla Chiesa, sul suo mistero, che costituisce per tutti noi - possiamo dire - la ragione e la passione della vita. Mi lascio aiutare da un’espres-sione di Romano Guardini, scritta proprio nell’anno in cui i Padri del

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Concilio Vaticano II approvavano la costituzione Lumen Gentium, nel suo ultimo libro, con una dedica personale anche per me; perciò le parole di questo libro mi sono particolarmente care. Dice Guardini: La Chiesa «non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino…, ma una realtà vivente… Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni es-sere vivente, trasformandosi… Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa, e il suo cuore è Cristo». È stata la nostra esperienza, ieri, mi sem-bra, in piazza: vedere che la Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio. Essa è nel mondo, ma non è del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. Lo abbiamo visto ieri. Per questa è vera ed eloquente anche l’altra famosa espressione di Guardini: «La Chiesa si risveglia nelle anime». La Chiesa vive, cresce e si risveglia nelle anime, che - come la Vergine Maria - accolgono la Parola di Dio e la concepiscono per opera dello Spirito Santo; offrono a Dio la propria carne e, proprio nella loro povertà e umiltà, diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa, il Mistero dell’Incarnazione rimane presente per sempre. Cristo continua a camminare attraverso i tempi e tutti i luoghi.Rimaniamo uniti, cari fratelli, in questo Mistero: nella preghiera, spe-cialmente nell’Eucaristia quotidiana, e così serviamo la Chiesa e l’intera umanità. Questa è la nostra gioia, che nessuno ci può togliere.Prima di salutarvi personalmente, desidero dirvi che continuerò ad es-servi vicino con la preghiera, specialmente nei prossimi giorni, affinché siate pienamente docili all’azione dello Spirito Santo nell’elezione del nuovo Papa. Che il Signore vi mostri quello che è voluto da Lui. E tra voi, tra il Collegio cardinalizio, c’è anche il futuro Papa al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza. Per questo, con affetto e riconoscenza, vi imparto di cuore la benedizione apostolica.

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Ora sono un semplice pellegrino

28 febbraio: il congedo a Castel Gandolfo

Grazie! Grazie a voi! Cari amici, sono felice di essere con voi, circondato dalla bellezza del creato e dalla vostra simpatia che mi fa molto bene. Grazie per la vostra amicizia, il vostro affetto. Voi sapete che questo mio giorno è diverso da quelli precedenti; non sono più Sommo Pontefice della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pel-legrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’uma-nità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia. Andiamo avanti insieme con il Signore per il bene della Chiesa e del mondo. Grazie, vi imparto adesso con tutto il cuore la mia Benedizione.Ci benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo. Grazie, buo-na notte! Grazie a voi tutti!

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013

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Copyright © 2013 by Avvenire.Guida alla letturaI pilastri della cattedraleNulla per sé tutto per CristoCAPITOLO 1L’eco dell’annuncioTutti stretti a PietroLa guida è CristoCresca il vero ConcilioL’Italia per BenedettoIl tempo della preghieraIl popolo di BenedettoIl professor RatzingerIl Conclave all’orizzonteVerso l’ultimo AngelusSotto la finestra di Benedetto“Pregherò per l’Italia”“Sul monte della preghiera”Lo sguardo va oltre“La croce e voi, per sempre”Il pellegrino obbedienteOra la Chiesa attendeIn preghiera verso il ConclaveCAPITOLO 2In dialogo con il mondoParole per il XXI secoloIl volto e le radiciIl linguaggio della bellezzaLa memoria e l’identitàLa svolta della “Caritas in veritate”I punti fermiUno sguardo più grandeUn cammino di purificazioneUn cuore soloReligioni in dialogoLa Chiesa di tuttiUn padre e un maestroLa fede e il ritoLa Città di PietroUn Paese con luiLe voci dei continentiGrazie perché...Breve dizionario ratzingerianoCAPITOLO 3“Necessario il vigore di corpo e animo”Il Signore non si stanca di bussare alla nostra portaLe divisioni deturpano il volto della ChiesaIl vero Vaticano II, via del rinnovamentoRimettiamo il Signore al centro della nostra vitaAvete portato con me il peso del ministero petrinoIl Signore mi chiama a salire sul monteNon mi sono mai sentito soloLa Chiesa è una realtà viventeOra sono un semplice pellegrino

Massimo Pampaloni - [email protected] - 10/04/2013