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Nuova Macroeconomia Keynesiana: una scuola contemporanea Roberto Ricciuti

Roberto Ricciuti - Tiscali Webspaceweb.tiscali.it/robertoricciuti/papers/Nuova_Macroeconomia... · quello degli Stati Uniti. ... (Mankiw e Romer, 1991; Carlin e Soskice, 1990)

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Nuova Macroeconomia Keynesiana: una scuola contemporanea

Roberto Ricciuti

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1. Introduzione

Dopo essere stato, nella versione IS-LM, il paradigma dominante nella teoria economica negli

anni ’50 e ’60, la macroeconomia keynesiana è stata messa in crisi da un attacco che proveniva da

due fronti diversi. Dal punto di vista metodologico, il modello di sintesi keynesiana veniva attaccato

per la mancanza di fondazioni microeconomiche del comportamento delle variabili aggregate. Dal

punto di vista predittivo, il modello si dimostrava incapace di spiegare alcuni dei fenomeni

macroeconomici degli anni ’70, in particolare l’aumento dell’inflazione e la contemporanea

diminuzione dell’occupazione, in contrasto con la curva di Phillips, che faceva coerentemente parte

di quel sistema interpretativo. L’attacco alla sintesi keynesiana era stato portato dapprima da

Friedman, in seguito dalla Nuova Macroeconomia Classica (Lucas, Sargent, Wallace).

Diverse sono state le risposte a questa crisi del modello keynesiano: da una parte gli

economisti post-keynesiani hanno cercato di reinterpretare Keynes mostrandone l’inconciliabilità

con il paradigma neoclassico e quindi la fallacia del modello IS-LM. Dall’altra, la risposta della

Nuova Macroeconomia Keynesiana è stata fondamentalmente diversa: essa ha affrontato l’attacco

neoclassico sullo stesso terreno su cui esso era stato lanciato, riuscendo a microfondare

rigorosamente le proposizioni della macroeconomia keynesiana.

L’espressione New Keynesian Theory è stata utilizzata per la prima volta da Parkin (1982),

mentre l’espressione New Keynesian Macroeconomics è stata utilizzata per la prima volta in un

articolo scientifico da Ball et al. (1988). Nel prosieguo del lavoro verranno utilizzate sia

l’espressione Nuovi Keynesiani che Nuova Macroeconomia Keynesiana senza preferenze, pur

ritenendo entrambe non completamente soddisfacenti. La prima, infatti enfatizza il collegamento

con il pensiero di Keynes e le sue successive interpretazioni, cosa che si mostrerà nel seguito essere

non vera, soprattutto nel rapporto con i Post-Keynesiani. La seconda risulta piuttosto enfatica e tale

da ingenerare l’idea di una completa ricostruzione dell’edificio teorico keynesiano1.

All’interno della Nuova Macroeconomia Keynesiana, è possibile distinguere due correnti di

pensiero: una europea ed una americana. Queste si caratterizzano per una diversa enfasi sulle

determinanti della lentezza dei prezzi ad adeguarsi agli shock. La scuola europea (che possiamo

sintetizzare nei nomi di Blanchard, Nickell e Layard) considera principalmente imprese

oligopolistiche sul mercato dei beni che contrattano con i sindacati sul livello di salario reale. Il

tema che diventa centrale in questa prospettiva è la divisione del prodotto per lavoratore tra salario

che va al lavoratore stesso, profitto percepito dall’impresa ed introiti fiscali ottenuti dal governo, ed

il conflitto distributivo che ne deriva. La scuola americana (Romer, Ball e Mankiw) affronta come

problema principale quello di trovare una rigorosa motivazione microeconomica all’inerzia

3

nominale, basata in primo luogo sul costo di modificare continuamente i prezzi. Questa differenza

sembra fondarsi sulla diversa struttura della contrattazione salariale tra Europa e Stati Uniti: nella

prima, infatti, il ruolo del sindacato, sia dal punto di vista del livello di sindacalizzazione, che dal

punto di vista di una maggiore centralizzazione della contrattazione, è sensibilmente superiore a

quello degli Stati Uniti. Anche l’enfasi sui problemi posti da queste due diverse vie è diversa: gli

europei privilegiano l’analisi delle ragioni della disoccupazione (rinvenute principalmente nella

concorrenza imperfetta sul mercato del lavoro e dei beni) e della sua persistenza nel medio termine,

mentre gli Statunitensi privilegiano lo studio delle ragioni per cui i prezzi nominali si modificano

lentamente in risposta a cambiamenti della domanda. Le due analisi si sovrappongono dal punto di

vista analitico, ma vengono svolte separatamente e spesso senza un reciproco riconoscimento

(Mankiw e Romer, 1991; Carlin e Soskice, 1990). Anche in questo caso, il maggiore interesse degli

studiosi europei al problema della disoccupazione è motivato dal fatto che strutturalmente la

disoccupazione negli ultimi venti anni è stata superiore in Europa rispetto agli USA.

Gli obiettivi di questo lavoro sono i seguenti: in primo luogo ci proponiamo di mostrare come

la Nuova Macroeconomia Keynesiana sia una teoria in grado di ricondurre ad unità una serie di

analisi parziali sulle imperfezioni dei mercati. In secondo luogo cercheremo di mostrare una sorta di

dipendenza funzionale che lega le Nuova Macroeconomia Keynesiana a quella Classica. I primi,

infatti, fanno propria la critica di Lucas sintetizzata nella frase che imputa agli agenti dei modelli

keynesiani di “lasciare 500 dollari sul marciapiede” cercando di ricreare nel mondo degli agenti

ottimizzanti e della concorrenza perfetta dei Nuovi Classici i problemi che Keynes aveva

evidenziato nel laissez-faire dominante all’epoca della Grande Depressione. E’ nostra opinione che

questo tentativo sia stato accompagnato dal successo, anche se al costo di sensibili differenze

rispetto a Keynes ed alle sue successive reinterpretazioni. Infine, vengono considerate le differenze

che intercorrono tra i Nuovi Keynesiani europei e quelli statunitensi.

Il lavoro è idealmente diviso in due parti: nella prima (parr. 2-5) vengono considerati gli

strumenti analitici della Nuova Macroeconomia Keynesiana, nella seconda (parr. 6-8) vengono

evidenziate le principali differenze sia con il modello keynesiano e le successive interpretazioni di

Keynes, sia con i modelli di Friedman e della Nuova Macroeconomia Classica e ne viene fornita

una valutazione generale.

1 E’ appena il caso di ricordare che l’espressione “neo-keynesiani” indica la sintesi neoclassico-keynesiana iniziata da

4

2. Concorrenza imperfetta

La concorrenza imperfetta è un ingrediente centrale per ottenere i risultati della Nuova

Macroeconomia Keynesiana, per questo motivo ne anticipiamo la discussione rispetto ad altri temi

che costituiscono la parte più originale di questa teoria. Dal punto di vista teorico, infatti, in un

mercato perfettamente concorrenziale, in cui gli agenti agiscono come price-takers, per definizione

non è possibile immaginare difficoltà nell’aggiustare i prezzi. Solo imprese price-setters hanno una

certa discrezionalità nel fissare i prezzi. Inoltre la diversa enfasi che gli economisti statunitensi ed

europei che pure appartengono a questa Scuola pongono su questo tema rappresenta la principale

differenza tra le loro interpretazioni. Per i primi, la concorrenza imperfetta ha un suo ruolo specifico

nel determinare alcune implicazioni keynesiane, ma anche un ruolo ausiliario nel rafforzare gli

effetti delle rigidità nominali e reali e del fallimento del coordinamento. Per i secondi il ritorno

keynesiano è tutto giocato attorno alla questione della concorrenza imperfetta sul mercato dei beni e

del lavoro.

I modelli più rilevanti in questa letteratura che si concentra sugli effetti aggregati della

concorrenza imperfetta sono quelli di Hart (1982) e Blanchard e Kiyotaki (1987). Consideriamo un

modello in cui vi sia concorrenza monopolistica sul mercato dei beni e contrattazione tra imprese e

lavoratori sul mercato del lavoro e supponiamo, per quanto riguarda il mercato dei beni, che la

curva di domanda per ogni impresa sia:

Qppdy ii )/(=

dove pi indica il prezzo praticato da ogni impresa, p è livello generale dei prezzi, e Q la domanda

aggregata. Queste ultime sono esogene per le singole imprese. La funzione di produzione è una

Cobb-Douglass:

αλ )/( iii KLY =

dove λ rappresenta il progresso tecnico incorporato nel lavoro, L è il lavoro, Y la produzione e K il

capitale. La nota condizione di primo ordine per la massimizzazione del profitto è data da:

iii YLwep //)/11( =−

Hicks e che ha rappresentato l’ortodossia nella teoria economica negli anni ’50 e ’60.

5

dove e indica l’elasticità della produzione rispetto alla domanda, e quindi il grado di monopolio di

quell’impresa sul proprio mercato. Nel mercato del lavoro ogni sindacato j massimizza il salario

nominale. In aggregato assumiamo che imprese e sindacati massimizzino la media ponderata tra

l’utilità dei sindacati (Uj) ed i profitti delle imprese (πi):

Max(Uj – Z)g πi,

dove Z è il livello minimo di utilità dei membri del sindacato e i profitti minimi delle imprese sono

pari a zero. Il parametro g riflette il potere del sindacato nella contrattazione. Il processo di

contrattazione è influenzato dalla possibilità di ottenere un altro lavoro (v(u))2, pagato al salario

aggregato w, sul mercato e da quella di diventare disoccupato ottenendo un sussidio (b). Attraverso

successive manipolazioni si ottiene la seguente equazione che rappresenta il tasso naturale di

disoccupazione, cioè il livello di disoccupazione al quale il salario reale determinato dal wage

setting è uguale al salario reale determinato nel mercato del lavoro:

[ ] LYgbuveKLf //)1()1)((1)/11()/(' =−+−+− ααλλ

Il tasso di disoccupazione di equilibrio dipende positivamente dai sussidi, dal potere dei

sindacati, dal potere di monopolio delle imprese sul mercato dei beni e dalla proporzione tra i fattori

produttivi, ma non dalla tassazione e dalla domanda aggregata. Graficamente, possiamo

rappresentare la curva di offerta di lavoro (LS) e quella di domanda di lavoro (LD) che discendono

2 La probabilità di trovare un nuovo lavoro dipende negativamente dal livello della disoccupazione (u).

PS

WS

MC PC

LS

LD

W/P

L LC LM

6

dalla massimizzazione di individui ed imprese in mercati perfettamente concorrenziali ed il punto di

intersezione tra esse (PC), cui corrisponde la piena occupazione pari a LC. Accanto a queste,

spostate entrambe verso sinistra, possiamo rappresentare le curve price setting (PS) e wage setting

(WS). L’intersezione tra PS e WS indica l’equilibrio in concorrenza monopolistica (MC), cui

corrisponde l’occupazione pari a LM. La differenza tra LM ed LC rappresenta la disoccupazione

involontaria presente nell’economia3.

Il modello di concorrenza imperfetta della scuola europea (Layard et al., 1991) da una parte

costituisce un caso particolare di quello analizzato precedentemente, dall’altro consente di

affrontare il tema del conflitto distributivo tra profitti, salari ed introiti fiscali tra imprese, lavoratori

e Stato sul prodotto per lavoratore. L’apparato analitico di questo approccio si basa sulla curve del

salario reale determinato dal prezzo (PRW) e del salario reale contrattato (BRW). La prima è

orizzontale: in concorrenza imperfetta al crescere dell’occupazione il salario reale determinato sul

mercato dei beni è costante, mentre la BRW è crescente, perché al crescere dell’occupazione il

potere contrattuale del sindacato nei confronti delle imprese aumenta. L’intersezione di queste

curve determina il livello di occupazione di equilibrio (EN), e la differenza tra la forza lavoro

disponibile (LF) ed il suddetto livello di occupazione rappresenta la disoccupazione di equilibrio.

Al tasso di disoccupazione di equilibrio le richieste sul prodotto pro-capite sono compatibili,

quando è inferiore, queste sono incompatibili e l’inflazione aumenta. Per questo motivo in questo

modello il suddetto tasso viene chiamato NAIRU (non-accelerating inflation rate of

unemployment). Infatti i lavoratori sono nelle condizioni di chiedere aumenti salariali superiori

all’inflazione attesa, imponendo alle imprese di aumentare i propri prezzi più dell’inflazione attesa

3 La concorrenza monopolistica riduce inequivocabilmente la quantità di lavoro occupata, ma non permette di dire nulla sul salario reale, che può essere minore o maggiore (come nella figura) rispetto a quello ottenuto in regime di perfetta concorrenza.

LF EN

PRW

BRW W/P

L

7

per salvaguardare i margini di profitto e determinando così una inflazione crescente4. Il NAIRU non

coincide con la piena occupazione delle risorse, vi è quindi disoccupazione involontaria e può

essere ridotto con alcuni strumenti di politica economica che discuteremo nel par 5.

3. Aggiustamento nominale incompleto

In questo paragrafo vengono analizzate le ragioni di carattere nominale che portano

all’aggiustamento nominale incompleto in seguito ad uno shock monetario: menu costs, asincronia

contrattuale e rigidità reali. Questi fattori non possono singolarmente presi essere visti come la

causa delle fluttuazioni, ma tendono a rafforzarsi a vicenda, ed in particolare ha un ruolo

amplificativo la concorrenza imperfetta sui mercati dei beni e del lavoro.

3.1 Rigidità nominale

Per rigidità nominale si intende l’inerzia al cambiamento delle variabili nominali di

un’economia. La principale ragione che la Nuova Macroeconomia Keynesiana fornisce per questa

inerzia risiede nei menu costs, cioè il costo sopportato per cambiare il prezzo nominale di un bene.

Sebbene dal nome si è portati ad interpretarli come i costi derivanti dal cambiamento fisico dei

listini dei prezzi, è opportuno estenderli al costo-opportunità del tempo e delle risorse impiegate

nella ricerca ed elaborazione delle informazioni concernenti la domanda aggregata, il

comportamento dei concorrenti ed altri fattori che determinano i costi di produzione. Nel modello di

Mankiw (1985) per una impresa monopolistica che fissa i prezzi per il periodo successivo, in

conseguenza di una riduzione inattesa della domanda aggregata, il prezzo praticato (po) è superiore

a quello che massimizza i profitti (pm), e quindi i profitti dell’impresa saranno più bassi di un valore

pari all’area B – A, che è una grandezza positiva per definizione di pm. Il surplus totale è invece

ridotto di B + C, quindi la riduzione di benessere dovuta ad una contrazione della domanda

aggregata è maggiore della riduzione dei profitti dell’impresa. Supponiamo che l’impresa possa

cambiare i prezzi ex-post incorrendo in un costo fisso pari a z, in questo modo riduce il prezzo da po

a pm ed ottiene profitti addizionali pari a B – A. Questa decisione verrà adotta solo se B – A > z,

mentre dal punto di vista di un pianificatore sociale il cambiamento del prezzo deve avvenire

fintanto che B + C > z. Poiché nella seconda relazione il termine di sinistra è più grande di quello

della prima relazione, il pianificatore ha un incentivo a cambiare il prezzo maggiore di quello

dell’impresa, a parità di costo fisso z. La rigidità dei prezzi verso il basso deriva dal beneficio

esterno B + C originato dallo stampare nuovi menu. La misura di questa esternalità è data dal

4 Anche se il tasso di disoccupazione è superiore a quello di equilibrio si determina una situazione di incompatibilità tra le richieste delle imprese e quelle dei sindacati, ma l’inflazione sarà decrescente.

8

rapporto tra il beneficio sociale derivante dall’aggiustamento dei prezzi (C + B) ed il beneficio

privato B – A. Poiché l’impresa aggiusta il prezzo fino al livello che massimizza il profitto, pm,

piuttosto che al livello di first-best concorrenziale k, l’incremento dei profitti è di secondo ordine

mentre l’incremento di benessere è di primo ordine5, 6.

3.2 Asincronia nei contratti

Consideriamo un’impresa in regime di concorrenza monopolistica che fronteggia una

domanda data da:

=−

PM

PP

y ii

θ

,

dove P è il livello generale dei prezzi (esogeno per ogni impresa), Pi il prezzo di ogni impresa e la

domanda aggregata è rappresentata dalla moneta reale. L’impresa massimizza i propri profitti reali e

prendendo i logaritmi si ottiene:

cpmappi +−+= )(

5 Ad esempio, a seguito di una contrazione della domanda aggregata dell’1%, se l’elasticità della domanda rispetto al prezzo è uguale a 10, il suddetto rapporto è pari a 23. 6 Nel modello di Akelorf e Yellen (1985) la spiegazione della rigidità nominale è leggermente diversa: essa non è dovuta al fatto che sia costoso modificare i prezzi, ma che i guadagni derivanti da questo cambiamento siano talmente piccoli tali da rendere quasi-razionale la scelta di non modificarli.

pm

qm qo q

po

B

C A

k

p

9

dove c è una costante arbitraria e le lettere minuscole indicano i logaritmi delle variabili introdotte

precedentemente. Supponiamo che l’economia sia formata da due gruppi di imprese che fissano il

loro prezzo per due periodi, per l’esistenza di contratti. I due gruppi sono uguali per tutti gli aspetti

tranne che per il fatto che uno fissa i prezzi nei periodi pari e l’altro in quelli dispari (staggering).

La circostanza che in questa economia vi sia concorrenza imperfetta è rappresentata dalla prima

equazione precedente, in cui la domanda dipende dai prezzi relativi e dalla domanda aggregata.

Indicando con p1 e p2 i logaritmi del livello dei prezzi di ogni gruppo, la moneta reale è data da m –

(p1 + p2)/2. Se ogni gruppo potesse modificare il proprio prezzo in ogni periodo, i prezzi del primo

gruppo sarebbero dati da:

[ ] ( ){ }2/2 2121 ttttt ppmEapp +−+= .

Se la domanda aggregata non fosse importante (a = 0), un gruppo seguirebbe l’altro nel cambiare i

prezzi: ad esempio, se mt e p2t raddoppiassero, anche p1t farebbe lo stesso7. Supponiamo che mt = 0

fino al tempo T, e che vi sia uno shock per cui mT+ i = 1, per ogni i > 0. L’aumento della moneta al

tempo T non è atteso, ma una volta avvenuto gli agenti si aspettano che continui nel tempo.

L’influenza dell’incremento della moneta sulla produzione è persistente. Si ha, così, un effetto

keynesiano anche se per ragioni completamente diverse. In questo modello, infatti, le aspettative

sono razionali e le imprese di un gruppo non possono cambiare i propri prezzi perché quelli

dell’altro gruppo sono fissi nel periodo, per ipotesi. Le imprese cambiano il prezzo in maniera

graduale portandolo ad un livello non ottimale, e questo determina un effetto di trascinamento dello

shock dell’offerta di moneta sul livello di produzione. Se vi fosse aggiustamento completo uno dei

due gruppi si troverebbe fuori mercato, lasciando l’intera domanda all’altro8.

3.3 Rigidità reale

Secondo Ball e Romer (1990) le rigidità nominali non sono in grado di spiegare

l’aggiustamento nominale incompleto se non per valori non realistici dei parametri del modello, ad

esempio un’offerta di lavoro fortemente elastica. Allo stesso modo le rigidità reali, cioè la scarsa

risposta del salario reale e dei prezzi reali a modificarsi a seguito di cambiamenti dell’attività

economica, possono spiegare solo in piccola parte il precedente fenomeno. Se, invece, questi due

fattori vengono combinati si può ottenere una plausibile spiegazione dell’aggiustamento nominale

7 Chiaramente, per la determinazione di p2t esiste un’equazione simile. 8 Si noti che se non vi fosse concorrenza imperfetta (b = 0), si verificherebbe che yT+i = 0 per i > 0. Ovvero, la produzione aumenterebbe solo per un periodo, un tempo inferiore alla durata del contratto.

10

incompleto. La ragione è la seguente: la rigidità dei prezzi dopo uno shock nominale è un equilibrio

di Nash se per una impresa il guadagno derivante dalla variazione del suo prezzo nominale è minore

del costo sostenuto per modificare il prezzo stesso, posto che le altre imprese non modifichino i

propri prezzi nominali. Se le altre imprese non modificano i loro prezzi, il cambiamento del prezzo

nominale da parte di un’impresa rappresenta un cambiamento del prezzo reale da essa praticato.

Inoltre, se gli altri prezzi non cambiano, uno shock nominale modifica la domanda aggregata reale.

La rigidità nominale è quindi un equilibrio se il guadagno di un’impresa derivante dal modificare il

proprio prezzo reale in risposta ad un cambiamento della domanda aggregata reale è minore del

costo sopportato per modificare il prezzo. Se l’impresa desidera modificare in maniera limitata il

proprio prezzo reale, ovvero vi è un grado elevato di rigidità reale, allora il guadagno per l’impresa

derivante da questo cambiamento è limitato. Poiché la rigidità reale riduce il guadagno ottenuto

grazie all’aggiustamento del prezzo, essa aumenta l’ampiezza degli shock nominali per i quali non

modificare i prezzi rappresenta un equilibrio.

In generale l’analisi della Nuova Macroeconomia Keynesiana prescinde dalle singole fonti di

rigidità reale avendo come oggetto più i loro effetti che la loro origine. Queste possono essere

comunque identificate nel mercato del lavoro, del credito e dei beni, riconducendo così le analisi

microeconomiche di quei mercati ad una più complessiva analisi macroeconomica. Sul mercato del

lavoro la teoria dei salari di efficienza ha mostrato che le imprese possono essere indotte a pagare ai

lavoratori un salario superiore alla loro produttività marginale per scoraggiare il loro

comportamento opportunistico (Shapiro e Stiglitz, 1984) o per ridurre i costi di rotazione derivante

dal turn-over volontario dei lavoratori (Salop, 1979). In questo modo viene trovata una

giustificazione microeconomica all’esistenza di disoccupazione involontaria.

Sul mercato del credito, a partire dal contributo di Stiglitz e Weiss (1981), una vasta

letteratura ha analizzato i vincoli che impediscono a chiunque ne faccia richiesta di prendere a

prestito al tasso di interesse prevalente. Esistono forti asimmetrie informative tra chi presta e chi

ottiene denaro sulla qualità del progetto, sullo sforzo impegnato, sui guadagni ottenuti: per questo le

banche tendono a cautelarsi facendo credito solo a chi ha solide garanzie reali (razionamento del

credito). Gli effetti macroeconomici di questi problemi a livello micro del mercato del credito

riguardano principalmente la riduzione della domanda aggregata ed una minore velocità nel

meccanismo di trasmissione della politica monetaria.

La rigidità sul mercato dei beni non va confusa con la concorrenza imperfetta sul mercato dei

beni, in quanto riguarda il comportamento contro-ciclico del mark-up. Tra le possibili spiegazioni di

questo fenomeno possiamo citarne due: la possibilità che un elevato livello dell’attività economica

riduca l’importanza dei costi di acquisizione e disseminazione delle informazioni (thick-market

11

effect); la possibilità che un elevato livello dell’attività economica incrementa i profitti e rende più

difficile il loro comportamento collusivo, riducendo il mark-up.

In conclusione, è utile citare l’interpretazione che Blanchard e Kiyotaki (1987) forniscono

della rigidità nominale attraverso il concetto di esternalità, che la teoria economica utilizza

comunemente per spiegare i fallimenti del mercato. Come nel caso in cui vi siano esternalità il costo

(beneficio) individuale è diverso da quello collettivo per cui vi è un’offerta non ottimale di un certo

bene, la rigidità nominale provoca una discrasia tra il costo limitato che l’impresa deve sopportare

per modificare il proprio prezzo, e l’elevato costo collettivo derivante da una recessione. In questo

modo un ormai classico strumento dell’analisi economica delle imperfezioni del mercato viene

utilizzato in macroeconomia, attraverso la nozione di “esternalità della domanda aggregata”. Come

nell’esempio precedente, supponiamo che la domanda per il prodotto dell’impresa i dipenda dal

prezzo relativo praticato dall’impresa e dalla moneta reale:

∈−

=

PP

PMY iD

i .

Se M diminuisce e l’impresa i non modifica il prezzo, la natura di costo di secondo ordine del

mancato aggiustamento lascia immodificato il prezzo relativo. La riduzione della moneta nominale

e la rigidità di P comportano una riduzione di primo ordine della moneta reale, con la conseguenza

di ridurre la domanda aggregata e quindi la domanda per ogni impresa. Ognuna di queste considera

trascurabile il costo dell’aggiustamento, ma così facendo determina una riduzione della domanda

aggregata con effetti negativi per tutte le imprese. L’esternalità della domanda aggregata deriva dal

fatto che ogni impresa è solo una piccola parte dell’economia ed ignora i benefici macroeconomici

delle proprie azioni.

4. Fallimenti del coordinamento

Una diversa via di ricerca all’interno della Nuova Macroeconomia Keynesiana, è

rappresentata dai coordination failures. L’esempio più rilevante è dato dal modello di Cooper e

John (1988). In esso vi sono diversi equilibri tra loro Pareto-ordinabili, e le fluttuazioni economiche

avvengono come movimenti dell’economia tra questi diversi equilibri. Ogni agente sceglie un certo

livello di produzione, prendendo quello degli altri come un dato. Gli agenti sono identici, la

funzione di utilità di ognuno è Ui = V(yi,y), dove yi indica la scelta dell’agente i-esimo, y

rappresenta la scelta di tutti gli altri, e y*i(y) è la corrispondente funzione di reazione individuale.

12

Nel grafico sottostante questa funzione interseca la retta inclinata a 45°, che rappresenta i punti in

cui valori attesi e realizzati coincidono, in tre punti diversi, che corrispondono a tre diversi equilibri.

Il punto A è instabile: se gli agenti si aspettano che il livello della produzione sia leggermente

superiore a quello ad esso corrispondente, ognuno di loro produrrà più di quanto ognuno aspetti che

l’altro produca, e l’economia tende a spostarsi lontano da esso. Gli equilibri B e C, invece, sono

stabili. In presenza di equilibri multipli non sono solo i fondamentali dell’economia a determinarne

i risultati finali: se gli agenti si aspettano che l’equilibrio dell’economia sia C, essa raggiungerà

quell’equilibrio; se invece l’equilibrio atteso è B, questo sarà il punto di arrivo dell’economia. In

questo modo, animal spirits, “profezie che si autorealizzano” e sunspots9 hanno effetti sul livello di

produzione aggregata.

In questi modelli di fallimento del coordinamento l’economia può trovarsi bloccata in un

equilibrio di sotto-occupazione, come C, perché tutti pensano che quello debba essere il suo punto

di arrivo, e non vi sono forze naturali di mercato in grado di portarla ad un equilibrio Pareto-

superiore. In questo modo è possibile per il governo attuare politiche di intervento che modifichino

le aspettative degli agenti riportando il sistema ad un equilibrio di piena occupazione (ad esempio,

spostando l’economia da C a B).

Questa letteratura riveste una posizione piuttosto originale nell’ambito dei modelli della

Nuova Macroeconomia Keynesiana. Essa infatti si distanzia dal filone delle rigidità nominali e reali

in primo luogo perché assume esplicitamente di non essere una teoria che si basa sull’equilibrio

economico generale walrasiano; in secondo luogo perché porta al centro della sua analisi il ruolo

delle aspettative che nei modelli di inerzia non vengono considerati. Non deve, però, essere vista in

y*i(y) y* B

A

C

y 45°

contrapposizione co

e di interrelazione

incompleto. Un asp

aspettative e dei l

spiegazione di fenom

5. Implicazioni di p

Una delle prin

non hanno univoch

stimolo della doman

due diverse ispirazi

agnostica, favorevol

una politica interven

con cui le variabili

l’economia in una s

una politica della d

risposta ad una rid

benessere, dall’altra

maggiore produzion

riducendo le fluttua

Romer (1989) hanno

quindi in questo cas

può essere utilizza

stabilizzazione delle

della domanda hann

Keynesiana.

Di fatto una e

essere una politica d

concorrenza sul me

prescrizioni di politi

I Nuovi Keyn

rendere compatibili

al NAIRU, cioè spo

9 Si hanno sunspot equi

13

n la teoria esposta precedentemente perché enfatizza quegli aspetti di esternalità

tra i soggetti che fanno già parte delle teorie dell’aggiustamento nominale

etto che sembra importante è la possibilità di utilizzare i temi del ruolo delle

oro effetti, nati principalmente nella teoria dei mercati finanziari, per la

eni macroeconomici.

olitica economica

cipali differenze tra Keynesiani e Nuovi Keynesiani è quella che questi ultimi

e implicazioni di politica economica, come quella riguardante le politiche di

da aggregata, tipica del keynesismo. Anche in questo caso è possibile rinvenire

oni, una Statunitense ed una Europea. In generale la prima ha una posizione

e per alcuni economisti, contraria per altri. Le ragioni che militano a favore di

tista sono state evidenziate nei paragrafi precedenti, e risiedono nella lentezza

economiche si adeguano alla mutata situazione della domanda, bloccando

ituazione di ridotto benessere collettivo. La principale ragione che milita contro

omanda aggregata è che da una parte il mancato aggiustamento dei prezzi in

uzione della domanda provoca una forte riduzione della produzione e del

il mancato aggiustamento in risposta ad un aumento della domanda porta a

e e maggiore benessere. Da qui, la desiderabilità di una politica attiva che

zioni reali riduca anche quelle del benessere medio è dubbia. Inoltre Ball e

mostrato che gli effetti di primo ordine delle fluttuazioni hanno media zero, e

o l’argomentazione “effetti del primo ordine vs. effetti del secondo ordine” non

ta. Infine, l’argomentazione contro le politiche attive del governo per la

fluttuazioni, basate sui lag lunghi e variabili con cui le politiche di espansione

o effetto, rimangono valide anche nel contesto della Nuova Macroeconomia

fficace politica economica secondo i Nuovi Keynesiani statunitensi dovrebbe

ell’offerta volta a ridurre le rigidità presenti nell’economia: promozione della

rcato dei beni e riduzione del ruolo del sindacato. E’ evidente come queste

ca economica facciano il paio con quelle della Nuova Macroeconomia Classica.

esiani europei, invece, attribuiscono alla politica economica la possibilità di

le richieste delle imprese e dei lavoratori ad un tasso di disoccupazione inferiore

stando verso il basso la curva BRW e/o verso l’alto la curva PRW. Dal lato

libria quando alcune variabili che non hanno effetti diretti sull’economia finiscono con l’averne

14

dell’offerta si può intervenire in due modi: riducendo l’imposizione fiscale, cioè la quota di

prodotto per lavoratore che va allo stato e aumentando la spesa per la formazione professionale. Nel

primo caso le richieste del settore privato (lavoratori ed imprese) sul prodotto pro-capite possono

essere compatibili ad un più elevato livello di occupazione, in quanto si riducono le richieste dello

stato. Con la spesa in formazione professionale ci si può attendere una diminuzione della

disoccupazione di equilibrio per due ragioni: in primo luogo, la maggiore formazione aumenta la

produttività e sposta la curva PRW verso l’alto; in secondo luogo, aumenta l’offerta di lavoro

effettiva, aumenta il numero di persone in cerca di occupazione, riduce il potere contrattuale della

forza lavoro e quindi sposta la curva BRW verso il basso.

Un ulteriore modo per spostare verso il basso la curva BRW è quello che il governo concordi

con i sindacati una politica dei redditi che spinga il sindacato a non utilizzare al massimo il suo

potere contrattuale (quindi a spostare verso l’alto la curva BRW). Nel far questo il governo può

concedere in contropartita al sindacato un ruolo maggiore nelle decisioni di politica economica ed

impegnarsi esso stesso perché sia attraverso la politica fiscale, sia attraverso le decisioni tariffarie di

sua competenza, la rinuncia all’uso del massimo potere di contrattazione determini esiti socialmente

compatibili sul prodotto pro-capite.

6. Confronto con Keynes ed i post-keynesiani

I modelli presentati in precedenza presentano significative differenze con l’apparato teorico di

Keynes e dei suoi successivi interpreti. In particolare riteniamo utile evidenziare le differenze legate

al ruolo delle aspettative, della moneta, della disoccupazione e della teoria dell’impresa.

Il ruolo della domanda di moneta è uno altro luogo discriminante fra le due teorie. La teoria

keynesiana ha uno dei suoi principali capisaldi nella funzione di domanda di moneta, costituita da

tre componenti, transattiva, precauzionale e speculativa. La natura estremamente variabile di

quest’ultima componente impedisce al tasso di interesse di uguagliare investimenti e risparmi,

determinando una continua insufficienza degli investimenti rispetto a quelli necessari per ottenere la

massima occupazione. Per i Nuovi Keynesiani tutta questa costruzione sparisce e la mancata

uguaglianza tra investimenti e depositi risiede nel razionamento del credito, un fenomeno non

legato alle aspettative degli individui ma all’asimmetria informativa tra banche e mutuatari.

Uno dei modelli che rende più chiara la differenza tra Keynes e la Nuova Macroeconomia

Keynesiana è quello dei contratti asincroni presentato nel par 3.2. La persistenza degli effetti degli

shock nel modello keynesiano è data dalle aspettative adattive, cioè dal mutare lentamente le

proprie aspettative in base ai dati del passato, mentre in quel modello le aspettative sono razionali

perché gli agenti si convincono che sia così, contro le relazioni causali del sistema.

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per cui gli agenti sanno che lo shock è permanente e quindi mutano correttamente le loro

aspettative, ma sono vincolati dalla struttura contrattuale a non poter modificare nel modo corretto i

prezzi.

Un’altra rilevante differenza è quella riguardante la spiegazione della disoccupazione: per

Keynes essa deriva dall’insufficiente livello degli investimenti, un problema che tocca in maniera

endemica il capitalismo, per i Nuovi Keynesiani la sua causa è principalmente nella concorrenza

imperfetta sul mercato del lavoro e quindi è frutto dell’esistenza di forti sindacati. In questo caso la

nuova modellistica non sembra in grado di rendere giustizia a Keynes, pur ottenendo esiti simili. In

generale l’opera di Keynes è dedicata a dimostrare la continua instabilità ed incapacità di

autoregolarsi del capitalismo. Gli squilibri nei modelli della Nuova Macroeconomia Keynesiana,

invece, sono frutto di eventi esterni che hanno effetti su di una struttura che di per se tenderebbe a

comportarsi in maniera ottimale.

La parte della Nuova Macroeconomia Keynesiana che presenta la maggiore vicinanza con il

pensiero keynesiano è quella dei coordination failure. In essi, come abbiamo visto, giocano un

ruolo centrale le aspettative degli agenti. Nel modello keynesiano, l’incremento degli investimenti

dovuto all’espansione dell’offerta di moneta genera un aumento dei prezzi e quindi profitti

straordinari. A loro volta questi aumentano la fiducia degli imprenditori, inducendoli ad aumentare

la produzione. L’enfasi keynesiana sulle aspettative è inoltre rintracciabile nella nozione di

efficienza marginale del capitale che determina le decisioni di investimento. Questo concetto, lungi

dall’essere assimilabile a quello di produttività marginale del capitale, fa dipendere i rendimenti

degli investimenti, e quindi il loro livello, sulla base di variabili psicologiche fortemente instabili.

Il rapporto tra Nuova Macroeconomia Keynesiana ed economia post-keynesiana, è piuttosto

complesso. Da una parte, entrambe sono teorie di equilibrio non-walrasiano, cioè una situazione in

cui parte delle risorse non viene utilizzata e non vi sono stimoli che inducano gli agenti a modificare

le proprie decisioni. Dall’altra, diverse ipotesi dei rispettivi modelli sono in conflitto. Uno di questi

campi è quello della teoria dell’impresa. Sebbene all’interno della Nuova Macroeconomia

Keynesiana non vi sia una visione esplicita di questa teoria, sono evidenti le differenze con le teorie

post-keynesiane dell’impresa. Il grafico successivo mostra come, a livello di singola impresa, la

differenza di primo ordine nel prezzo praticato rispetto a quello ottimale (p° invece di p*) implichi

una riduzione di secondo ordine rispetto al profitto ottimale (π° invece di π*). E’ importante notare

come questa rappresentazione della funzione di profitto sia basata sul suo essere una funzione

continua e liscia e che quindi ammetta un unico punto di massimo dove la derivata prima è nulla e

derivata seconda è negativa. L’approccio microeconomico all’impresa, quindi, è tutto svolto

all’interno del paradigma neoclassico. Una volta che una di queste ipotesi venisse messa in

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discussione, tutta la costruzione ne risulterebbe compromessa. Nelle teorie post-keynesiane

dell’impresa, viene abbandonato il principio marginalistico dell’uguaglianza tra costi e ricavi

marginali perché le imprese non conoscono con precisione la loro curva di domanda, cosa che non

accade nei modelli della Nuova Macroeconomia Keynesiana. L’impresa “post-keynesiana” fissa il

prezzo sulla base di qualche principio e vende a quel prezzo qualunque quantità il mercato sia in

grado di assorbire (normal pricing). I prezzi tendono quindi ad essere stabili come nei modelli

precedentemente analizzati, ma per motivi sostanzialmente diversi.

Il problema delle fondazioni microeconomiche della macroeconomia, al quale i Nuovi

Keynesiani cercano di dare una risposta, era già stato affrontato all’interno delle reinterpretazioni di

Keynes da Clower e Leijonhufvud. Clower (1965) abbandona l’idea che gli scambi avvengano in

equilibrio, cioè che la domanda “desiderata” coincida con quella effettiva. Se i prezzi non sono

market clearing, gli individui non sono in grado di vendere o comprare le quantità programmate,

per cui le domande effettive risultano vincolate dai redditi monetari effettivamente realizzati. Se

questi ultimi non sono in grado di consentire l’acquisto delle quantità desiderate, i piani di spesa

devono essere rivisti, realizzando così un meccanismo decisionale duale. Inoltre, poiché le

transazioni avvengono in moneta, esiste una separazione tra le merci da domandare e quelle da

offrire. In questo modo le decisioni degli individui sono sottoposte a due vincoli: uno rappresenta

un vincolo di spesa e richiede che gli acquisti siano sostenuti da disponibilità monetarie. Il secondo

è un vincolo di reddito che impone che l’accumulo di scorte liquide sia limitato dalla capacità di

realizzare un reddito mediante la vendita di beni e servizi. Se questi vincoli non sono

contemporaneamente soddisfatti, le imprese non potranno vendere tutte le merci prodotte. In questo

modo, un iniziale eccesso di domanda può trasmettersi all’intera economia secondo un meccanismo

moltiplicativo simile a quello keynesiano.

π° π*

π

p* p° p

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Leijonhufvud (1968) esclude la presenza del banditore dal modello, e quindi il tempo

richiesto per completare le transazioni crea la possibilità che si verifichino scambi in disequilibrio.

L’incertezza sul futuro comporta la necessità di guardare al passato per formare le aspettative, e

questo implica che salari monetari, livello dei prezzi, livello degli investimenti siano parzialmente

rigidi. Tale rigidità fa sì che le transazioni avvengano a prezzi sbagliati e che vi sia disoccupazione

duratura. I modelli fix-price non sono stati in grado di fondare la macroeconomia keynesiana su

fondamenti microeconomici rigorosi principalmente perché incapaci di tradurre in uno schema

analitico le dinamiche del salario, dei prezzi e del tasso di interesse, inoltre il processo di

formazione delle aspettative impiegato da Keynes richiedeva un esame più rigoroso. Infine,

resisteva il forte limite derivante dall’inconciliabilità di questi risultati con l’assunzione di agenti

razionali. Come evidenziato in precedenza, la microfondazione della Nuova Macroeconomia

Keynesiana, invece avviene tutta interna al paradigma neoclassico senza il ricorso a squilibri.

7. Confronto con Friedman, Nuova Macroeconomia Classica e Real Business Cycles

In questo paragrafo intendiamo mettere in evidenza le similitudini e le differenze tra

l’approccio della Nuova Macroeconomia Keynesiana e le sue controparti market clearing. Il tasso

di disoccupazione di equilibrio del modello di Friedman (tasso naturale di disoccupazione, NRU) ed

il NAIRU presentano similitudini e differenze. In corrispondenza di entrambi l’inflazione è

constante, per cui postulano l’esistenza di una curva di Phillips di lungo periodo verticale. Tuttavia,

il tasso naturale di disoccupazione di Friedman è un tasso market clearing, al quale vi è equilibrio

tra la domanda e l’offerta di tutti i mercati, gli agenti sono atomistici e perfettamente informati. Il

NAIRU, invece, è il tasso che rende compatibili le richieste sul prodotto per lavoratore. La nozione

di potere di mercato ed il ruolo della disoccupazione come strumento di disciplina delle

rivendicazioni salariali sono fondamentali per il concetto di disoccupazione di equilibrio10.

L’attacco portato all’edificio keynesiano da Lucas si fondava sul problema

dell’ottimizzazione individuale e sul problema della formazione delle aspettative. Tipicamente nel

modello keynesiano gli agenti formano le loro previsioni sul valore delle variabili nel futuro,

estrapolandole dai dati del passato (aspettative adattive). Questo modo di formare le preferenze è

stato criticato dalla Nuova Macroeconomia Classica come irrazionale, in quanto non permette al

soggetto di utilizzare tutta l’informazione disponibile ad un dato momento. Come è noto, le

aspettative razionali annullano completamente effetti delle manovre di politica economica, perché

ogni manovra sistematica è internalizzata dagli agenti economici, perché compresa dal modello che

essi adoperano per interpretare la realtà. Essi, quindi, pongono in essere azioni individuali che

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controbilanciano queste politiche. Solo azioni di politica economica inattese sulla domanda

nominale hanno degli effetti nel breve termine. I Nuovi Keynesiani fanno propria questa critica ed

assumono nei propri modelli le aspettative razionali sostituendole a quelle adattive.

La principale differenza tra i Nuovi Keynesiani ed i Nuovi Classici, dalla quale scaturiscono

quelle relative alla politica economica, riguarda l’interpretazione della rigidità dei prezzi. Infatti,

sebbene secondo entrambi la dimensione dell’effetto di uno shock reale dipende negativamente

dalla variazione della domanda aggregata, il meccanismo di trasmissione è diverso. Nel modello di

Lucas (1972) l’aggiustamento nominale incompleto è causato dall’informazione imperfetta che ogni

produttore ha riguardo alla natura del cambiamento del proprio prezzo relativo, se questo dipenda

da un aumento della domanda per il proprio bene o da un incremento del livello generale dei prezzi.

In risposta ad un aumento del prezzo del prodotto, la scelta razionale del produttore è quella di

attribuire ad ognuna di queste possibilità una certa probabilità e di quindi incrementare la

produzione di una certa misura, con la conseguenza che la curva di offerta aggregata diventa più

inclinata. Il modello implica che alti valori inattesi della domanda aggregata portano ad una

produzione più elevata ed a prezzi più alti di quanto atteso. In questo senso, quindi, esiste una curva

di Phillips anche in questo modello. Tuttavia, se i policy makers decidono di aumentare l’offerta di

moneta e questa decisione non è nota al pubblico, esiste un lasso di tempo in cui la crescita di

moneta è positiva e la produzione è superiore al normale. Una volta che gli agenti si rendono conto

del cambiamento, la crescita della moneta ha di nuovo media zero e quindi la produzione reale

media non subisce modifiche. Se l’aumento della crescita di moneta è invece noto, l’aspettativa su

di essa aumenta immediatamente e non vi è la fase di produzione più elevata. Un cambiamento

della politica economica può modificare il comportamento delle variabili aggregate agendo sulle

aspettative degli agenti: è questa la “critica di Lucas” all’uso di relazioni tra le variabili aggregate

per fini di politica economica.

La critica dei Nuovi Keynesiani a questo approccio è duplice. Da una parte è difficile non

attribuire un aumento del prezzo relativo di un bene ad un’accresciuta domanda piuttosto che ad un

aumento del livello dei prezzi, perché le informazioni su quest’ultimo indicatore sono

frequentemente aggiornate, hanno un’ampia diffusione sui mezzi di informazione così come le

decisioni delle Banche Centrali che riguardano i tassi di interesse. D’altra parte, per ottenere

sostanziali variazioni dell’occupazione, il modello di Lucas richiede un’elasticità dell’offerta di

lavoro molto più elevata di quella che viene correntemente osservata.

Una delle conseguenze della controrivoluzione classica in economia è stata quella di negare

l’esistenza di disoccupazione involontaria, ed uno dei campi in cui la differenza è stata più marcata

10 Questa visione della disoccupazione recupera quella di Marx di disoccupazione come “esercito di riserva del

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con la modellistica keynesiana è stato quello sulla natura delle fluttuazioni economiche. Basandosi

sulla teoria dell’equilibrio economico generale walrasiano, negli anni ’70 si è sviluppata una

corrente interpretativa dei cicli economici, quella dei cosiddetti Real Business Cycles che, come

altre teorie di impianto neoclassico, non dà nessun ruolo al lato monetario dell’economia nello

spiegare le fluttuazioni. Questa teoria assume che i cicli economici siano causati da movimenti

casuali del tasso di cambiamento tecnologico. A questo cambiamento esogeno, gli individui

rispondono modificando i loro consumi e la loro offerta di lavoro. Quest’ultimo aspetto, in

particolare, presenta i problemi teorici più forti. Gli individui razionali sostituirebbero

intertemporalmente lavoro e riposo: quando i salari reali sono più elevati gli individui lavorano di

più, mentre quando questi sono bassi, riducono la propria offerta di lavoro. La disoccupazione è

quindi completamente volontaria in quanto massimizza il benessere sociale al variare delle

condizioni tecnologiche, ed ogni politica del governo che miri a ridurre la disoccupazione è

dannosa. Mankiw (1989) ritiene che questa teoria abbia una forte coerenza interna, mentre manchi

di quella esterna. Una teoria è internamente coerente se non necessita di eccessive ipotesi ad hoc.

Da questo punto di vista le ipotesi dei modelli di Real Business Cycles non sono diverse da quelle

comuni dei modelli di equilibrio economico generale. D’altro canto, una teoria è esternamente

coerente quando è in grado di spiegare efficacemente gli avvenimenti del mondo reale. Da questo

punto di vista i modelli di Real Business Cycles presentano una limitata evidenza empirica.

Innanzitutto, per ottenere le fluttuazioni tipiche di un ciclo economico, gli shock tecnologici esogeni

dovrebbero essere molto forti, di una dimensione generalmente sconosciuta alle moderne economie.

In secondo luogo, non c’è evidenza per l’elevata sostituibilità intertemporale del riposo che viene

sostenuta in questi modelli e più in generale non c’è evidenza per la dipendenza dell’offerta di

lavoro dal tasso di interesse reale. Infine, sembra abbastanza agevole sostenere che il livello di

benessere sociale associato a fasi di crescita sia superiore a quello associato a fasi recessive.

8. Conclusioni

Per una valutazione complessiva della Nuova Macroeconomia Keynesiana intendiamo

rispondere a tre domande: l’obiettivo di trovare una solida microfondazione all’edificio teorico

keynesiano è stato raggiunto? I risultati della teoria sono keynesiani? Esiste una relazione tra la

metodologia utilizzata da Keynes e quella dei Nuovi Keynesiani?

La risposta alla prima domanda è positiva: il modello costruito è in grado di spiegare perché

agenti razionali si possano astenere da un aggiustamento completo dei prezzi, neutralizzando gli

effetti di uno shock di domanda, senza ipotesi ad hoc.

capitalismo”.

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Anche la risposta alla seconda domanda è positiva se per risultati keynesiani si intende che i

mercati non sono naturalmente in equilibrio di piena utilizzazione delle risorse e che appropriate

politiche economiche della domanda aggregata possono portare l’economia in equilibrio.

La risposta alla terza domanda è, invece, negativa: il costo pagato dai questi economisti per

rispondere alle critiche “neoclassiche” al modello di Keynes ha comportato una forte presa di

distanza da quel modello e da quella metodologia. In questo senso la Nuova Macroeconomia

Keynesiana si unisce a quel filone di letteratura, che ha trovato la massima espressione nel modello

IS-LM, che ha interpretato Keynes cercando di espungerne gli aspetti più originali e più legati al

continuo disequilibrio dell’economia capitalistica.

A differenza di alcuni commentatori, riteniamo che la circostanza che la Nuova

Macroeconomia Keynesiana offra una serie di spiegazioni all’esistenza di fluttuazioni di breve

periodo ci sembra essere un punto di forza piuttosto che di debolezza: da una parte, infatti, si

richiamano diversi fattori per l’interpretazione di un fenomeno complesso che difficilmente può

essere ridotto ad una sola causa. Dall’altra, si compongono le diverse tessere del mosaico in

maniera coerente e tale che la capacità esplicativa di ognuna di esse risulti rafforzata dall’esistenza

delle altre.

L’approccio dell’aggiustamento nominale incompleto, ed in particolare quello dei menu costs

non è ovviamente esente da problemi, tra questi considerare quattro argomentazioni critiche

sembrano alquanto rilevanti:

♦ Per simmetria, se la rigidità nominale riduce la produzione ad un livello sub-ottimale, la stessa

rigidità porterà ad un livello sovra-ottimale in risposta ad un aumento della domanda. Quindi il

costo dell’aggiustamento nominale incompleto aumenta la varianza del livello di produzione

senza modificare la sua media, comportandosi come un effetto di secondo ordine. A questo

punto, il confronto avviene fra due costi di secondo ordine, inficiando il ragionamento costo

privato di secondo ordine/costo pubblico di primo ordine.

♦ Il modello è essenzialmente a due periodi e non considera i costi ed i benefici nei periodi

successivi: la giusta comparazione dovrebbe essere tra il costo one-shot di cambiare il prezzo,

ed il valore attuale del flusso infinito di perdite derivanti dal tenere fissi i prezzi.

♦ Non è fornita nessuna ragione per la variabilità dell’aggiustamento dei prezzi sia tra industre sia

nel tempo. In particolare non c’è nessuna spiegazione della circostanza che la velocità di

aggiustamento dei prezzi sia aumentata durante la Prima Guerra Mondiale ed invece sia

diminuita dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che rispetto ai principali paesi industrializzati il

Giappone presenti costantemente una maggiore rigidità dei prezzi.

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♦ L’aggregazione dalle variabili individuali a quelle aggregate è generalmente realizzata

rimuovendo il pedice i dalle equazioni dei singoli agenti. Quello dell’agente rappresentativo è

un modo estremamente comune e semplicistico di trattare il problema dell’aggregazione che

limita la rilevanza dei problemi di coordinamento, delle esternalità macroeconomiche e delle

relazioni produttore/consumatore, che pure vanno parte della teoria.

In conclusione, sembra opportuno notare che dopo aver avuto un ruolo centrale nel dibattito

macroeconomico negli anni ’80, attualmente si assiste alla virtuale scomparsa dei temi della Nuova

Macroeconomia Keynesiana. Questo fenomeno, secondo noi, va letto in una progressiva riduzione

dell’interesse della professione verso i temi del breve periodo ed un progressivo spostamento verso

quelli del lungo periodo, come la crescita. Diverse possono essere i motivi per questo cambiamento

di ottica. Da una parte, dapprima il dibattito sul cosiddetto productivity slowdown, poi la circostanza

che gli anni ’80 e ’90 non siano stati caratterizzati un alternarsi di recessioni e riprese, ma

rappresentino uno dei più lunghi periodi di espansione dell’economia dei paesi sviluppati. Infine il

tumultuoso sviluppo di alcuni paesi detti emergenti, ed il continuare in una situazione di povertà di

tanti altri paesi. D’altra parte, molti economisti hanno evidenziato come il dibattito tra monetaristi e

keynesiani prima e tra Nuovi Classici e Nuovi Keynesiani dopo, sia stato caratterizzato da un forte

connotato ideologico da parte dei diversi contendenti, con la conseguenza di ridurre la qualità del

dibattito scientifico. Nell’ambito della modellistica di lungo periodo, invece, si può parlare di un

vero e proprio consenso attorno al paradigma neoclassico.

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