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Pagine Ebraiche – mensile di attualità e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - Anno 8 | Redazione: Lungotevere Sanzio 9 – Roma 00153 – [email protected] – www.paginebraiche.it | Direttore responsabile: Guido Vitale Reg. Tribunale di Roma – numero 218/2009 – ISSN 2037-1543 | Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale D.L.353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n.46) Art.1 Comma 1, DCB MILANO | Distribuzione: Pieroni distribuzione - v.le Vittorio Veneto, 28 - 20124 Milano - Tel. +39 02 632461
euro 3,00
n. 1 - gennaio טבת | 2016 5776
SHABBAT BESHALLACH 23 GENNAIO 2016MILANO 16.45 18.01 | FIRENZE 16.53 17.59 | ROMA 16.54 17.59 | VENEZIA 16.44 17.51
CULTURA / ARTE / SPETTACOLO
IL SANGUE
CHE UNISCE
Al museo ebraico di Londra una esposizione corre nellevene dei destini, li mescola e li separa. E denuncia lemenzogne della propaganda e dell’odio antisemita.
a pag.
27
Hanno lasciato l’Italiaper studiare e lavorarein Francia. Hannoaffrontato i momentidifficili, le tensioni e lapaura di questi mesiterribili. Sette ragazziraccontano ora la loro
esperienza, le loro speranze, i loro progetti.Fra controlli di sicurezza, quotidianità e unavita ebraica ricca di stimoli. E, nonostantetutto, i motivi di una scelta consapevole chesi chiama Parigi. / pag. 10-11
OPINIONI
A CONFRONTO------------------------------------- DA PAG. 23 -------------------------------------
La nostra scelta si chiama Parigi
RICORDOGiulio Busi
DIRITTIDavid Bidussa
NEGAZIONISMOMarco Coslovich
SHOAHFranca Tagliacozzo
SCUOLAAnna Segre
Israele, la Diaspora, la guerra all’odio. A colloquio con Shmuel Trigano
Svegliamoci, niente sarà come prima
pag. 28-29
a pag.
6-7
DOSSIER
Toscanini, musica e libertà
Il 27 gennaio il gran ritornoTorna al Parco della musica di Roma, per il Giorno della Memoria, il mitico concerto che il grande direttore
italiano condusse nel 1936 a Tel Aviv per mettere le ali all’Orchiesta sinfonica di Israele. / pag. 15-22
Gior
gio
Albe
rtini
© K
ICHK
A
L’opinione di Sergio Della Pergola
pag. 23
Gior
gio
Albe
rtini “Dialogo, segnali positivi”
La visita di Bergoglio alla sinagoga di Roma a pag. 4
Israele, la solitudine di NetanyahuIl Primo ministro? È Bibi. Il ministro degli Esteri? Sempre lui. Quello delle Comunicazioni? Ancora lui. E il ministro dell’Economia? Si chiama Bibi.Raramente in passato si era vista una simile concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo. Lo stesso uomo controlla interessi politici crucialidel paese, che coinvolgono una vasta rete di nomine di persone prossime alla Presidenza del Consiglio e a questa legate a doppio filo.
Caso Mortara, il terremoto che cambiò l’ItaliaScrivere per la Giustizia, un nuovo saggio racconta le battaglie di Victor Séjour
/ P2 POLITICA / SOCIETÀ
www.moked.it
n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraiche
“Nella lotta al terrore rifiutiamoogni sorta di vittimismo, autocom-miserazione, autocolpevolizzazio-ne. È fondamentale restare uniti ecompatti nella difesa dei nostri va-lori. È la nostra arma più forte”.Questa la strada indicata dal pre-sidente dell’Unione delle Comu-nità Ebraiche Italiane Renzo Gat-tegna, che il ministro degli InterniAngelino Alfano ha voluto al suofianco per presentare Chi ha pauranon è libero (ed. Mondadori), il suoultimo libro dedicato alla minacciadel fondamentalismo islamico. “Ilrischio zero non esiste, dobbiamoesserne consapevoli. Per questo neimomenti di emergenza è impor-tante alzare la soglia. Al tempostesso è fondamentale andareavanti con la propria vita e con leproprie abitudini. Senza paura”, hasottolineato il presidente dell’Unio-ne nel corso dell’incontro, condot-to da Bruno Vespa e con ospiti an-che monsignor Rino Fisichella,l’imam Yahya Pallavicini e la gior-nalista Monica Maggioni. Ricor-dando il contrasto stridente tra lagioia totale e incondizionata pro-dotta dalla libertà e l’angosciosavita dei giorni e dei mesi prece-denti, Gattegna ha evidenziato unpunto di congiunzione tra l’Italiadel ‘44-45 che si affrancava dal na-zifascismo e gli ultimi fatti di san-gue. “Nella mia mente – le sue pa-role – quei fatti hanno sempre sim-boleggiato l’eterna lotta, che si ri-
“Noi, più forti di chi ci odia” Ebrei italiani, istituzioni e forze dell’ordine rilanciano assieme l’impegno per la difesa dei valori fondamentali
Grida convulse, rumori, spari,
scoppi, immagini riprese da te-
lecamere di sicurezza, inframez-
zate da fotografie e spezzoni di
telegiornali. Per ripercorrere il
2015 di una Parigi sotto attacco,
per offrire al pubblico una rico-
struzione delle giornate dagli at-
tentati contro il settimanale sa-
tirico Charlie Hebdo e il super-
mercato Hyper Cacher lo scorso
gennaio, fino ai fatti del 13 no-
vembre, History Channel propo-
ne una serata di approfondimen-
to inedita. Due documentari,
“Parigi, sette giorni di terrore”
e “Charlie Hebdo. Morte a Parigi”
in programma per il 18 dicembre
e poi ancora il 7 gennaio, anni-
versario dell’attentato alla liber-
tà di stampa che sconvolse il
mondo (ore 21, canale 407 di
Sky). Molte le nuove testimo-
nianze, tra cui quella, che non
può lasciare indifferenti, della
giovane cassiera del negozio di
alimentari casher di Vincennes,
comune alle porte di Parigi, dove
morirono quattro persone, Phi-
lippe Braham, Francois-Michel
Saada, Yohan Cohen e Yoav Hat-
tab, questi ultimi due poco più
che ventenni.
Ripresa con il volto in penombra
per preservarne l’identità, la ra-
gazza racconta quel terribile ve-
nerdì di inverno e la consueta
frenesia dello shopping per
Shabbat improvvisamente con-
gelata nella paura. “Ero al lavo-
ro, come ogni giorno. Era una
mattinata come le altre, io ero
quasi sempre in cassa e c'era
molta gente,” ricorda. All’im-
provviso, l’assordante colpo di
un kalashnikov, il panico gene-
rale. “Pensavo fosse una rapina,
così ho detto: ‘Apro il registra-
tore di cassa, prendi tutto quello
che vuoi. Posso anche aprire la
cassaforte.’ Lui ha riso e mi ha
detto: ‘Pensi davvero che sia qui
per i soldi? Non hai sentito cos'è
successo alla sede di Charlie Heb-
do con i fratelli Kouachi? Ho ri-
sposto: ‘Sì, certo.’ E lui: ‘Beh, fac-
cio parte dello stesso gruppo.
Faremo tutti la stessa fine. Io, la
poliziotta e tutti voi qui dentro.’
A quel punto ho iniziato a tre-
mare, ero terrorizzata.”
Tra le voci del documentario, an-
che quella di una signora che ri-
nunciò alla spesa all’Hyper Ca-
cher per via della fila alla cassa
che notò passando davanti alla
vetrina pochi minuti prima che
l’attacco cominciasse, e poi quel-
la di un uomo che si nascose nel-
la cella frigorifera, da cui uscì,
per cercare di fermare il terro-
rista, Yoav Hattab, freddato sen-
za pietà. “Quando sei il sindaco
di una città con una grande co-
munità ebraica, purtroppo, sai
che prima o poi succederà qual-
cosa. È questo che mi passava
“Credo che uno dei nostri primi obiettivi dovrebbe essere quello dicoinvolgere maggiormente i ragazzi di Roma e Milano nelle nostreattività. Ed essendo un romano trapiantato a Milano mi sento prontoa perseguire questa sfida”. Vent’anni, studente di Ingegneria mate-matica al Politecnico, Ariel Nacamulli ha assunto in dicembre l'incaricodi presidente dell'Unione Giovani Ebrei d'Italia per l’anno 2016. “Nonmi aspettavo di diventare presidente – spiega – ma non sono pre-occupato: sento di saper gestire l’organizzazione degli eventi e hogià collaborato in passato per iniziative simili”.“Perché credo nell’Ugei? Perché è un fatto di famiglia: i miei genitorierano parte integrante della Fgei, la Federazione Giovanile Ebraicad’Italia, ed esattamente trent’anni fa mio padre venne eletto consi-gliere. Da sempre mi hanno trasmesso l’importanza di coinvolgere igiovani. Così - racconta Ariel (nella foto al centro, insieme agli altri
membri del Consiglio) - ho volutoesplorare più a fondo questa ere-dità”.Tante idee intanto ronzano in te-sta per il futuro: “Con i consiglierivogliamo darci da fare – dice – or-ganizzare sempre più eventi e of-
frire un prodotto nuovo. Ci piacerebbe ideare nuovi incontri culturalie magari un cineforum per coinvolgere sempre più persone. Abbiamointenzione di collaborare con organizzazioni giovanili ebraiche giàpresenti sui diversi territori ma anche proseguire il dialogo interreli-gioso con i nostri coetanei”.Ad affiancare Nacamulli, il vicepresidente Filippo Tedeschi, torinesecon delega al Dialogo interreligioso; Sara Bedarida di Livorno che sioccuperà delle Piccole comunità e dei gruppi locali; il fiorentino SimoneBedarida che farà da tesoriere; Giorgio Berruto di Torino che gestiràil giornale Hatikwa, il sito e avrà la delega alla Cultura; Max Cavazzinidi Genova, responsabile dei Rapporti internazionali e coordinatoregiovani della commissione UCEI e delle comunicazioni e infine il romanoGiulio Piperno, che sarà responsabile delle attività nella Capitale.
Ugei, Nacamulli presidente RINNOVATE LE CARICHE CONSILIARI
propone anche oggi, tra due op-poste concezioni: una della qualipone alla base il rispetto della sa-cralità della vita, l’altra invece sifonda nella fanatica adorazionedella morte, la morte intesa a voltecome supplizio da applicare achiunque sia diverso o non pratichila stessa religione o non condividale stesse idee”. “La sfida è di non far vincere lapaura, di dare sicurezza ai cittadinisenza cambiare le nostre abitudinie intaccare le nostre libertà. Il ne-mico lo abbiamo studiato e lo co-nosciamo bene. Sappiamo quantosia insidioso e forte; ma i nostrivalori democratici e i nostri prin-cipi liberali lo sono ancora di più.Vinceremo noi”, ha assicurato Al-fano. “Quello del ministro è un li-bro che ci fa capire la portata dellasfida e la genesi della stessa. Dietroai fatti di Parigi ci sono infatti 15anni di sottovalutazioni, incom-
prensioni, difficoltà oggettive amuoversi in questo scenario” haaffermato Maggioni, a lungo cor-rispondente di guerra. “Condividocome musulmano l’orrore davantialla profanazione del valore fon-damentale della vita” ha dettol’imam Pallavicini. Che ha poi ag-giunto: “Il fatto che, secondo unrecente sondaggio, il 12% dei mu-sulmani d’Italia non condanniapertamente il terrorismo dimostrala necessità di un’ottica educativaaffinché costoro non diventino ter-reno fertile per chi vuole opporsialla società democratica contem-poranea”. “La bandiera nera del-l’Isis in cima all’obelisco di San Pie-tro non c’è e non ci sarà. Però nonci sarà neanche la bandiera bianca,perché arrendersi al terrorismo si-gnificherebbe ammettere la scon-fitta di una storia, che è la storiadi tutti quanti noi” ha riconosciutoFisichella.
Parigi 2015: i testimoni e la ferita aperta
POLITICA / SOCIETÀ / P3
www.moked.it
pagine ebraiche n. 1 | gennaio 2016
Una cattolica, l'altra valdese. Laprima, colpita da un invito alla so-lidarietà del cardinale Elia DallaCosta, avrebbe aperto la porta delproprio appartamento in via dellaColonna e offerto un rifugio tem-poraneo a dei perfetti sconosciuti.La seconda, membro attivo dellaResistenza partigiana, avrebbe fattosì che il successivo espatrio clan-destino in Svizzera potesse com-piersi senza troppi imprevisti. Eancor prima si sarebbe fatta in
quattro per venireincontro ai suoiamici, fornendoloro preziose indi-cazioni e rassicu-razioni. Livia Sarcoli, Ma-
ria Adelaide (Gina) Silvestri Saba-tini: ancora due nomi nel registrodei Giusti del Memoriale dello YadVashem di Gerusalemme, l'istitutoisraeliano che rende immortaleomaggio a chi mise a rischio lapropria vita pur di sottrarre ancheun solo individuo alla barbarie na-zifascista. Con Gina, l’unica percui è stato possibile rintracciaredei parenti, insignita del ricono-scimento a metà dicembre, nellasinagoga fiorentina di via Farini. Gli occhi di Sergio Della Pergola,demografo di fama oltre che sto-rico collaboratore delle nostre te-state, poco più di un neonato al-l'epoca, hanno incrociato quelli dientrambe, nelle ore che segnaronola loro disponibilità a correre quelrischio estremo.
Un tempo di scelte drammatiche,che Livia e Gina hanno abbrac-ciato nella piena consapevolezzadei pericoli che potevano manife-starsi e a cui potevano andare in-contro. Così è soprattutto graziea loro se il nucleo familiare al com-pleto – il padre Massimo, notogiornalista sportivo e futuro idea-tore del Totocalcio, la moglie Ade-lina, e appunto Sergio – ebbe mo-do di mettersi in salvo. Una vicenda di coraggio e solida-rietà che parte da Firenze, dove iDella Pergola si erano rifugiati nel-l'agosto del '43, dopo aver lasciatoin fretta e furia Trieste, per con-cludersi con una rocambolesca
marcia alpina il cui atto finale vienescritto il 25 dicembre dello stessoanno. A piedi sulla neve, ad altaquota. Senza certezze, se non lapaura di fare un passo falso. Quelloche li avrebbe consegnati al nemi-co. E poi finalmente la Svizzera, ilCanton Ticino, la libertà. Una libertà in parte ancora da con-quistare, almeno per Massimo, vi-
sto che i soldati elvetici avrebberovoluto rispedirlo oltreconfine. Ecosì sarebbe accaduto se Adelinanon si fosse imposta con caparbie-tà e se da Berna non fosse arrivatauna telefonata risolutiva e inaspet-tata: è Natale, per oggi si può fareun'eccezione. Fateli entrare tutti. “Di quei giorni non ricordo ovvia-mente niente, avevo appena un an-no. Ma conservo con emozione lememorie dei miei genitori e la gra-titudine che entrambi serbavanoverso chi aveva teso una mano.Sono cresciuto con i loro racconti.Con questo riconoscimento, la piùalta onoreficenza attribuita a chisi prodigò per portare luce in tem-pi bui – afferma Sergio Della Per-gola – si chiude finalmente il cer-chio”. Preziosa in questo senso la testi-monianza del padre Massimo, chealle due donne ha dedicato ampistralci della sua autobiografia Storia
della Sisal e del suo inventore (Laseredizioni, 1997). Che non è solo ilracconto di una delle più brillantiintuizioni dell'Italia del dopoguer-ra, la schedina dalle tre fatidicheopzioni 1-x-2 che avrebbe conqui-stato milioni di appassionati (tral'altro pensata e affinata duranteun periodo di internamento inSvizzera con l'obiettivo di dare alpaese una nuova occasione di sva-go che risollevasse gli animi). Maè anche il lascito alle nuove gene-razioni di un'esperienza estrema eistruttiva. Quella di esseri umanibraccati, che tornano padroni delproprio destino grazie all'altruismodi chi scelse di non voltare le spallementre fuori infuriava la più terri-bile delle tempeste. Come Livia lacattolica e Gina la valdese. Due Giuste, da adesso anche nel-l'accezione talmudica del termine.
Adam Smulevich
Livia e Gina, il coraggio di due Giuste
Una impresa quotidiana
© G
UY M
ORAD
Neanche uno spazio libero, dall’alta Galilea ad Eilat. Un paesetalmente stipato di macchine che trovare un posto per parcheg-giare appare quasi utopistico. Il disegnatore Guy Morad, 40 anni,formatosi all’Accademia di belle arti di Bezalel, racconta cosìuna delle principali sfide quotidiane dell’israeliano medio.
per la testa” rivela invece il sin-
daco di Vincennes Joe Yochum,
ricordando il momento in cui
viene avvertito di quanto sta av-
venendo nel suo comune. A com-
mentare il dipanarsi degli eventi
ora per ora è poi il colonnello del
corpo speciale della polizia fran-
cese Hubert Bonneau. Ricostru-
zioni e testimonianze consento-
no ai telespettatori di entrare
con chiave attuale nelle pieghe
di momenti che stanno segnando
la storia d’Europa. Un approccio
che da anni ormai rappresenta la
chiave fondamentale di History
Channel, come spiega a Pagine
Ebraiche Jan Ronca, responsabile
programmazione di A+E Net-
works Italy, che trasmette il ca-
nale nella Penisola. “La nostra
idea è quella di portare una ma-
teria come la storia in un conte-
sto di rilevanza per il pubblico,
che si tratti di antichi romani,
oppure degli attentati di Parigi.
Per questo negli ultimi 15 o 20
anni lo stile narrativo è cambia-
to, ed è nato quello che chiamia-
mo instant documentary. Ogni
volta che si scatenano avveni-
menti contemporanei che possia-
mo definire storici, ci sforziamo
di venire incontro all’interesse
del pubblico per andare oltre la
cronaca, e offrire nel più breve
tempo possibile approfondimen-
to, voci, narrazione”. Ronca rive-
la che già alcuni mesi fa History
Channel aveva deciso di procede-
re alla messa in onda del docu-
mentario dedicato agli attacchi
di Charlie Hebdo nel giorno del
primo anniversario, il 7 gennaio
2016. “Ho guardato quel filmato
proprio il 12 novembre. Il 13 è
accaduto quel che è accaduto”.
Così, nel giro di pochi giorni, il
canale confeziona anche il secon-
do prodotto.
“La rivendicazione di quanto suc-
cesso a Parigi a firma dello Stato
islamico arriva in inglese, non in
francese. Questo dimostra la vo-
lontà di colpire e lanciare un
messaggio non solo alla Francia,
ma su scala globale”, nota per
esempio l’analista Evan Ko-
hlmann. Conoscere per risponde-
re, ricordare per imparare a com-
battere, a respingere la violenza
con i valori di Parigi, i valori
dell’Europa. Come ricorda un toc-
cante passaggio dell’intervista al-
la cassiera dell’Hyper Cacher. “Una
frase mi ha colpita molto. Il ter-
rorista ha detto: ‘Voi ebrei volete
vivere, amate la vita, mentre noi
musulmani preferiamo la morte.
Ora vi dimostro che avete torto.’
Quando ha pronunciato queste
parole ho pensato: ‘Non ho torto,
io voglio vivere!’.”
Rossella Tercatin
u Nell’immagine a sinistra Sergio
Della Pergola, nelle due foto in
alto gruppi partigiani in azione a
Firenze, a destra Maria Adelaide
(Gina) Silvestri Sabatini ritratta
da anziana.
ú–– Adam Smulevich
“Il clima è sicuramente diverso ri-spetto a qualche decennio fa. Sa-rebbe sbagliato illudersi che i pro-blemi non esistano più, ma allaChiesa e ai suoi rappresentanti vacomunque riconosciuto un impe-gno sincero. E questo è senz'altroun ottimo presupposto”.Cinquanta anni di Nostra Aetate,nuovi impegni e progettualità, laprossima visita diBergoglio al Tem-pio Maggiore diRoma. Per ravGiuseppe Momi-gliano, presidentedell 'Assembleadei Rabbini d'Ita-lia, il dialogoebraico-cristianoconosce una stagione “importante”.Ma affinché funzioni davvero, am-monisce, è fondamentale essere sestessi fino in fondo. Introiettandoad esempio la lezione di Chanuk-kah, la festa delle luci che affermal'ineludibile proiezione versol'esterno testimoniata dal risplen-dere dei candelabri a otto bracciaalle finestre del mondo libero. Maa patto che dentro di noi arda unafiammella. La fiammella diun'identità solida e consapevole.Non c'è vero dialogo senza consa-
pevolezza, quindi?
Sì, assolutamente. Senza consape-volezza, senza conoscenza profon-da delle proprie radici, il dialogonon va da nessuna parte. Il dialogonon è infatti reciproco annulla-mento e neanche sfumatura di di-versità. L'unicità che è propria diogni esperienza religiosa è anzi un
valore da difendere. Un valore cherende tutti più ricchi.C'è il rischio che questo fatto nonsia sufficientemente chiaro?Talvolta è accaduto e continua adaccadere. Per questo è importantelavorare su un doppio binario:avanzare sul piano del reciprocoriconoscimento e sulla pari dignitàche deve essere riconosciuta ai di-
versi interlocutori; far sì che le dif-ferenze, che esistono e vanno tu-telate, non intacchino un lavorocomune sui grandi temi dei nostritempi. Grandi temi che non sonosolo condanna dell'orrore e richie-sta ai musulmani moderati di rin-negare gli atti atroci che vengonoassociati in modo blasfemo al-l'Islam. Sarebbe fuorviante.
Cosa serve allora?
Uno sforzo congiunto affinché lereligioni siano protagoniste dellesfide che investono l'intera uma-nità. Emergenza sociale, difesa del-l'ambiente e della famiglia. Dob-biamo lavorare insieme, non c'èaltra strada. E per far sì che i ri-sultati vengano raggiunti è nece-sario che ciascuno chiarisca la pro-
pria identità e trasmetta un mes-saggio comprensibile.A proposito di chiarezza, c'è chi so-
stiene che lo spirito e il messaggio
della Nostra Aetate siano rimasti
confinati esclusivamente a delle éli-
te, senza interessare il cosiddetto
uomo della strada. Concorda con
questa lettura?
Fino a un certo punto. Il messaggioin parte è arrivato, anche se in certisettori in modo un po' confuso. Lariprova è nella scarsa conoscenzadell'ebraismo e delle sue tradizioninel pubblico medio italiano. Quindila conclusione è che ci sono dellelacune e che bisogna lavorarci so-pra. Il percorso compiuto è co-munque confortante, dobbiamosempre tenerlo a mente.Recentemente la commissione per i
rapporti religiosi con l’ebraismo della
Santa Sede ha diffuso un corposo
documento di studio il cui intento è
quello di approfondire la dimensione
del dialogo. Che impressioni ne ha
ricavato?
Si tratta di un documento impor-tante, che analizza i rapporti dellaChiesa con l'ebraismo sotto diversipunti di vista. E in particolare sto-rico, teologico, programmatico.L'ampiezza stessa del testo rendel'idea del peso intrinseco. Anchein ragione di ciò è mia intenzionepromuovere un confronto all'inter-no dell'assemblea rabbinica per ri-flettere tutti assieme, e in modo più
“Dialogo, segnali positivi” Il presidente dei rabbini italiani parla a pochi giorni dalla visita di Bergoglio alla sinagoga di Roma
/ P4 POLITICA / SOCIETÀ
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n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraiche
u Nell’immagine a fianco
l’arrivo di Karol Wojtyla. In
basso da sinistra Joseph
Ratzinger e rav Riccardo Di
Segni in sinagoga. A destra
Jorge Bergoglio a confronto
con alcuni leader ebraici, tra
cui il presidente dell’Unione
delle Comunità Ebraiche
Italiane Renzo Gattegna.
"Mi colpisce sempre l’ignoranza
che molti cattolici hanno delle
tradizioni dell’ebraismo. Come
direttore di una televisione cat-
tolica mi piacerebbe poter rac-
contare di più la vita quotidiana
della comunità ebraica, nelle sue
feste, nei suoi riti, nelle sue usan-
ze. Credo che anche questo sia
un modo di fare dialogo, cono-
scendoci meglio in concreto".
Così a Pagine Ebraiche il diretto-
re di Tv 2000 Lucio Brunelli, arri-
vato alla guida della televisione
della Conferenza Episcopale Ita-
liana dopo una lunga esperienza
in Rai.
Come collocare la visita di Ber-
goglio nel quadro delle relazioni
tra cattolici ed ebrei?
Dopo quella storica di Giovanni
Paolo II il 13 aprile 1986 e quella
di Benedetto XVI il 17 gennaio
2010, si tratta della terza visita
di un papa nella sinagoga roma-
na. Si inserisce quindi in un solco
aperto dai predecessori di Ber-
goglio. A confermare la volontà
condivisa di continuare nella via
del dialogo e della amicizia fra le
due comunità religiose, una via
dalla quale non si torna indietro
nonostante tutte le incompren-
sioni e le sospettosità del passa-
to. Sarà la prima visita alla sina-
goga, nella storia della Chiesa,
che avviene nel contesto di un
Giubileo. E questo darà all’evento
una cornice di solennità e un si-
gnificato spirituale particolare
nella linea della misericordia e
del perdono reciproco.
Rispetto alle precedenti visite c'è
qualche elemento ulteriore di
L’ignoranza da vincere
In un tempo mediaticamente os-sessionato dalle prime volte (chespesso prime non sono affatto),che interesse e che senso può averela visita di papa Francesco allaComunità ebraica di Roma? Nonè difficile rispondere che proprio laconsuetudine degli incontri tra ilpontefice, capo visibile della chiesacattolica, ed esponenti o comunitàdell’ebraismo mondiale, ormaimoltiplicatisi soprattutto negli ul-timi anni, rendono questo nuovoincontro, dopo quelli dei suoi pre-decessori, non meno significativo,ma al contrario ancora più rile-vante nella crescita irreversibiledella reciproca conoscenza (ancorascarsa, per la verità) e dell’amici-zia. Per la visita, come per quelladi Benedetto XVI, è stato scelto ilgiorno in cui in Italia si celebra ildialogo tra cattolici ed ebrei, fissa-to non casualmente alla vigiliadella settimana di preghiera perl’unità dei cristiani. In modo ana-logo, l’organismo della Santa sededeputato ai rapporti con l’ebrai-smo è inserito in quello istituitoper favorire l’unione tra le confes-sioni cristiane tra loro separate. Inmodo da esprimere una realtà an-tica e di cui si va sempre più pren-dendo coscienza, e cioè che la pri-ma dolorosa separazione è stataproprio tra sinagoga e chiesa.Separazione che ha portato a unastoria complicata, fitta di incom-
prensioni, inimicizie, disprezzo,violenze, persecuzioni, ma anchedi vicinanza e rapporti fecondi.Attraverso vicende, dialettiche etensioni fortissime, anche se que-ste mai hanno portato ebrei e cri-stiani a troncare un legame chenon può né potrà essere reciso e ilcui significato sarà rivelato soltan-to alla fine dei tempi. Meno ditrent’anni dopo il supplizio sullacroce e la resurrezione di Gesù, ilmaestro di Nazaret, è già Paolo aintuire questa storia misteriosaquando detta la sua lettera alla co-munità cristiana di Roma, di ori-gine ovviamente giudaica e cheancora non conosce.Nell’età moderna e in quella con-temporanea, nuove persecuzioni,l’assimilazione in alcuni paesi eu-ropei, giudeofobie, antigiudaismi eantisemitismi diversi s’intrecciano
fino al maturare e allo scatenarsidel male radicale nella Shoah, conlo sterminio di sei milioni di ebreinel vecchio continente. La trage-dia, quasi indicibile nel suo orrore,porta di fatto a una vicinanza e auna volontà di comprensione nuo-ve tra cristiani ed ebrei. Fino alleintuizioni di Giovanni XXIII e so-prattutto alla determinazione diPaolo VI, che con pazienza porta ilconcilio a votare quasi all’unani-mità una dichiarazione aperta-mente positiva sulle religioni noncristiane, e in particolare sul-l’ebraismo.La visita del primo vescovo di Ro-ma venuto dall’America alla piùantica comunità della diasporagiudaica avviene appunto cin-quant’anni dopo l’approvazionedel testo conciliare. Per ragionianagrafiche Bergoglio è anche il
POLITICA / SOCIETÀ / P5
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pagine ebraiche n. 1 | gennaio 2016
ú–– GiovanniMaria Viandirettoredell’OsservatoreRomano
Ancora insieme, di nuovo in cammino
novità che vale la pena eviden-
ziare?
Non conosciamo ancora i detta-
gli del programma della visita,
ma certamente porterà il sigillo
del temperamento e della sensi-
bilità di Bergoglio. Mi immagino
una visita poco ingessata, forse
meno istituzionale delle altre.
Sappiamo che questo papa ama
il contatto con la gente e mi
aspetto che voglia incontrare
non solo i vertici ma anche le
persone della comunità.
Le sorprese con lui non mancano
mai... Quando era arcivescovo di
Buenos Aires il cardinale Bergo-
glio aveva un rapporto speciale
di amicizia con il rabbino Abra-
ham Skorka; su canale 21, la tv
cattolica della diocesi, tenevano
insieme un programma in cui ri-
flettevano su passi della Bibbia
alla luce dell’attualità. Skorka si
vanta di essere stato uno dei po-
chi amici di Bergoglio a scom-
mettere sulla sua elezione...
Cinquanta anni di Nostra Aetate.
La sensazione è che sia stata suf-
ficientemente recepita dalla base
oppure si rende necessario un ul-
teriore scatto?
Credo che Nostra Aetate debba
ancora essere assimilata piena-
mente dalla base. I pregiudizi so-
no sempre dietro l’angolo. Un
certo vento che soffia in Europa,
e anche oltre l’Atlantico (penso
alle recenti sparate di Donald
Trump), porta a vedere con so-
spetto tutte le minoranze reli-
giose. Si afferma talvolta un con-
cetto di identità molto ideologi-
co che si chiude in un arrocca-
mento e vede l’altro come un ne-
mico. È un vento pagano, non re-
ligioso, in realtà, che richiede vi-
gilanza e una testimonianza fer-
ma e libera da parte della Chiesa
cattolica e di tutta la società ci-
vile. A me colpisce sempre l’igno-
ranza che molti cattolici hanno
delle tradizioni dell’ebraismo.
Come direttore di una televisio-
ne cattolica mi piacerebbe poter
raccontare di più la vita quoti-
diana della comunità ebraica,
nelle sue feste, nei suoi riti, nelle
sue usanze. Credo che anche
questo sia un modo di fare dia-
logo, conoscendoci meglio in
concreto.
A fare danno, talvolta, è una
identificazione grossolana fra
ebraismo e scelte politiche del
governo israeliano. Si possono
non condividere tutte le scelte
di Netanyahu e mantenere ami-
cizia, simpatia e rispetto per il
popolo ebraico e per Israele. Non
credo che l’ideale sia nell’annul-
lare le differenze, ma una diver-
sità riconciliata. Persone che si
vogliono bene possono anche li-
tigare, qualche volta, ma non fi-
niranno mai una giornata senza
fare la pace e senza fare tesoro
dei propri sbagli.
a.s.
esaustivo, sul significato e sul mes-saggio di questo pronunciamento.Nelle stesse ore diventava di domi-
nio pubblico un testo firmato da al-
cuni esponenti del rabbinato inter-
nazionale appartenenti alla corrente
modern orthodox in cui si interpreta
la nascita del Cristianesimo come
parte di un piano divino “affinché
ebrei e cristiani possano lavorare in-
sieme per la redenzione del mondo”.
Osservazioni?
Come ho già avuto modo di dire,comprendo lo spirito con cui è sta-to scritto. Ma non sono convintoche sia stata una mossa utile. Que-sto perché il piano teologico èsempre molto pericoloso e divisi-vo: non è la prima volta che acca-de. Meglio quindi concentrarsi suquestioni in cui la collaborazionetra ebrei e cattolici può trasformar-si in qualcosa di concreto. Ciò det-to, tra i firmatari del documentoci sono rabbini autorevoli e quali-ficati. Ma si tratta in molti casi diun'opinione espressa a titolo per-sonale, senza una istituzione ebrai-ca alle spalle.Il 17 gennaio Bergoglio visiterà la si-
nagoga di Roma, terzo papa nella
storia a varcare la soglia del Tempio
Maggiore. Che significato attribuire
a questo nuovo incontro?
Credo vada interpretato come unsegnale che il dialogo non possamai essere dato per scontato, masia invece frutto di uno sforzo quo-tidiano. È bene riflettere su dovesi è arrivati e su dove si vuole an-dare. E che questo avvenga il 17gennaio, giorno tradizionalmentededicato al dialogo tra ebrei e cat-tolici, è un fatto che merita di es-sere sottolineato.
primo papa a non avere partecipa-to al Vaticano II, ma del concilioche ha cambiato il volto della chie-sa cattolica è figlio, viene da unpaese, l’Argentina, dove è radicatauna forte minoranza ebraica, e co-me vescovo ha alle spalle una sto-ria di consuetudine e di amiciziacon diversi esponenti dell’ebrai-smo. Nei decenni successivi al Va-ticano II i rapporti di conoscenza,amicizia e collaborazione tra mol-tissimi cattolici ed ebrei si sono in-tensificati al punto non solo di bi-lanciare ma addirittura di sover-chiare resistenze e opposizioni chesi ritrovano comunque, anche te-naci, in entrambe le parti. Più dif-ficile invece è superare l’indiffe-renza, l’ignoranza e la diffidenzareciproche. In questo un uomo sututti va ricordato per quanto hafatto a favore dell’avvicinamentotra le due comunità, e questi è ElioToaff, per mezzo secolo rabbino ca-po di Roma, ricordato da GiovanniPaolo II nel suo testamento singo-larmente dominato da una visionemistica della storia. Francesco ar-riva dunque nel Tempio Maggioredi Roma accompagnato da unastoria lunghissima e che nelle ulti-me settimane è stata segnata dadue documenti molto importanti:una dichiarazione, tanto brevequanto importante, di venticinquerabbini ortodossi, in gran parteisraeliani e statunitensi, sul signi-ficato e sul valore del cristianesi-mo, da una parte, e dall’altra unlungo documento della commissio-ne della Santa sede per i rapporticon l’ebraismo sulla irrevocabilitàdei doni di Dio al popolo della pri-ma alleanza. Testi che costituisco-no un reciproco impegnativo rico-noscimento, nell’affermazioneesplicita che una e indivisibile è lavocazione di ebrei e di cristiani: unpasso avanti che non è azzardatodefinire di portata storica.
u La presentazione del documento emesso dalla commissione per i rapporti con l’ebraismo della Santa Sede
/ P6 INTERVISTA
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n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraiche
Oggi quella stessa compassioneche passa attraverso l’emozionalitàcollettiva manifesta non solo lapropria inadeguatezza, ma ancheun effetto fortemente depressivo.Forse per la società formata dal-l’ideologia dominante, il postmo-dernismo, la realtà è troppo duraper essere conosciuta. E il sognoin qualche modo deve continuare.Ma mi domando cosa succederàla prossima volta. Se basterà an-cora la compassione.
Oggi anche il governo parla di guer-
ra. Ma di che guerra si tratta?
Questo non è stato ancora chiarito.Certo non è una guerra tradizio-nale. Nel momento in cui si valutache in Francia esistano 12 mila cit-tadini candidati alla Jihad, forsepossiamo piuttosto pensare che sitratti di una guerra civile, che ilnemico sia in casa. È un nemicoche vive fra noi e che sfrutta tuttele possibilità che una società apertacome la società europea può of-frire. E le massicce operazioni dipolizia che si sono svolte nellescorse settimane si sono rivelate
No. La democrazia non deve maiarretrare per far fronte a questa
minaccia. Il primo lavoro dacompiere è sulla coscienza,sulla consapevolezza. Ilgrande rischio è pensareche sia possibile liquidareDaesh senza interpretare
cosa si muove.
Se siamo in guerra sarà più
urgente difendersi, vincere.
Per un sociologo il passofondamentale è ascoltare einterpretare. Anche quelloche dice un pazzo ha un va-lore, certo patologico, ma
fondamentale. Il movimento dellostato islamico e del terrori-smo islamico non è soloun’accozzaglia di mostri edi malfattori. C’è un’ideolo-gia, un continuo riferimentoal Corano dietro a questeazioni.
Ma per noi questo cosa cambia?
Il mondo musulmano non si è an-cora sufficientemente espresso,non si è manifestato per smentirequeste letture del Corano. Le stes-se citazioni che servono per pro-muovere il terrorismo, come le sidovrebbe leggere in altro modo?Ce lo devono spiegare. E nel frat-tempo la società francese non hasaputo aiutare la componente mu-sulmana. Mentre è evidentementein corso una guerra di religione in-
Nato a Blida, in Algeria, nel 1948, Shmuel Trigano
insegna sociologia nell'Université de Paris X-Nanterre.
Dopo il diploma classico, ha trascorso un periodo di
studio presso l'Università ebraica di Gerusalemme,
completando il suo dottorato in Sociologia politica
all'Università di Parigi. Esperto conoscitore dell'identità
e dell'eredità del mondo ebraico all'interno della società,
nel 1977 ha pubblicato il suo primo libro, Le récit de la
disparue, essai sur l'identité juive. Trigano ha fondato
nel 1986 il Collège des études juives de l’Alliance Israélite
Universelle e nel 2000 l’Observatoire du monde juif di cui
è presidente e attraverso il quale analizza i nuovi
fenomeni di antisemitismo. Tra le sue pubblicazioni più
importanti, Le nouvel État juif, Quinze ans de solitude e
La Nouvelle Idéologie dominante vincitore del Prix des
Impertinents, il premio letterario dedicato a chi scrive
“contro la corrente del pensiero unico”.
ú–– Guido Vitale
Ci hanno detto che siamo in guer-ra. Ci hanno detto che ognuno dinoi è un bersaglio. Ci hanno dettoche siamo a una svolta, che la Sto-ria sta scrivendo una nuova dram-matica pagina sotto i nostri occhi.Ci hanno detto che un nuovo con-tinente, sconosciuto e pericoloso,sta per emergere. Dobbiamo cre-derci o dobbiamo continuare co-me se niente fosse le nostre esi-stenze? Quali misure dobbiamoadottare, cosa dobbiamo attender-ci dal futuro?Sono questi in effetti tempi difficilie pericolosi. Ma soprattutto sonotempi difficili da interpretare. Moltiintellettuali ebrei francesi, soprat-tutto il filosofo Alain Finkielkraute lo storico Georges Bensoussan,come riferisce Pagine Ebraiche didicembre, li avevano preannunciatitentando di rompere un muro diincoscienza e di malafede, o forsesolo di fastidio nei confronti di chivuole chiamare le cose con il pro-prio nome. Ma pochissimi hannoanalizzato le cause delle ferite diParigi e della solitudine degli ebreiin Europa nelle loro radici profon-de come il sociologo Shmuel Tri-gano. Pochi sono oggi in grado didire cosa sta davvero cambiando,cosa non sarà mai più come primae cosa ci attende.
Le stragi di Parigi che hanno costel-
lato questo terribile 2015 ormai al
termine conferiscono ai suoi ultimi
studi un carattere drammaticamen-
te profetico. Mai come oggi è appar-
so così chiaro che dietro la facciata
dell’antisionismo si nasconde la mi-
naccia di un antisemitismo bestiale
ed estremamente pericoloso, una
minaccia non solo allo Stato di Israe-
le, ma all’ebraismo nel suo insieme.
È vero, c’è un continente sommer-so che comincia a emergere sottoi nostri piedi. Questo 2015 si eraaperto a gennaio sotto il segno del-la compassione per le vittime dellestragi nella redazione di CharlieHebdo e con la riaffermazionedell’ideale europeo della libertà dipensiero...
Una reazione inadeguata? Ingenua?
Evidentemente, come hanno di-mostrato le stragi di novembre.Non ci siamo trovati di fronte aforze che minacciassero esclusiva-mente la libertà di pensiero o lasicurezza delle persone coinvolte,ma di un vero e proprio atto diguerra contro la società francese.Ci siamo ingannati riguardo allanatura di quello che sta avvenendoe la compassione, la reazione chepoggia sulla sensibilità e i buonisentimenti, non possono bastare.
“Svegliamoci. E in fretta” Parigi 2015: cosa cambia? Dove stiamo andando? Risponde il sociologo Shmuel Trigano
Shmuel TriganoLA NOUVELLE IDEOLOGIE Hermann
Shmuel TriganoLE NOUVEL ETAT JUIF Berg
Shmuel TriganoQUINZE ANS DE SOLITUDE Berg
Il popolo ebraico è oggi l'oggetto
di una ostilità di grande portata,
forse annunciatrice di una cata-
strofe prossima a venire. La let-
tura di tale stato delle cose at-
traverso il concetto dell'antise-
mitismo è decisamente troppo li-
mitata per renderne conto e il
collegarlo al solo conflitto ara-
bo-israeliano è ridicolo, tanto
l'ampiezza e la coerenza del fe-
nomeno sono di grandi propor-
zioni. In uno scenario internazio-
nale in cui, da tre secoli, gli attori
sono gli Stati-nazione, è la capa-
cità del popolo ebraico di orga-
nizzarsi in Stato-nazione e dun-
que a essere un attore nella sto-
ria dell'umanità a costituire il
bersaglio di una vendetta plane-
taria. La sua stessa esistenza, la
dignità della sua cultura e della
sua identità sono in gioco, come
ci rivelano i miti più arcaici che
questa animosità risveglia.
Poche menti possono davvero ca-
pirlo, poiché le strutture mentali
e intellettuali adeguate necessa-
rie a tal fine sono inesorabilmen-
te mancanti. È nell'opinione
israeliana che si raggiunge il gra-
do zero di questa comprensione.
Questa constatazione che può fa-
re (dal 2011) un ebreo dell'Europa
occidentale, e in particolare in
Francia, come chi scrive, è un in-
dizio prezioso per identificarne
le cause. È il filo di Arianna del-
l'analisi della situazione, il punto
Israele e Diaspora di fronte al muro d’odio
molto impressionanti.
Perché?
Perché rivelano che tutto questofino a ieri non era stato fatto. Cosìcome non si sono volute vedere leaggressioni antisemite che si ripe-tono. Se si fosse intervenuti conforza e tempestività forse moltidrammi non sarebbero accaduti.
La soluzione allora è in una limitazione
delle libertà civili, della democrazia?
Gior
gio
Albe
rtini
terna a questo mondo.
Cosa possiamo attenderci?
Un forte risveglio dell’identità cri-stiana, la sola probabilmente ingrado di far fronte all’emergenza.Sembra strano a dirsi, perché vi-
viamo ormai in una società po-stcristiana, ma l’attacco che il no-stro mondo sta subendo ci mettein questa posizione. E se ne vedo-no già i primi segni.
Dove, quali?
Un’alleanza fra gli ortodossi russie i protestanti americani, fra Moscae Washington. Non per obbedirea un’ideologia, ma per atavismo.Per istinto di conservazione.
E il ruolo ebraico, quello di Israele?
È solo quello di fare da bersaglio
all’odio?
L’odio nei confronti degli ebrei edi Israele ha una profonda moti-vazione teologica. Israele è il la-boratorio d’Europa su un fronteterribilmente difficile, ma l’Europaha sempre preferito non capirlo.Dobbiamo prenderne atto senzafarci illusioni. E la reazione allastrage di gennaio all’HyperCachernon sarebbe stata la stessa se nonfosse avvenuta contestualmenteagli altri fatti che hanno contrad-distinto quelle giornate. Basta ve-dere come ancora oggi si cerchidi far passare impunemente l’ideache l’esistenza di coloni ebrei possagiustificare o anche solo spiegarela violenza. Basta vedere come le
INTERVISTA / P7
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pagine ebraiche n. 1 | gennaio 2016
ú– DONNE DA VICINO
Chiara Chiara Pilocane è ebraista, archivi-sta, paleografa e diplomatista.Chiunque pensasse di avere a chefare con una noiosa signora che viveimmersa nei documenti antichi, dacui emerge solo per mangiare e dor-mire, farebbe un grave errore.Torinese, 38 anni, è mamma di undelizioso bimbo. I suoi lavori spa-ziano dalla traduzione e commento di
alcuni libri della prima edizione ita-liana della Bibbia dei LXX, in corsodi stampa per Morcelliana, alla cata-logazione del preziosissimo patrimo-nio di manoscritti liturgici ebraiciscampati all’incendio della BibliotecaNazionale di Torino del 1904, allostudio e al riordino degli archivi deiCarabinieri Reali e dell’Ordine fran-cescano piemontese. L’amore per il mondo ebraico è natosui banchi dell’asilo: ha frequentatola scuola ebraica di Torino per diecianni, continuando col tempo a colti-vare belle e profonde amicizie con icompagni di lunga data. Nezer ha-qodesh mi-Savoia, chevuol dire Divina Corona di Sa-voia è il titolo di un volume che hapubblicato recentemente da Giun-tina, grazie a una borsa di studiodella Fondazione Beni CulturaliEbraici in Italia. Lo studio riguardaun interessante manoscritto bilingueitaliano-ebraico del 1622 di 15 cartedell’ebreo Diodato Segre, dedicato alDuca di Savoia Carlo Emanuele I.Composto parte in prosa, parte inpoesia, il testo è intessuto di citazionibibliche e ricco di rimandi alla lette-ratura rabbinica e medioevale.Quando le viene affidato un archivio,Chiara attacca con la suddivisionedel materiale per dedicarsi poi allostudio paziente e meticoloso di ogniaspetto dei documenti anche quandoall’occhio profano può apparire irrile-vante. Tolleranze, lettere patenti,note di possesso, segnature e sigillisono preziosi tasselli per ricostruirestorie di istituzioni, famiglie e per-sone che riprendono la forma più au-tentica dopo attente valutazioni eanalisi: la soddisfazione è sempregrande perché emergono nuovi detta-gli che, come in un rompicapo, con-ducono alla soluzione dell’enigma.
ú–– Claudia De BenedettiConsiglieredell’Unionedelle ComunitàEbraiche Italiane
cronache degli accoltellamenti neiconfronti di civili israeliani inno-centi siano sempre presentate inmaniera bizzarra e senza una chia-ra distinzione delle responsabilitàdegli aggressori. Per chi come meviene da una famiglia originariadalla sponda mediterranea del-l’Africa settentrionale cosa signifi-cano queste aggressioni a coltellateè ben chiaro. Così come il signifi-cato delle decapitazioni e dei sa-crifici rituali.
Da una reazione ai fatti di Parigi non
discenderà quindi automaticamente
una migliore comprensione delle
sofferenze della popolazione ebraica
vittima del terrorismo?
Non necessariamente. E nemmenoprobabilmente, se i fattori non cam-bieranno. L’iscrizione dell’antisemi-tismo nel quadro del terrorismo co-stituisce il passaggio fondamentale.Così come non è più lecito, non èpiù possibile l’ambiguità di distin-guere in qualche modo l’antisioni-smo dall’antisemitismo.
Quali prospettive, in futuro?
Bisogna innanzitutto capire che ilproblema della sicurezza è solo unaspetto del problema. L’identitàebraica europea che abbiamo co-nosciuto si è formata dopo la Se-conda guerra mondiale e si è for-mata nel quadro delle identità na-zionali europee. Con la crisi, forsela fine delle identità nazionali,l’identità ebraica non ha più puntidi riferimento. Alla ritirata, forsela fine, degli stati nazionali ha fattofronte una massiccia immigrazioneislamica. Il quadro che abbiamoconosciuto dal 1945 alla fine deglianni ’80 è ora in pieno disfacimen-to. Non sappiamo se e come il col-lettivo ebraico sarà in grado di svi-luppare un nuovo modello. Quelloche è certo è che fino a ieri ci sia-mo definiti in quanto ebrei addos-sandoci all’identità nazionale e og-gi non è più possibile. Da compo-nente essenziale dell’identità na-zionale rischiamo di essere tramu-tati in una minoranza tollerata.
Solo una teoria sociopolitica oppure
il riscontro dei primi fatti concreti?
Il lavoro per esempio del legisla-tore europeo che tenta di regola-mentare la pratica della circonci-sione produce effetti sociologica-mente catastrofici e intollerabili.Questo atto sarebbe ora una con-cessione, una deroga che ci vieneassegnata a partire dal fatto che laconcezione di base consiste nel-l’idea che la circoncisione costitui-sca di per sé la violazione dei dirittidi un minore. Attraverso questiprocessi prende forma una nuovacollocazione dell’ebraismo nel qua-
dro delle minoranze ammesse etollerate e un suo sradicamentodall’identità originaria nazionale.
In queste grandi mutazioni cosa ab-
biamo da guadagnarci?
In questo quadro gli ebrei, in Eu-ropa e nel mondo, hanno tutto daperdere. La dissoluzione degli Statinazionali e il ritorno degli imperinon sono una buona notizia, per-ché è proprio nell’iscrizione nelquadro identitario degli Stati na-zionali che la presenza ebraica puòtrovare la migliore protezione e ilpiù stabile riconoscimento.
Gli imperi sono di ritorno?
Questo è ovvio, è sotto gli occhidi tutti. Che cos’altro sarebbe Pu-tin? E anche l’Unione europea è ilprocesso di formazione di un im-pero, per quanto contraddittorioe minacciato dall’esterno. In un si-stema imperiale la presenza ebrai-ca può essere forse tollerata, madeve comunque essere ridefinita.
Che scelte ci attendono, in definitiva?
Si stanno muovendo forze macro-sociali gigantesche. Gli ebrei sonoun piccolo, piccolissimo grupposociale, non sono in grado di con-dizionare gli eventi. Ma dovrannoper sopravvivere in ogni caso ri-definire la propria presenza.
Su questo orizzonte che va sgreto-
landosi, la leadership ebraica avrebbe
dovuto prendere strade differenti?
Sono stati commessi gravissimi er-rori di cui certamente pagheremole conseguenze. Puntare su unaconcezione enfatica e istituziona-lizzata della Memoria della Shoah.In pratica su una concezione re-torica e vittimistica che costituisceanche una pessima difesa delloStato di Israele. Aprire il creditodi un dialogo con il mondo isla-mico senza mettere le carte sul ta-volo di un chiarimento preliminarenecessario. Rinunciare ad aprire un conten-zioso sulle persecuzioni e lo sra-dicamento delle popolazioni ebrai-che dai paesi mediterranei. Con-cepire i disastrosi accordi di Oslocome una resa, la supplica di es-sere riconosciuti e la mancanza dicoraggio di giocare il ruolo difficilee sgradevole, ma inevitabile, di unaparte che ha superato l’aggressionevincendo un conflitto voluto da al-tri. Pretendere di iscriversi nellaStoria come vittime pone in esseregrandi pericoli. Chi in questo sce-nario che cambia drammaticamen-te vuole raccogliere oggi la sfidadi reinventare la presenza ebraicanel mondo e di reinventare Israeledovrà tenerne conto. O rassegnarsial peggio.
d'appoggio per sollevarne il
senso. In effetti, se questo at-
tacco si rivolge in primo luogo
contro Israele – al punto che
il "nuovo antisemitismo" è
molto semplicemente una for-
ma di antisionismo – ma allo
stesso tempo colpisce gli ebrei
ben al di là di Israele, la co-
scienza israeliana sembra non
disporre delle risorse mentali,
intellettuali e politiche neces-
sarie non solo a comprenderne
la natura, ma persino a pren-
derne atto. È che questa crisi
mette il paese radicalmente in
discussione nella sua essenza
e nella sua comprensione di se
stesso ben più che nella sua
esistenza. Lo colpisce nel suo
tallone d'Achille.
(Shmuel Trigano: Le nouvel Ètat
juif, Parigi, dicembre 2015)
Gior
gio
Albe
rtini
Nella vigorosa (e un po' buffa) stretta di ma-
no tra Reuven Rivlin e Barack Obama c'è il si-
gnificato del viaggio del presidente d'Israele
a Washington: riaffermare la vicinanza dello
Stato ebraico agli Usa ma soprattutto all'at-
tuale amministrazione. Dopo aver tenuto il
suo discorso per la festa di Hanukkah alla Ca-
sa Bianca, Rivlin si è voltato e con un sorriso
soddisfatto ha salutato Obama con un gesto
caloroso, quasi tra i due ci fosse un'amicizia
consolidata. In realtà quello dello scorso di-
cembre, è stato il primo incontro ufficiale.
Questa visita è stata migliore o peggiore delle
altre? Voi siete più esperti di me – ha dichia-
rato Rivlin ai giornalisti che lo incalzavano
sulle differenze tra il suo viaggio e i prece-
denti del premier israeliano Benjamin Neta-
nyahu a Washington – Voi eravate qua a tutti
gli incontri, io solo a questo. Quindi non sa-
prei dire”. Eppure le differenze sono apparse
evidenti: Netanyahu, in particolare a causa
dell'accordo sul nucleare iraniano, ha ingag-
giato con l'amministrazione Obama una vera
battaglia diplomatica, fino a presentarsi nel
marzo dello scorso anno al Congresso di Wa-
shington per affossare l'intesa a cui la Casa
Bianca stava lavorando – indispettendo la
presidenza e buona parte dell'ala democra-
tica americana.
Una mossa, riportavano i quotidiani israeliani,
che non piacque al Consigliere per la sicurez-
za del premier, Yossi Cohen, impegnato a la-
vorare dietro le quinte con gli americani sul-
l'intesa con Teheran. Cohen, secondo le indi-
screzioni riportate in quei giorni dal giorna-
lista dell'Atlantic Jeffrey Goldberg, non fu in-
formato della decisione di Netanyahu e, una
volta saputo dell'intervento al Campidoglio,
espresse le sue preoccupazioni per le even-
tuali ripercussioni nei rapporti con la diplo-
mazia statunitense. Dopo il 3 marzo, data del-
l'intervento al Congresso di Bibi, con Obama
i legami già molto freddi si fecero gelidi. A
distanza di mesi da quella che alcuni analisti
definirono una delle più gravi crisi tra i due
storici alleati, la situazione sembra essere
tornata alla normalità: e la vigorosa stretta
di mano di Rivlin a Hanukkah ne è una par-
ziale dimostrazione. “Vogliamo ringraziarvi
dal profondo del cuore, come popolo d'Israe-
le, per quello che avete fatto negli scorsi sei
anni, per l'aiuto finanziario, diplomatico e
militare che ci avete dato”, ha dichiarato du-
rante la celebrazione della festa il presidente
israeliano, rivolgendosi all'amministrazione
Obama. Un ringraziamento contraccambiato
dalla Casa Bianca, che ha sottolineato il lega-
me e l'amicizia con Israele. Obama poi si è
complimentato con Rivlin per il suo impegno
nel portare avanti il dialogo tra israeliani e
palestinesi, così come tra i cittadini arabo
israeliani e il resto della società. D'altra parte,
per il 2016, a Washington non ci si aspetta
molto sul fronte israelo-palestinese: il presi-
dente Usa si è detto poco ottimista nonché
preoccupato per la posizione del leader del-
/ P8 ERETZ
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n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraiche/ P8
IL COMMENTO SE I COLTELLI DIVENTANO LA NUOVA NORMALITÀ
Quando questo articolo è statochiuso, ventidue israeliani erano statiuccisi da terroristi palestinesi armati
di coltello. I dati sono di The Times ofIsrael e, purtroppo, c'è ragione di te-mere che il bilancio delle vittimesalga ulteriormente. Da quando sonoiniziati, nell'ottobre del 2015, gli at-
tacchi da arma da taglio (coltelli,certo, ma anche forbici) sono diven-tati una costante: nella West Bankcosì come a Tel Aviv, contro israe-liani di ogni genere ed età. Per alcuni
giorni, magari, c'è un po' di calma.Poi le violenze riprendono, apparen-temente imprevedibili. Gli esperti disicurezza infatti non sono riusciti aidentificare un profilo del terrorista
dei coltelli: alcuni sono uomini, altredonne, alcuni sono molto giovani,altri meno, alcuni hanno anni di fa-natismo alle spalle, altri davano l'im-pressione (sbagliata!) di essere
ANNA MOMIGLIANO
ú–– Daniel Reichel
Investire nell'integrazione del mon-do arabo e nel mercato del lavoropalestinese conviene a Israele. Aspiegarlo a Pagine Ebraiche è SamiMiaari, lettore del Dipartimentodi diritto del lavoro dell'Universitàdi Tel Aviv e ricercatore dell'IsraeliDemocracy Institute. SecondoMiaari, un investimento annualedi 6 milioni di shekel (quasi 1,5milioni di euro) in questa direzio-ne, all'interno di un piano decen-nale, da parte del governo di Ge-rusalemme potrebbe garantire unaumento annuo del Pil del 5 percento. “È necessario un investi-mento in diversi settori – affermaMiaari – dall'educazione, alle in-frastrutture, alle politiche abitative”.Per il ricercatore, autore assiemea Asaf e Noam Zussman di una ri-cerca sulle connessioni tra limita-zioni all'occupazione e la violenzanel quadro del conflitto israelo-pa-lestinese, è la politica ad essersi di-sinteressata di un problema che siacuisce con il tempo. “Il ministerodelle Finanze deve prendere inmano la situazione, perché un in-cremento della qualità della vitadella popolazione araba significhe-rebbe un beneficio per tutto il Pae-se”. L'attuale governatrice dellaBanca d'Israele Karnit Flug ha ri-badito lo stesso concetto, solo in-vertendo il punto di vista: la man-cata integrazione araba nel mer-cato del lavoro potrebbe portarea una contrazione del Pil nazionalesuperiore all’un per cento annuo.A spendersi poi sul tema una voceche è oramai impossibile non ci-tare, il presidente Reuven Rivlin,che della condizione degli arabiisraeliani ha fatto sin dalla nominaun cavallo di battaglia. Sul Washin-gton Post a dicembre, Rivlin invi-tava Israele a fare di più in questosenso, guardando a dir la verità inparticolare ai palestinesi della Ci-sgiordania e di Gerusalemme Est(nell'editoriale si chiede tra le altrecose un investimento nelle infra-strutture da fornire ai 300 mila pa-lestinesi che vivono nella zona Estdella Capitale). Sul fronte della loropartecipazione nel mercato del la-voro israeliano, spiega Miaari, iltema è emerso dopo la guerra del
1967. A promuovere l'integrazioneeconomica tra Israele e territori,continua, fu il ministro della DifesaMoshe Dayan. “Allora le opinioni
si divisero tra chi sosteneva cheIsraele dovesse assumersi la re-sponsabilità del benessere dei pa-lestinesi nei territori e quindi per-
mettere loro di lavorare in Israelee chi si opponeva, affermando chefarlo avrebbe potuto compromet-tere la sicurezza degli israeliani”.
Chi allora sosteneva la prima via,guardava all'integrazione comestrumento per ridurre la parteci-pazione al conflitto dei palestinesi:
Usa-Israele: nuove strette di mano
u Nell’immagine in alto Sami
Miaari, lettore del Dipartimento
di Diritto del lavoro
dell'Università di Tel Aviv e
ricercatore dell'Israeli Democracy
Institute, esperto di temi di
integrazione legati al mondo
arabo israeliano
Crescere con l’integrazione
l'Autorità nazionale palestinese Mahmoud
Abbas, a cui aveva chiesto di arginare la vio-
lenza e di evitare istigazioni. Un punto di in-
contro quindi con Netanyahu, che sembra
aver tolto un po' di ruggine dai suoi legami
con l'amministrazione americana. Ad aiutarlo
nel consolidare i rapporti, in particolare sul
fronte dell'intelligence e quello diplomatico,
proprio il citato Yossi Cohen, che da gennaio
assume un ruolo nuovo quanto centrale per
Israele: capo dei servizi segreti del Mossad.
Il cinquantaquattrenne di Gerusalemme, dopo
aver servito 30 anni nel Mossad e aver pas-
sato gli ultimi due anni come consulente del
premier per la sicurezza, succede a Tamir Par-
do alla guida dell'“Istituto” (traduzione dal-
l'ebraico di Mossad) voluto da David Ben Gu-
rion nel 1949. Per Netanyahu, Cohen è stato
il filo diretto con gli americani nel recente
passato, riuscendo a mantenere una proficua
cooperazione anche nei momenti di maggiore
turbolenza. La sua priorità dichiarata – come
quella del governo di Gerusalemme – è argi-
nare e indebolire l'influenza dell'Iran in Medio
Oriente. Il suo ruolo diplomatico, oltre alla
gestione operativa, sarà dunque fondamen-
tale tanto che l'analista di Yedioth Ahronoth
lo ha ribattezzato il vero ministro degli Esteri
d'Israele (dalle ultime elezioni, il ministero è
rimasto nelle mani di Netanyahu). Il “modello”
Cohen – soprannome attribuitogli sia per la
prestanza fisica sia per l'eleganza – non guar-
derà però solo agli Usa, anzi la sua padronan-
za dell'arabo servirà a stringere rapporti con
“i paesi arabi e islamici”, come ha dichiarato
lo stesso primo ministro.
“Qualsiasi paese arabo sunnita che sente co-
me pericoli gemelli il sunnismo e il sciismo
(Iran) militanti è un candidato per creare nuo-
ve relazioni, se Israele è in grado di svilup-
parle” spiega Yossi Alpher, già direttore del
Jaffee Centre for Strategic Studies e con un
passato da agente del Mossad. Per Alpher, ma
non solo, Gerusalemme vuole superare la tra-
dizionale richiesta dei paesi sunniti moderati
di fare dei progressi con i palestinesi. Su que-
sto fronte, come a Washington, non c'è otti-
mismo e quindi si cerca un percorso diverso,
ribaltando la prospettiva. Anche qui però di-
pende dalle controparti: l'apertura a fine no-
vembre di una sede diplomatica israeliana ad
Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi, è un
primo segnale. d.r.
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redditi elevati e bassa disoccupa-zione dovevano servire da arginecontro la violenza. E Miaari, nelcitato studio svolto in collabora-
zione con Asaf e Noam Zussmanper il German Institute for Eco-nomic Research di Berlino, ha ineffetti dimostrato che c'è una re-
lazione tra questi elementi. Stu-diando gli effetti delle restrizionisui lavoratori palestinesi decise daIsraele (dai primi anni '90 i datori
di lavoro israeliani si rivolgono alministero dell'Industria, del Com-mercio e del Lavoro perché dia ipermessi ai lavoratori palestinesi,
che vengono rilasciati dopo unaverifica individuale legata alla si-curezza) in risposta alla prima eseconda Intifada, i ricercatori han-no evidenziato che l'aumento delladisoccupazione coincise con unaumento della partecipazione alleviolenze. Secondo Miaari anche leattuali tensioni e il picco di vio-lenze hanno un legame con il sen-so di alienazione del mondo arabo.“Il più chiaro indicatore di questo– scriveva in un editoriale pubbli-cato dal Jerusalem Post – è il le-game tra le condizioni economi-che delle comunità arabe e le pro-teste che stanno prendendo piede.Se si esaminano i dati dell'occu-pazione, il quadro diventa chiaro.In comunità con alti livelli di di-soccupazione come Sakhnin (26per cento), Arrabe (28 per cento)e Kafr Manda (22 per cento), cisono state proteste e una rotturadella convivenza. Al contrario, inposti come Tira, con solo il 5 percento di disoccupazione, Rama eIksal (rispettivamente 12 per centoe 13 per cento) c'era una relativacalma”. Ridurre la povertà e la di-soccupazione, afferma il ricerca-tore, migliorare il sistema dell'istru-zione e delle infrastrutture, rego-lando la giurisdizione per le terredelle città arabe “si potrebbe tra-sformare facilmente una situazionedi rischio per la sicurezza in unvantaggio per l'intero Paese”. E per il bilancio speso per quellastessa sicurezza. Argomentazioneche rientra in quanto ha affermatoRivlin e l'auspicio di Miaari è cheil presidente sia ascoltato. Peraltro,continua, si tratta “di mettere sulpiatto costi e benefici”. Per conti-nuare sulla strada dei numeri, sipuò fare riferimento all'analisi pro-dotta da Eran Yashiv, dell'Univer-sità di Tel Aviv, e Nitsa Kasir dellaBanca centrale. Secondo il loro studio, la pianifi-cazione di un investimento tra i 4e i 5 miliardi di shekel (da preve-dere nel Bilancio dello Stato) perl'integrazione degli arabi nel mon-do del lavoro porterebbe a un si-gnificativo aumento del gettito fi-scale e stimolerebbe “la crescitaeconomica, portandola da 35 mi-liardi di shekel a 39 miliardi delPil entro il 2030, e da 114 a 123miliardi entro il 2050”.
Lo scorso ottobre la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato all'unanimitàun disegno di legge che prevede l'insegnamento dell'arabo agli studenti israeliania partire dalla prima elementare. “Non ho dubbi sul fatto che una volta che la po-polazione ebraica capirà l'arabo, allo stesso modo in cui i cittadini arabi capisconol'ebraico, avremo davanti a noi giorni migliori” ha dichiarato ai media il promotoredella legge, il parlamentare del Likud Oren Hazan. La sua proposta ha ricevutosubito l'appoggio del presidente Reuven Rivlin, sin dalla nomina impegnatosi aporre l'attenzione sull'integrazione della minoranza araba (20 per cento della po-polazione) nella società israeliana. L'arabo nella sua famiglia era una lingua cono-sciuta: il padre del presidente, Yosef Rivlin, è stato uno studioso di arabo e so-prattutto il primo a tradurre il Corano in ebraico. Anche da qui si può capire la particolare sensibilità di “Rubi” verso la proposta diHazan, che da quando è in carica non ha esattamente riscosso grandi consensi. Anzi, per la Jta, Hazan è “il parlamentare più scandalosod'Israele”. È entrato alla Knesset con l'ultimo posto disponibile e da allora ha collezionato: una denuncia da parte di Breaking thesilence - ong che pubblica le testimonianze dei soldati israeliani in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e a Gaza - per aver fornito sottofinto nome una falsa testimonianza per screditare l'organizzazione; un'inchiesta giornalistica ha portato alla luce il suo passato damanager in un casinò bulgaro, dove – secondo il Canale 2 israeliano – forniva prostitute ai clienti con cui avrebbe fatto uso di droghe(metanfetamine); alcune ex dipendenti di un suo bar a Tel Aviv lo hanno accusato di molestie sessuali; ha insultato e irriso pubblicamentela parlamentare di Yesh Atid Karin Elharar, in sedia a rotelle perché affetta da distrofia muscolare. Se in molti lo guardano come unacaricatura di se stesso, Hazan è comunque riuscito ad ottenere l'unanimità sulla sua proposta per la lingua araba. “Conoscere la linguadell'altro – ha dichiarato Hazan – è la base per la comprensione e il rispetto reciproco, necessari nell'attuale situazione d'Israele”.Secondo un recente sondaggio dell'università di Tel Aviv il 10 per cento degli israeliani capisce l'arabo mentre solo il 2,5 riesce aleggere un giornale in lingua. Secondo le linee guida del ministero, le scuole ebraiche in Israele dovrebbero insegnare tre ore di araboalla settimana. Tuttavia, la direttiva non viene applicata e molti istituti non offrono classi.
“Parli arabo? Sì, dalle elementari”LA LEGGE PER INSEGNARE LA LINGUA DEI VICINI AI PIÙ PICCOLI
innocui. Non sono ben chiare nep-pure le motivazioni: uno studentearabo di legge che ha accoltellato ungiovane padre ebreo a passeggio coifigli dice di aver agito per vendetta,
perché era arrabbiato dopo avere vistoun video dove un soldato israelianomaltrattava una ragazza palestinese;altri hanno dichiarato di avere agitoper proteggere la Moschea di al-Aqsa
dagli ebrei che vogliono ricostruire ilTempio. Molto più delle due Intifadepassate - quella degli anni Ottanta equella degli anni Zero - questa ondatadi violenza non sembra avere senso
né direzione. Tuttavia l'effetto che staavendo sulla popolazione israeliananon è assai diverso da quello che siebbe ai tempi della Seconda Intifada: icivili israeliani si stanno ri-abituando
a vivere in un contesto dove il rischiodi essere uccisi fa parte della quoti-dianità.Gli accoltellamenti stanno diven-tando la nuova normalità.
Ora finalmente per il Venezuela
c’è speranza. La comunità ebraica
può tirare un sospiro di sollievo
dopo lo storico ritorno in campo
dell’opposizione che scalfisce i di-
ciassette anni di governo incon-
trastato prima del presidente Hu-
go Chavez e poi del suo “figlio pu-
tativo” Nicolás Maduro.
Le ultime elezioni hanno portato
infatti la coalizione dell’opposi-
zione Tavolo dell’Unità Nazionale
a strappare 99 seggi su 167 ai so-
cialisti, aprendo un nuovo spira-
glio per la comunità ebraica, per
quasi un ventennio al centro di
tensione e preoccupazioni e di un
clima di odio del quale è accusato
il governo stesso. A par-
lare sono i numeri: se-
condo la testata Alge-
meiner, infatti, dal 1999
al 2015 gli ebrei resi-
denti in Venezuela sa-
rebbero scesi vertigino-
samente da oltre venti-
mila a non più di settemila.
Un crollo causato sì dalla crisi
economica, ma in parte anche
dalla vicinanza della classe diri-
gente alle politiche di paesi ostili
a Israele come Iran e Siria e al-
l’appoggio ad Hamas, il gruppo
terroristico che con-
trolla la Striscia di
Gaza.
Nel 2004, durante la
presidenza Chavez
(che non ha mai na-
scosto il proprio ap-
poggio totale alla
causa palestinese), si sono regi-
strati due episodi antisemiti par-
ticolarmente gravi: prima la Se-
phardic Tiferet Israel Synagogue,
uno dei centri più importanti del-
l’ebraismo sefardita del Venezue-
la, è stata vittima di ripetuti at-
tacchi, sfregiata da graffiti con-
tro la politica israeliana (episodi
ripetutisi nel 2009), poi l’apice si
è raggiunto nel novembre dello
stesso anno con un raid da parte
della polizia armata in una scuola
ebraica di Caracas. La giustifica-
zione sarebbe stata che all’inter-
no dello stabile ci sarebbero sta-
te prove schiaccianti riguardo
l’assassinio del procuratore Dani-
lo Anderson (durante un pro-
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ú–– Ada Treves
Non è stata l’idea di essere senzaaltre possibilità, a spingerli a la-sciare l’Italia, e neppure un sensodi claustrofobia nei confronti dellapropria comunità ebraica: i giovaniebrei italiani sono più pragmatici.Che siano partiti per conseguireuna laurea valida in più paesi, perimparare meglio la lingua, o cheParigi fosse il sogno della città delleluci e dell’amore, all’estero hannotrovato una vita soddisfacente,spesso piena di soddisfazioni. Unamore realizzatosi in un matrimo-nio, l’obiettivo accademico, un pro-getto lavorativo chiaro, tutto parladi ragazzi determinati e con ideeben definite, molto solidi e soprat-tutto capaci di resistere agli inevi-tabili momenti di sconforto. E chenon si sono fatti intimorire né dagliattentati che a gennaio 2015 han-no colpito la redazione di CharlieHebdo e l’Hypercacher, né dagliattacchi terroristici di novembre.La più giovane, Sara, partita a 18anni per iscriversi a filosofia a Pa-rigi, è anche quella che forse pro-prio per la sua formazione si èmessa più in discussione durantegli anni passati a Parigi. Ed è an-cora lei, a 22 anni, la più criticaverso una società che forse non hasaputo cogliere i molti segnali eche ancora oggi non riesce a met-tere in discussione un modello so-ciale che “evidentemente non fun-ziona così bene”. Dopo la laurea,alla Sorbonne, Sara ha deciso direstare, investendo dodici mesi inun servizio civile dedicato ad av-vicinare i più piccoli alla lettura, ecollabora da tempo a laboratori difilosofia per bambini. L’idea diprendersi 12 mesi per decidere co-sa fare non è stata messa in discus-sione dagli attentati che - almenoin queste settimane - hanno un im-patto notevole sulla vita quotidianadei parigini, ma qualche dubbioc’è: “È mancata la capacità di ca-pire che questo era il momento diaffrontare la situazione con corag-gio, e forse anche di mettersi in di-
Venezuela, un nuovo inizio per tutti
scussione”. La vita di tutti i giorniè cambiata poco, per questi gio-vani che già a casa erano abituatiai controlli di sicurezza davanti ailuoghi ebraici e che si sono con-frontati anche più volte con la re-altà israeliana, fatta di un livello diattenzione molto diverso da quelloeuropeo e dalla consapevolezzache gli attentatori potrebbero col-pire chiunque, in qualsiasi momen-
to. “Credo che questa sia una delledifferenze maggiori che ho coltorispetto ai miei amici non ebrei,che invece hanno reagito in ma-niera davvero molto più forte dellamia agli attentati. Non si tratta diuna novità assoluta, per me, e forseanche per questo i controlli e i mi-litari non mi hanno turbato parti-colarmente”. Sono parole di Clau-dio, giovane milanese che a Parigi
ha appena concluso il suo percorsodi studi, ma si tratta di un pensierolargamente condiviso da tutti. Unanno in Israele, con un movimentogiovanile ebraico, poi la scelta diun percorso di studi che dopo To-rino lo ha portato prima a Londrae poi a Parigi. Cosicché, racconta,“sono in giro da sei anni”. OraClaudio si sta godendo sei mesi acasa, ma non per farsi coccolare:
“Ho trovato uno stage ottimo, an-che per il curriculum, e sto pen-sando a un futuro negli Stati Uniti”.Il percorso che lo ha portato a vi-vere in diversi paesi non è affattoinfrequente fra i giovani ebrei ita-liani all’estero: Michela, partita perLondra 8 anni fa, confessa di averscelto il Regno Unito perché dopola laurea in Statistica a Roma cer-cava un’esperienza all’estero, e lìc’erano degli amici su cui contare.“Pensavo di sapere bene l’inglese,ma quando sono arrivata mi è pre-so un colpo!” racconta ridendo.Ma l’essersi trovata fra persone co-nosciute è stato un aiuto. “Ero giàmolto attiva nei movimenti giova-nili ebraici, ed è stato naturale in-serirmi nella comunità, ma già aLondra - dove ha trovato rapida-mente un lavoro alla LondonSchool of Economics - frequenta-vo prevalentemente ebrei francesi”.Ed è proprio in quell’ambiente cheha conosciuto colui che è poi di-ventato suo marito, e padre di suofiglio, e così ha scelto Parigi, doveda sei anni lavora come ricercatri-ce economica all’Ocse. “Gli atten-tati sono diventati argomento di
“La nostra scelta si chiama Parigi”
u Michela, romana, ricercatrice economica per l’Ocse u Michele (in rosso), torinese, collabora con l’Ocse
u Claudio, milanese, ha appena terminato il percorso di studi alla ESCP Europe u Noemi, fiorentina, studia diritto internazionale u Rachele, fra Bologna, Milano e Parigi
conversazione quotidiana, ma ioa Parigi sto bene. Mi manca la miafamiglia, certo, e non sono partitaperché volevo lasciare qualcosache non mi piaceva, semplicemen-te volevo fare un po’ di esperienzaall’estero”. La sensazione di sicu-rezza che dava vivere a Londra -anche questa una sensazione con-divisa - è differente dalla realtà pa-rigina dove anche ora i controlli,raccontano i ragazzi che conosco-no la competenza israeliana, nonpare gestita in maniera professio-nale. Anche il torinese Shemuel,che sta facendo un dottorato a Pa-
rigi ma “data la vicinanza” si defi-nisce “pendolare”, prima di studia-re in Francia ha preso un mastera Londra dove, conferma, la sen-sazione di sicurezza è decisamentepiù forte. “Il percorso che faccioper arrivare all’Essec, dove studio,è spesso interrotto dagli allarmiper i pacchi sospetti in metropo-litana, e anche i controlli all’ingres-so prendono tempo, non erano at-trezzati per una realtà del genere”.Nessun ripensamento però, la vitacontinua, anche se qualche do-manda in più prima di uscire orase la fanno tutti. “Il mio progetto
è sempre stato quellodi rientrare, questa era
una ottima opportunità di studio,ma non ho mai pensato di passarela mia vita fuori dall’Italia”. Noemi,fiorentina arrivata da poco a Parigi,punta invece decisamente all’este-ro, conseguenza naturale del suopercorso di studio, ed è in Franciaper migliorare il suo francese, “fon-damentale per lavorare a Bruxelleso Ginevra, dato che mi dedico aldiritto internazionale”. L’impattocon la vita all’estero - sei mesi datrascorrere fra i corsi di francese ei pomeriggi a occuparsi dei suoicuginetti - è mediato dalla famiglia:ospite da parenti, infatti, ha iniziatoa muoversi in città proprio graziealle loro amicizie. “Conosco gentesconvolta dagli attentati, che nondorme da settimane, e mi sono ad-dirittura chiesta se sono io ad es-sere strana, ma davvero essereebrei a Parigi oggi significa ancheavere la consapevolezza che sonocose che purtroppo possono suc-cedere”. Il livello di frequentazionedegli ambienti ebraici non è cam-biato particolarmente rispetto allavita in Italia, anche se la scopertadella maggiore apertura e varietàha sicuramente una sua attrattiva,ma quasi hanno anche ritrovatopersone già conosciute nei movi-menti giovanili. Una sorta di pic-cola rete che ovunque ci si rechiaiuta a superare i momenti in cuila burocrazia può creare qualchedifficoltà, o quando ci sono pro-blemi con la ricerca della casa. An-che Rachele, che da Parigi è rien-trata da poco anche se continua arecarvisi regolarmente per portare
gramma in tv si era alluso alla
possibile collaborazione di Israele
nel delitto). L’azione si rivelò un
buco nell’acqua e portò solo al-
l’evacuazione di 1500 bambini
terrorizzati. Un raid denunciato
dal Simon Wiesenthal Center co-
me vera e propria azione antise-
mita. “Un pogrom piuttosto che
un atto riconosciuto dalla legge”,
fu definito. Negli anni seguenti
episodi violenti contro la comu-
nità si sono moltiplicati, nascosti
dietro la profonda avversione
contro lo Stato d’Israele: “Non c’è
dubbio – spiegava il giovane sin-
daco di El Hatillo David Smolan-
sky, discendente di una famiglia
ebraica – che il governo sia pro-
fondamente antisemita”. Dopo le
elezioni, Smolansky si dimostra
però positivo: “Ora Nicolás Madu-
ro deve abbandonare l’arroganza,
essere umile nella sconfitta e ca-
pire che il paese sta cambiando
grazie al voto popolare”.
avanti il suo progettodi ricerca, si dice“molto condizionatadal percorso nei mo-
vimenti ebraici”.Adesso abita a Mi-lano. “Ci vivo conmio marito, sonomolto legata alla miafamiglia d’origine e
non penso vorrei vivere altrove,ma certo l’ambiente accademico aParigi mi ha offerto una varietà euna possibilità di studiare quelloche volevo che qui in Italia è im-pensabile”. La laurea a Bologna, inislamistica con una tesi sugli ebreiin Marocco, è arrivata dopo l’Era-smus a Parigi, insieme a periodi inIsraele per fare ricerca. “Per gli ar-gomenti di cui mi occupo - dice -Parigi è un paradiso”. Michele, to-rinese che si occupa di politichedelle competenze, è tornato a Pa-rigi da poco, per un nuovo progetto- lavora da free lance, ora all’Ocse- ma dopo la laurea a Milano, inBocconi, ha fatto un master in ma-croeconomia a Barcellona. Nel suopercorso c’è anche l’Erasmus inDanimarca, e Israele per un pro-getto sull’hightech, oltre a Bruxelles.“Certo, la voglia di vedere il mondooltre alle ‘mura’ torinesi è semprestata forte, ma ho scelto questi luo-ghi perché lì potevo studiare le coseche mi interessavano. Non facciouna vita diversa da quella che fa-cevo prima degli attentati, ma mirendo conto che in giro qui si re-spira un’atmosfera simile a quellache ho vissuto in Israele durantel’Intifada. Del resto ho un amicocolombiano che mi ha rccontatocome anche per lui si tratta di si-tuazioni relativamente normali. Ionon ho affatto intenzione di cam-biare le mie abitudini, neppure diconsumo. Il mio luogo di lavoro èun ‘obiettivo sensibile’, e la sicurez-za è davvero molto diversa ora. Mipare abbiano un po’ perso il lumedella ragione.” Racconta come inambito ebraico, diversamente dalresto dei francesi, l’effetto degli at-tacchi di gennaio sia stato già moltoforte, “mentre i parigini si sono sen-titi colpiti davvero solo a novem-bre: prima era netta la sensazioneche si trattasse di obiettivi mirati,tutti ora invece si sentono coinvolti,e potenzialmente in pericolo”. Ma i giovani ebrei italiani che vi-vono a Parigi pur ponendosi oraqualche domanda in più paionoben attrezzati a gestire la situazione,e di certo non si fanno né intimo-rire né sviare dai loro progetti. Oltrealla resilienza mostrano coraggio,idee chiare, e un grande slancio ver-so il futuro, che passa magari damolti paesi. Perché basta poco persentirsi a casa.
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Fortunatamente Mark Zuc-
kerberg non è il primo e
non sarà l’ultimo multimi-
liardario a donare gran par-
te della sua fortuna in be-
neficenza. A percorrere la
stessa strada è stato Elie
Horn, magnate brasiliano
leader nel settore immobi-
liare che ha deciso di devol-
vere il 60 per cento dei suoi
beni in opere filantropiche.
Originario di una famiglia
ebraica di Aleppo, in Siria,
Horn aveva dichiarato la
propria intenzione già da
diverso tempo e l’ha resa
ufficiale con una lettera,
che reca la sua firma e quel-
la della moglie Susy, nella
quale comunicano di essere
entrati a far parte del Gi-
ving Pledge, il programma
fondato da Warren Buffett
e Bill Gates che spinge i mi-
lionari del mondo a donare
parte del proprio patrimo-
nio.
“Con la presente – si legge –
confermo di voler persegui-
re l’impegno preso 10 anni
fa di donare il 60 per cento
dei miei averi in beneficen-
za (in ebraico si chiama tze-
dakah, e significa giustizia).
Come esseri umani non por-
teremo nulla con noi all’al-
tro mondo se non le nostre
buone azioni”. Tra i suoi
obiettivi, investire su scuola
ed educazione.
Fondatore nel 1978 della
compagnia Cyrela, Horn è il
primo brasiliano ad aderire
a The Giving Pledge e ha
spiegato come l’idea sia do-
vuta a un’eredità di fami-
glia: “Mio nonno aprì in Siria
un orfanotrofio, mio padre
prima di morire, anche se
non era ricco, donò il 100%
dei suoi averi”.
Lavoratore instancabile, Elie
Horn passa anche 16 ore al
giorno in ufficio. Ma ha una
regola: mai lavorare di
Shabbath: “Io dico: se è vero
che siamo ebrei, dobbiamo
rispettare Shabbat”.
Il Brasilesolidale
u Shemuel, torinese, studia all’ESSEC Business School
u Sara, romana, laureata in Filosofia alla Sorbonne
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Nelle scorse settimane il quoti-diano britannico Financial Timesha dedicato ampio spazio a unaazienda hi-tech israeliana che stalanciando la sfida al colosso Uber,il quale offre in molti paesi delmondo una alternativa low-costai taxi per gli spostamenti incittà. La piccola app israeliana sichiama Gett e da alcuni anni offrenel Regno Unito e in Russia ser-vizi di trasporto di persone perpercorsi brevi in città. A diffe-renza di Uber, che si avvale divetture private e guidatori senzalicenza, una caratteristica che in
molti paesi ha scatenato l’opposi-zione dei tassisti e ha indotto leautorità a vietare il servizio, Gettsi appoggia unicamente a tassisticon licenza e vetture con insegna,prevenendo così qualsiasi tipo dicontenzioso. Gett è stata fondatanel 2011 da Shahar Weiser, 40anni, emigrato in Israele dallaRussia all’età di 16 anni. Dopoaver prestato servizio nell’esercitoisraeliano in una delle unità spe-cializzate nell’utilizzo dell’infor-matica ha dapprima lavorato perun’altra società hi tech di suc-cesso per poi fondare la sua Gett.Dal 2011 Gett ha triplicato i suoiricavi, che nel 2015 hanno toccatoi 500 milioni di dollari, el’azienda conta decine di dipen-denti. Come tutte le aziende hitech anche Gett non riceve finan-
ziamenti dalle banche ma ha fattoricorso a investimenti di capitaliprivati, per 220 milioni di dollari;piccola cosa in confronto al con-corrente, il colosso Uber, in cui iprivati hanno investito capitaliper 10 miliardi di dollari. L’ul-tima sfida che Shahar Weiser, ilfondatore di Gett, sta affrontandoè quella di allargare il businessdell’azienda dal trasporto di per-sone al trasporto di piccole merci.Lo scorso mese di ottobre si eranoformate lunghe file di clienti difronte agli Apple Store di Mosca,in attesa della messa in commer-cio dell’ultimo modello di iPhone;moltissimi acquirenti, tuttavia, sisono risparmiati le ore di attesa alfreddo rivolgendosi a Gett, che siè incaricata del ritiro in negozio edella consegna a domicilio. L’am-
bizione di Weiser è quella di effet-tuare la consegna a domicilio, inpochi minuti, di un ampio nu-mero di beni di largo consumo,come elettronica, alimentari, fiori,farmaci. A suo avviso questo tipodi mercato ha un potenziale ele-vato, nonostante la concorrenzadi giganti come Amazon e di nu-merose piccole società di tra-sporto. Uno dei vantaggi di Gett èquello di poter disporre di unaampia base di clienti, quella chericorre al servizio taxi, e quindi dinon dover sostenere ingenti inve-stimenti pubblicitari, che spessorappresentano un ostacolo insor-montabile per nuove aziende.Riuscirà Weiser a vincere lasfida, conquistandosi uno spazioanche nel settore della consegnarapida di piccole merci in città?
Riuscirà a espandersi al di fuoridel Regno Unito e della Russia,dove ha finora operato? Fare pre-visioni è difficile e solo il tempo lodirà. Quel che è certo è Weiserrappresenta uno dei pochissimicasi di imprenditori israelianidell ‘high tech che, dopo avercreato una attivitá imprendito-riale profittevole e di successo, in-vece di uscire (exit) e cederel’azienda a qualche colosso ameri-cano (così hanno fatto i proprie-tari di Waze, l’app israelianaspecializzata nelle mappe stradalicon informazioni sul traffico) ri-mane in sella e “raddoppia” l’in-vestimento. Questo è un fatto dibuon auspicio perché va nella di-rezione di attenuare il “nanismo”di cui soffre il settore dell’hightech israeliano.
ú–– Aviram Levyeconomista
Da Israele l’app che vuole sfidare il gigante Uber
ú–– Rossella Tercatin
Not so fast, non così in fretta. Cosìammoniva l’Economist poche set-timane dopo la firma dell’accordosul nucleare iraniano, rivolgendosia uomini d’affari e delegazioni go-vernative ansiose di fare businessin un paese da 80 milioni di abitantie con una delle più ingenti riservedi petrolio del globo. Da quandol’intesa è stata finalizzata lo scorsoluglio, e persino nei mesi preceden-ti, tra Teheran e le capitali del mon-do, occidentale e non, il traffico èstato frenetico. Il tutto in attesa del“Giorno dell’Implementazione”,previsto per inizio 2016, in cui lesanzioni dovrebbero essere effetti-vamente superate.Eppure, potrebbe essere impruden-te affrettarsi a dipingere la Repub-blica degli Ayatollah come un ElDorado per curare economie sof-ferenti.L’accordo raggiunto è stato oggettodi molte discussioni e critiche dalpunto di vista politico e morale, sol-levando interrogativi come se siagiusto sospendere le sanzioni a un
regime che quotidianamente violai diritti umani dei propri cittadini,fornisce armi a gruppi terroristi eminaccia l’esistenza di altri Stati so-vrani, in particolare Israele. Inter-rogativi che non hanno scalfito l’en-tusiasmo di businessmen e fautori
della realpolitik. Poco si è riflettutoperò sull’aspetto delle profonde in-cognite che circondano il paese dalpunto di vista economico, comespiega a Pagine Ebraiche Rony Ha-maui, docente di Economia mone-taria all’Università cattolica di Mi-
lano, direttore generale di Medio-credito italiano e autore, insieme aMarco Mauri, di Economia e finanzaislamica. Quando i mercati incontranoil mondo del Profeta (Il Mulino).“La ragione per cui l’Iran esercitauna simile attrattiva in Occidente
è la grande fame di nuove oppor-tunità creata da un contesto in cuitutti i principali paesi emergenti, icosiddetti Brics (Brasile, Russia, In-dia, Cina e Sudafrica ndr), sono og-gi in crisi. Così gli imprenditori cer-cano sbocchi diversi, e la diploma-zia è sempre più spesso attività difacilitazione degli affari”, sottolineaHamaui.Così non erano passati pochi giorni
ECONOMIA
IL COMMENTO LA CONTABILITÀ IN “NERO” DEI JIHADISTI DI DAESH
Già se ne è diffusamente parlato,su queste ed altre pagine, ma valela pena di tornarci: di che cosacampa il cosiddetto Califfato? Larisposta pronta è sempre la stessa:il petrolio, che diamine! In realtà èuna convinzione tanto diffusa –oggi ancora di più, dal momento
che Putin ha accusato Erdogan dimercanteggiare sottobanco con igruppi terroristici – quanto illu-soria. Incompleta, comunque lavoglia vedere. Le stime che arri-vano dalla Cia, nel suo WorldFactbook, indicano una crescitadel Daesh che, al momento at-tuale, controlla un territorio a”geometria variabile” con circa sei
milioni di abitanti. Se nella suafase di avvio, tra il 2008 e il 2009,aveva una capacità economicapressoché irrilevante o comunquetrascurabile, ovvero intorno ai tremilioni di dollari l’anno, oggi ilProdotto interno lordo dei seguacidel sedicente Califfato si aggire-rebbe intorno al miliardo di dol-lari. Quanto conta il commercio
clandestino dell’oro nero? La ca-pacità estrattiva sarebbe piuttostocontenuta, aggirandosi tra i tren-tamila e i cinquantamila bariligiornalieri. La mobilità dei fronti,peraltro, non l’aiuta. Se pocomeno di due anni fa, al momentodella conquista di Mossul, il va-lore del Brent e dei derivati eraancora sui centocinque dollari al
barile, oggi non supera i quaranta.La vendita del petrolio dello Statoislamico, peraltro, avviene in ge-nere a metà del prezzo “legale”. Icombattenti “censiti” dell’Isis,buona parte dei quali veri e proprimilitari passati nel corso deltempo dalla parte dell’organizza-zione terroristica, sono circa tren-tamila. Detto tutto questo, come si
CLAUDIO VERCELLI
L’Iran non è l’El Dorado
u A sinistra Gentiloni con Rohani.
Sopra l’economista Rony Hamaui
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La Fondazione TogetherToGo Onlus (TOG), fondata nel 2011,
ha aperto a Milano nel 2012 un centro di Eccellenza per la Riabilitazione di bambini affetti da Patologie Neurologiche complesse.I bambini con queste patologie hanno deficit plurimi che colpiscono la motricità, la comunicazione, la cognitività e gli aspetti del comportamento.
La terapia fondamentale per curarli è appunto la Riabilitazione nei vari settori per loro problematici.Le proposte riabilitative devono essere, data la complessità delle patologie, estremamente qualificate qualitativamente, quantitativamente adeguate e tempestive: solo così si può
incidere nello sviluppo di questi bambini e portarli al loro massimo potenziale.Il Centro TOG segue oggi 107 bambini con programmi individualizzati, portati avanti da professionisti di alto valore scientifico e li segue in regime di totale gratuità.
Il centro non ha sostegni economici dalle istituzioni pubbliche, pur avendone l’accreditamento ed il riconoscimento scientifico; si sostiene con un grande lavoro di raccolta fondi che coinvolge le famiglie, i donatori privati, le aziende, le Fondazioni e tutti quelli che credono in questo progetto e nel diritto di questi bimbi ad essere aiutati e facilitati ad esprimere al massimo le loro capacità residue.
Per sostenere l’attività del Centro TOG è possibile fare una donazione a:
FONDAZIONE TOGETHER TO GO ONLUS
IBAN IT18 Q 05696 01600 000017175X39 Swift POSOIT22
portano. Si dice che i mercati ab-biamo memoria molto corta - ri-marca ancora Hamaui - Per esem-pio ci si scorda facilmente dei casidi commesse non pagate in seguitoagli embarghi”.
A caratterizzare l’Iran poi vi è unaltro fattore ancor più trascurato.“Teheran è uno dei tre paesi almondo con una finanza completa-mente islamizzata - ricorda Hamaui- Per volontà degli ayatollah, l’intero
settore rispetta la sharia. Questocomporta che tutti i contratti di na-tura finanziaria osservano due o treregole fondamentali, dai tassi di in-teressi limitati, all’impossibilità diottenere fondi da attività non con-sentite secondo la legge islamica”.Elementi che il professore spiegaessere davvero poco conosciuti inOccidente. “Per muoversi in modoappropriato in un contesto del ge-nere, ci vorrebbe una consapevo-lezza che a mio parere manca, unavigilanza diversa, una comprensionedella cultura locale, che è sciita enon araba, per certi aspetti più laica,per altri più intransigente. Ma daquello che posso riscontrare, l’ap-proccio rimane alquanto superfi-ciale”.
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Rony Hamaui,Marco MauriECONOMIA E FINANZAISLAMICA Il Mulino
Rony Hamaui,Luigi RuggeroneIL MEDITERRANEODEGLI ALTRI Bocconi
dalla firma dell’accordo a Vienna,che il ministro degli Esteri franceseLaurent Fabius sbarcava a Teheran,in una tra le molte visite della re-gione da parte di leader occidentali,incluso il ministro degli Esteri ita-liano Paolo Gentiloni. Visite checostituiscono un preludio al grandeviaggio del presidente iraniano Has-san Rohani in Europa, Italia com-presa, che doveva tenersi a metànovembre, rimandato a gennaio
dopo gli attentati di Parigi. “È veroche in Iran le sanzioni hanno creatouna domanda repressa, ma hannoanche prosciugato i fondi per fi-nanziarne la soddisfazione”, scriveancora l’Economist, menzionandola drastica caduta dei prezzi del pe-trolio, nepotismo, imprevedibilitàlegale, inflazione galoppante.“Comespesso accade, negli affari come inaltri contesti, si tenta di dimenticareil rischio che le opportunità com-
sostiene l’organizzazione di AlBaghdadi? In realtà il controllodel territorio, e la sua messa a re-gime economico, sta divenendo ilvero architrave che sorregge l’im-palcatura del Daesh. Il primo ele-mento è offerto dalla fruizione deibeni pubblici, a partire da quelliarchitettonici, urbanistici e anti-quari, a proprio beneficio. Già da
tempo un’intelaiatura di ufficiprovvede alla loro amministra-zione, in ciò avendo a modello ilsistema delle fondazioni musul-mane, snodo strategico dell’econo-mia mondiale in quelle regioni, Siè parlato di un “Islamic RealEstate”, un mercato immobiliareflorido, malgrado il conflitto incorso. A ciò si accompagna il si-
stema delle tassazioni, ordinarie estraordinarie, imposte ai civili.Gli uomini del Califfato sannobene che non possono vessare fi-scalmente oltre una certa misura,pena il rischio che la collettività siribelli, prima o poi, contro di loro.Il sistema delle aliquote è suffi-cientemente “morigerato”, tenutoconto che i regimi preesistenti
condividevano un tratto comunequello di essere estorsivi. Una seconda risorsa è il traffico il-lecito di antichità, di esseri umanie il sistema delle estorsioni e deiriscatti. Tre “industrie”, quest ul-time, molto diffuse, consideratedel tutto lecite dal punto di vistadi chi le pratiche. L’economia di guerra di Daesh è
fatta anche di questa falsa norma-lità. Per questo, e per la rete dicomplicità che la sostiene, po-trebbe durare. Fermo restando che senza forza fi-nanziaria nessuna attività mili-tare e politica può durare unsecondo di più di quello che si ac-compagna all’uso dell’ultimo cen-tesimo a disposizione.
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n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraicheCULTURA EBRAICA
u גנאה דאית ביך קדים אמרהANTICIPA E DICHIARA TU IL TUO DIFETTO
Una grande rivoluzione è avvenuta quando, da una società fatta di cer-tificazioni, si è passati ad un altra fatta di auto-certificazioni. Anche nelmondo del lavoro a valere una volta erano soprattutto le referenze.Oggi innanzitutto si parte dal curriculum vitae, che costituisce se vo-gliamo il biglietto da visita. Il suo limite è quello di essere self made,'fatto in casa', salvo la possibilità per il destinatario di fare approfondi-menti e verifiche. Una questione rimane aperta: è meglio segnalare su-bito un punto a nostro sfavore, un difetto, un’imperfezione o unalacuna e sgombrare il campo da equivoci, o affidarci alla sorte e atten-dere sperando che il 'neo' non venga alla luce? Pure questioni più blande pongono di fronte alla stesso dilemma e na-scondono ora una strategia, ora una sfaccettatura del proprio carattere.Una macchia su un vestito o una smagliatura delle calze a ridosso diun appuntamento, deve essere tra primi punti della conversazione condettaglio delle cause improvvise che l'hanno determinata o meglio glis-sare e concentrarsi su cose più importanti? Indicazioni utili si trovano ancora una volta nella pagina di Talmud deltrattato di Bavà Qammà più ricco di adagi in assoluto, non obbligato-riamente ebraici, che i maestri cercano di collegare a situazioni e episodibiblici, quasi a trasmetterci la convinzione che la saggezza popolare al-berga dappertutto. Due maestri non hanno dubbi in proposito e cre-dono che sia meglio rinunciare ad ogni reticenza e mettere in chiarole cose dall’inizio. Rava chiede a Rabbà bar Mari’ di indicargli una fonteche lo proverebbe. Avraham invia Eliezer a cercare moglie per Isacco eparte carico di ricchezze e bestiame per il viaggio che lo condurrà aCharan. Salutato da Labano che lo accoglie in casa attirato da tanto bendi Dio, Eliezer dichiara come prima cosa: “Io sono servo di Abramo”.Messe le cose in chiaro, racconta le finalità della delicata missione chesarà coronata da successo. L’excusatio, proprio perché non petita, ma-nifesta l’umiltà e la consapevolezza del proprio ruolo senza imbarazzoe senza inganno.
Amedeo Spagnoletto
sofer
ú– COSÌ DICE LA GENTE… כדאמרי אינשי
Adottare un Sefer Torah
ú– STORIE DAL TALMUDu INUTILI IDOLIDisse rabbi Tanchumà: Avvenne un episodio in una nave di idolatri chenavigava nel Mare Mediterraneo e fra i passeggeri c’era un bambinoebreo. Arrivò una tempesta che minacciava di affondare la nave e ognu-no dei viaggiatori afferrò il proprio idolo pregandolo che facesse calmareil vento, ma non servì a niente. Quando tutti videro che gli idoli nonavevano alcun potere, dissero al bambino ebreo: “Figliolo, orsù invocail tuo Dio, di cui abbiamo sentito che vi ascolta quando lo implorate edè potente”. Immediatamente il bambino si alzò e pregò con tutto ilsuo cuore. Il Santo benedetto Egli sia accettò la preghiera e il mare sicalmò. Quando scesero a terra, ognuno se ne andò a fare acquisti diciò di cui aveva bisogno. Dissero a quel tal bambino: “Non devi comprareniente per te?”. Disse loro: “Che volete che faccia questo misero stra-niero [ossia lui stesso] che non sa dove andare?”. Gli risposero: “E tusaresti un misero straniero? Noi siamo coloro cui si addice essere chia-mati ‘miseri stranieri’, perché siamo qui e le nostre divinità se ne stannoin Babilonia, oppure siamo qua e le nostre divinità stanno a Roma, eanche quando abbiamo le nostre divinità con noi non servono a niente;ma tu sei ebreo e, ovunque tu vada, il tuo Dio è con te e ti risponde inogni momento”. Ecco ciò che è scritto: “Chi è quel grande popolo cheha Dio vicino a lui come il Signore Dio nostro è vicino a noi ogni voltache Lo invochiamo?” (Deut. 4:7). (Adattato dal Talmud Yerushalmì, Be-rakhot cap. 9 halakhà 1 con i commenti).
rav Gianfranco Di Segni
Collegio rabbinico italiano
ú–– Rav Alberto Moshe Somekh
Commentando uno dei primi versetti della Para-shat Lekh Lekhà (Bereshit 12,6) che narra deglispostamenti di Avraham nostro Padre in EretzKena’an, soffermandosi su dettagli apparentemen-te irrilevanti, Nachmanide illustra il principio Ma-’asseh avòt simàn la-bbanim (“Ciò che è accadutoai padri è un segno per i figli”). Egli spiega checiò che nel racconto non ha un’evidenza concreta,se viene riportato ha certamente un significatosimbolico per le generazioni future: nella fatti-specie si vuole instillare l’idea che tutta la terrad’Israele appartiene alla stirpe di Avraham. Dipiù: il gesto simbolico avrebbe conferito irrevo-cabilità alla profezia. Questa considerazione dimetodo acquista valore nella storia biblica suc-cessiva. Allorché Yehoshua’ si accinse alla presadi ‘Ai, per ordine divino diede il segnale di attaccosollevando la propria lancia (8,18). Ma, dal mo-mento che i soldati preposti all’imboscata eranostati collocati dall’altra parte della città, si doman-da un commentatore co-me avrebbero mai potu-to scorgere l’ordine delcapo da così gran distan-za. Anche in questo casosi deve rispondere che seil gesto fisico non ha al-l’istante alcuna attinenza,dobbiamo piuttosto at-tribuirgli un significatosimbolico per il seguito.Yehoshua’ tenne il brac-cio teso fino all’esito del-la battaglia (v. 26): il con-tingente, l’effimero divie-ne duraturo.Mi sono tornati in men-te questi concetti il 15ottobre scorso, assisten-do ad un evento del tut-to particolare: l’introdu-zione di un Sefer Torahrestaurato nella sinagoga di Ivrea. Omer Goldstein,un signore israeliano di mezza età giovanile e gio-viale, ha acquistato a Gerusalemme un vecchioSefer Torah da ripristinare, a quanto pare di pro-venienza tedesca, lo ha poi fatto rimettere a postoa sue spese e lo ha donato a Ivrea memore e gratodegli anni della sua infanzia trascorsi in quellacittà, dove il padre fu ingegnere all’Olivetti perun periodo. In cosa consiste la particolarità dell’evento? LaComunità di Ivrea è una delle più antiche del Pie-monte: l’insediamento è già documentato nel1395, pochi mesi dopo la cacciata degli ebrei dallaFrancia che segnò l’inizio della presenza ebraicain questa regione italiana. Peraltro da molto temponon risiede più un minian in città. Da ventitréanni ho il privilegio di recarmi a Ivrea una seraal mese per insegnare Torah: per un gruppo cosìesiguo è certamente un obbiettivo degno di ognirispetto. In tutto questo tempo non ho mai me-ritato di vedere una lettura del Sefer Torah nellocale Beth haKnesset. Ad onor del vero, da qual-che anno un gruppo di ebrei torinesi organizzauno shabbaton annuale in un albergo sul vicinoLago Sirio cui anche gli eporediesi prendono par-te.
Quando ho saputo della donazione, devo con-fessarlo, la mia prima reazione è stata di stuporeper due motivi. Anzitutto, ci sono in Italia sina-goghe regolarmente funzionanti che tanto ane-lerebbero ad incrementare la propria dotazionedi Sifrè Torah kesherim (atti all’uso) e questo si-gnore ha finanziato un’operazione del genere “afondo perduto”! Per contro, le ghenizot (ripostigli)delle sinagoghe italiane sono già sufficientementepiene di vecchi Sifrè Torah pessulim (inservibili)che almeno in parte sarebbero anch’essi recupe-rabili senza dover portare altri “vasi a Samo” dal-l’estero! Eppure, riflettendoci meglio, ho colto ilvero senso dell’evento.Scriversi (o farsi scrivere) un Sefer Torah è la613esima mitzvah: “Chi lo scrive di suo pugno ècome se lo ricevesse dal Sinai” (Menachot 30a) .La lettura, peraltro, è necessaria: non solo pernoi stessi secondo le Parashot settimanali, ma an-che per la conservazione del rotolo. Troviamonella Mishnah (Bavà Metzi’à 2,8) che chi avesseritrovato dei libri (volumina di pergamena a quel-
l’epoca) appartenenti adaltri, in attesa di restituirliaveva il dovere di aprirliuna volta ogni trentagiorni: altrimenti rischia-vano di ammuffire! Se ilcustode fosse stato ingrado di leggerli, lo si au-torizzava a farlo a certecondizioni. Di quel gene-re di testi dell’antichitàne rimane a noi oggi unosolo: il Sefer Torah!Auguro dunque che lasua lettura si realizzi. Mase dalla donazione in sénon dovesse derivare al-cun beneficio pratico, es-sa costituisce pur sempreun segno per altri in dif-ferenti luoghi. È anchemitzvah correggere e ri-
pristinare Sifrè Torah già esistenti: operazioneche certamente ha dei costi, ma decisamente in-feriori alle cifre necessarie all’acquisto di un SeferTorah nuovo. In qualsiasi Comunità ci sarà ancoraun “Signor Goldstein” in grado di affrontare unaspesa non superiore a due, tre, massimo quattro-mila euro. Perché queste persone non si mobili-tano, magari in occasione di qualche evento fa-miliare, e “adottano” un vecchio Sefer Torah delproprio Beth haKnesset facendolo rimettere inuso? Un’iniziativa del genere consentirebbe an-zitutto ai donatori stessi di legare ad essa il proprionome, perché è disdicevole sapere di avere deiSifrè Torah in cattive condizioni senza cercare direcuperarli, per quanto possibile. In secondo luogone avrebbe un vantaggio la Comunità che pregain quel Beth haKnesset e che potrebbe contaresu un numero maggiore di Sifrè Torah leggibili.Infine, perché no, si darebbe lavoro ai soferim in-caricati di svolgere materialmente il ripristino: neesistono di validi anche nel nostro paese. Sia dunque benedetto il signor Omer Goldsteindi Ivrea-Israele non solo per l’iniziativa concretache ha avuto il merito di portare a termine, maanche, e forse soprattutto, per l’esempio che cosìha dato a noi tutti.
ú– LUNARIOu TU BISHEVATIl 15 del mese ebraico di Shevat coincide con Tu-bishevat, il capodanno deglialberi che rappresenta un ringraziamento per il raccolto dell'anno. Durantela festività si usa preparare un seder, una cena, dove si mangiano alcuni deifrutti della Terra d'Israele.
u Omer Goldstein con il Sefer Torah
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pagine ebraiche n. 1 | gennaio 2016
Sul suo podio non c’era spazio per i compromessi
Le virtù di Arturo Toscanini nel campo della
musica e della direzione d’orchestra sono
fin troppo note, virtù che ne fanno uno dei
maggiori direttori d’orchestra del secolo
scorso. Ma le virtù umane, politiche e cul-
turali e soprattutto civili di Toscanini lo so-
no forse meno e richiedono, oggi in parti-
colare, alcune riflessioni. Vissuto in un’epo-
ca in cui prevaleva il concetto dell’arte per
l’arte, anche se poi nella realtà si è visto
quanti musicisti e direttori d’orchestra so-
no scesi a compromessi con i regimi politici
del tempo e con il potere, Toscanini ha of-
ferto un esempio di come l’arte possa e
debba esprimersi liberamente senza scen-
dere a compromessi con il potere ma al
tempo stesso non esima l’artista dal pren-
dere posizioni politiche e culturali quando
glielo detta la sua coscienza.
Nel dopoguerra abbiamo assistito a una
larga corrente di pensiero tra gli artisti che
affermava la necessità di un engagement
o, per dirla in termini più semplici, di un
impegno politico che doveva trovare
espressione nella propria produzione arti-
stica. Non è stata questa l’aspirazione di
Toscanini e non va confuso il suo forte im-
pegno civile per tutta la durata della sua
vita con l’ideologia dell’arte impegnata che
ha dominato larga parte della nostra cul-
tura nell’ultimo dopoguerra. Per Toscanini
l’arte e la politica sono due campi del tutto
diversi: l’impegno politico e civile dell’ar-
tista deve tradursi nella battaglia perché
l’arte rimanga libera da qualsiasi condizio-
namento politico.
Ripercorriamo brevemente le tappe più si-
gnificative della sua carriera artistica e ci-
vile che hanno proceduto di pari passo du-
rante tutta la sua lunga vita. Interventista
nella guerra ‘15-’18 e animato da spirito
patriottico, dopo un’iniziale adesione al fa-
scismo, confidando nell’origine socialista
di Mussolini, se ne distaccò ben presto
quando si accorse che in realtà il fascismo
scivolava sempre più a destra, e divenne
un fiero oppositore del regime ancora pri-
ma della marcia su Roma. Grazie al grande
prestigio internazionale che aveva acqui-
stato sin dai tempi del suo soggiorno in
America, continuò a dirigere la Scala, rifiu-
tandosi però di dirigere la Turandot di Puc-
cini se Mussolini fosse stato presente in sa-
la. La sua voce fu di aspra critica al regime
fascista e per qualche anno nessuno osò
toccarlo sino al 1931, quando avvenne un
grave incidente al teatro comunale di Bo-
logna. Al suo rifiuto di dirigere “Giovinezza”
fu schiaffeggiato e buttato a terra. Iniziò
così una campagna di denigrazione da par-
te del regime, gli fu ritirato per qualche
tempo il passaporto, controllato il telefono
e la corrispondenza. Questo episodio lo por-
tò a rinunciare a dirigere in Italia finché il
fascismo e la monarchia fossero stati al po-
tere. Nel 1933 ruppe del tutto i suoi rap-
porti con la Germania, abbandonò il Festi-
val wagneriano di Bayreuth e nel 1938, do-
po l’Anschluss, abbandonò anche il Festival
di Salisburgo nonostante i pressanti inviti.
A conferma dei suoi sentimenti contro il
regime fascista e nazista e le derive anti-
semite ormai chiare non solo in Germania
ma anche in Italia, alla vigilia delle leggi
razziste, nel dicembre del 1936 compì un
gesto estremamente significativo, accet-
tando l’invito all’inaugurazione della Or-
chestra Filarmonica di Palestina (la futura
Orchestra Filarmonica d’Israele) a Tel Aviv
appena costituita da Huberman, il violinista
tedesco che aveva convinto i suoi compa-
trioti tedeschi ed ebrei ad abbandonare la
Germania e cercare la salvezza in Palestina.
Toscanini diresse il concerto inaugurale e
altri concerti nei giorni seguenti a Gerusa-
lemme. E non volle neppure farsi rimbor-
sare le spese di viaggio dall’Italia. Quando
Mussolini emanò le leggi razziste, Toscanini
le definì “roba da medioevo” e aggiunse
“Maledetti siano l’Asse Roma-Berlino e la
pestilenziale atmosfera mussoliniana”, ado-
perandosi molto per aiutare gli ebrei per-
seguitati e i politici fuorusciti dal nazismo.
Persino Einstein ebbe a dire: “Il fatto che
esista un simile uomo nel mio tempo com-
pensa molte delle delusioni che si è costret-
ti continuamente a subire”.
Dopo la guerra, tornato in Italia dall’esilio
negli Stati Uniti, inaugurò la Scala ricostrui-
ta dopo i bombardamenti. Rifiutò la nomi-
na di senatore a vita, rimanendo fedele al-
l’immagine tradizionale di uomo schivo e
non amante degli onori e dei riconoscimen-
ti pubblici. La sua vita, pur riassunta qui
per sommi capi, ci presenta l’immagine di
un artista geloso della libertà della sua ar-
te, ma ben cosciente che tale libertà va di-
fesa attivamente e che un artista deve sa-
persi esporre come uomo quando è neces-
sario. L’artista se vuole affermare la libertà
dell’arte non può permettersi il lusso di ri-
tirarsi in una torre d’avorio: Toscanini ha
offerto un bellissimo esempio di questo no-
bile impegno e ha saputo pagare di persona
per questa difesa.
a cura di Ada Treves
Tel Aviv, 1936. In uno dei concerti che hanno fatto la storia della musica nasce l’Orchestra sinfonica di Israele. Roma, 27 gennaio 2016.
Un concerto straordinario in calendario al Parco della musica ricorda in occasione del Giorno della Memoria quel momento dram-
matico e luminoso riproponendo lo stesso programma di allora. E rende omaggio ad Arturo Toscanini che accettò di dirigere la
nuova formazione creata in quella che allora si chiamava Palestina da un violinista visionario, Bronislaw Huberman, che trasse in
salvo migliaia di colleghi perseguitati dall’Europa in fiamme. Ma la portata delle azioni di questi uomini coraggiosi non permise
solo di salvare tanti artisti, servì soprattutto per mostrare al mondo che contro la bestialità delle dittature qualcosa si poteva
fare. Un gesto che Toscanini compì d’impeto, diventando il simbolo di coerenza e impegno, dell’altra Italia che rigettava il fascismo.
ú–– Enrico Fubinimusicologo
Rivive oggi il concerto di Tel AvivDOSSIER /Toscanini, la musica della libertà
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DOSSIER /Toscanini, la musica della libertà
Le note che tornano. Per non dimenticareDopo “I violini della speranza” e “Tutto ciò che mi resta”, “Il potere della musica” è dedicato al grande direttore
Toscanini fu un uomo eccezionale.Nelle qualità e nei difetti. Grandis-simo musicista, creò l’immaginedivistica del direttore d’orchestrache è entrata nel nostro immagi-nario collettivo. Come la Callas, èdiventato un mito, e le sue inter-pretazioni sono considerate insu-perabili.Aveva però un pessimo carattere,irascibile, litigioso, aggressivo. Eraquello che oggi si direbbe un ma-niaco sessuale, e se fosse vissutonel XXI secolo sarebbe probabil-mente finito come Strauss Kahn.Ma era anche uomo di grandissimiideali e principi etici, e utilizzò ilcarisma della sua immagine peropporsi platealmente a fascismo enazismo. Dante avrebbe definitoil suo “il gran rifiuto” ma in acce-zione positiva: rifiutò infatti perben due volte di suonare “Giovi-nezza” in apertura di un concertoa Bologna nel 1931, nonostante lapressante richiesta di GaleazzoCiano, sottosegretario agli Internie presente in sala. Questo gli valseun pestaggio delle camicie nere, ela confisca del passaporto da partedi Mussolini, che dovette peròprontamente restituirglielo a causadelle proteste internazionali. Ap-pena rientrato in possesso del do-cumento, Toscanini si autoesiliòin America, giurando che non sa-rebbe è più tornato a suonare inItalia fino alla caduta del fascismo.Non solo. Rifiutò anche di inau-gurare nel 1933 il Festival di Bay-reuth, il più prestigioso evento mu-sicale al mondo, nonostante avesseun contratto firmato con Furtwan-gler; e non valse a smuoverlo dallasua decisione una lettera personaledi Hitler.Amico di Einstein, Toscanini si de-finiva “ebreo onorario”, e amavaripetere che forse il suo nome, to-ponimo della regione Toscana,aveva radici ebraiche. E sua figliaWanda si era sposata con il piani-sta ebreo Vladimir Horowitz.Fin qui la storia che tutti conosco-
no. Meno nota invece, se non aqualche musicologo, un’altra pa-gina delle sua vita, quella che lovide protagonista della operazionedi salvataggio di un centinaio dimusicisti ebrei, ideata dal violinistaBronislaw Huberman. Huberman,considerato il massimo virtuosodel suo tempo, si convertì al sio-nismo dopo aver suonato in Pale-stina e aver constatato la passioneper la musica della popolazioneebrea residente, di tutte le classisociali. Avendo assistito impotente al li-cenziamento dei musicisti ebreidalle orchestre del Reich (ne ri-masero in carica solo alcuni chesuonavano con i Berliner, per in-sistenza di Furtwangler), e preve-dendo che le persecuzioni si sa-rebbero inasprite, ebbe l’idea dicostituire una orchestra di sommimusicisti ebrei e trasferirla in piantastabile in Palestina, aggirando, gra-zie al prestigio dell’iniziativa e alnome di Toscanini, le difficoltà cheil Mandato Britannico opponevaalla concessione di visti per gliebrei, per via delle proteste degliarabi e dei frequenti incidenti trale due popolazioni residenti.Toscanini aveva promesso a Hu-berman che, se fosse riuscito nelsuo intento, avrebbe diretto gratisil primo concerto, trasformandoloin un evento mondiale. Così fu.Quell’orchestra, la Palestine Or-chestra (PO), che sarebbe divenutala Israel Philharmonic Orchestra
(IPO) alla fondazione dello Statodi Israele, divenne subito famosagrazie al nome del direttore italia-no e a quello di Einstein, che nefu nominato presidente onorarioe che si coinvolse personalmentenella levata di fondi in America.Un centinaio di musicisti e le lorofamiglie ebbero così salva la vita(i pochi che per un motivo o perl’altro tornarono in Europa mori-rono tutti durante la Shoah).Da anni ho il desiderio di farequalcosa con questa bellissima sto-ria e il desiderio si è intensificatonegli ultimi tempi, perché Tosca-nini e Huberman ci danno unesempio di idealismo e di impegnoe un messaggio di speranza piùche mai necessari in questo mo-mento. Ho pensato perciò di re-plicare quel concerto per il Giornodella Memoria, con una orchestrache di Arturo Toscanini porta ilnome, e un direttore, Yoel Levi,che è il primo israeliano ad esserestato nominato Principal GuestConductor della Israel Philharmo-nic Orchestra e che ne tiene altal’eredità di eccellenza.A ottant’anni da quella serata del1936 replicheremo il programmadel concerto di Toscanini, e saran-
ú–– VivianaKasamgiornalista
Nel 1936 Bronislaw Huberman, il grande violini-sta ebreo polacco, aveva fondato a Tel Aviv l’Or-chestra sinfonica di Palestina (oggi OrchestraFliarmonica di Israele), interamente composta daottimi musicisti ebrei fuggiti dalla Germania e daaltri luoghi di persecuzione. Chiese a Toscanini divenirla a dirigere e il maestro accettò con sinceroentusiasmo, senza chiedere compensi. Oltre a sen-tirsi, come sappiamo, un “ebreo onorario”, soste-neva che il suo cognome, derivando da Toscana,un luogo geografico, fosse di origine ebraica.Aveva un genero ebreo. Era un acerrimo nemicodel razzista Hitler persecutore degli ebrei e siavviò quindi con passione in Palestina. Partì daBrindisi, sostò ad Atene e giunse a destinazione il20 dicembre 1936. (…)
Toscanini si recò in Palestina in un periodo in cuile tensioni fra gli ebrei e gli arabi cominciavanogià a manifestarsi. Gli arabi chiedevano l’abban-dono del progetto della National Home, mentregli ebrei vi insistevano. Lo Stato ebraico fu uffi-cialmente fondato nel 1948 dopo la secondaguerra mondiale. Gravi conflitti erano scoppiatigià nella primavera del 1936, e le tensioni conti-nuavano. Le misure di sicurezza adottate al finedi proteggere la vita di Toscanini e di sua mogliesono dunque facilmente spiegabili.Il 28 dicembre scriveva a Ada Mainardi: “Arri-vato a Tel-Aviv ho trovato subito un’accoglienzadelle più entusiastiche... Sembrava arrivasse fi-nalmente il loro Messia! Lo stesso giorno mi sonomesso al lavoro. Ho trovato l’orchestra ben prepa-
rata dal maestro Steinberg. Mi è costata poca fa-tica il ridurla secondo le mie intenzioni. Non tidico l’entusiasmo che hanno sollevato i due con-certi dati il 26 e 27.”E il 4 gennaio 1937 inviò altre notizie: “Da cheho messo piede in Palestina vivo in una continuaesaltazione d’anima... Ti dico soltanto che la Pale-stina continua anche oggi a essere la terra dei mi-racoli e che fra qualche tempo gli Ebrei dovrannoringraziare Hitler d’averli obbligati a lasciare laGermania.”Per sottolineare la sua vicinanza spirituale al po-polo ebraico datò la lettera secondo il calendarioebraico: 20 Teveth 5697. Disse di aver conosciutoin Palestina persone straordinarie, capaci di farsorgere oliveti e aranceti su terreni desertici. Gli
“Vivo in continua esaltazione d’anima”
u Arturo Toscanini nel 1936 con
Bronislaw Huberman, in Israele,
dove diresse il primo concerto di
quella che sarebbe diventata la
Israel Philharmonic Orchestra
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Ognuno può scegliere“I giusti sanno reagire all’indifferenza, si assumono una responsabilità”
Il pescatore di perle, scriveva Wal-ter Benjamin, è colui che si tuffanel passato e riporta alla luce dalfondo degli abissi, dove sopravvi-vono in forme cristallizzate, pen-sieri e azioni di uomini che hannoun valore universale. Se non ci fos-sero poeti e narratori che riportanoin superficie un bene nascosto esommerso le azioni migliori degliuomini si perderebbero nell’oblio.Il più convinto sostenitore di que-sta idea è stato il giudice israelianoMoshe Bejski, il grande artefice delgiardino dei giusti di Gerusalem-me, il quale dopo il salvataggionella lista Schindler, dedicò tuttala sua vita alla ricerca degli uominiche durante la Shoah si erano pro-digati nell’aiuto agli ebrei.Egli nel corso del suo lavoro, comemi spiegò nelle lunghe conversa-zioni che mi permisero di redigerela sua storia nel libro Il tribunaledel Bene, era giunto alle seguenticonclusioni.Non c’era luogo nella secondaguerra mondiale, dai parlamenti,alle fabbriche, agli uffici, alle or-chestre, persino nei campi di con-centramento, dove non sarebbestato possibile compiere delle azio-ni per salvare degli ebrei. Il motivo
era molto semplice: ogni uomoaveva sempre la possibilità di sce-gliere e di sentire il richiamo dellapropria coscienza, perché è pre-rogativa di ogni essere umanoesercitare il suo piccolo potere per-sonale per spingere la storia in unadiversa direzione. Il destino non èmai scritto a priori, ma è il carat-tere della persona che lo può par-zialmente determinare. In secondoluogo, mi aveva spiegato, non cipuò essere uno schema predefinitosu chi è l’uomo giusto, perché lasua esperienza gli aveva fatto sco-prire come la fantasia del Bene èdi gran lunga superiore alla dina-mica del Male e che bisogna in-dagare con grande modestia suicomportamenti degli esseri umani.Così ci possiamo commuovere estupire per delle azioni che altri-menti rimarrebbero nell’ombra enonostante la loro grandezza sa-
rebbero dimenticate. È a MosheBejski che ho pensato, ragionandosul comportamento di Arturo To-scanini nei confronti degli ebrei,una vicenda che finalmente ritornaalla luce nel concerto a lui dedicatonel Giorno della Memoria. Tosca-nini, antifascista convinto, non ave-va il potere di fermare il fascismoe le leggi antisemite e per questodisgustato si trasferì negli Stati Uni-ti, ma mise a disposizione tutta lasua fama e il suo prestigio per larealizzazione del progetto di Bro-nislaw Huberman, che con la crea-zione di una orchestra in Palestinaoffriva la salvezza ad un centinaiodi orchestrali ebrei. Quell’orchestraera il simbolo della resistenza mo-rale al nazismo. Ecco perché To-scanini la volle dirigere il 26 e 27dicembre del 1936 a Tel Aviv.Qualcuno potrebbe osservare cheToscanini non rischiò la sua vitaper aiutare i musicisti ebrei e chela sua azione non può essere pa-ragonata a quella di Schindler o diPerlasca, ma Moshe Bejski per unavita intera ha cercato di insegnareche gli uomini giusti non sono de-gli eroi e dei santi votati al sacri-ficio personale, ma semplicementedegli uomini che reagiscono all’in-differenza e si assumono una re-sponsabilità per i perseguitati neimomenti bui dell’umanità.Toscanini è stato così uno dei giu-sti nella concezione laica dell’ebrai-smo. Ha usato il suo potere per-sonale, nell’arte della musica doveera maestro, per lanciare un mes-saggio di solidarietà. Tanti altri in-tellettuali e direttori d’orchestracome Herbert von Karajan sonoinvece rimasti in silenzio. È questala lezione morale di Toscanini.
avevano regalato un pezzo di terreno —a RamotHasciavim — dove sarebbero nati un aranceto euna casa popolare denominati Toscanini. Taub-man racconta che durante il secondo viaggio inPalestina, quando gli fu presentato un cesto conle “sue” arance, si mise a piangere di commo-zione. Al suo primo concerto assistettero ancheChaim Weizmann, che nel ‘48 sarà il primo presi-dente dello Stato israeliano, e David Ben Gurion,che sempre nel ‘48 ne diventerà primo ministro.La sala era gremita e molte persone rimaste senzabiglietto salirono sui tetti delle case vicine spe-rando di udire qualcosa. Dopo Tel Aviv il con-certo fu ripetuto a Haifa e Gerusalemme. Uno deiconcerti di Gerusalemme fu trasmesso per radio eil traffico si interruppe quasi del tutto, nell’interaPalestina, mentre la gente ascoltava nelle case enei caffè. È evidente che il maestro intendeva at-tribuire alla sua presenza in Palestina un signifi-
cato politico. Dopo la guerra di Etiopia, Musso-lini, per uscire dall’isolamento, si era fortementeavvicinato a Hitler e molti segnali potevano farpresagire un rafforzamento dell’antisemitismo inItalia, quello che poi condusse alle leggi razzialidel 1938. (…) Nel 1937 il grande fisico AlbertEinstein scrisse a Toscanini: “Sento il dovere didirle quanto La ammiri e La veneri. Lei non è sol-tanto l’impareggiabile esempio della letteraturamusicale universale ... Anche nella lotta contro icriminali fascisti Lei si è dimostrato uomo dellamassima dignità.”
Piero Melograni, Toscanini, Le Scie - Monda-dori, Milano, 2007
no simbolicamente presenti tremusicisti della IPO, uno dei quali,il contrabbassista Gaby Vole, è ilnipote di uno dei musicisti che To-scanini diresse allora.L’attore Umberto Orsini raccon-terà la storia di Toscanini, e avre-mo anche un filmato di clip e fo-tografie d’epoca, realizzato per noida Josh Aronson, regista e produt-tore americano, autore del film Or-chestra of exiles che ricostruisce lavicenda (di Aronson sta per uscireper i tipi di Penguin Random Hou-se anche l’omonimo libro, scrittoinsieme a Denise George).A Toscanini dedicheremo anche,grazie all’associazione Gariwo, unalbero di melograno (simbolo divita e di fertilità) e un cippo chericorderà il suo impegno per sal-vare gli ebrei nel giardino dell’Au-ditorium Parco della Musica a Ro-ma, perché il suo gesto sia di pe-renne memoria.Dopo aver orga-nizzato per ilGiorno della Me-moria del 2014,insieme a Marile-na Citelli France-se e in collabora-zione con l’UCEI,il concerto “I violini della speran-za”, in ricordo degli strumenti checontribuirono a tener viva la spi-ritualità dei perseguitati in fuga edei prigionieri, e nel 2015 “Tuttociò che mi resta”, una raccolta dimusiche scritte nei campi di con-centramento, mi sembra che “To-scanini: il potere della musica”chiuda il ciclo con un messaggiooggi estremamente importante: eche cioè ognuno di noi può farequalcosa, che non siamo necessa-
riamente oggetti passivi del terro-rismo, ma che possiamo opporcicon il nostro impegno e dare unesempio di coraggio e di dignità.È importante ricordare le vittimedella ferocia nazista e fascista. Ma,come ho spesso discusso con ilmio maestro, Haim Baharier, bi-sogna cercare di sottrarsi alla re-torica, che finisce per imbalsamarela storia, ed evitare la tendenza afocalizzare l’identità ebraica inquella di vittime. Vittima è una accezione passiva, emortifica l’identità identità cultu-rale e spirituale del nostro popolo.Insieme al ricordo delle vittime,dobbiamo, credo fermamente, ri-badire la nostra creatività, il nostropensiero, la nostra visione delmondo.Con i tre concerti per il Giornodella Memoria ho cercato di ridarela voce e l’identità culturale a co-loro cui la persecuzione ha cercato
di toglierla: aglistrumenti destina-ti a tacere persempre, alle mu-siche che si è cer-cato di cancellare,uccidendo chi lescriveva e chi le
interpretava, e impedendone l’ese-cuzione pubblica. Ora, con questoconcerto, spero di contribuire adiffondere la consapevolezza chesi può resistere al Male, che si pos-sono avere e realizzare grandi so-gni anche nelle avversità, e cheognuno di noi ha il dovere di farproprio l’esempio di Toscanini edi Huberman e difendere la dignitàumana e la vita di tutti coloro chesono vittime di persecuzioni e di-scriminazioni.
ú–– Gabriele Nissimpresidente di Gariwo
u Uno dei gesti simbolici del grande direttore: piantare un nuovo albero
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u Nelle sue lettere Toscanini descriveva quella
che allora si chiamava Palestina come “La terra
dei miracoli”. Qui la giornata sul Mar Morto.fo
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na è al centro di una storia intri-cata, fra alti funzionari nazisti, di-rettori d’orchestra - come ArturoToscanini - un futuro presidented’Israele - Chaim Weizmann e lefamiglie dei musicisti ebrei perse-guitati che avevano fatto parte del-le orchestre di tutta l’Europa cen-trale. E anche Albert Einstein fecela sua parte. Huberman convinseArturo Tosca-nini a dirigere iprimi concertie, nel dicembredel 1936, quin-dicimila perso-ne assistetteroalle prove e alleoccasioni ufficiali. Dodici anni piùtardi, l’Orchestra Sinfonica dellaPalestina costituita dagli ebrei esi-liati divenne l’Orchestra Filarmo-nica d’Israele. Leonard Bernstein,che la diresse per la prima voltanel 1947, nell’arco di vent’anni l’haresa una delle migliori orchestredel mondo. Non più tardi del 1937,mentre l’orrore nazista si espan-deva, Huberman iniziò a conside-rare il suo compito come qualcosadi più della semplice creazione diun’orchestra; la sua divenne una
missione di salvataggio e, usandola vasta rete di contatti politici cheaveva generato per creare l’orche-stra, continuò ad utilizzare la suainfluenza per salvare ebrei, facen-doli uscire dalla Germania, dal-l’Ungheria, dalla Polonia e da Vien-na. In definitiva, si dice che Hu-berman abbia salvato un migliaiodi ebrei; in giro per il mondo cisono figli e nipoti che devono l’in-tera esistenza delle loro famiglie aHuberman. La sua storia è da con-siderarsi preziosa sotto vari puntidi vista: i suoi musicisti erano i mi-gliori d’Europa e in Israele sono
diventati i grandimaestri delle gene-razioni successive esono stati il germo-glio dell’immensacultura israelianache è sbocciata efiorita in tutto il
mondo. Si tratta di una storia cidà uno scorcio importante sullaPalestina del decennio che ha pre-ceduto la formazione dello Statod’Israele, e presenta anche la storiadi un eroe non celebrato, un uomod’incredibile temperamento moraleche riconobbe l’ingiustizia e conla sua reazione salvò mille vite.
Josh Aronson
Traduzione di Ilaria Modena, studentessa
della Scuola Superiore per Interpreti e Tra-
duttori di Trieste, tirocinante in redazione.
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DOSSIER /Toscanini, la musica della libertà
Il sogno di un violinista coraggioso Bronislaw Huberman, dal progetto di una prodigiosa carriera a un’idea visionaria e salvifica
Alcune storie si perdono nei tu-multi del tempo e spesso solo unosguardo al passato può aiutare ascoprire i veri artefici della Storia.Uno di questi è stato il prodigiosoviolinista polacco Bronisław Hu-berman, che non solo intrapreseun’incredibile odissea di quattroanni che culminò, nel 1936, conla fondazione dell’orchestra chesarebbe diventata l’Orchestra Fi-larmonica d’Israele, ma con l’av-vicinarsi dei tempi bui in cui l’Eu-ropa sarebbe stata devastata dagliattacchi nazisti e dall’antisemiti-smo, con il suo impegno riuscì asalvare un migliaio di ebrei. Parliamo di un artista geniale chefino al decennio precedente avevaun solo obiettivo: costruirsi unagrandiosa carriera. La sua trasfor-mazione personale e la conseguen-te lotta eroica per la salvezza deimusicisti ebrei sono materiale de-gno di una pièce teatrale e la suastoria diffonde un messaggio digrande importanza in questi tempiburrascosi. La prima esibizione diHuberman in Palestina, nel 1929,fu accolta con grande entusiasmo.In quel momento il maestro si ac-corse di quanto mancasse un’or-chestra di prima qualità in Palesti-na e pochi anni dopo, quando Hi-tler cominciò ad espellere i musi-cisti ebrei dalle orchestre, si reseconto che mai come prima di quelmomento storico così tanti musi-cisti di livello si erano ritrovati con-temporaneamente senza lavoro ein pericolo. Era un’opportunità, eHuberman sapeva di dover agirein fretta. Avendo vissuto i violentipogrom degli anni ottanta del se-colo precedente in Polonia avevagià un sentore dell’antisemitismoche si sarebbe riversato in Germa-nia nel 1933 e riconobbe il peri-colo imminente. Gli obiettivi di Huberman eranomolteplici: salvare le vite di musi-cisti ebrei, fondare la tanto neces-saria orchestra in Palestina e creareun programma unico nel suo ge-nere per combattere l’antisemiti-smo. E sapeva che un’orchestra dipunta costituita da ebrei in esiliosi sarebbe rivelata un potente stru-mento politico per combatterel’antisemitismo e il nazismo. Lo sforzo di Huberman per crearel’Orchestra Sinfonica della Palesti-
Mio nonno, Jacob Surowicz, nacque e crebbe
a Varsavia, dove intraprese lo studio del vio-
lino già in tenera età per unirsi, nel 1909, a
21 anni, all’orchestra filarmonica nella sezio-
ne dei primi violini diventandone, nel giro di
pochi anni anche il manager finanziario. Ben
presto i suoi colleghi riconobbero la sua com-
petenza e la sua passione per le lingue (ne
padroneggiava dieci) e iniziarono a mandarlo
in giro per l’Europa a scritturare solisti e an-
che a negoziare con i direttori d’orchestra.
Ma nel 1930, quando l’Europa stava diventan-
do un luogo pericoloso per gli ebrei, ci fu un
violinista (ebreo) famoso in tutto il mondo
che fu capace di prevedere cosa sarebbe suc-
cesso, prima di molti altri. Bronisław Huber-
man non si limitò a intuire il problema, ma
decise di agire. Iniziò a contemplare l’idea di
una nuova orchestra che potesse dare rifugio
ai musicisti ebrei e riuscì a salvare le vite di
molti di loro e delle loro famiglie, aiutandoli
a fuggire dall’Europa verso Tel Aviv. E coloro
che non ci riuscirono furono assassinati più
tardi dai nazisti.
Nel 1935 Huberman chiese a Surowicz di as-
sisterlo nella sua missione, dopo averne ri-
conosciuto le abilità musicali e dirigenziali.
Il suo compito era trovare musicisti polacchi
di religione ebraica disposti ad immigrare in
Palestina per fondare una nuova orchestra.
Una volta pronta la lista dei candidati, Hu-
berman si occupò delle audizioni, che si svol-
sero nel salotto di Surowicz a Varsavia per
mantenere discreto il processo di selezione.
Fu così che nel settembre del 1936, dopo aver
suonato per 27 anni nell’orchestra di Varsavia,
Surowicz e la sua famiglia lasciarono defini-
tivamente l’Europa. Furono raggiunti a Tel
Aviv da altri 70 musicisti e dalle rispettive fa-
miglie, a loro volta in fuga dall’Europa, ma il
gruppo di musicisti polacchi di Surowicz era
il più numeroso dell’orchestra, potendo con-
tare su 15 elementi.
A quel tempo Tel Aviv era una piccola città
sulle dune. Le difficili condizioni e l’assenza
di infrastrutture musicali e di una sala da
concerti rappresentavano una sfida non da
poco per i nuovi immigrati, abituati ad esi-
Il musicista che gestì un ideale
u Programma della prima stagione della
Palestine Orchestra, 1936/37, firmata da
Bronislaw Huberman e Arturo Toscanini
u Albert Einstein, qui con Bronislaw Huberman, fu il primo presidente
onorario di quella che sarebbe diventata l’Israel Philharmonic Orchestra
TRE GENERAZIONI, UNA DINASTIA ARTISTICA
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Un intransigente nel nome di GaribaldiFiglio di un garibaldino, Toscanini aveva ricevuto una educazione antimonarchica e anticlericale dalla tenera infanzia
ú–– Harvey Sachs
All’inizio del 1943, gli storici Gae-tano Salvemini e Giorgio La Piana– entrambi esuli negli Stati Uniti –pubblicarono il libro What to dowith Italy, che proponeva ai gover-ni dei paesi alleati una linea equa-nime da seguire per riportare la de-mocrazia in Italia dopo l’inevitabilecaduta del fascismo. Dedicarono illibro “Al maestro Arturo Toscanini,il quale, nei giorni più bui dei cri-mini fascisti, del disonore dell’Italia,del mondo impazzito, rimase in-transigentemente fedele agli idealidi Mazzini e di Garibaldi e, con fe-de tenace, anticipò l’alba del se-condo Risorgimento italiano”. In un certo senso, Toscanini erastato antifascista ancora prima cheil fascismo esistesse. Nato a Parmanel 1867, figlio di un garibaldino,egli aveva bevuto idee antimonar-chiche e anticlericali praticamentecol latte materno. Nel 1919, quan-do Mussolini creò un partito conuna piattaforma a sinistra di quellasocialista, Toscanini vi aderì, maquando il partito virò a destra eadottò mezzi violenti per arrivareal potere, egli vi si oppose. I suoi
birsi nelle migliori sale europee. Ma iniziaro-
no comunque a provare in modo da costituire
il nuovo ensemble, impazienti di realizzare
la loro visione. L’ascesa del fascismo e del
nazismo, che aveva portato molti musicisti
a fuggire dall’Europa, non fu ignorata da Ar-
turo Toscanini che, arrabbiato e frustrato,
stava cancellando tutti i suoi concerti in Ger-
mania. Ma con il preciso scopo di manifestare
il suo supporto alla grande visione di Huber-
man accettò di viaggiare verso la terra sco-
nosciuta e dirigere il primo concerto della
nuova orchestra. Le prime prove di Toscanini
a Tel Aviv non andarono molto bene, per via
dei rumori provenienti da un cantiere vicino
ma ben presto, quando il problema venne ri-
solto e le prove proseguirono, Toscanini si
sorprese dell’eccezionale qualità del nuovo
ensemble arrivando a gridare: “molto bene,
molto bene!”. Il Maestro aveva fatto un ot-
timo lavoro nella preparazione dell’orchestra,
ma fu il 26 dicembre del 1936 che raggiunse
il risultato sperato: per la prima volta, la nuo-
va orchestra suonò a Tel Aviv. Vennero in mi-
gliaia ad ascoltarla e molti si sedettero fuori
dalla sala concerti per sentirsi parte di quel-
l’incanto. Quel grande successo portò Tosca-
nini a concordare una seconda visita nel 1938
e una tournée in Egitto insieme alla nuova
orchestra. Il suo sostegno coraggioso fece il
giro del mondo. E tra le altre cose, stabilì de-
gli elevati standard professionali per la nuova
formazione: da quel momento in poi i mag-
giori direttori d’orchestra e solisti provenien-
ti da tutto il mondo accettarono di esibirsi
con la sconosciuta orchestra del Medio Orien-
te sostenendo che “Se Toscanini è andato, an-
drò anch’io”. E il rischio di diventare un breve
fenomeno di passaggio fu presto evitato gra-
zie alla generosità e ai gesti del grande mae-
stro. Surowicz capì subito che il progetto
condiviso con Huberman era realizzato, ma
non aveva idea di come fosse nata anche una
dinastia familiare di musicisti. Nei decenni
successivi quattro membri della sua famiglia
hanno fatto parte dell’orchestra, per tre ge-
nerazioni, così che per i seguenti 76 anni ci
sarà almeno uno dei suoi discendenti ad esi-
birsi. L’ultimo, fino ad oggi, sono io.
Gabriel Vole
Traduzione di Giulia Castelnovo, studentessa
della Scuola Superiore per Interpreti e Tra-
duttori di Trieste, tirocinante in redazione.
scontri col regime iniziarono ap-pena due mesi dopo la Marcia suRoma (1922) e divennero via viapiù seri durante gli anni successivi.Nel 1931 fu aggredito fisicamentea Bologna per aver rifiutato di di-rigere “Giovinezza” prima di unsuo concerto e si decise di non di-rigere più in Italia finché Mussolinie Vittorio Emanuele restassero alpotere. Nel 1930 Toscanini fu ilprimo direttore d’orchestra non discuola tedesca a dirigere al festivalwagneriano di Bayreuth, ma nel1933, dopo l’arrivo al potere di Hi-tler, disdisse il suo impegno; nonavrebbe diretto mai più in Germa-nia. Nel 1936 andò in Palestina aspese proprie per dirigere i concertiinaugurali di un’orchestra – l’odier-na Filarmonica d’Israele – compo-sta allora di profughi ebrei europei,e vi tornò nel 1938, sempre senzacompenso. Dal 1935 al 1937 fu lafigura centrale del festival di Sali-sburgo, ma nel 1938, ancora primadell’Anschluss, quando il cancelliereaustriaco inserì un unico ministronazista nel suo governo, Toscaninisi dimise, e pochi mesi dopo aiutòa creare il festival di Lucerna inSvizzera. Nell’autunno del 1938 To-scanini si esiliò negli Stati Uniti,dove tra l’altro aveva lavorato perlunghi periodi sin dal 1908, e aiutòmolti ebrei e antifascisti italiani, te-deschi e austriaci a trovare rifugioe lavoro in America. Tornò in Italianel 1946, all’età di 79 anni, per di-rigere i concerti inaugurali dellaScala, ricostruita dopo i bombar-damenti alleati del 1943, e il suoprimo atto quando raggiunse Mi-lano fu quello di reintegrare nel-l’organico del teatro musicisti e la-voratori ebrei e antifascisti che ave-vano perso il loro posto sotto il re-gime. Otto anni prima, Salveminigli aveva scritto: “Ai vili che s’in-chinano innanzi alla Gran Bestia,scambiandola per l’Italia, noi pos-siamo insegnare che l’Italia oggi èrappresentata non da Mussolini mada Toscanini.”
u Il successo di Toscanini in Medio Oriente fu
tale che accettò una tournéè in Egitto nel ‘37
u Bronislaw Huberman, Chaim
Weizmann e Arturo Toscanini. La
decisione di accettare la prima
direzione condizionò le scelte
successive di coloro che furono
invitati a collaborare con la
nuova formazione musicale.
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maggio 1944, con l’orchestra dellaNBC e il Westminster Choir Col-lege. Un filmato dell’epoca, abban-donato all’oblio della censura e rie-merso da un archivio dell’Alaskasolo negli anni ‘80, ci restituisceimmagini di quella serata storica,in cui il Maestro volle rendereonore a Usa e Urss, nemiche delnazismo. L’esecuzione dell’Inter-nazionale fu affidata al grande te-nore Jan Peerce, nato Jacob PincusPerelmuth, figlio del Lower EastSide e del desiderio di riscatto, un
uomo che avrebbe avuto grandesuccesso negli anni a venire. Il Tea-tro alla Scala era stato inauguratoil 3 agosto 1778 con L’Europa ri-conosciuta di Antonio Salieri, lastessa opera che Riccardo Muti hascelto per celebrare la riaperturanel 2004, a seguito degli imponentilavori di restauro, con una perfor-mance che a detta di Paolo Isotta“renderà l’Opera di Salieri inese-guibile per tutti dopo le recite dellaScala”. Era un progetto ambizioso,un vero gioiello architettonico che
nei secoli ha ricevuto cure e con-tinue migliorie e che nella nottetra il 15 e il 16 agosto 1943 vienebombardato; le foto dell’epoca mo-strano i soffitti sfondati, le travi sulpavimento, i palchi distrutti. Perla città costituiva una perdita in-commensurabile e in effetti unodei primi pensieri del sindaco An-tonio Greppi subito dopo la Libe-razione fu ricostruire il tempio del-la lirica, in tempi rapidi e con pre-cisione filologica, utilizzando ladocumentazione raccolta nel 1936
e impiegando gli stessi materialiin precedenza scelti dall’architettoPiermarini. E con la stessa rapiditàe precisione si presentò Arturo To-scanini, pronto a far rivivere la“sua” Scala, che ancora giovaneaveva inaugurato (dopo un breveperiodo di chiusura) il 26 dicembre1898 dirigendo “I Maestri Cantoridi Norimberga” di Wagner e di cuiassunse la direzione artistica nel1920. L’11 maggio 1946 Toscanini salesul podio dopo anni di resistenzaal regime, di esilio e di speranze.Il Teatro alla Scala vive di nuovo,Milano è libera e il Maestro è fi-nalmente tornato. Questa vittoriaassoluta viene celebrata non solodai 3000 spettatori in sala, ma damigliaia e migliaia di cittadini diogni estrazione sociale, anziani,madri con i bambini e giovani, chesi lasciano trasportare dalla musicaper godere di quella libertà ritro-vata, perché come scrisse FilippoSacchi, quella gente “visse un’orabuona che si terrà per sé preziosanel cuore. […] Alla fine di ognipezzo la gente applaudiva. Pareva
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DOSSIER /Toscanini, la musica della libertà
La libertà di pensare con la propria testaRiapre nel 1946 il Teatro alla Scala di Milano e il programma, denso di significato, molto spiega delle scelte del Maestro
Rullo di tamburi. Per tre battute.Corone sulle pause tra un rullo el’altro, praticamente un ritmo li-bero, almeno nelle intenzioni. Èl’ouverture de “La Gazza Ladra”di Rossini ad aprire il concertoinaugurale del Teatro alla Scala l’11maggio 1946.Sul podio c’è Arturo Toscanini,elegante nel suo abito nero e i po-chi capelli bianchi ondulati che gliconferiscono un’aria nobile. Il por-tamento è fiero, l’aria dura e severae nel guardarlo torna in mente unadelle sue celebri invettive: “Suonatecon il cuore, non con lo strumen-to! L’intonazione, il suono, sononello strumento; trovateli! Nonguardate questa stupida bacchettanelle mie mani, non so manco ioquello che fa! Dovete sentire quelche voglio da voi! Guardatemi, iolavoro, sudo e voi? Vergogna!Dov’è il vostro sudore? Questa èmusica, non sono solo note”. La sala è gremita, l’emozione èpalpabile, i milanesi finalmente ri-trovano la vita in quel teatro fattoa brandelli dai bombardamenti de-gli Alleati nel 1943 e celebrano laliberazione dal giogo nazifascistae dagli orrori della guerra ascol-tando l’orchestra guidata da ArturoToscanini, lui stesso paradigma dilibertà: la libertà di pensare con lapropria testa e il coraggio di op-porsi al regime (chi non ricorda ilcelebre episodio della sua disob-bedienza al Teatro comunale diBologna che gli costò un ceffonecoram populo?); la libertà di mol-lare tutto, salpare per mare e rag-giungere Eretz Israel per contri-buire alla creazione della PalestineOrchestra oggi Israel Philharmo-nica, affermando “lo faccio perl’umanità”; la libertà di abbando-nare il festival di Bayreuth, cuoredell’ideologia antisemita e quellodi Salisburgo, in segno di protestaverso la politica hitleriana; la liber-tà di inserire brani come l’Inno na-zionale americano e l’Internazio-nale nel concerto al MadisonSquare Garden di New York il 25
ú–– Maria TeresaMilanoebraista
u Il Teatro alla Scala di Milano fu
gravemente danneggato dai
bombardamenti nel 1943. Il primo
concerto dopo la ricostruzione,
nel 1946, fu diretto da Toscanini.
Le dodici e mezzo, un giorno di
ottobre del 1926, in piazza Cari-
gnano. A quell’epoca, tra le do-
dici e le dodici e venti, dodici e
venticinque al massimo, le vie del
centro di Torino si svuotavano.
Piazza Carignano, dunque, era
deserta: silenziosa, salvo per il
raro traffico in via Accademia
delle Scienze, il tranvai numero
ventuno, un’automobile, un taxi,
qualche cittadina; e c’era il sole.
Non ricordo più come mi trovassi
là; mi ricordo che ero solo e che
avevo finito di studiare la locan-
dina appesa al fianco all’ingresso
del teatro: mi voltai, e cominciai
ad attraversare la piazza in dire-
zione della libreria Casanova: vo-
levo dare un’occhiata alla vetri-
na, era soltanto una piccola di-
versione sulla via del ritorno a
casa. Ed ecco, vidi venirmi incon-
tro un signore, anche lui solo:
piccolo, forte, cappello duro e
cappotto corto coi baveri di
astrakan. Nero, accigliato. Veniva
da piazza Castello: dalle prove al
Regio, pensai subito, riconoscen-
dolo; e, col cuore che mi batteva,
mi fermai. Lo seguii con lo sguar-
do mentre mi passava accanto,
finiva di attraversare la piazza,
entrava al Cambio. Non ho di-
menticato quell’incontro. E cosi,
sebbene abbia udito Toscanini
più volte nel 1930 al Carnegie
Hall di New York, ciò che più ri-
cordo di lui sono proprio i quat-
tro concerti che diresse al Regio,
quel lontano ottobre, per l’immi-
nente centenario della morte di
Beethoven (1827-1927). Diresse
le Nove Sinfonie: Prima, Seconda
e Quinta nel primo concerto; Ter-
za e Quarta nel secondo; Sesta e
Settima nel terzo; Ottava e Nona
nell’ultimo.
Ebbi la grande fortuna, al primo
concerto, di trovarmi in prima fi-
la, all’estremo angolo destro del-
la seconda galleria, e di poter ve-
dere il maestro quasi di faccia,
dal principio alla fine, senza per-
dere un gesto né un’espressione.
Ricordo con precisione assoluta
due gesti. Uno, nel finale della
Quinta: i perfetti circoli, che la
destra con la bacchetta descri-
veva. L’altro, alle frasi più melo-
diche dei violoncelli: il polpa-
strello del medio della sinistra
puntato e vibrante sul cuore, co-
me se il cuore fosse una corda di
violoncello. L’impressione gene-
rale, che ricavai dai quattro con-
certi, fu quella di un’estrema
chiarezza e di un miracoloso
equilibrio, onde la musica risul-
tava altrettanto concreta e, per
così dire, altrettanto plastica e
prospettica di un’arte figurativa.
Ho ascoltato, adesso, il disco fat-
to a New York, grazie al permes-
so del figlio Walter, su registra-
zioni eseguite durante le prove
all’insaputa di Toscanini stesso,
dal tecnico John Cobbert. Ho
ascoltato anche una parte delle
registrazioni originali. Ouverture
del Flauto Magico; recitativo dei
contrabbassi che prelude all’ul-
timo tempo della Nona; brani
della Traviata, del Ballo in ma-
schera, del Requiem. Ed è la voce
di Toscanini, che ha ormai 85 an-
ni, e che serba sempre tutte le
caratteristiche dell’accento di
Parma, e che, in inglese, ma, mol-
to più spesso, in italiano (oh, lo
capivano lo stesso, lo capivano!)
insegna, corregge, motteggia,
canta. Canta, nel Flauto e nella
Nona, motivi di parti dell’orche-
stra; e, nella Traviata, parti stes-
se dei cantanti, con tutte le pa-
“Un signore piccolo, forte e nero”Ricordi di “estrema chiarezza e miracoloso equilibrio”. Mario Soldati racconta Toscanini
una gran piazza di paese quandosuona la banda”.Ma quella non era la banda e ilprogramma scelto non era certoquello delle sagre di paese; era unprogramma impegnativo, denso disignificati, in cui l’orchestra inter-pretava aneliti d’amore, tragedieumane e inni di fede, ma al tempostesso raccontava i sentimenti degliitaliani appena liberati e di un To-
scanini nel pieno della sua carrierache finalmente si riappropriava delsuo spazio in patria: il “GuglielmoTell” di Rossini, basato sulla leg-genda dell’eroe svizzero divenutoemblema del monito alla popola-zione di lottare per l’indipendenzae la libertà; la preghiera dal “Mosèin Egitto”, quella sera interpretatada una giovanissima Renata Te-baldi al suo debutto e il coro dal
“Nabucco”, entrambi dolente nar-razione di un popolo oppresso.La musica è potente, arriva drittaall’obiettivo, si tratti di celebrareun regime dittatoriale e favorirnel’ascesa o si tratti invece di con-dannarlo, come risulta evidentedalla storia stessa della Secondaguerra mondiale, in cui le note so-no al servizio di padroni diversi eveicolano messaggi contrapposti.
Nell’Europa delle leggi razziali leradio diffondono musica arianache rispetta i criteri di purezza sta-biliti dai vertici del potere, ma dailocali di Praga, Roma, Parigi e Ber-lino si risponde con il jazz proibitoe le canzoni di fronda; la musica,prima causa di persecuzione e se-gregazione, nei campi diventa stru-mento di sopravvivenza di sé edella propria dignità, è la voce di
chi resiste al male. Al momentodella liberazione di Bergen Belsenla BBC registra un accorato Ha-tikva, intonato dagli internati, stre-mati dalla fame e dalle angherie,eppure desiderosi di cantare il ri-torno alla vita.Hatikva, un inno di speranza e dilibertà, come quella che ArturoToscanini celebrò l’11 maggio1946 portando in teatro non soloil proprio vissuto di “resistente”ma anche quello di tutti gli italiani,
proprio comeavrebbe scritto inun suo ricordo ilcritico musicaleLorenzo Arruga:“Tanti di noi chea quell’epoca era-no bambini ricor-
dano il silenzio teso aspettandoaccanto alla radio quel rullo ditamburo che aprì il concerto conla sinfonia della Gazza ladra diGioacchino Rossini, eseguita a rot-ta di collo con sicurezza trionfale.Ma tutti possiamo cogliere almenoun barlume di che cosa fu quel Va’pensiero. Quell’indugio, quell’ab-bandono, quell’amore sulle parole‘O mia patria sì bella e perduta’.Fuori nella città c’erano ancora ca-se e piazze distrutte. Capivamoche toccava a noi ricostruire ilmondo”.
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Toscanini amava la libertà e l’ha inseguita per
tutta la vita, ma per diverse ragioni spesso
assumeva posizioni piuttosto dure e poteva
risultare poco accondiscendente verso chi gli
stava intorno. Ma neppure certe sue decisio-
ni, come l’abolizione dei bis e la chiusura delle
porte del teatro a inizio spettacolo lasciando
fuori i ritardatari, possono essere spiegate
con una sua mancanza di rispetto della liber-
tà altrui perché in realtà raccontano la sua
ambizione di creare davvero una rivoluzione
nel modo di sentire la musica in Italia, di con-
ferirle maggiore dignità, di guarire il popolo
dal mal di melodramma per accompagnarlo
alla scoperta dell’eleganza della musica sin-
fonica. È innegabile, aveva un brutto carat-
tere, ma evidentemente esercitava un grande
fascino sulle donne e anche in questo ambito
si mosse sempre con grande libertà, intrec-
ciando diverse storie amorose, spesso con ri-
svolti drammatici. Il 16 gennaio 1900, durante
le prove di “Lohengrin”, Toscanini annuncia
all’orchestra: “Signori, è nata Wally. La prova
è sospesa”. È la sua primogenita e le da il no-
me dell’opera di Alfredo Catalani che ammira
profondamente. Wally Toscanini è uno spirito
ribelle, diventa una donna dalle idee chiare
che modella la sua esistenza secondo il motto
“vivi, ama, ridi”; eredita dal padre l’amore per
il Teatro alla Scala che sosterrà anche econo-
micamente per tutta la vita ma acquisisce da
lui anche quel senso di libertà necessaria che
la spinge a collaborare con la Resistenza du-
rante la Seconda guerra mondiale. Alcuni stu-
di raccontano di come Wally facesse da tra-
mite tra comandi partigiani del nord e servizi
segreti americani e di come grazie a lei sia
stato possibile effettuare il rimpatrio di un
centinaio di ufficiali italiani internati in Sviz-
zera, dove si era rifugiata con il marito, il no-
bile Emanuele Castelbarco e la figlia Emanue-
la. Ma l’eredità di Toscanini non vive solo nei
suoi figli e nelle loro scelte,
è tangibile anche nelle scel-
te artistiche ed educative
della Fondazione a lui inti-
tolata, che promuove per-
corsi di conoscenza atti a
sviluppare già nei bambini
il senso critico e il piacere
della musica in tanti diversi percorsi di ec-
cellenza che altro non sono se non un conte-
nitore di libertà d’espressione.
La grande lezione morale del Maestro
role. Non è possibile udire senza
una profonda commozione To-
scanini che intona il Brindisi della
Traviata, l’aria “Dei miei bollenti
spiriti”, il duetto Violetta - Ger-
mont. Direi che, ascoltando bene
questo disco, si capisce tutto di
Toscanini, di Verdi, del nostro Ri-
sorgimento e, in definitiva, del
nostro paese: delle qualità più al-
te possedute dal nostro paese.
Colpisce il contrasto tra lo scat-
to, la violenza, a volte la rabbia
con cui Toscanini aggredisce gli
orchestrali (per esempio, nel Re-
quiem: “...Se ci metteste un po’
di quello che ci metto io... tutta
gente addormentata! Porco
d’un... “; e nel Flauto: “Allegri, al-
legri, allegri, ma non allegri col
tempo, allegri con questa, con la
faccia! Smile, ecco, smile!”), il
contrasto tra questa furia tecni-
ca e la tenerezza struggente e
popolaresca con cui, in altri mo-
menti, si abbandona alla melodia:
“Tutto è follia, follia nel mondo
ciò che non è piacer...”. E anche:
“Like I like Mozart, the same Ver-
di, and if you don’t understand
it’s worse for you!” (Come mi pia-
ce Mozart, lo stesso Verdi, e se
non capite, è peggio per voi!).
Oppure, al preludio del secon-
d’atto del Ballo in maschera:
“Non mezze parole! Fate come
me! Verdi vuole tutto, non vuole
metà! Cantare sempre! Porco
d’un... Ancora! Mi piace da mori-
re, questo preludio, da morire,
mi piace!”.
Questa è davvero l’ultima voce
della nostra ultima grandezza,
l’ultima eco dell’Italia risorgi-
mentale, rustica e raffinata in-
sieme. Esiste una strana simme-
tria, una strana suggestione ca-
balistica nelle date di Toscanini:
nato nel 1867, quarant’anni esat-
ti dopo la morte di Beethoven; e
morto nel 1957, a esatti novan-
t’anni. Toscanini è a cavallo tra
il secolo del nostro Risorgimento
e il secolo del nostro..., come
possiamo dire?, faticoso conso-
lidamento. Trentatré anni di vita
nel primo: ma ben cinquantaset-
te nel secondo, grazie quasi a un
rallentando che dilati il tempo
verso una misura doppia.
Sia di auspicio per il nostro paese
questa correzione agogica, così
come ci è di conforto, di incorag-
giamento e di esaltazione udire
ancora, vivissima nei dischi e nel-
le registrazioni, la sua voce o i
ritmi e le melodie che erano nel
suo cuore.
Il favorito gesto “circolare” della
bacchetta di Toscanini ha dise-
gnato nella nostra memoria un
tracciato incancellabile: istinti-
vamente, forse ingenuamente, ci
ripenso quando torno a incon-
trarmi con la “circolarità” del
pensiero di Benedetto Croce, na-
to un anno prima di Toscanini e
morto nel 1952, dunque suo coe-
taneo e come lui ultima voce del-
la nostra grandezza. La circola-
rità fu anche nella vita di Tosca-
nini: il fascismo “non si scriveva
in quel circolo”. Tutto tornava, a
Toscanini: tutto gli era circolare
e musicale. Il contrario esatto di
un altro suo coetaneo, della cui
nascita si celebra quest’anno il
centenario e che non simboleg-
gia la grandezza, ma caso mai
una decadenza del nostro paese.
A proposito, sappiamo benissimo
che la “circolarità” oggi non è di
moda. Oggi si vogliono punte
aguzze o quasi impercettibili on-
dulazioni: tragedie senza catarsi
o disperate afasie: negazione,
confusione, disgregazione, dis-
solvimento, incertezza. Ma la fe-
de nella continuazione della vita
si riallaccia, in un modo o in un
altro, soltanto a chi, come Croce
e come Toscanini, credeva incrol-
labilmente in qualche cosa e lo
amava al di fuori del proprio io,
come il centro di quell’immenso
circolo che è tutta la realtà della
storia.
Mario Soldati
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n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraiche
Le “giornate memoriali” o simbo-liche sovranazionali sono in soffe-renza. È un altro segno della crisidel sentimento universalistico inuna fase in cui torna forte il sen-timento di appartenenza di grup-po. È anche uno dei segni dellacrisi dell’idea di Europa. Si consideri La “Giornata mon-diale dei diritti umani”, una cele-brazione sovranazionale che sitiene in tutto il mondo il 10 di-cembre di tutti gli anni. Ricordail giorno (era il 1948) in cui a Pa-rigi fu firmata la Dichiarazione
universale dei diritti umani. È undocumento che nella memoriapubblica pochi ricordano, spessomolti sovrappongono a quella piùnota dei diritti dell’uomo e delcittadino (26 agosto 1789), anchese anche per questa non credo chela data sia a tutti nota. La dichia-razione dei diritti dell’uomo e delcittadino di fatto dà forma allaRivoluzione francese, un eventoche tutti identificano con il 14 lu-glio. Di quell’evento, tuttavia, èrimasta una traccia. Del 10 di-cembre, poco. Avrebbe forse avutoun senso ricordarla all’indomanidel voto francese dello scorso 6 di-cembre, ma non è avvenuto. Eforse questo dato, più di altri, dice
qualcosa. “Tutti gli esseri umaninascono liberi ed eguali in dignitàe diritti. Essi sono dotati di ragio-ne di coscienza e devono agire gliuni verso gli altri in spirito difratellanza”. È il testo dell’artico-lo 1 con cui si apre la Dichiara-zione universale di diritti umani.La nostra attenzione tuttavia piùche concentrarsi sul contenutodella dichiarazione deve rivolgersiai preliminari laddove il testo re-cita: “Considerato che il discono-scimento e il disprezzo dei dirittidell’uomo hanno portato ad attidi barbarie che offendono la co-scienza dell’umanità, e che l’av-vento di un mondo in cui gli esse-ri umani godono della libertà di
parola e di credo e della libertà daltimore e dal bisogno è stato pro-clamato come la più alta aspira-zione dell’uomo...”. Il diritto ac-quista forza, dunque, non in basea un’estensione dei diritti, al rico-noscimento della loro insufficien-za, ma in relazione alla barbarievissuta, al senso d’inadeguatezza,sulla base di una “ferita”. In bre-ve sull’idea di “male”. Ha scrittocon acutezza Salvatore Veca nel2005 (La priorità del male el’offerta filosofica, Feltrinelli),in tempi non sospetti di crisidell’idea di Europa, che la Dichia-razione pur figlia dell’Illumini-smo europeo, è stata scritta quan-do la fiducia nell’Il-
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La storia è una madre scarmigliata, sbi-gottita. Ha perduto i gioielli che unavolta l’ornavano. “Testimone dei tempi,luce della verità, vita della memoria,maestra di vita, messaggera dell’anti-chità”, chi la loderebbe ancora con leparole di Cicerone? E chi ormai la cor-teggia, questa “magistra” infelice, chenon hai mai saputo educare i propri fi-gli? Il mondo digitale fluisce, riluce,svanisce. Non è la durata della storia,che ci interessa, ma quella breve del-l’evento. Chi sa ricaricarla, la batteriadel passato, come si fa a riaccenderla e aquale scopo? La tradizione rabbinica,che di memoria si nutre, può forse aiu-tarci a distinguere l’essenziale. “Ricor-dati cosa ti fece Amalec”, recita il Deu-teronomio (25. 17). Questo “ricorda”,che costituisce uno dei 248 precetti po-sitivi, è da osservarsi in ogni luogo e inogni tempo. Poco importa che del popolodegli amaleciti si sia persa la cognizioneesatta. È la loro azione che deve restare,nitida, ben scolpita nella consapevolezzacollettiva: “Ricorda Amalec … quandoti assalì per strada e colpì tutti i deboliche erano dietro, mentre tu eri stanco edesausto”. Un agguato carovaniero neldeserto, un’incursione furtiva contro leretrovie, la sopraffazione degli ultimi, dicoloro che sono stremati. E per di più,una violenza proditoria, che approfittadella stanchezza di quanti avrebbero po-tuto proteggere i deboli, che fanno faticaa tenere il passo. Questa della memoriaebraica non è la storia ampia, paludatadi retorica dell’umanesimo. È un ricor-dare teso, d’emergenza, nella solitudinee nella stanchezza. Quando siamo esau-sti, e quando è l’indifeso a esser preso dimira, allora vale la pena, anzi è dovero-so tenerselo alla mente. Un precetto ne-gativo, di segno opposto, ingiunge disradicare il malvagio di cui si comme-mora l’attacco: “Cancella la memoriadi Amalec di sotto il cielo: non te ne di-menticare” (Deut. 25. 19). Se è storia,lo è in maniera selettiva, per un episo-dio, allora e ora, che riguarda “tutti ideboli”. A vestirla così, di panni essen-ziali, di quelli che s’indossano nel viag-gio e nella fatica, la madre spossata, dicui non vorremo più sentir parlare, cipare di nuovo attraente. Oggi, in Euro-pa e ovunque nel mondo, il ricordo èun dovere. Amalec colpisce, con catti-veria, proprio quando il cammino è piùimpervio.
Ricordiamo OPINIONI A CONFRONTO
ú–– Giulio BusiFreie UniversitätBerlin
Il programma Horizon 2020dell’Unione Europea, tramitel’European Research Council(ERC), assegna fondi di ricerca agiovani scienziati d’eccellenza.Quest’anno su 2.920 proposte ri-cevute, 291 sono state premiateciascuna con una cifra fra 1,5 e2,5 milioni di euro. I giovani ri-cercatori israeliani partecipanoalla competizione e nell’ultimoconcorso hanno vinto 24 delle291 borse. Su 23 paesi parteci-panti con almeno un vincitore,Israele con 24 premiati si classifi-ca al quinto posto assoluto comenumero, dopo l’Inghilterra con48, la Germania con 47, l’Olandacon 32, e la Francia con 29. Se-guono la Svizzera con 21 e l’Ita-lia al settimo posto con 18. Se-condo la cittadinanza dei vincito-ri, Israele si classifica al terzo po-sto alla pari con la Francia (24vincitori ciascuna), dopo la Ger-mania (50) e l’Italia (31) – datoquesto di grande interesse perchédimostra che l’eccellenza italianaesiste ma si manifesta in granparte in centri di ricerca collocatiall’estero. Ma tornando a Israele,il paese si piazza al primo postoassoluto in Europa col più altonumero di premiati in rapportoal numero di abitanti. Questi da-
ti confermano il livello di eccel-lenza delle università israeliane eportano una ventata di ottimi-smo in un periodo in cui ci sichiede se la provata capacitàscientifica che ha fruttato nume-rosi premi Nobel negli ultimi an-ni possa essere trasmessa alle ge-nerazioni più giovani. Ebbene,senza dubbio sì: Israele occupasempre un ruolo dominante nellacreatività scientifica a livello eu-ropeo e mondiale. Tutto ciò equi-vale a un certificato dibuona condotta del siste-ma universitario israelia-no che viene gestito daun organo di autogover-no fin qui in gran parteautonomo da ingerenzepolitiche, il Consiglio perl’Istruzione Superiore,noto con la sigla ebraicadi Malàg. Malàg è pre-sieduto formalmente dalministro per la Pubblicaistruzione, ma il ruolodominante lo svolge ilsuo vicepresidente cheviene eletto da un consi-glio formato dai presi-denti e dai rettori di tut-te le università e da qualche altroesperto. Quasi sempre questa ca-rica di cruciale importanza vienericoperta a rotazione da uno deipresidenti di università. Fino apoche settimane fa la vicepresi-dente di Malàg era Hagit Mes-ser-Yaron, presidente uscentedella Open University nonchédocente di ingegneria elettrica al-
l’Università di Tel Aviv. Il ruolodi Malàg immediatamente se-guente come importanza è quellodi capo della commissione bilan-cio e finanze che determina la di-stribuzione dei fondi statali fra lediverse possibili destinazioni ed èattualmente ricoperto da YaffaZilbershats, già vicepresidentedell’università Bar Ilan. Notiamointanto due fatti positivi: uno èl’ampia distribuzione delle cari-che fra gli esponenti di tutte le
maggiori università, e l’altro è lanotevole presenza femminile aivertici del sistema. Ma qui le cosesi complicano. Il ministro dellaPubblica istruzione Naftali Ben-nett, senza motivo esplicito e sen-za spiegazione, decide di licenzia-re la Messer-Yaron. Dato che lavicepresidenza di Malàg non èuna nomina ministeriale ma è
una carica elettiva, il ministrochiede alla sua vice di dimettersi.Messer-Yaron capisce che si trat-ta di una grossolana ingerenzapolitica e immediatamente si di-mette. Ne consegue una vera in-surrezione di docenti universitarida tutte le parti di Israele, e inquesto momento non è chiaro co-me si concluderà la vicenda. Mail caso al vertice delle università èsintomatico di una sindrome pe-ricolosa da parte del ministroBennett e ben diffusa nell’attualegoverno Netanyahu: l’interventi-smo e il dirigismo politico.
L’esempio più eclatanteanche se forse meno no-civo è quello della mini-stra della Cultura e del-lo sport, Miri Regev.L’effervescente ministra,cha ha ricoperto in pas-sato il compito (indiscu-tibilmente necessario) dicapo della censura mili-tare, non fa alcuno sfor-zo per liberarsi dalle ca-ratteristiche spigolose emanichee del censore,laddove la cultura do-vrebbe essere un luogodi sfumature, di liberaespressione, magari an-che di trasgressione, cer-
to di stimolante provocazione in-tellettuale. Ecco che Regev di-chiara che da ora in avanti i fi-nanziamenti ai teatri verrannodecisi sulla base dei contenutiideologici delle rappresentazioni,e interviene ufficialmente perchéalla stazione radio gestita dal-l’esercito, Galgalàtz, che ha imassimi indici di / segue a P25
Israele, un uomo solo al comando
La stagione incerta dei diritti
/ segue a P25
ú–– David BidussaStorico sociale delle idee
ú–– Sergio Della PergolaUniversitàEbraica di Gerusalemme
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/ P24 OPINIONI A CONFRONTO
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n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraicheE
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ú–– Francesco Moises Bassano
“Où allons-nous?” Domanda infine il titolo di un celebre dipinto del1898 di Paul Gauguin. E quel “dove stiamo andando” dovrebbe rim-bombare in ognuno di noi in questi giorni di svolte e d’incertezza. Chipuò sapere se il Cop21, la conferenza sul clima di Parigi, porterà realmentead un accordo vincolante, e quindi a dei cambiamenti, a invertire quellatendenza nefasta che porterebbe il nostro pianeta ad un punto di nonritorno, alla catastrofe. Come è stato evidenziato negli ultimi giorni sualcune testate giornalistiche, il mutamento del clima graverà ulteriormente,oltre che sulle catastrofi naturali, su conflitti ed assetti economici e politici,portando poi anche a nuove migrazioni di massa. I buoni propositi daparte dei governanti riuniti a Parigi probabilmente ci sarebbero, ma forsenon bastano, come per la lotta al terrorismo. Sembra che in fondo manchiancora determinazione e forza di volontà, e del resto non sono affattopochi coloro che continuano a negare l’esistenza del riscaldamentoglobale e delle sue probabili conseguenze. Ma se il mutamento del climapotrebbe essere per ancora qualche anno un argomento non pienamenteverificabile, non lo è al tempo stesso, la devastazione selvaggia degli eco-sistemi, la produzione di tonnellate di rifiuti, l’inquinamento dell’aria edelle acque, l’estinzione di specie animali e vegetali o le diseguaglianzee la scarsità di risorse nelle aree più povere delle terra. Ingenuo sarebbecredere che tutto ciò non peserà in nessun modo sul nostro futuro, cheil mondo e la sua popolazione sia in grado di reggere nella sua limitatezzaqualunque direzione distruttiva intraprenderà il genere umano solo perchégiustificata nel nome del “progresso” e di uno sviluppo divenuto inso-stenibile. Il Tikkun ‘Olam passa quindi anche nella riparazione delle stor-ture dell’uomo, nella preservazione del creato, nel quale D-o nella suainfinità diventa a noi in qualche modo riconoscibile.
ú– LETTEREMolto si è parlato in questi mesi di una legge che punisca il negazionismo della Shoah, attesa prossimamente
da una nuova verifica al Senato dopo il via libera della Camera dei deputati. Un’iniziativa che non ha fatto
il pieno nella comunità degli storici. Per quale motivo?
Luca Memmu, Nuoro
Il negazionismo sembra dilagaresu internet. Una valanga di sitialimentati da pseudo storici, spe-cialisti d’accatto, opinionisti in-tossicati dai veleni della xenofobia,razzisti con evidenti complessi diinferiorità razziale, sembrano farda cornice a quella cosiddetta cor-rente storiografica che ha messo indubbio l’esistenza delle camere agas ad Auschwitz, nonché la pia-nificazione della morte per milionidi ebrei e migliaia e migliaia dizingari. Su questa cosiddetta sto-riografia e sulle sue sfumature -sì, perché come tutte le “scuole dipensiero” che si rispettino, il ne-gazionismo conosce anche unaversione moderata e per-benista, la scuola revisio-nista - ci sarebbe molto,veramente molto da dire,ma oggi il problema, chebussa alle porte del no-stro parlamento (c’è unalegge che si sta discuten-do in proposito), è un al-tro: hanno pieno dirittodi parola questi “studio-si”? È giusto pensare chepossano sguazzare liberamente suinternet senza colpo ferire? La li-bertà di opinione è prigioniera dise stessa. Se non si concede a tuttifa carachiri. Ci deve essere anchela libertà della menzogna, perquanto spudoratamente e invero-simile essa possa essere. Ci deveessere anche la libertà di diresciocchezze totali e madornali. Maresta difficile accettare che la liber-tà di parola diventi libertà di ne-gare la libertà. Sì, perché quandola menzogna dilaga e ha un segui-to, fa proseliti e rischia di diventa-re un’onda inarrestabile di neona-zisti inneggianti, la cosa si fa seriae la libertà di pensiero avvelena sestessa. L’iter parlamentare deve quindiandare avanti e si tratta di unpercorso non facile. È pur vero chela nostra legislazione adottandouna legge che metta fuorilegge inegazionisti non farebbe che ade-guarsi ad un gran numero di pae-si europei che ce l’hanno già da
tempo. Ma, come nascondercelo,la questione resta aperta e non sipuò pensare di risolverla solo acolpi di bazooka legislativi. Anzi,si tratta di vedere, secondo me, irisvolti che essa sottende.Prima di tutto il fatto che qualco-sa deve essere sfuggito di mano sel’aria di opinione, chiamiamola co-sì, dei negazionisti è aumentata.Cosa bolle in pentola tra le pieghedella nostra società se questopseudo pensiero trova seguito? Èun sintomo sul quale riflettere edè tutto da interpretare. Aver datovita a un Giorno della Memoriaper ricordare ciò che è avvenuto inEuropa dietro i fili dei campi diconcentramento nazisti non è ba-stato. Scrivere e pubblicare librisullo sterminio nazista e sulla me-moria dei sopravvissuti non è ser-vito a nulla? Produrre film e do-cumentari sulla deportazione esull’internamento non ha avuto
effetto alcuno? L’attività che mol-te associazioni svolgono nellescuole per sensibilizzare gli stu-denti sul tema dello sterminio ache cosa è servito? Organizzareconvegni di studio e dibattiti sullapersecuzione antisemita e sullamorte della democrazia non è, an-cora, servito a nulla?Il rigurgito razzista che come ba-va avviluppa il negazionismo èforse il prodotto di spinte ancorapiù sotterranee. L’Europa fa faticaad accettare una effettiva pluralitàetnica e culturale. Vittima giàtroppe volte di guerre e contrastisanguinosissimi, posta di frontealle più recenti ondate immigrato-rie, la vecchia pancia europea ri-bolle e rigetta. Allora c’è in questosenso un primo quesito: perché lacultura democratica non è in gra-do di offrire risposte più adeguateai problemi gravi che l’immigra-zione, le diversità di cultura, di fe-de, di tradizione ci pongono? Per-ché la democrazia non riesce a da-
re risposte più vive, ricche, artico-late, posta di fronte ai problemidell’accoglienza e dell’integrazio-ne? Perché siamo sopraffatti dailatrati di chi predica il rigetto, co-struisce muri, discrimina a priori,persegue e imprigiona? Possiamosolo cedere alle minacce dell’inte-gralismo islamico e trovare inquesto la giustificazione alla no-stra inettitudine? Credo che laparte più avveduta e intelligentetra quelli che da lungo tempo sioccupano di questi problemi abbiacominciato a farsi un’idea. Giu-seppe Laras, presidente del Tribu-nale rabbinico centro nord Italia,ha scritto una lettera al Corrieredella sera (15 ottobre u.s.), nellaquale lamenta che ci siamo ada-giati su una sorta di ritualizzazio-ne della memoria dello sterminio.Ha proposto a questo proposito iltermine di “shoaismo”, che nonsarà bello come espressione, ma si-
curamente é molto effica-ce. Auschwitz rischia didiventare un sepolcroimbiancato, una sorta difeticcio così lontano e ir-removibile e irraggiungi-bile dalla realtà che ri-schia appunto di diven-tare sfuggente, evane-scente, remotissimo e in-toccabilissimo. Il pam-phlet di Elena Loewen-
thal Contro il Giorno della Me-moria è in questo senso straordi-nariamente fecondo di spunti cri-tici e di penetranti riflessioni. Misi perdoni la franca brutalità, magli ebrei devono scendere dal pie-distallo del loro disumano dolore efarsi parte viva e operante sull’on-da della memoria della Shoah. Ecco che qui fa capolino un temaancora arduo e di non facile dige-stione: la comparazione. Come po-ter anche solo mettere lontana-mente a confronto la violenza to-tale e fredda delle camere a gascon qualsiasi altro sterminio, eli-minazione, genocidio di massa?Sembra ed è e resta impossibile.Ma in questo gioco, se così si puòdefinire, l’unicità della crudeltàrischia di conferire una certagrandezza al male, una sua meta-fisica possanza e intanto le serpidel negazionismo continuano astrisciare subdole sotto l’erbatroppo verde dei nostri monumen-ti che ricordano le vittime.
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ORAD
ú–– Marco Coslovichstorico
OPINIONI A CONFRONTO / P25
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pagine ebraiche n. 1 | gennaio 2016
ascolto fra i giovani, vengano ese-guite più canzonette di un tipo(sefardita-marocchino) e non di unaltro (anglo-americano). Ma il caso più spettacolare di in-terventismo è costituito dallo stes-so Benjamin Netanyahu che oltrea essere primo ministro funge oggianche da ministro degli Esteri(con la nomina di un’intera batte-ria di nuovi ambasciatori e la ge-stione dei rapporti con gli StatiUniti e i paesi europei), delle Co-municazioni (con il controllo sullatelefonia e sui canali televisivi) edell’Economia (con il controllo sulgigantesco progetto di sviluppodelle fonti di energia sottomarineal largo della costa israeliana). Sitratta degli interessi politici cru-ciali del paese, che coinvolgonouna vasta rete di nomine di perso-ne prossime alla presidenza delconsiglio e a questa legate a doppiofilo, e di interessi economici diportata incalcolabile i cui beneficivengono distribuiti secondo la vo-lontà del padrone, eludendo espli-citamente i controlli previsti dallalegge. Raramente in passato si era vistauna simile concentrazione di pote-re nelle mani di un solo uomo. Ilquale è talmente sovraoccupatoche alle ultime riunioni di governoha tassativamente limitato il dirit-to di parola dei ministri a soli treminuti. Sul caso del gas israelianosi è già scritto molto, spesso contoni ingenuamente retorici (abbia-mo reso verdi le gialle pianure deldeserto, ora estraiamo l’oro nerodal ventre del mare azzurro). Masono stati elusi in gran parte i no-di del problema. A chi appartienela risorsa naturale, allo Stato o aiprivati che lo hanno trovato? Co-me vanno distribuiti i proventi, abeneficio dei cittadini o delle com-pagnie di investimento? Qualepriorità va data al prodotto, ilmercato israeliano al fine di ridur-re i costi energetici e il costo dellavita, o i mercati esteri al fine ditrarre profitti industriali e com-merciali? Le risposte si trovanoovviamente sempre a metà strada,ma in ogni caso sono di crucialeimportanza le aliquote che vannoprima stabilite dallo Stato e poi
perfezionate attraverso un nego-ziato fra lo Stato e i produttori pri-vati. Nella fattispecie, essendo laproduzione di gas in mano a unmonopolio israelo-americano, esi-stono dei regolamenti antimonopo-lio gestiti da una unità del mini-stero dell’Economia. Il capo diquesta unità ha deciso di dimetter-si perché in disaccordo con gli or-dini che venivano dall’alto. Il ministro competente, AriehDer’i, avrebbe allora dovuto avo-care a sé il potere di decidere, matrovandosi anche lui in disaccordocon il protocollo imposto dall’alto,ha preferito dimettersi anche lui. Ecosì Bibi ha nominato se stesso co-me ministro incaricato e ora cercadi fare approvare le sue propostedal governo e in parlamento.Il problema è che molti esperti epolitici trovano che la formula ela-borata per la divisione degli usi edei profitti favorisce eccessivamen-te precisi interessi privati a scapitodi quella che dovrebbe essere lamassima preoccupazione del go-verno: rendere il gas la principalefonte di energia in Israele, abbas-sarne notevolmente il prezzo, e fa-vorire così le condizioni di vita deicittadini. Netanyahu sembra divertirsi nel-
la situazione attuale di crescenteconcentrazione di potere e di con-trollo su settori sempre maggioridella società. Si è circondato di mi-nistri giovani, ambiziosi, quasitutti più estremisti di lui nel di-scorso politico, e quel che più con-ta, quasi tutti privi dell’esperienzanecessaria a gestire i rispettivi mi-nisteri. Finisce così che Bibi appa-re quasi quotidianamente come ilgrande decisore e il grande con-duttore. Per non dire dell’inquietante ruolodella moglie Sara, molto intrusivanelle nomine governative del ma-rito dal quale non si stacca mai, espesso coinvolta in clamorose liticol personale di casa. Anche il fi-glio maggiore dei Netanyahu hasvolto un ruolo importante nel-l’ultima campagna elettorale delLikud e quasi certamente ne senti-remo parlare alle prossime elezio-ni. La monarchia è stata soppressain Israele 2600 anni fa, ma eviden-temente c’è chi ne prova nostalgia.
DELLA PERGOLA da P23 /Memoria, i correttivi necessari
Nel 2000, con l’istituzione dellaGiorno della Memoria e poi delconcorso “I giovani ricordano laShoah”, della cui commissione fac-cio parte su incarico dell’Unionedelle Comunità Ebraiche italiane,l’insegnamento della Shoah ha ri-cevuto un’istituzionalizzazione uf-ficiale nel sistema educativo nazio-nale. Nell’ambito delle tante ini-ziative anche molto capillari cheogni anno si svolgono il 27 genna-io, il concorso è quello che più è di-retto alla conoscenza della Shoahnell’ambito del sistema scolastico equindi tra le nuove generazioni. Enon solo, sono molto apprezzabilisia il lavoro preparatorio dei do-centi sia il ruolo attivo e spessocreativo raggiunto dalle classi, dal-le primarie alle superiori, nel rea-lizzare lavori di sintesi storica avolte ricchi di considerazioni per-sonali e creatività. Non sto a direquanto il concorso abbia visto unapartecipazione crescente da partedi tanti istituti diversamente collo-cati sul piano geografico e comemolti lavori siano stati consideratidegni di premio e di menzione,tanto che ogni anno ci si pone ilproblema che essi non vadano per-duti e divengano a loro volta mate-riale documentario da proporre adaltri ragazzi. Tuttavia il contestostorico in cui negli anni 2000 èpartito il concorso è ben diverso daquello attuale. Profonde trasforma-zioni globali in rapido divenirehanno investito l’Europa e non so-lo. Insegnare la Shoah oggi richie-de un ripensamento che va al di làdelle problematiche che ci poneva-mo negli anni prima del 2000,quando ci si domandava se e come“insegnare Auschwitz”. È notoche fenomeni come razzismo e an-tisemitismo allignano proprio neimomenti in cui instabilità politica,crisi economica, emergenza occu-pazionale generano miseria, diso-rientamento, malcontento. In que-sti ultimi anni l’Europa si è pro-fondamente trasformata. La “largamobilitazione collettiva”, richiestaa suo tempo dal presidente GiorgioNapolitano, “per dimistificare emettere in crisi le posizioni di-struttive ed eversive dell’antipoli-tica” e, aggiungerei, l’imperanteirrazionalismo antistorico e anti-scientifico, impongono un ripensa-mento anche a noi che oggi voglia-
mo costituire una rete europea perl’insegnamento della Shoah. C’è da domandarsi quale impattopossa e debba avere oggi l’educa-zione alla Shoah su dei giovanibombardati dai comunicati violentidi movimenti e gruppi populisti,euroscettici ed antidemocratici chedilagano nel web, trasmettendomessaggi velenosi e sovvertitoridella verità storica, valori distrut-tivi e irrazionali che trovanoun’apparente parvenza di giustifi-cazione nella crisi economica,nell’emergenza occupazionale spe-cialmente giovanile e nelle propor-zioni raggiunte dal fenomeno del-l’immigrazione. Privi di riferimen-ti culturali e sociali, molti giovanisono oggi in com-plesso poco preparatia decifrarli e corronoil rischio di assorbir-li potenziando il pro-prio stato di disagioetico e di rivalsa po-litica, terreno favore-vole, come dimostraanche la storia del passato, al sor-gere di fenomeni discriminatori.Ed ecco che l’ebraismo come proto-tipo millenario di “diversità” e an-che tutte le altre diversità vengonoprese di mira con l’intento di colpi-re le istituzioni democratiche,l’Euro, la moneta comune, l’Unio-ne stessa degli Stati europei e ilprogetto di integrazione dei popolisu base democratica. Preoccupano i sistematici e cre-scenti richiami al nazismo, al raz-zismo e all’antisemitismo comemai si era visto nei decenni succes-sivi alla seconda guerra mondiale ecome si evince anche dai dati nu-merici degli episodi antiebraici inaumento. Il quadro è tanto più in-quietante se rimane sempre vivo ilrischio del terrorismo islamico e se,come accade, con la scusa di legit-time critiche e proteste politichecontro la politica del governo israe-liano si mescolano illegittime ma-nifestazioni antiebraiche, facendoun tutt’uno di antisionismo e anti-semitismo. Convinta che conoscen-za, studio e uso della ragione sianoancora i mezzi fondamentali per
prevenire e reprimere ogni formadi razzismo e di discriminazione,ritengo che la vastità del fenomenorichieda un intervento di carattereeducativo coordinato e al tempostesso un coinvolgimento attivo ecosciente dei giovani. Credo che siafondamentale incrementare i rap-porti tra gli studenti delle scuoleeuropee, alimentare esperienze co-muni, incontri finalizzati alla co-noscenza di persone e di storie, allarealizzazione di laboratori di ricer-ca come guida alla presa di co-scienza di problematiche reali, allasoluzione delle quali i giovani pos-sano contribuire. Credo che sia ne-cessario rendere la storia, e anchel’educazione civica e la geografia,
materie vive e fonda-mentali, laboratori dianalisi del mondopresente e veri inse-gnamenti di vita e dipreparazione alla ma-turità civile. Credoche sociologi e opera-tori del mondo del
volontariato debbano entrare nellascuola e coinvolgere i giovani nelleproprie attività. Credo che debbanodiventare oggetto di studio e dipratica l’insegnamento al dialogo,all’accoglienza, al confronto, al-l’integrazione, alla convivenza didiversi gruppi identitari, al cosmo-politismo in un superamento econtrapposizione alla chiusura mo-nolitica e nazionalista negli usi enella cultura che potrebbe diventa-re maggioritaria. Credo che sia necessario affidare aigiovani, per esempio durante lelunghe e inutili vacanze estive, unruolo attivo, un impegno civilenell’Europa di oggi che attraversola soluzione di piccoli problemipossa restituire loro la speranzanelle prospettive future e nei valoripositivi. Credo infine che, dopo ilreiterarsi di stragi e stermini, laparola d’ordine oggi sia passaredalla memoria all’attualizzazione-universalizzazione della Shoah,aprirla, allargarla cioè a simbolo ditutti i crimini contro l’umanità,restituendole il suo valore paradig-matico e universale.
ú–– Franca Tagliacozzoinsegnante
luminismo conosceva la sua massi-ma crisi e dunque testimoni della“memoria dell’orrore” più che del-la “credenza nella ragione”. In al-tre parole allude alla paura piutto-sto che alle aspettative della spe-ranza. Forse oggi quella dimensio-ne ci appare per certi aspetti piùsignificativa, proprio nella dimen-
sione dell’oblio, che non in quellodella memoria e comunque in unadimensione della paura che hacambiato natura. La paura oggi non discende da ciòche si è fatto, bensì per quello chepuò accadere. Una paura che di-scende non dall’autoritarismo edalla violenza esercitata in prece-denza, ma dalla “rilassatezza”. La
dimensione dell’incertezza dei di-ritti così mette in questione la di-sponibilità a riparare il torto prece-dente. È indubbio, infatti, che av-vertire come il diritto si origini daltorto, se accelera e mette in strettorapporto la condizione attuale conciò che vorremo, con un’idea dimondo migliore, si configuri come“concessione” e la concessione in-
clude che quei diritti valgano intempi di “vacche grasse”. In tempidi “vacche magre”, quando la di-mensione del diritto diviene più dif-ficile, la domanda che trova terrenofertile è se sia legittimo o no ricono-scerli come diritti e forse, anche sesia proprio necessario riconoscere il“torto”precedente. Non è detto chequesto valga solo per il 10 dicembre.
BIDUSSA da P23 /
Quando sfoglio per la prima voltaun libro di testo di storia perun’eventuale adozione, prima ditutto vado a guardare le parti su-gli ebrei. Criterio piuttosto deso-lante, a dir la verità, perché quasinessun libro regge la prova in mo-do soddisfacente. Sia chiaro ascanso di equivoci: il problemanon sta nel fatto che questi librinon riconoscono l’attendibilitàstorica del testo biblico. Anzi, se-condo me la riconoscono fin trop-po, facendo una grande insalatamista di fatti per lo più biblici me-scolati qua e là con informazioniprovenienti da altre fonti senzadistinguere adeguatamente gli unidalle altre: ecco quindi, per esem-pio, che si dichiara come dato cer-to, tra la storia di Giuseppe equella di Mosè, che l’uscita dal-l’Egitto avvenne “nel 1250 a.C.mentre in Egitto regnava RamsesII”, lasciando intendere agli allie-vi che sia la Torah stessa a fornirciesplicitamente questi dati.Per fortuna (o sfortuna) non hoavuto voce in capitolo sulle ado-zioni dei libri, perché alla finedell’anno scorso non sapevo anco-ra quali classi avrei avuto, e quin-di non ho potuto fare altro che al-linearmi alle decisioni del diparti-mento e confermare i testi del2014-2015. Per ragioni di spaziomi limiterò a parlare di questi, concui mi devo confrontare quotidia-namente, premettendo che per for-tuna ne ho visti di migliori. Inparticolare uno dei due (ChiaraFrugoni, Anna Magnetto, GianniSofri, Francesca Sofri, Storia egeografia, Zanichelli) dà prova diun pressapochismo davvero scon-certante. Infatti, pur usando so-stanzialmente il testo biblico comefonte quasi esclusiva, lo cita inmodo scorretto e distorto; viene latentazione di pensare che gli auto-ri abbiano fatto solenne giuramen-to di attenersi ai propri ricordi delcatechismo (o forse dell’ora di reli-gione alla scuola elementare) e dinon aprire mai neanche per sba-glio non dico una Bibbia ma nep-pure uno smartphone per verifica-re su internet la correttezza deipropri ricordi d’infanzia. Come sispiegherebbe altrimenti che gli an-ni trascorsi nel deserto siano di-ventati cinquanta, con un signifi-cativo aumento del 25%? Oppure
/ P26 OPINIONI A CONFRONTO
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n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraiche
ú–– Anna Segredocente
evitare travasi di bile). Ma almenoin questo caso siamo di fronte aun’esigenza identitaria, di auto-rappresentazione. Forse non giu-stificabile, ma almeno comprensi-bile. C’è dell’altro?Direi proprio di sì: basti vedere
come finisce il paragrafo sulla sto-ria ebraica. Dopo aver fatto un al-legro salto di cinque secoli da Ciroa Erode e aver completamente di-
menticato l’esistenza degliAsmonei, si arriva in poche ri-
ghe a Titoche di-strugge -miracolo-samente,dato che
lo aveva già fatto Nabucodono-sor seicento anni prima - “losplendido tempio voluto da re Sa-lomone nel X sec. a.C.” Poi un al-tro salto di duemila anni ed eccola conclusione: “Dopo la secondaguerra mondiale, per cercare dicompensare gli ebrei sopravvissutiallo sterminio e alle atrocità della
Germania di Hitler, fu creato ilpiccolo Stato di Israele, una solu-zione che ha generato molti pro-blemi”. Ecco a cosa si mirava findall’inizio: per dare al libro unabella patina di attualità bisognametterci una frecciatina contro loStato d’Israele di oggi, che a scan-
so di equivoci non fa maimale. Ancora più esplici-to l’altro libro di testo in
adozione nelle mie classi (Gian-franco Mosconi, Fabrizio Polacco,Giulia Dottori, Storia e geogra-fia, il Capitello), che pure in lineagenerale sulla storia ebraica è piùpreciso dell’altro (nel capitolo sul-l’ellenismo dedica persino unascheda ai Maccabei, implicitamen-te paragonati ai fondamentalistiislamici di oggi: “In un’età comela nostra, in cui quanto più forte èla pressione dell’occidentalizzazio-ne tanto più violente sono le rea-zioni locali, spesso presentate co-me ‘guerra santa’ contro il ‘male-fico’ influsso di ‘infedeli’ invasori,può essere utile riconoscere il no-stro presente specchiato nel passa-to”). Quando si arriva a Tito e al-la distruzione del Tempio il para-grafo, che significativamente si in-titola “Dal 70 d.C. alla questionepalestinese”, si chiude con questabella conclusione di attualità: “Lasanguinosa vittoria di Tito ebbeconseguenze storiche che hannoattraversato i millenni e che pesa-no tuttora. Gran parte della popolazioneebraica abbandonò la regione e siaggiunse alle comunità della Dia-spora (dal greco ‘dispersione’),cioè le numerose comunità ebreegià presenti da lungo tempo unpo’ ovunque (le più importantierano a Roma e ad Alessandriad’Egitto), anche fuori dell’Imperoromano, come in Mesopotamia ein Armenia. Solo nella prima me-tà del XX secolo gli ebrei comin-ciarono a ripopolare la Palestina,dando vita nel 1948 allo Stato diIsraele: la vittoria di Tito, in uncerto modo, è l’antefatto della que-stione palestinese.”D’accordo, ce la siamo cercata: noiebrei siamo i primi a sottolinearein ogni circostanza la continuitàcon gli ebrei di allora, l’identifica-zione con i nostri padri che usci-rono dall’Egitto. Ma anche inquesto caso, come per i cristiani,si tratta di un’autorappresenta-zione dovuta a un’esigenza identi-taria. Un discorso storico sui libridi storia dovrebbe essere una cosadiversa, e infatti è una cosa diver-sa quando si parla di qualunquealtro argomento: nessuno usa labattaglia di Salamina per criticareTsipras o le campagne di GiulioCesare per criticare Renzi. È tristeconstatare una volta di più il dop-pio standard con cui si parla diIsraele, persino nei libri di testo distoria antica, ma se non altro ab-biamo valide ragioni per sperareche almeno sulla storia greca e ro-mana i libri di testo siano più at-tendibili.
che la scheda sui dieci comanda-menti anziché trascrivere il testobiblico (che si trova facilmente allavoce “dieci comandamenti” di Wi-kipedia) riporti l’uso cattolico tra-dizionale con le feste al posto delsabato e gli attiimpuri al postodell’adulterio?Sembra quasi cheuna malintesaidea di laicitàspinga a conside-rare disdicevoleper uno storico ci-tare il testo biblico correttamente.Inutile dire che quasi tutti i libridi testo che ho consultato dannoper scontato che sia la Torah stes-sa a parlare di “popolo eletto”.Qui per lo meno si capisce il mo-vente: c’è la necessità di presenta-re il cristianesimo come la primareligione universalista della storiae l’ebraismo come religione elita-ria, chiusa e indifferente alle sortidell’umanità. Da questo punto di vista i capitolisugli ebrei antichi non sono nullain confronto a quelli sulla nascitadel cristianesimo (meglio nonguardarli neanche se vogliamo
Scuola, i doppi standard e quella malintesa idea di laicità
Frugoni, Magnetto,Sofri F., Sofri G.STORIA E GEOGRAFIA Zanichelli
Mosconi, Polacco,Dematté, DottoriSTORIAE GEOGRAFIA Il Capitello
Mosconi, Polacco,DottoriSTORIA E GEOGRAFIA Il Capitello
/ P27
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pagine ebraiche n. 1 | gennaio 2016
Accolta dalla critica con entusiasmo, la mo-
stra Blood è curata da Joanne Rosenthal e
vede la collaborazione di due brillanti crea-
tivi del panorama artistico londinese: l'ar-
chitetto Alan Farlie e il designer Tom Piper,
già al centro della scena lo scorso anno con
l'istallazione Blood Swept Lands and Seas of
Red alla Torre di Londra, che prevedeva
l'esposizione di 888,246 papaveri di cerami-
ca, come in un mare di sangue, per rendere
omaggio ai caduti dell'esercito inglese du-
rante la Prima guerra mondiale.
Oltre all'allestimento accattivante, la mostra
del Jewish Museum si arricchisce di una ini-
ziativa realizzata in collaborazione con
l'NHS, il sistema sanitario nazionale, che in-
vita il pubblico a donare il sangue: il pros-
simo febbraio si darà infatti il via alle do-
nazioni. “Un modo – ha spiegato Abigail Mor-
ris, direttrice esecutiva del museo – per ren-
dersi utili”. Specialmente e si pensa come le
donazioni nel Paese siano tristemente scese
oltre il 40% rispetto agli anni passati. Ma
non solo; per chi volesse andare più a fondo
sul rapporto tra ebraismo e sangue, per l'oc-
casione l'istituto di ricerca sull'antisemiti-
smo Pears ha pubblicato Blood – reflections
on what unites and divides us, una raccolta
di saggi che affronta l'argomento. “Il sangue
- spiega il direttore del Pears David Feldman
- è centrale per la religione ebraica e i rituali
ed è stato usato dagli ebrei per auto-defi-
nirsi ma dagli altri per discriminarli. Attra-
verso la mostra vogliamo provocare una
reazione proprio su questo: il paradosso del
sangue, che unisce e divide ed è uguale per
tutti gli esseri umani”.
pagine ebraicheu /P34SAPORI
u /P35SPORT
Un paradosso che ha attraversato i secoli
u /P28-29STORIA
u /P30-31SATIRA E POLITICA
u /P32-33RITRATTO
ú–– Rachel Silvera
“Ma un ebreo non ha occhi? Unebreo non ha mani, organi, misure,sensi, affetti, passioni, non mangialo stesso cibo, non viene ferito conle stesse armi, non è soggetto aglistessi disastri, non guarisce allostesso modo, non sente caldo ofreddo nelle stesse estati e inverniallo stesso modo di un cristiano?Se ci ferite noi non sanguiniamo?”.È il monologo di Shylock, il tantovituperato mercante ebreo creatodal drammaturgo William Shake-speare che, scritto sui muri delMuseo ebraico di Londra, ci guidaall'interno di una delle mostre piùprovocatorie, intelligenti e inevi-tabilmente necessarie che sianomai state realizzate. Blood – Uniting and Dividing,l'esposizione che sarà possibile vi-sitare fino al 28 febbraio del 2016,si interroga sul tema che racchiudein sé drammi, rituali, identità e per-secuzioni: il sangue. Cosa simbo-leggia il sangue nell'ebraismo? Per-ché esso è un fondamentale rego-latore della vita religiosa? Come èarrivato ad essere il pretesto perdare il via a violenti episodi di an-tisemitismo fino all'ignominiosa
accusa di omicidi rituali? Blood tenta di rispondere a tuttoquesto, e lo fa offrendo allo spet-tatore un percorso assai complessoche si muove in parallelo su duefronti: il sangue come protagonistaprincipale dell'esistenza di ogniebreo e il sangue come scusa perisolare le comunità della diasporafino a volerne, giunti all'estremo,l'annientamento. Gli utensili esposti raccontano riti
come la circoncisione o la macel-lazione degli animali, che devonoessere dissanguati poiché cibarsidi sangue significherebbe violarela vita, la loro anima (tra le testi-monianze offerte, un vecchio ma-nuale marocchino nel quale si in-dicava la corretta casherizzazionedegli alimenti). Le iconografie il-lustrano poi come Pesach, la Pa-squa ebraica, abbia diversi simboliche la legano fortemente al sangue:
la prima piaga mandata dal Signo-re agli egiziani per liberare gli ebreidalla schiavitù fu la tramutazionedi acqua nel sangue e gli stessiebrei dovettero apporre del sanguedi agnello sulle loro porte per es-sere protetti dall'ultima piaga: lamorte dei primogeniti. Una celebrazione, quella di Pesach,che porterà però anche una dellefalse accuse più dolorose che per-seguiteranno il popolo mosaico a
partire dall'XI secolo: quello di ra-pire e sacrificare i bambini cristianiper preparare con il loro sanguele azzime. Un pretesto che diede il via a se-coli di pogrom, terribilmentecruenti, e che è ritornato di recenteal centro del dibattito in manieraassai controversa. E se ogni comu-nità del mondo tende ad identifi-carsi attraverso il sangue, esso –introduce la mostra – è stato ancheil punto di partenza per alienaregli ebrei: dalla dimostrazione dellapropria “limpieza de sangre” cheossessionò la Spagna dopo il De-creto di Alhambra e la cacciata de-gli ebrei, alla documentazione, inmostra, sulla politica nazista delleLeggi di Norimberga che deter-minavano la superiorità della “raz-za ariana”. I percorsi tematici ter-minano poi con l'attualità e un ri-torno alla visione scientifica: lo stu-dio delle malattie che tendono amanifestarsi con maggiore frequen-za in persone di origine ashkena-zita (legate quindi ad antichi vin-coli familiari) e la scoperta rivolu-zionaria di Karl Landsteiner, il me-dico viennese premio Nobel nel1930, che dimostrò l'esistenza deigruppi sanguigni.
QUI LONDRA - LA MOSTRA AL JEWISH MUSEUM
“La vera cultura ebraica non è la blasfemìa del sangue, ma è il perdono, la pace” (Rav Elio Toaff)
Sangue che unisce, sangue che divide
“Le arti e la letteratura,
insieme alla stampa, si
confermano come grandi
strumenti di conoscenza
e di dibattito, come già av-
venuto all’epoca del caso Morta-
ra a metà dell’800 ed è per que-
sto che il mio nuovo studio, che
parte dall’esplorazione di conte-
sti artistico-letterari internazio-
nali legati al caso, potrà gettare
nuova luce su queste vicende, fa-
cendone comprendere aspetti as-
sai importanti finora poco noti”.
Elèna Mortara lo aveva annun-
ciato a Daniela Gross nella gran-
de intervista che Pagine Ebraiche
le ha dedicato nell’estate del
2014 e ora Writing for Justice, la
ricerca cui aveva fatto cenno al-
lora, è infine stata pubblicata da
Dartmouth College Press, uno dei
più prestigiosi editori universi-
tari statunitensi. Emerge la figu-
ra di uno scrittore e polemista
d’eccezione come Victor Séjour
(1817-1874), ma attraverso il suo
impegno artistico e civile attor-
no al dramma di Edgardo Morta-
ra, il bambino ebreo di sei anni
rapito dalle guardie pontificie e
quindi recluso in Vaticano, appa-
/ P28 CULTURA / ARTE / SPETTACOLO
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n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraiche
Un libro, questo di Elèna Mortara,che si può leggere su due livelli: èuna monografia su Victor Séjour,scrittore e drammaturgo vissuto nelcuore dell’età delle emancipazioni,ma è anche una riflessione, forte-mente motivata da ovvie conside-razioni autobiografiche, sul caso-Mortara, qui esplorato - una voltatanto - non come episodio giuridico,ma come fonte di rappresentazionenarrativa: prima che la scandalosaingiustizia nella storia della libertàreligiosa, la vicenda è restituita almondo della fantasia creativa. L’autrice ha preferito frapporre trasé (la storia della sua famiglia) e lamateria trattata un doppio filtro:quello della studiosa di letteraturaamericana e quello della intellettualesensibile ai problemi dell’eguaglianzae della libertà. Non poteva trovare figura-simbolopiù rappresentativo. L’autore presoin esame si presenta come un mo-dello ideale di quel binomio “esodoe rivoluzione” immortalato anni fain un famoso saggio di Michael Wal-zer: non c’è in gioco, nella biografiadi Victor Sèjour, soltanto l’emanci-pazione ebraica degli ebrei d’Euro-pa, vista da oltreoceano, ma si af-frontano nelle sue opere tutte leemancipazioni dell’epoca: delle don-ne, degli uomini creoli come Séjour,scrittore nato in Louisiana, cresciutoin una famiglia francofona, poi emi-grato e maturato nella Parigi del se-condo Ottocento. “Trasgressore” perantonomasia, il Séjour, a suo agiosolo quando era chiamato a “passareoltre i confini”. Crossing border, dicela Mortara con formula icastica.Il caso-Mortara viene così sollevatodi peso e tolto dall’alveo un po’ ri-stretto e puramente recriminatorio
Il 22 dicembre 1859, a Parigi, la pri-ma rappresentazione della pièce tea-trale dello scrittore Victor Séjour, Latireuse de cartes, suscitò viva curiositàe una vasta affluenza di pubblico.Alla prima assistettero anche l’Im-peratore Napoleone III con l’im-peratrice Eugenia, mentre gi-rava la voce che a scrivere lapièce avesse dato mano an-che il capogabinetto del-l’Imperatore, Jean-FrançoisConstant Mocquard. VictorSéjour era uno scrittore tea-trale assai noto nella Franciadell’epoca. Mulatto, nato adOrléans da genitori liberi eforniti di mezzi, si era tra-sferito a Parigi giovanissimoe lì aveva intrapreso la suacarriera letteraria. Una suapièce intitolata Il mulatto, unduro atto d’accusa contro laschiavitù, aveva avuto grandesuccesso a Parigi nel 1837 edera stata la prima opera com-posta da uno scrittore “di san-gue misto” sulla questionedella schiavitù. Nella Parigi diquegli anni, il colore della pellenon rappresentava un problema,basti pensare al successo di un al-tro scrittore di sangue misto comeAlexandre Dumas e al dibattito vi-vace sulla questione della schiavitùin America, che aveva cominciato a
divenire urgente alla metàdegli anni Cinquanta e che proprionel 1861 avrebbe dato vita alla ter-
ribile guerra di secessione. La piècerappresentata in quell’occasione nonprendeva però spunto come la pre-
cedente dalla questione della schia-vitù, ma da una vicenda recente, ac-caduta in Italia, nella Bologna del1858, il rapimento “legale” del bam-bino ebreo Edgardo Mortara da par-te dell’Inquisizione romana in segui-to al suo presunto battesimo. Séjoursi schierava ancora una volta, comegià precedentemente, sul fronte delteatro “impegnato”, prendendo que-sta volta l’iniziativa di una battaglianon in favore della libertà deglischiavi ma di quella dei diritti degliebrei oppressi dalla politica del pa-pato. L’opera di Séjour fu la primaopera letteraria a porre al suo centrola questione del piccolo EdgardoMortara, un caso che suscitò in que-gli anni l’attenzione dell’intera Eu-ropa ed ebbe non poca parte nelloschierare contro la Chiesa l’opinionepubblica illuminata europea, facili-tando la caduta del potere temporaledei papi. Tradotta in molte lingue,fu rappresentata anche in Italia e nel-la stessa Roma, ancora sotto il do-minio della Chiesa, al teatro Quirino,dove dette occasione a manifesta-zioni di protesta antipapali tanto daessere sospesa.Figlio di una famiglia ebraica bolo-gnese di estrazione borghese, Ed-gardo Mortara fu sottratto ai suoicari a sei anni dalle guardie pontifi-cie, dopo che una domestica dellacasa, già licenziata, aveva denunciatoall’Inquisitore Feletti di aver battez-zato di nascosto il piccolo quandoquesti aveva due anni credendolo in
Il segno letterario e politico del caso Mortara
Scrivere per la Giustizia, nel nome di Edgardo
ú–– Alberto Cavaglionstorico
ELENAMORTARAWRITING FOR JUSTICEDARTMOUTH
ú– STORIA
della letteratura giuridica e della sto-ria dell’antigiudaismo ottocentesco.Il libro della Mortara si apprezzainfine per la varietà dei registri sti-listici, per l’agilità con la quale in-duce il lettore ad esaminare fontidiverse: testi narrativi, opere teatrali,stampe e incisioni d’epoca, soprat-
tutto raffigurazioni satiriche e cari-caturali, secondo il gusto francesefin de siècle. Il libro si apprezza dun-que come un caso-studio, analizzatonelle sue diverse forme, anche figu-rative, e tanto più si ammira quantopiù si riflette sul suo assunto di fon-do: l’apologia della multiculturalità,
la natura contagiosa del libero pen-siero che agevolmente nell’Otto-cento induceva gli scrittori a farsipaladini di tutte le forme di libera-zione. Un esercizio ginnico terminato nelNovecento nei rigori dei sistemi to-talitari, che hanno anchilosato gli
scrittori e i pittori portandoli a farsitutti difensori della propria parte,esclusivisti e non inclusivi, privi cioèdi quella solidarietà degli esclusi edegli oppressi che era la parte mi-gliore della cultura occidentale andatamostruosamente a naufragare lungogli scogli della Grande Guerra.
La battaglia di Victor Séjourú–– Anna Foastorica
iono a cavallo fra le due sponde
dell’Atlantico Hugo, Hatwhorne,
Twain, Napoleone III, Lincoln e
Garibaldi (nell’illustrazione di Ge-
orge Housman Thomas riprodot-
ta nella pagina a fianco e apparsa
sull’Illustrated London News nel
1849 lo si vede con il suo mitico
luogotenente, il moro Andres
Aguiar e con Nino Bixio). Emer-
gono le grandi tensioni ideali e
le lacerazioni che portarono al
Risorgimento e all’unificazione
nazionale italiana. Fu proprio Sé-
jour (nell’immagine in questa pa-
gina ritratto da un caricaturista
dell’epoca), creolo di New Orle-
ans espatriato a Parigi, a condur-
re una dura battaglia nel nome
del bambino rapito e a denuncia-
re di fronte all’opinione pubblica
internazionale la mostruosità
dello Stato della Chiesa. Il nuovo
libro contribuisce a ravvivare
l’interesse per il caso Mortara in
attesa che il regista Steven Spiel-
berg cominci la lavorazione della
coproduzione coproduzione Dre-
amWorks-Weinstein dedicata alla
drammatica vicenda del bambino
strappato alla famiglia e conver-
tito al cattolicesimo.
Il lavoro, come già annunciato da
Pagine Ebraiche, sarà basato sul-
la sceneggiatura di Tony Kushner,
già autore di Lincoln e Munich.
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pericolo di vita. Nonostante le vivaciproteste della famiglia, il bambinofu portato a Roma alla Casa dei Ca-tecumeni. Di lui si interessò perso-nalmente il papa Pio IX, che lo con-siderò come una sorta di figlio spi-rituale. La città di Bologna facevaancora parte, nel 1858, dello Statopontificio. Sarebbe entrata a far partedello Stato italiano solo nel 1860,con la seconda guerra d’Indipenden-za e il plebiscito che univa l’Emilia-Romagna al Regno di Sardegna, di-venuto nel 1861 Regno d’Italia. Inquegli anni, dunque, la Francia na-poleonica e i Savoia erano alleatinell’opera di unificazione dello Statoitaliano, anche se poi sarebbe statoproprio Napoleone III a trasformarsiin garante dell’esistenza dello StatoPontificio e ad impedire fino al 1870,quando fu deposto in seguito allaguerra franco-prussiana, la cadutadel potere temporale dei papi. Nonappare quindi strano che l’opinionepubblica liberale della Francia del1859 appoggiasse la campagna in-ternazionale di denuncia del rattodel piccolo Edgardo e che l’Impe-ratore suggellasse fortemente, conla sua presenza alla prima della piècedi Séjour, questa scelta politica.Ma perché il piccolo era stato sot-tratto alla famiglia? Secondo il dirittocanonico vigente nello Stato Ponti-ficio, un battesimo clandestino com-piuto invitis parentibus, cioè controla volontà dei genitori, era dal puntodi vista penale un atto illegale, me-ritevole di punizione, ma dal puntodi vista canonico era tuttavia un sa-cramento valido. Di qui la scelta disottrarre il bambino, considerato cri-
stiano, all’influenza dei famigliariebrei e di porlo in un luogo in cuipotesse essere allevato nella religionecristiana, Quest’ultima era tuttaviasolo una scelta della Chiesa, giusti-ficata dalle circostanze, non una pre-scrizione del diritto canonico. Inmolti altri casi, prima del piccoloMortara, ai bambini fatti cristiani intal modo era stato concesso di re-stare in famiglia, a patto che fosseosservata la loro educazione cristia-na, una missione difficile ma non im-possibile. Tale non fu la scelta nelcaso Mortara. Il piccolo restò a Ro-ma, dove fu avviato agli studi reli-giosi, Successivamente, entrò nel-l’Ordine dei Canonici Regolari. Do-po la presa di Roma, nel 1870, fu na-scosto e inviato all’estero. Svolseun’intensa attività conversionisticae passò gli ultimi anni della sua vitain un monastero del suo Ordine,presso Liegi. Rivide solo molti annidopo la sua famiglia, con cui intrat-tenne rapporti pur restando fermis-simo nella religione cattolica e ten-tando anzi di convertire i suoi pa-renti. Morì nel suo convento belganel 1940, pochi mesi prima dellaconquista nazista del Belgio. È inte-ressante notare che per i nazisti eraun ebreo. Se fosse vissuto avrebbeforse condiviso la sorte di EdithStein, cioè la deportazione ad Au-schwitz. Intanto, subito dopo la sua sottra-zione alla famiglia, il suo caso feceun grande scalpore. Il mondo libe-rale tutto si schierò contro la Chiesaromana, che rapiva bambini in spre-gio ai diritti naturali della famiglia.I Mortara si batterono con coraggio,
chiedendo l’aiuto degli ebrei europeie del mondo liberale. Il caso divenneun simbolo del conflitto tra l’oppres-sione degli ebrei attuata dalla Chiesadi Roma, con i suoi ghetti ancora invigore, e le libertà individuali e civili.Allo scalpore suscitati dal caso Mor-tara non è estranea la nascita, nel1860 a Parigi, dell’Alliance Israélite,un’associazione internazionale nataper difendere i diritti conculcati degliebrei. I governi europei si schiera-rono a favore della famiglia Mortarae chiesero invano a Pio IX la libera-zione del bambino. Sir Moses Mon-tefiore, il filantropo che fu per qua-rant’anni il maggior leader delle co-munità ebraiche inglesi, cercò invanonel 1859 di ottenere udienza a Romadal Papa per perorare la causa delpiccolo Mortara. Pio IX rifiutava didiscutere la questione e respingevaperfino i memoriali dei canonisti, ri-chiesti come d’uso di un parere daparte della Comunità ebraica roma-na, che gli prospettavano i prece-denti giuridici della possibilità di af-fidare il bambino alla famiglia d’ori-gine.Il libro di Elèna Mortara, studiosadi letteratura angloamericana e do-cente all’Università di Tor Vergata,apparso in inglese sotto il titolo Wri-ting for justice. Victor Séjour, the kid-napping of Edgardo Mortara, and theage of transatlantic Emancipation(Dartmouth College Press, 2015) af-fronta questa vicenda analizzandoin particolare il percorso letterarioe di impegno civile di Séjour attra-verso un’accurata analisi critica, sto-rica e letteraria, delle sue opere. Inrealtà, pur partendo dall’analisi di
La tireuse de cartes, cioè volendoporre al centro del suo discorso ilcaso Mortara e l’immagine che delcaso ebbe la cultura europea deltempo, lo studio della Mortara offreuna visione d’insieme particolarmen-te interessante dell’età dell’emanci-pazione, cioè dell’età, intorno allametà del secolo XIX, in cui il pro-blema dell’emancipazione dalle ca-tene della schiavitù, della subordi-nazione, del disprezzo si presentòurgente per gli schiavi neri delleAmeriche, per gli ebrei d’Europa,per le donne. Per tutti loro, il pro-getto di emancipazione rappresentòun momento importante di consa-pevolezza e di rinnovamento, un im-pegno civile a cui chiamare intornoa sé a raccolta i liberali di tutta Eu-ropa (tranne che nel caso delle don-ne, dove la questione si rivelò piùdifficile, come la storia dei primi mo-vimenti emancipazionisti ci insegna).Elèna Mortara coglie in Séjour, mu-latto americano di cultura francesee scrittore di successo, colui che hasaputo esprimere nelle sue operel’anelito alla libertà degli ebrei e deineri insieme, e fors’anche un pocodelle donne, a stare all’interessanteanalisi che l’autrice fa dei cambia-menti di genere attuati da Séjour nel-la pièce, per cui il piccolo Edgardocambia sesso e diviene una bambina,mentre anche il ruolo dominanteche nella realtà storica ha avuto ilpadre di Edgardo nel battersi perriavere indietro il figlio è assunto inteatro dalla madre. Ciò nonostante,la scelta finale di Séjour resta insod-disfacente per Elèna Mortara. Cat-tolico, sia pur cattolico liberale, Sé-
jour condanna il ratto del piccoloMortara ma lascia cattolica, sia purin seno alla famiglia d’origine, la pro-tagonista della sua pièce. Forse permotivi di censura o di autocensura,forse per convinzione, Séjour nonporta fino alle sue logiche conse-guenze la sua battaglia e la condannadel ratto del bambino non diventaritorno alla religione conculcata degliebrei.Elèna Mortara non parla solo comestudiosa. Parla infatti anche di sé edella sua famiglia, dal momento cheEdgardo Mortara era il fratello dellasua bisnonna. Una storia di famigliaquindi, da lei succhiata col latte ma-terno, che ha lasciato tracce profon-de nella sua formazione, per poi tro-vare la strada della catarsi non sem-plicemente in un’ennesima storia delcaso Mortara, ma in uno studio diampio respiro, in cui le sue memoriefamigliari si saldano al suo percorsodi studiosa e in cui il caso Mortaratrova il suo posto in quell’era tor-mentata e nonostante tutto ancorfelice dell’Europa, prima che la cul-tura della razza ne trasformasse l’ani-ma e prima che le guerre e il nazi-smo ne devastassero gli spazi fisicie mentali. Una visione insomma diampio respiro, che ci offre una pro-spettiva inusuale e innovativa del ca-so Mortara e che ci proietta in un’etàin cui si poteva battersi per la libertàdalla schiavitù ed insieme perl’emancipazione degli ebrei. In cuila lotta per la libertà riguardava tuttigli oppressi, tutti coloro che eranoridotti in schiavitù, tutti coloro a cuile leggi negavano i diritti fondamen-tali di ogni essere umano.
quelle 38 copertine - trentotto sucinquecentoventitre - che hannomesso alla berlina la religione, o lereligioni.Delle trentotto prime pagine cheprendono di mira la religione, piùdel 50 per cento sono “dedicate” alcattolicesimo. Mentre gli ebrei sonosempre ritratti insieme ad almenoun’altra religione (Islam compreso)e meno del 20 per cento è centratosulla satira dell’Islam. A conti fatti,dal 2005 al 2015 solo l’1,3 per centodelle prime pagine di Charlie Heb-do, il giornale considerato “osses-sionato” dai musulmani, è stato ef-fettivamente dedicato a una presain giro dell’Islam. Irriverente, politicamente schierato(a sinistra), antirazzista, intransi-gente nei confronti di ogni oscu-
rantismo religioso, a guardare leprime pagine di un decennio si puòdire che Charlie Hebdo tutto siastato, tranne che islamofobo. Altridue sociologi, Damien Boone e Lu-cile Ruault, hanno contestato pochigiorni dopo, sempre sulle paginedi Le Monde, che l’utilizzo di datiquantitativi pur conferendo scien-tificità e autorità allo studio lascianointendere che non ci sia nulla, frai contenuti del giornale, che possaporre dei problemi. E di conse-guenza che abbiano torto coloroche si sono indignati e hanno mes-so in discussione Charlie Hebdo. Ad approfondire il tema arriva orala studiosa francese Marie Levantche in Blasfemia, diritti e libertà, vo-lume in uscita per il Mulino, pub-blica un saggio intitolato “Il mito
dell’islamofobia, uno sguardo sto-dico sulla caricatura religiosa inCharlie Hebdo”. Prende spuntodall’articolo di Jean-François Mi-gnot e Céline Goffette per poi por-tare avanti uno studio approfonditodell’attività del giornale a partiredalla sua nascita: “Da una decinadi anni, la violenza a colpi di matitadi Charlie Hebdo crea un disagio,addirittura una viva tensione non-ché delle minacce criminali, piùvolte portate a compimento. Undibattito, virulento anch’esso, si ècosì creato intorno al giornale, epiù che altro fra i non musulmani.Politici, giornalisti, intellettuali oancora militanti di associazioni an-tirazziste si chiedono perché ungiornale progressista persista neldisegnare Maometto”. E cita Luz:“Che cosa è lo spirito Charlie? Èavere una vera indipendenza dipensiero (...) e analizzare la com-plessità della società con umorismoe non con le sopracciglia aggrotta-te”.
È vero che la caricatura dell’Islamè concentrata sui credenti, in par-ticolare i fanatici e le donne velate,ma il tema religioso nel giornaleresta decisamente minoritario. Per-ché allora la creazione del mitodell’islamofobia? È necessario ri-cordare, spiega Levant, la naturagiornalistica di Charlie Hebdo: “Ungiornalismo satirico, certo, ma co-munque un giornalismo. Di conse-guenza, le vignette scelte non esco-no solamente dall’immaginazionecreatrice dei disegnatori, ma corri-spondono all’attualità, un’attualitàche invece non è scelta. Quindi,quando dopo cento copertine sulCristianesimo ne compare una sul-l’Islam, significa che direttamenteo indirettamente quest’ultima haoccupato l’attualità”. E aggiunge,citando la saggista ed ex collabo-ratrice del giornale Caroline Fou-rest, “Bisogna condannare lo spec-chio o quello che riflette?”. Le vi-gnette traducono una chiara volon-tà di difendere il rispetto della don-
"Sette e otto gennaio 2007. Torno ad es-
sere uno dei disegnatori di Charlie per se-
guire il processo per le caricature di Mao-
metto. Non sono né giornalista né dise-
gnatore per la stampa. Vorrei prendere
degli appunti come autore di fumetti: ren-
dere conto di tutto il dibattito, non anda-
re all'essenziale. (...) Sono figlio di un av-
vocato, e mi è capitato di frequentare
molto presto i tribunali e credo che raccontare un processo dall'inizio
alla fine sia istruttivo. Per questa storia delle caricature Philippe Val
ha scelto di convocare dei grandi pensatori: vuole un dibattito filosofico
per ricordare una ennesima volta le regole della nostra agorà demo-
cratica". Così Joann Sfar, disegnatore, autore, sceneggiatore e anche
regista, apre Greffier, il sesto e uno dei suoi "Carnet" più noti. Tutta la
serie, arrivata all'undicesimo volume con Je t'aime ma chatte - di cui
questo giornale si è occupato negli scorsi mesi insieme al volume pre-
cedente - raccoglie appunti, pensieri, storie in un rincorrersi di testi,
segni e disegni di grande interesse, ma in particolare in Greffier Sfar
racconta i due giorni clou di quello che è stato un vero e proprio fe-
uilleton giudiziario, concluso con una sentenza in cui i giudici hanno
scritto che "In una società laica e pluralista il rispetto di tutte le fedi
procede di pari passo con la libertà di criticare le religioni, quali che
siano". Sarebbe bello sapere che il decimo "Carnet de Joann Sfar", Si
dieu existe, che uscirà a inizio gennaio in italiano, per Lizard, fosse solo
l'inizio di un'opera di traduzione completa della serie.
a.t.
/ P30 CULTURA / ARTE / SPETTACOLO n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraiche
“Certo che un po’ se la sono cer-cata”. Sono stati in molti a pensareche la redazione di Charlie Hebdo,colpita il 7 gennaio scorso da unattentato durante una riunione diredazione “avesse esagerato”. In do-dici, tra cui il direttore StèphaneCharbonnier, detto Charb, eCabu, Tignous, Wolinski eHonoré, collaboratori sto-rici della testata, sarebberomorti perché “non si in-sulta Maometto”. Ma dav-vero Charlie Hebdo è sta-to un giornale offensivo,blasfemo e “ostinatamenteislamofobo”? Lo scorso feb-braio i sociologi Jean-FrançoisMignot e Céline Goffette, in unarticolo pubblicato su Le Mondee intitolato “No, Charlie Hebdonon è ossessionato dall’Islam”, han-no cercato di capire di cosa si fa-cesse beffe il giornale analizzando10 anni di prime pagine, ossia quel-le dei 523 numeri pubblicati tra ilgennaio del 2005 e il 7 gennaio2015. È vero - lo ammettono anchegli autori della ricerca - che le pri-me pagine non bastano a raccon-tare tutto un giornale, ma sono co-munque le immagini simbolo, e an-che quelle esposte nelle edicole, ac-cessibili a tutti, compresi coloro chenon erano abbonati. Assassini in-clusi, presumibilmente. Come mo-stra il grafico - ricostruito qui a par-tire dall’articolo originale - dall’ana-lisi delle 523 prime pagine emer-gono chiaramente quattro temiprincipali: politica, personaggi dellosport e dello spettacolo, attualitàeconomica e sociale e, infine, la re-ligione. Più di due terzi dei numeri- per la precisione 336 - hannoaperto con una copertina di satirapolitica. Segue la satira riferita al-l’attualità economica e sociale (85cover), e solo terzi arrivano i per-sonaggi famosi. Ultima la religione,che compare nel 7 per cento dellecopertine. Si aggiungono 22 numeriche aprono con una vignetta cheunisce più temi: politica e media,o politica e religione, piuttosto chemedia e religione, o religione e que-stioni sociali, per esempio. Si trattadi una suddivisione per grandi temiche si è dimostrata abbastanza co-stante nel tempo, con variazioninon particolarmente rilevanti, evi-denti in occasioni specifiche, comeper esempio l’aumento della per-centuale di prime pagine di satirapolitica durante un periodo eletto-rale. Ognuna delle categorie citateviene anche scomposta in sotto-raggruppamenti, ma il dato più in-teressante viene dallo studio di
ú– SATIRA E POLITICA
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u Studio sulle prime pagine di Charlie Hebdo condotto dai sociologi
Jean-Francois Mignot e Celine Goffette per Le Monde.
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42
38
22
Politica
Argomenti diversi
Sport e spettacolo
Attualitàeconomica e sociale
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Charlie e la menzogna islamista
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7
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Religione
Joann SfarGREFFIER Delcourt
Joann SfarSI DIEU EXISTE Delcourt
Joann Sfar, la libertà a processo
Ripercorrere da Parigi questo
2015 terribile e inquietante non
suscita certo facili ed esilaranti
emozioni, eppure nello sconquas-
so generale di una stagione che
molto probabilmente passerà al-
la storia come quella della frat-
tura, della morte dell’ottimismo
e della vita spensierata, qualcosa
cambia anche sul fronte della ri-
sata. La sfrontatezza della vi-
gnetta in prima pagina dello
Charlie Hebdo in edicola all’indo-
mani delle stragi di novembre
(“Loro hanno le armi, noi lo
champagne”, afferma spavaldo
tracannando alcolici un tale cri-
vellato di colpi) assume in questo
modo un significato che va al di
là della pura e semplice provoca-
zione. Proprio la redazione del
settimanale satirico preso di mi-
ra nei primi giorni del 2015 ha
costituito e continua a costituire
un laboratorio dove la risata li-
bera e disinibita va al di là del
puro sfogo nervoso e in qualche
modo fa il suo ingresso nell’uni-
verso politico. Ridere, e farlo
pubblicamente, potrebbe costi-
tuire, se non un bell’ideale, per
lo meno una forma di resistenza.
E in definitiva, a giudicare dai ri-
sultati di uno studio collettivo
imponente coordinato dallo sto-
rico e specialista di Rivoluzione
francese Pierre Serna (La politi-
que du rire. Satires, caricature
et blasphèmes. XVI-XXI siècles),
dal Rinascimento a oggi una po-
litica del ridere si è sempre fatta
sentire. Ridere per sdrammatiz-
zare, ma anche per sminuire, per
sviare i propri avversari. Ridere,
purtroppo, per imbarazzare e
per umiliare i deboli, i persegui-
tati e le minoranze. Ridere per
sdrammatizzare. Per destituire i
prepotenti, per opporsi ai tiran-
ni. Chi frequenta Aristofane po-
trà sempre dire che non c’è nien-
te di nuovo sotto il sole. Ma la
politica del ridere viene fatta ri-
salire dagli esperti al sedicesimo
secolo. Nel 1589 il re Enrico III è
il primo regnante francese a fi-
nire nel mirino di un vignettista.
Da allora, spiega Serna assieme
alla sua equipe, molti hanno ten-
tato di fermare il treno in corsa
della satira, ma ben pochi posso-
no dire di esserci effettivamente
riusciti senza farsi male. Si arriva
così al ridere del ventesimo se-
colo che Bergson annuncia, e non
a torto, come un potente fattore
di crescita della società repub-
blicana. Eppure sono proprio i
reazionari e gli antisemiti visce-
rali a cercare di utilizzare le stes-
se armi lasciate loro disponibili
dall’avanzare della libertà
d’espressione. Con Edouard Dru-
mont (1844-1917) la combinazio-
ne velenosa fra le arti dello sber-
leffo e la patologia dei complot-
tisti e dell’antisemitismo deliran-
te tocca un apice forse mai dopo
mantenuto. Ma se la satira può
essere uno strumento duttile e
molto insidioso nelle mani di
chiunque lo sappia usare con ma-
lizia e intelligenza, alla prova dei
fatti sembra essersi rivelata
un’arma particolarmente utile
per gli amici delle libertà civili e
si candida fortemente a diventa-
re la bandiera di uno schieramen-
to trasversale fra cittadini che
vogliono opporsi con ogni mezzo
alle prevaricazioni e alle violenze
degli attivisti islamici e dei ba-
lordi manovali della morte.
Ben lungi dall’esaurire un argo-
mento estremamente complesso
e soggetto alle grandi mutazioni
che ci scorrono sotto gli occhi in
questi mesi, l’opera di Serna, no-
nostante contenga numerosi e
appassionanti studi, serve appe-
na a dare un rapido sguardo
d’orizzonte e a comprendere
quanto ci sia ancora da studiare.
E non è un caso se l’antologia di
studi si soffermi anche su temi
ancora scarsamente analizzati,
come per esempio una originale
lettura di quello che è avvenuto
sulla piazza Tahrir durante la pri-
mavera egiziana del 2011.
“La laicità – osserva Serna, do-
mandandosi cosa significa dav-
vero per uno storico il caso Char-
lie – non si fa definire da un’as-
serzione negativa. Non è la man-
cata manifestazione della pro-
pria appartenenza religiosa, il ri-
fiuto del proselitismo nello spa-
zio pubblico. La laicità è un va-
lore positivo: la possibilità e la
libertà di credere o di non cre-
dere nei dogmi di una religione,
la possibilità e la libertà di ride-
re, la possibilità e la libertà di
non ridere di quello che fa ridere
qualcun altro, la possibilità e la
libertà di essere d’accordo sul
fatto che non si è d’accordo co-
me forma di libertà e di tutela
per tutti. Questa libertà è il ri-
sultato di una lunga storia che
combina il ridere come forma di
espressione naturale e culturale,
complessa e ambigua, alla fon-
dazione della politica moderna
che si costruisce nello spazio
pubblico con la partecipazione
degli irridenti e al rischio dei bef-
fardi”.
Un ragionamento appena ai suoi
inizi nel nuovo scenario che si de-
linea, ma che ancora una volta fa
risuonare come omaggio ai mar-
tiri dei massacri di Parigi e della
redazione di Charlie Hebdo le pa-
role di un uomo, Napoleone Bo-
naparte, che non risparmiò le sue
attenzioni alle armi da fuoco, ma
tentò per quanto possibile di
conservare la sua lucidità: “Fra il
fucile e la penna, in definitiva, è
sempre quest’ultima ad avere la
meglio”.
g.v.
CULTURA / ARTE / SPETTACOLO / P31
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pagine ebraiche n. 1 | gennaio 2016
Ridere, la nostra resistenza al male
“No, dai, questo è troppo” I tragici fatti di gennaio, ma anche i più recenti attacchi di no-vembre, hanno letteralmente mobilitato la comunità degli arti-sti. Tra i molti disegni che hanno fatto il giro del mondo, questostraordinario omaggio dell’artista francese Romain Dutreix. Ridono alle lacrime i grandi nomi di Charlie, increduli per quelloche stanno sentendo dalla chiromante. Troppo assurde le veritàche profetizza loro in questo drammatico 2015.
na, l’uguaglianza uomo-donna e lalaicità contro l’integralismo musul-mano, soprattutto a scuola, ricor-dando che il giornale si tirò addos-so dei fastidi con l’Islam quandoiniziò a rappresentare il profetaMaometto, nel 2002, con una vi-gnetta di Cabu. Per un documen-tario il regista Daniel Leconte ri-prende la riunione di redazione du-rante la quale si decise di pubblicarele ben note “vignette blasfeme” da-nesi, e si sente dire: “A Charlie, onpeut s’engueuler sur tout (...) maiss’il y a bien une chose qui nous réu-nit, c’est le droit de rire du fanati-sme”.Ha scritto Gérard Biard, capore-dattore di Charlie: “Il ne faut pasblesser les croyants dans leur foi,nous disent les gens raisonnableset les négociants en yaourt qui crai-gnent le boycott. Nous sommes ou-verts au débat. Mais, pour que ledébat ait lieu, il faudrait auparavantque certains croyants arrêtent deblesser tout court ceux qui n’épou-sent pas strictement les mêmesconvictions qu’eux”. Va anche sot-tolineato che se negli anni Novantala caricatura, anche attraverso laquestione del velo, rappresentavaun Islam della quotidianità, più or-dinario che radicale, negli anniDuemila si è concentrata, sulla sciadei fatti dell’attualità, sulla strumen-talizzazione integralista dell’Islam,ricorrendo per questo alla figuradel profeta. E oltre alla risposta al-l’attualità, sono chiari i principi chemuovono il giornale: laicità assolutae satira indiscussa, che autorizzanoa prendersela con la religione intutti i modi.Si chiede Marie Levant: “Negareai musulmani, per principio preso,il senso della derisione nei confrontidella propria religione non contri-buirebbe a escluderli da una formadi umanità, o almeno da una partedi modernità”? Le caricature diCharlie Hebdo e le proteste susci-tate, fino ad arrivare alla strage digennaio, confermano la possibilitàdi denominare l’era in cui viviamocome postmoderna, perché avreb-be lasciato dietro di sé la moder-nità. Una modernità che ha fra isuoi ideali non solo il diritto allasatira e alla critica ma anche allagioia, citando il disegnatore fran-cese Joann Sfar che poco dopo gliattentati di novembre ha scritto:“Non abbiamo bisogno di più reli-gione, la nostra fede va alla musica,ai baci, alla vita, allo champagne ealla gioia!”.
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REIX
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n. 1 | gennaio 2016 pagine ebraiche
ú–– Francesca Matalon
“Riunioni infinite, bele, noiose, in-teresanti; / botte coi fascisti e pu-glia, fadighe pesanti; / festival, con-ti de bolini, quote, voti; / notolade,barufe, zighi e scapeloti, / ma an-che tante ridade e vittorie, / po-dessimo contar, altro che storie!”.Sono i versi di una poesia scrittada Laura Weiss per i cinquant’annidi Lino Crevatin, conosciuto agliinizi degli anni ‘50, mentre lui eradirigente della Federazione giova-nile comunista del Territorio Libe-ro di Trieste. Crevatin ha condivisola poesia, il cui foglio dattiloscrittocon qualche correzione e qualchenota a penna blu riporta il lettorein un attimo accanto a lei, nonchéil suo ricordo di Weissne Il quaderno diLaura W., a cura diHelen Brunner,edito da Comuni-carte. Il ritrattocomprende la suafigura di medico, in-tellettuale, ma anchedi ebrea triestina e donna dall’enig-matica simpatia, ma quella comu-nista fu senza dubbio la più grandebattaglia della vita di Laura. La
combattè in primapersona come dirigente politica neiranghi del Partito Comunista Ita-liano, e in una lettera destinata al-l’omonima amica di una vita Laura
Schreiber, scriveva nel 1975: “Perquanto riguarda il movimento co-munista, ho avuto delle esperienzepositive e negative, con errori, de-litti, vittorie, contributi essenzialiper l’intera umanità: di tutto. Av-viene però che una persona ritengache questa dura strada sia la sua.Molto conta il metodo, nel pen-
siero, nel ragionamento, e perciòa un comunista interessa quello chela sua concezione del mondo,dell’uomo, della società gli sugge-risce”. Sono meno conosciute leproporzioni del suo lavoro piùnell’ombra, come collaboratrice eamica di Vittorio Vidali, altresì notocon una lunga serie di pseudonimi
legati alle sue avventure nella guer-ra civile spagnola e in tutti gli altriviaggi all’insegna degli ideali, concui condivise il sostegno alla poli-tica stalinista - un sostegno talmen-te convinto che Vidali fu accusatodi aver partecipato a un tentativodi assalto alla residenza di Trotskya Città del Messico nel 1940, anchese nessuno ne ebbe mai le prove.Dietro la pubblicazione in italianodei suoi libri c’è lei, come raccontanel Quaderno Silvano Bacicchi, chesvela “Le tante cose che non si san-no”. “Mi mostrava sempre una cas-setta e mi diceva: ‘Vedrai che cosasuccede quando apro quella cas-setta’, e io: ‘Che cosa hai dentro?’e lui: ‘Ah, sono libri, sono memorie,sono cose così’. Sapeva ben Laurache cosa c’era dentro! Dentro c’eratutto il materiale con cui lui ha fat-to una serie di libri, mi sembra chesono sei o sette. Quei libri sonostati fatti con l’attiva collaborazionedi Laura. Nessuno lo sa perchéLaura era fatta così, perché se nonci fosse stata lei i libri non sareb-bero forse neanche usciti. I libri so-no racconti di Vidali, elaborati dalei, fatti vedere a lui per le corre-zioni e poi usciti, ma questo lo san-no in pochissimi”.
ú– RITRATTOMedico, dirigente comunista, intellettuale, poetessa. Una triestina enigmaticamente simpatica. Fu tutto questo e di più Laura Weiss, la cui vita ma soprattutto la cui personalità
straordinaria vengono raccontate ne Il quaderno di Laura W., libro curato da Helen Brunner e pubblicato da Comunicarte. Una testimonianza preziosa, presentata nell’ambito
dell’iniziativa “Ai confini dell’ebraismo, ebraismo ai confini”, nata per rendere omaggio alcuni personaggi chiave del ricco ebraismo triestino. Attraverso le parole di chi l’ha
conosciuta, documenti e fotografie il lettore incontra dunque Laura ed entra in punta di piedi nel mondo di una donna tanto forte quanto modesta.
Laura Weiss, le grandi battaglie con un sorriso
Laura Weiss fu donna di militanza autentica e passionale. Come si legge, tra le varie testimonianze, in questa lettera inviata al quotidiano l’Unità nel febbraio del 1979, alla
vigilia di una importante stagione di confronto interna al Partito Comunista Italiano. La richiesta è perentoria, senza giri di parole: eliminiamo il termine razza dal nostro
statuto. Un termine scientificamente inesi stente - scrive Weiss - e perlomeno di estrema equivocità “in fatto di appartenenti alla specie umana”.
Cara Unità, ripetutamente nella mia ormai abbastanza lunga militanza comunista ho espresso la mia incomprensione
di una parola contenuta nello Statuto del partito, ma non ho mai ottenuto né spiegazione né il minimo segno di at-
tenzione a questo mio rilievo. Questa volta provo a porre il problema all’Unità nel corso del dibattito pre congressuale.
All’articolo 2) è detto: Possono iscriversi al Partito comunista italiano i cittadini che abbiano raggiunto il diciottesimo
anno di età e che - indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche - accettino il
programma politico del partito e si impegnino a operare per realizzarlo, ad osservare lo Statuto, ecc.
Capisco bene il significato dell’apertura a militanti che abbiano una fede religiosa o delle convinzioni filosofiche varie.
Non capisco e trovo errato il trattare di razza, termine scientificamente inesi stente e perlomeno di estrema equivocità
in fatto di appartenenti alla specie umana.
Ammesso e non concesso che ci siano alcune varietà di stirpi e di colore di pelle, ecc., difficilmente classificabili, non
vedo perché si possa neppure alludere alla possibilità che il PCI abbia delle preclusioni nei confronti di esseri umani
derivanti da diverse stirpi. Ci saranno certamente in Italia persone dal differente colore cutaneo, dalle forme diverse
di naso e di occhi, con antenati più o meno lontani neri, gialli, di uno dei ceppi ebraici, ecc.. Ebbene? Non sarebbe
meglio rimanere sul campo delle idee e non entrare in un campo tanto spinoso quale può essere quello razziale? Pro-
pongo pertanto la cancellatura della parola razza. Con cordiali saluti
Laura Weiss - Trieste, Viale D’annunzio 16 (14 febbraio 1979)
La lettera
“Razza, questa parola che non ci appartiene”
Helen BrunnerIL QUADERNO DI LAURA W. Comunicarte
“Si presentava così seria,
con un abbigliamento
semplice, quasi umile e ra-
ramente colorato, da sem-
brare una persona piutto-
sto ‘grigia’. Ma quando la
conoscevi bene e avevi oc-
casione di stare con lei allora co-
noscevi anche la sua ironia e l’al-
tro aspetto di Laura che contra-
stava con l’immagine seriosa”
scrive Sonia Bacicchi ne Il qua-
derno di Laura W. “Ascoltava e
analizzava le persone con le qua-
li si rapportava – continua Ba-
cicchi – cogliendo caratteristi-
che individuali in modo estre-
mamente ironico e… ti divertivi
da matti! Simpatica, molto sim-
patica, per questo forse andava
tanto d’accordo con Pincherle”.
E in effetti le vignette che Bruno
Pincherle, con cui condivise le
battaglie politiche ma anche la
professione di medico oltre che
le radici ebraiche, disegnava du-
rante le riunioni del Consiglio
comunale di Trieste di cui en-
trambi facevano parte costella-
no tutto il volume con il loro
tratto stilizzato e la loro ironia
affettuosa, raccontando come
in una graphic novel le avventu-
re della loro amicizia. In un di-
segno, sopra i due che si strin-
gono la mano reggendo una la
falce l’altro il martello, campeg-
gia la scritta “Fronte ospedalie-
ro social-comunista”. In un altro
(nell’immagine) i due si danno
alla fuga e in un altro ancora lei
indica lui in macchina a un grup-
petto di bambini dicendo: “Guar-
date Pincherle, così non si deve
guidare!”.
A quegli schizzi ha pensato an-
che Antonio Cuffaro, che sotto-
linea l’importanza per Weiss di
quel patrimonio ebraico condi-
viso.
“Di Laura – scrive nel Quaderno
– c’è anche da ricordare l’attac-
camento alle sue radici ebraiche,
il suo rapporto strettissimo con
Pincherle, un altro grande medi-
co ebreo, che sedeva degnamen-
te e attivamente nel Consiglio
comunale, con cui Laura scam-
biava continuamente le opinioni
spesso attraverso biglietti a cui
lui ogni tanto aggiungeva molte
delle sue belle e geniali vignette
che divertivano un po’ tutti. Lau-
ra era certamente laica, ma ben
consapevole delle sue radici e
del prezzo pagato dalla Comuni-
tà ebraica di Trieste a causa delle
persecuzioni del fascismo e del
nazismo. Volle coerentemente
per il funerale di suo padre che
fosse rispettato in pieno il rito
ebraico. Talvolta sentivo nei suoi
racconti, nelle sue parole, un ve-
lato senso di rimorso per non
aver subito il destino della sua
gente e per la sua lontananza in
quel periodo da Trieste”.
Al funerale di Pincherle, nel
1968, fu Weiss a parlare a nome
del Partito Comunista. Lo chiese
Bruno stesso quando già era ma-
lato e discuteva delle sue ese-
quie con Ezio Martone, che nel
volume scrive: “‘Guarda che il
Partito comunista prenderà la
parola al tuo funerale’. Lui mi
disse: ‘Ma no… perché…?’. Gli di-
co: ‘Guarda, sei talmente impor-
tante nell’antifascismo, nelle lot-
te, in tutto… per Trieste, che si-
curamente il Partito comunista
vorrà prendere la parola. Dimmi
allora come ci mettiamo d’accor-
do’. E lui mi disse: ‘Se questo de-
ve accadere, che sia Laura Weiss
a prendere la parola’”. E lei no-
nostante la sua proverbiale ri-
trosia, così fece, come si può leg-
gere nel Quaderno: “Caro Bruno
– disse quel giorno – sorrideresti
bonario se tu potessi sapere che
è toccato proprio a me, tanto
poco efficace oratrice, portarti
l’ultimo saluto dei compagni co-
munisti. Ne ho avuto l’incarico
in nome della nostra lunga e bel-
la amicizia, e non sarà un discor-
so il mio, ma un saluto”.
CULTURA / ARTE / SPETTACOLO / P33pagine ebraiche n. 1 | gennaio 2016
Laura Weiss, figlia primogenita di Ernesto Weiss e Ada Senigaglia, nasce a Graz nel 1914 dove in quegli
anni lavorava il padre, botanico e insegnante di scienze naturali. Alla fine della prima guerra mondiale,
la famiglia ritorna a Trieste. Dopo aver frequentato il liceo scientifico Oberdan, Laura si iscrive alla facoltà
di Medicina dell’Università di Pisa, dove si laurea nel 1939. Conseguita l’abilitazione presso l’Università di
Modena, rientra a Trieste. A causa della sua origine ebraica, per poter esercitare la professione deve iscri-
versi all’”Elenco speciale dei medici appartenenti alla razza ebraica”. Nel settembre 1943, in seguito al-
l’occupazione tedesca, insieme ai genitori lascia la città ed è costretta alla clandestinità. Tornata a Trieste
dopo la fine della guerra, inizia a impegnarsi nell’attività politica, impegno al quale si dedicherà per tutta
vita e che diventerà la sua professione (a scapito di quella medica, che
non eserciterà praticamente più). Consigliera comunale nelle
liste del Partito Comunista Italiano, dal 1949 al 1964, fino a
quando viene eletta al Consiglio provinciale (dove rimane in
carica fino al 1969). In quell’ambito si dedica in particolare
ai problemi sociali, sanitari e assistenziali. A questo proposito
è nota la sua collaborazione e amicizia con il pediatra Bruno
Pincherle, protaginista della Resistenza e leader azionista. È stata
membro degli organismi dirigenti e di varie commissioni del Partito
comunista e segretaria del Circolo di Studi politicosociali Che Guevara
fin dalla sua fondazione, nel 1969. Del lungo sodalizio con il leader comunista Vittorio
Vidali, del quale fu a lungo l’anima, la collaboratrice, curatrice dell’edizione italiana
dei suoi libri, amica e compagna di molti viaggi in Italia e all’estero, restano nume-
rose tracce nei documenti e nelle testimonianze. Figura unica nel panorama triestino,
sia come intellettuale che come donna impegnata ante litteram in politica, Laura
Weiss muore il 23 marzo 1987 lasciando la sua casa al Comune perché venga utilizzato
a favore dei cittadini bisognosi e delle persone anziane.
L’anima di Vittorio Vidali(Graz, 11 ottobre 1914 - Trieste, 23 marzo 1987)
L’amicizia in un tratto di penna
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u In alto uno dei tanti schizzi
realizzati da Bruno Pincherle negli
anni in cui fu esponente politico a
Trieste. Schizzi ironici e memorabili
che costellano le pagine del volume
dedicato a Laura Weiss (con cui
condivise radici ebraiche,
professione e impegno politico, ma
non le stesse idee politiche).
A destra foto di gruppo per gli
studenti del liceo Oberdan, che
Laura frequentò fino al diploma.
Ottenuto il quale si trasferì a Pisa
per studiare e laurearsi in Medicina.
ste la ricetta ebraica? Semplice: ri-gorosamente sale (errore grossola-no quello di confonderli con i sot-taceti), molto aneto, e soprattuttomolto aglio, che è un must dellacucina ashkenazita. Poi esistono leversioni più o meno fermentate eanche una variante israeliana chefa una certa concorrenza e prevedel’uso di peperoncino e altre spezie,ma in realtà la vittoria della ricettaamericana – o kosher che dir si vo-glia – è piuttosto schiacciante, inquanto dagli Stati Uniti sono i piùesportati sia in Europa sia addirit-tura in Medio Oriente. Per capirela portata del loro successo, vale lapena fornire qualche numero: circamille chilometri quadrati sono de-stinati alla coltivazione di cetrioliniin trenta Stati americani, più di unmiliardo di chilogrammi consumati,per un’industria che vale circa unmiliardo e mezzo di dollari. Insom-ma, nonostante Francesco Piccoloannoveri tra i suoi momenti di tra-scurabile felicità quello in cui scartail cetriolino nel suo hamburger, nonsi può dire che i pickle non abbianoil loro nutrito fan club. A Washin-gton ha sede la Pickle Packers In-ternational, un’organizzazione cherappresenta l’industria internazio-nale delle verdure in salamoia. Inol-tre Stephen Leibowitz, il proprie-tario della più grande piantagioneebraica di cetriolini, nonché unadelle più antiche in America, sulsuo biglietto da visita ha scritto “ilmaggiore esperto di cetriolini”, enel New Jersey, a Teaneck, esisteanche una competizione ufficialeannuale per vedere chi riesce amangiarne il maggior numero inotto minuti. Per la cronaca il cam-pione del 2014, di nome JoshuaDeutsch, è riuscito a trangugiaretutti e venti i cetrioli che aveva adisposizione, stabilendo un recordimbattuto. La questione è seria: “Latecnica è molto importante – hadichiarato – bisogna bere molto”.Infine, occorre sottolineare ancheche i pickle hanno una dignità let-teraria di un certo rilievo, visto chenel libro di Mordecai Richler Laversione di Barney, il celebre negoziodi Montreal Schwartz’ s – Charcu-terie Hébraique - è un luogo fon-damentale della storia e il protago-nista vi compra la carne affumicatae i pickle che mette insieme al whi-sky sulla tomba del padre Izzy. In-somma, una bella rivalsa per dellepiccole cucurbitacee.
Francesca Matalon
/ P34 SAPORI
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Chi si interessa di sapori ebraicipuò leggere le storie più incredibilisu bagel di ogni forma, colore e di-mensione, perdersi in dibattiti versol’infinito e oltre sulla ricetta del ge-filte fish suscitando le reazioni piùsvariate, e girare il mondo alla ri-cerca dei migliori falafel. Ma in tuttequesti piatti c’è un ingrediente chericorre sempre o quasi, e che se nesta timidamente in panini e altrecomuni pietanze masticato distrat-tamente ma senza che d’altra partese ne possa fare a meno, facendosiritrovare sempre lì piccolo, forseun po’ bruttino, ma fedele. Si trattadel cetriolino, sotto sale e forse an-che un po’ sottovalutato, perché inrealtà il suo ruolo nella cucina ditradizione ebraica è decisamentedi primo piano e su di lui si potreb-be scrivere più che su ogni presun-tuoso bagel o comune falafel. Delresto il rav Gil Marks nella sua in-contestabile Encyclopedia of JewishFood lo definiva “vitale nell’espe-rienza del deli”, la classica tavolacalda americana. E dunque questoè un glorioso ritratto dei cetriolini,meglio conosciuti al grande pub-blico con il loro nome inglese – eanche decisamente più simpatico– di pickle. Tanto per cominciare,
come è buona abitudine in ogni ri-cerca che si rispetti, si può partiredall’etimologia. Pickle deriva dallaparola tedesca “pokel”, che indicaper l’appunto sale e salamoia. I ce-triolini esistono, in una forma o inun’altra da ben 2.400 anni, e furonoi cinesi a inventarli. La loro diventauna storia ebraica in America, doveil tipo di pickle più comune e piùapprezzato è quelloche viene chiamato“kosher pickle”. Nonche abbia davveroqualche riconosci-mento di casherut,come avverte persi-no la pagina di Wi-kipedia. In effetti, se è vero chenell’Est Europa era un sistema co-modo per conservare il cibo edeconomico da produrre e da acqui-stare – caratteristica che l’ha resopopolare anche con l’immigrazionenegli Stati Uniti e ovviamente inparticolare a New York – la sala-moia non è un’invenzione ebraica,anche se sono stati gli ebrei a ren-derla diffusa ed è per questo che
quella cosiddettacasher è diventatala ricetta base.“Quando gli immi-
grati ebrei arrivarono nel 1910,sbarcarono qui senza saper fare nul-la” spiegava Alan Kaufman, pro-prietario di “The Pickle Guys”, l’ul-timo negozio specializzato rimastonella famosa Essex Sreet del LowerEast Side che una volta era consi-derata la mecca dei cetriolini, nelquartiere newyorkese che un tem-po presentava il tasso più alto dipopolazione ebraica negli Stati Uni-
ti. “Fecero l’unica cosa che sapeva-no: cetriolini in salamoia, che co-stavano poco e avevano il saporedi casa”. Poi l’appellativo casher sideve probabilmente al ricordo diintere generazioni di una pubblicitàdegli anni ‘70 dei cetriolini dellamarca Vlasic, un micro cartone ani-mato in cui la cicogna mascotte delbrand proponeva a una famiglia laclassica formula dell’assaggio ben-dato, da cui risultava che ovvia-mente i suoi erano decisamente mi-gliori di quelli di un altro anonimobarattolo. E dunque in cosa consi-
Cetriolo, una dignità da riscoprire
Tre elementi: un dessert, un paio di scarpee il pavimento. Uno strumento: un cellulare.Così nasce Desserted in Paris, l’account In-stagram di Tal Spiegel, graphic designer non-ché chef pasticcere israeliano che vive a Parigie conta a oggi quasi 40mila followers. Fun-ziona così, Spiegel compra ogni giorno undolce elegante e colorato possibilmente inuna delle pasticcerie più chic e famose dellacittà, dopodiché indossa un paio di scarpeche si abbinino al pregiato manicaretto e simette mette comodo a piedi uniti in un po-sto il cui pavimento costituisca uno sfondoabbastanza suggestivo. E scatta.L’idea è diventata virale perché mette insiemetre delle cose che si può dire siano diventatifeticcio di questo decennio, ovvero la con-divisione di ciò che si ha nel piatto, le scarpecome mania fashion, e l’autoscatto meglioconosciuto come selfie. Tutte le possibilicombinazioni sono valide per Spiegel. E cosìle sue scarpe da ginnastica senza lacci fucsiafluorescente si abbinano perfettamente siaa una tortina decorata con pesche dello stes-so colore che formano una specie di fioresul prato verde, sia con un éclair di Fauchoncon disegnata sopra l’onda oceanica di Ho-kusai. Bisogna dire che gli éclair sono effet-tivamente grandi protagonisti delle foto diTal, e se ne ritrova uno particolarmente pre-zioso del Café Pouchkine al cioccolato tuttoricoperto d’oro, che non poteva essere ac-
compagnato che da un paio di stringate mar-roni bicolori e stagliarsi su un foliage autun-nale che lo richiama con i suoi colori caldi.Un altro paio di sneakers stavolta arancionifa pendant con una fetta di torta al manda-rino di Hugo et Victor, e l’asfalto grigio delmarciapiede per la prima volta non sembraun’antipatica colata di cemento ma un per-fetto sfondo per far risaltare quei colori ac-cesi. Ma Spiegel non dimentica l’attualità equalche volta tra una caloria ingerita e uncambio di calzature effettuato, coglie l’oc-casione per mandare anche dei messaggi più
seri. È stato il caso della foto pubblicata il 14novembre, il giorno dopo gli attentati di Pa-rigi. Un paio di mocassini da barca neri con ilacci color cuoio se ne stanno lì sfocati su uncomposto lastricato beige, e in primo pianoc’è una tortina con disegnata quella Tour Eif-fel che forma un segno della pace, diventatauno dei simboli della tragedia. “Abbracciatee amate, combattete il terrore. Siate gentiligli uni con gli altri – ha scritto Tal ai suoi fol-lower – perché in fondo cosa ci rimane se inquanto esseri umani non siamo umani gli uninei confronti degli altri?”.
Desserted in Paris, l’abbinamento che fa tendenzaL’INIZIATIVA DELLO CHEF ISRAELIANO TAL SPIEGEL
SPORT / P35
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pagine ebraiche n. 1 | gennaio 2016
Ci vuole fiducia in se stessi per tornare a tren-tacinque anni sul ring, soprattutto se sei ri-masto fermo per 24 lunghi mesi e i tuoi al-lenamenti per un po' sono stati la classicacorsa mattutina e sessioni intensive di studirabbinici. Già, perché in questi due anni distop il pugile israeliano Yuri Foreman ha por-tato a termine sette ancor più lunghi anni distudi e ha conseguito il diploma rabbinico aNew York studiando con rav DovBer Pinson.Foreman, shomer shabbat, era già noto adalcuni per il suo legame con l’ebraismo. Pochiperò in realtà, nel circuito del pugilato, hannopresto la dovuta attenzione. Qui a parlaresono stati i risultati, che lo hanno portato nel2009 a vincere la categoria pesi super welter(69,85 kg): primo israeliano in assoluto adaggiudicarsi un titolo mondiale nella nobilearte. Perderà il titolo due anni più tardi controil portoricano Miguel Cotto ma la sua provasarà salutata con un applauso dalle migliaiadi tifosi raccoltisi allo Yankee Stadium: in-fortunatosi al sesto round alla gamba destragià malconcia, rimarrà in piedi ancora dueround, cercando di mantenere salda la guar-dia davanti all'esplosività dei pugni del por-toricano. Contando che proprio la mobilitàe la velocità di gambe erano uno dei puntiforti di Foreman per contrastare Cotto, dopol'infortunio arriverà inevitabile il verdetto eil passaggio di mano del titolo. Ma lo Yankee
Stadium apprezzerà il coraggio del boxeur,cresciuto ad Haifa ma nato in Bielorussia. Edè proprio nell'ex Unione Sovietica che Fore-man si avvicina alla boxe. Del resto il suocognome è quello di un predestinato: perogni amante del pugilato e dello sport, sedici Foreman pensi a Big George, il pluri-campione dal montante devastante che sfidòMohammed Alì nel Rumble in the Jungle,uno dei match più celebri della storia sportiva.Quando però in Bielorussia Yuri si avvicinòai guantoni, di Big George non sapeva nulla.Nella sua nativa Gomel, quando era un ra-gazzino la madre decise di iscriverlo a nuotoin uno di quei complessi sportivi finanziati
dallo Stato. Un giorno, mentre si faceva ladoccia, un ragazzo più giovane ma più grossolo picchiò in faccia. “Avevo un grande occhiorosso e blu. Tornai a casa piangendo”, ricor-derà in un'intervista. La madre lo iscrive apugilato e da qui inizia il suo percorso, chelo porterà a indossare la cintura superwelteruna ventina d'anni dopo.Per combattere soli su un ring, come si di-ceva, ci vuole fiducia in se stessi e Foremanafferma di trovarla attraverso Dio. Parlandocon il giornalista Jonathan Zalman, cita unpasso della Torah (Numeri, 20) in cui Mosècolpisce la pietra a Meriba, disobbedendo alSignore. “C'è Mosè, un superuomo, un per-
sona piena di fede, e Dio gli chiede 'non crediin me?'. La questione è: immagina se Diocrede in te ma tu non credi in te stesso - spie-ga il rabbino pugile - Significa che alla finenon credi in Dio perché è Lui che ti ha datola forza, tutte le abilità del mondo, ma tu noncredi in te stesso, nelle tue capacità. Dio tidà le capacità che ti servono”. “Quando hocominciato a combattere avevo sette anni emia madre e mio padre credevano fortementein me, sai? Però che loro credano in me èuna cosa. La domanda vera è, io credo inme stesso?”. Sul ring la risposta è senz’altrosì. Per conferma chiedere al suo primo av-versario, liquidato senza troppi problemi.
Il ritorno di Yuri. Tra pugni e Halakhah