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1. Premessa
La disciplina delle società di comodo venne introdotta nel nostro
ordinamento dall’articolo 30 della legge 724 dell’ormai lontano 23 dicembre1994.
La ratio di tale controversa normativa è ravvisabile nell’intento di
arginare la nascita (e favorire lo scioglimento) di società ed enti aventi
finalità di mera intestazione di patrimoni, allo scopo di creare uno schermo
tra beni, che magari denotano una notevole capacità contributivo-
patrimoniale, e reali proprietari, nonché per fruire di vantaggi tributari non
spettanti alle persone fisiche.In taluni casi, infatti, l’operazione di costituzione della società è fatta
per eludere la progressività del tributo personale ma anche per ridurre il
rischio di accertamenti sintetici. Senza dimenticare che con il trasferimento
delle azioni o delle quote si riesce ad ottenere una tassazione ridotta rispetto
a quella connessa al diretto trasferimento dei beni cosiddetti di secondo
grado, soprattutto in presenza di immobili.
La società che viene creata non svolge quindi alcuna attività
economica ma persegue gli obiettivi che sono propri della comunione a
scopo di godimento (fatto questo che non può che scatenare le pretese del
fisco).
Da un punto di vista fiscale la problematica è stata affrontata, con
diverse sfaccettature, a livello di imposte dirette e indirette.
Prendiamo a base di partenza una sentenza della Corte di
Cassazione, Sez. III, n. 8939 del 1 dicembre 1987, che riguarda, in un certo
senso, ambedue le tipologie di imposizione. Con questa sentenza la
Suprema Corte stabilisce che ai fini dell’acquisto della personalità giuridica
rileva “ l’effettiva attività svolta in concreto e stabilmente; non la
prospettazione dell’esercizio dell’attività imprenditoriale indicata nell’atto
costitutivo come scopo sociale, che è mera apparenza”.
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Detta sentenza riguardava una società avente per oggetto la vendita e
la gestione di immobili, la cui unica attività svolta era consistita
nell’acquisto di un fondo rustico e nella concessione in affitto dello stesso;
da ciò i giudici di legittimità facevano conseguire la nullità del contratto di
società per illiceità della causa, in base all’articolo 1324 del c.c.
Dal lato Iva il problema delle società di comodo si è posto per negare
la possibilità, a questi soggetti, della detrazione dell’imposta assolta sugli
acquisti.
Dapprima la Commissione tributaria centrale, sez. 25, con decisione
n. 7017 del 25/10/1988 ha stabilito il principio che non è sufficiente che
esista formalmente la società per ottenere la detraibilità dell’iva sugli
acquisti, ma occorre altresì dimostrare che la stessa abbia svolto “ ancorché
in misura minima e per un breve periodo della sua esistenza”, operazioni
economiche proprie dell’attività imprenditoriale, rispetto alla quale gli
acquisti di beni e servizi abbiano assunto funzione strumentale.
Nel caso esaminato la società era stata costituita “ acquisendo per
questo la soggettività e i tratti fisionomici dell’impresa, ma rimanendo tale
solo sulla carta; ebbe soltanto esistenza giuridica ma non effettiva, in quanto
dagli atti risulta non aver mai svolto attività imprenditoriale….”
Successivamente l’ormai soppresso Comitato per il coordinamento
del Secit (Servizio consultivo ed ispettivo tributario) ha preso posizione in
materia con la delibera 77/1991, nella quale ha ritenuto inammissibile la
detrazione dell’iva per le società che non esercitano effettivamente attività
d’impresa e che, in quanto tali, sono da equiparare ai consumatori finali per
ciò che concerne gli acquisti, rimanendo imprenditori per le operazioni di
vendita solo per presunzione legislativa.
La risoluzione 501239 del 30/12/1991 del Ministero delle Finanze,
Direzione Generale Tasse, fa proprie le interpretazioni fornite dalla citata
C.T.C. e dal Secit per ribadire: “ Nella fattispecie in esame, poiché non
risultano poste in essere operazioni attive, tranne quelle, come sopra detto,
nei confronti di persone legate in qualche modo alla società, sembra alla
scrivente che la società C. Srl abbia soltanto voluto dissimulare una
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comunione di godimento, non intendendo svolgere alcuna attività
imprenditoriale, con la conseguenza che per l’acquisto dei beni mobili in
argomento deve essere considerata alla stregua del consumatore finale.”
E’ il caso di argomentare meglio questo concetto che potremmo
definire esemplare per la trattazione dell’argomento.
Si tratta di una società a responsabilità limitata sottoposta a verifica
da parte di funzionari di un ufficio IVA.
I rilievi effettuati dai verbalizzanti riguardano l’indetraibilità dell’iva
sull’acquisto di due imbarcazioni e di un’autovettura, ritenuti non inerenti
all’attività propria dell’impresa.
Infatti la società , il cui oggetto sociale era costituito dall’acquisto, la
costruzione, la vendita di beni mobili (registrati e non) e di immobili,
nonché dalla gestione degli stessi, non avrebbe, a parere dei verbalizzanti, in
concreto esercitato alcuna attività armatoriale, tanto più che la stessa non era
nemmeno prevista nell’oggetto sociale, limitandosi a stipulare contratti di
noleggio nei confronti di persone collegate alla sfera societaria.
Pertanto, alla luce di quanto sopra, anche in considerazione del fatto
che la presunta attività veniva “esercitata con accordi verbali e gratuiti, non
esistendo alcuna traccia documentale, i verbalizzanti hanno ritenuto non
spettante in capo alla società il diritto alla detrazione dell’iva assolta sugli
acquisti e sulle prestazioni di servizi relativi alle imbarcazioni e
all’autovettura sopra citate”.
Continuando nel nostro excursus storico arriviamo alla risoluzione
del Ministero delle Finanze n. 530643 del 28/7/1992 con la quale viene
negata la detrazione dell’iva a società immobiliari, create al solo scopo di
essere successivamente incorporate in società assicuratrici con attività
tipicamente esente che, se avessero proceduto all’acquisto diretto, non
avrebbero potuto beneficiare della detrazione dell’imposta.
Afferma il Ministero che “ il fondamento giuridico della pretesa
discende non già dalla presunzione che il contratto societario simuli un
contratto di comunione, bensì dall’accertamento di una circostanza di fatto,
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ossia il mancato effettivo esercizio dell’impresa, che esclude la ricorrenza
della condizione richiesta per legittimare il diritto alla detrazione “.
Infine, anche la commissione tributria di primo grado di Salerno
Sezione I, con decisione numero 52 del 7 febbraio 1994, ha stabilito che, per
legittimare la detrazione della relativa imposta, le operazioni devono
possedere il requisito dell’inerenza all’attività svolta, requisito che necessita
dell’esistenza concreta di una attività d’impresa effettiva e non potenziale.
Il problema relativo alla “società senza impresa” è stato in qualche
modo risolto diversamente a proposito delle imposte dirette.
Nella Risoluzione 224/E/6-906 del 20/07/1995 il Ministero delle
Finanze prende posizione in maniera diversa rispetto a quella assunta a
proposito delle imposte indirette.
Viene prospettato il caso di una società a responsabilità limitata che
aveva per oggetto sociale l’attività di costruzione, acquisto, ristrutturazione,
vendita e permuta di immobili, nonché la gestione e l’amministrazione degli
immobili di sua proprietà, l’intermediazione e ogni altra operazione
connessa, e che ad avviso dell’organo verificatore (Guardia di Finanza) non
presentava quegli aspetti tipici che il codice civile e le norme fiscali
prevedono affinché si possa parlare di effettivo esercizio di attività
d’impresa.
Pertanto l’organo predetto, anche facendo riferimento alle sentenze e
alle risoluzioni sopra citate relativamente alle imposte indirette, riteneva che
le attività della società non avessero natura commerciale ma che si
concretizzassero in una mera comunione di beni immobili finalizzata al
godimento degli stessi da parte dei soci.
Sulla base di queste argomentazioni viene ritenuto che la società
aveva indebitamente dedotto, ai sensi dell’articolo 75 del TUIR, i costi di
esercizio poiché la stessa di fatto non svolgeva alcun esercizio di impresa
commerciale di cui l’articolo 51 del citato testo unico.
In questo caso il Ministero rileva che l’articolo 95 comma 1 del testo
unico delle imposte sui redditi, dispone che il reddito complessivo delle
società e degli enti commerciali di cui alle lettere a) e b) del comma 1
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dell’articolo 87 del TUIR stesso, da qualsiasi fonte provenga, è considerato
reddito d’impresa ed è determinato secondo le disposizioni degli articoli da
52 a 77 del capo IV del titolo I del TUIR.
Dalla lettura della norma si riscontra una presunzione iuris et de iure
in base alla quale il reddito prodotto dalle società di capitali va in ogni caso
considerato reddito d’impresa.
Nella risoluzione si dà forza a quanto stabilito facendo riferimento
proprio all’articolo 30 della legge 23/12/1994, modificato dall’articolo 27
del decreto-legge 23/2/1995, n. 41, convertito dalla legge 22/3/1995, n. 85,
che disciplina la tassazione delle società non operative e che contrasta
quindi, in sostanza, il fenomeno delle “società senza impresa” senza
disconoscere la natura di reddito d’impresa prodotto dalle stesse, bensì
presumendo un reddito minimo.
Nonostante questa presa di posizione da parte della competente
Direzione delle imposte dirette, quella delle indirette ha ribadito il suo
orientamento, già ampiamente sopra considerato, con la circolare n.128 del
15/5/1996 anche se con toni un po’ più morbidi rispetto al passato.
In sintesi, in merito alle richieste di rimborso iva da parte di società
in odore di non operatività, viene disposto affinché gli uffici si attivino in
un’opera di controllo dell’esercizio concreto di impresa che si esplichi per
un periodo di tempo che viene definito “congruo”.
In mancanza di una sufficiente attività d’indagine, la Direzione
concede agli uffici la possibilità di accordare il rimborso alle società
richiedenti ma con l’obbligo di vigilare sull’effettiva attività svolta onde
procedere all’eventuale recupero dell’iva, prima della scadenza della
fideiussione, qualora la suddetta prova sia raggiunta.
Anche in questo caso il problema dovrebbe aver trovato la sua
soluzione con la previsione contenuta nelle disposizioni della Finanziaria
1996, comma 45, dove viene precisato che alle società e agli enti, che non
superino il test di operatività, non è concessa la possibilità di ottenere il
rimborso dell’iva (si vedrà, nel corso del lavoro, come non ci si fermerà solo
a questa limitazione).
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Per cui all’obbligo di dichiarare un reddito minimo si aggiungerebbe
il danno derivante dall’impossibilità di richiedere il rimborso dell’eccedenza
iva a credito.
Ma in virtù di questa disposizione normativa si potrebbe superare
l’impasse di dover sindacare caso per caso, da parte dell’Amministrazione
finanziaria, l’effettività dell’attività d’impresa svolta dalle società sottoposte
a controllo.
Casomai compito degli organi di controllo sarebbe solo quello di
verificare la mancata inerenza dei costi per singole operazioni.
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2. Evoluzione della disciplina della società di comodo
Vediamo come si è evoluta nel tempo la normativa relativa alla
disciplina delle società di comodo, a partire dalla sua introduzione conl’articolo 30 della legge del 23/12/1994, n. 724, tenendo presente che le
precisazioni e i chiarimenti forniti vanno intesi sempre come validi e
operanti, fino a quando non vengano espressamente richiamati e rielaborati,
in considerazione di modifiche apportate alla norma dal legislatore o a
seguito di nuove interpretazioni proposte dalla prassi.
Innanzitutto ciò che colpisce l’attenzione è il fatto che le disposizioni
riguardano esclusivamente le società di capitali e le società e gli enti di ognitipo, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello
Stato.
Probabilmente la ratio della scelta sta nel fatto che ai sensi dell’art.
95, comma 1 del TUIR, il legislatore ha stabilito che il reddito complessivo
delle società di capitali, da qualsivoglia fonte provenga va considerato
sempre come reddito d’impresa; per cui con la normativa in questione, come
argomentato nel capitolo precedente, si è voluto evitare un annoso e
dispendioso contraddittorio con il contribuente tacciato di essere non
operativo e quindi non esercente attività commerciale.
La norma poi prevede che vengano considerate di comodo le società
che hanno meno di cinque dipendenti e ricavi e proventi che non
raggiungano gli 800 milioni di lire. Come si vedrà nel prosieguo del lavoro
si tratta di parametri poco indicativi della condizione di non operatività.
Consideriamo ora quali sono le cause di esclusione dall’applicazione
della normativa in commento. Vengono escluse le società che non si trovino
in un normale periodo di imposta; quelle in amministrazione controllata o
straordinaria; quelle che hanno iniziato l’attività nel corso dell’esercizio;
quelle che entro il 31 maggio 1995 abbiano formalmente deliberato la
trasformazione in società commerciali di persone.
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Viene poi prevista la possibilità di scioglimento delle società non
operative esistenti alla data del 30/9/1994 con assegnazione agevolata dei
beni ai soci, persone fisiche ed enti non commerciali, anche per singoli beni,
anche se per diversa natura, purché detti scioglimenti vengano deliberati tra
il 1 gennaio 1995 e il 31 marzo 1995.
Le agevolazioni consistono nel fatto che le assegnazioni sono
assoggettate alle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura
complessiva dell’1 % del valore catastale rivalutato dei beni; non sono
considerate cessioni agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto; sono
soggette all’imposta comunale sull’incremento del valore degli immobili
ridotta al 50%; ai fini delle imposte sui redditi le plusvalenze sono soggette
ad un’ imposta sostitutiva nella misura del 8 %, il cui pagamento potrà
avvenire in 12 rate mensili a partire dalla data dell’atto di scioglimento.
Viene rimarcato al comma 3 che le plusvalenze da rivalutazioni
monetarie e quelle accantonate in sospensione d’imposta sono assoggettate,
per effetto dello scioglimento, alle imposte sul reddito.
Al comma 4 viene previsto che le assegnazioni agevolate possano
avvenire a condizione che i soci assegnatari dei beni risultino iscritti nel
libro dei soci alla data del 30/9/1994, oppure che vengano iscritti entro 30
giorni dalla data di entrata in vigore della legge in forza di titolo di
trasferimento avente data certa anteriore al 1/10/1994.
Viene poi stabilito nel comma 5 che il valore di acquisizione dei
predetti beni sarà considerato quello iscritto nell’ultimo bilancio della
società di cui è stato deliberato lo scioglimento. Questo ai fini della
tassazione in base all’articolo 81 (redditi diversi) del TUIR nel caso di
successivo trasferimento dei beni da parte dei soci assegnatari.
Nel comma 6 viene prevista l’esclusione del riporto a nuovo delle
perdite e viene stabilito per le società non operative la presunzione di un
reddito imponibile minimo da dichiarare pari a :
- 2 % del patrimonio netto, aumentato dei finanziamenti da parte di
soci e di terzi destinati a immobilizzazioni aziendali e comunque non
inferiore a 8 milioni di lire. Questo vale per tutte le tipologie di soggetti
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indicati dalla norma. Solo per le società a responsabilità limitata vengono
previsti due scaglioni, per cui se il loro patrimonio netto è inferiore a 40
milioni di lire il reddito imponibile dovrà essere almeno uguale a 4 milioni;
se il patrimonio netto è superiore a 40 milioni ma non a 150 milioni il
reddito minimo imponibile sarà uguale a 6 milioni di lire.
Di fondamentale importanza sono le parole con cui inizia il predetto
comma 6 : “Fermo l’ordinario potere di accertamento e salva, comunque, la
prova contraria”. La prima parte della frase ammonisce il contribuente sulla
possibilità di un’eventuale azione accertatrice da parte degli organi di
controllo a prescindere dall’adeguamento al reddito minimo previsto dalla
norma.
In altri termini, il reddito minimo da dichiarare non è fonte di alcuna
garanzia per il contribuente, il quale, pertanto, ben potrebbe essere oggetto
di accertamento ai sensi dell’art. 39 del Dpr 29/9/1973, n. 600.
Effettivamente, il legislatore, nel disporre “fermo l’ordinario potere
di accertamento”, riserva all’Amministrazione finanziaria l’esercizio di tutte
le facoltà e poteri riconosciuti dall’ordinamento, comprese le indagini
finanziarie.
Per quanto riguarda la seconda parte della frase in commento si
riporta integralmente il comma 7 considerata l’importanza di questa parte
della norma anche alla luce di quelli che saranno gli stravolgimenti che la
norma stessa subirà nel corso del tempo e alla cui disamina verrà dedicato
un apposito capitolo : “La prova contraria di effettiva inesistenza del reddito
determinato a norma del comma 6 non può consistere nella sola
corrispondenza alle scritture contabili o alle risultanze del bilancio del
minor reddito asserito, ma deve essere sostenuta da oggettivi riferimenti al
particolare settore in cui opera la società, ovvero a particolari o temporanee
situazioni di mercato anche territoriali, che hanno reso impossibile il
conseguimento dei ricavi ordinariamente ritraibili dal possesso delle
immobilizzazioni di cui all’articolo 2426, numeri da 1 a 4, del codice civile,
ovvero dalla tipologia dell’attività esercitata che obblighi la società a
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sostenere per più esercizi costi finalizzati alla realizzazione di beni destinati
alla cessione”.
Già dopo alcuni mesi la normativa viene rivisitata con le variazioni
apportate dal D.L. 23/2/1995, n. 41 convertito in legge 22/3/1995, n. 85.
In particolare:
- vengono puntualizzati i parametri economici di riferimento: adesso
la norma prevede che vengano considerati “..ricavi, incrementi di rimanenze
nonché proventi, esclusi quelli straordinari..” e che vengano ragguagliati
alla durata dell’esercizio se questa è inferiore o superiore a 12 mesi.
Viene poi precisato a proposito dei proventi che questi vanno
considerati solo per le società finanziarie di cui all’art. 113 del decreto
legislativo 1/9/1993, n. 385.
- la prova contraria deve ora fare riferimento a oggettive situazioni
di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento di
ricavi, proventi e incrementi di rimanenze nella misura minima richiesta.
- viene introdotta una nuova causa di esclusione relativa a quei
soggetti che sono obbligati a costituirsi sotto forma di società di capitali per
specifiche disposizioni di legge.
- il secondo comma viene completamente riscritto per puntualizzare
meglio le modalità di tassazione delle assegnazioni ai singoli soci (fra i
quali vengono ricomprese anche le società semplici), in seguito a
scioglimenti deliberati tra il 1/1/1995 e il 31/5/1995. Vengono quindi
concessi due mesi in più di tempo per deliberare lo scioglimento; la
modifica apportata dall’art. 2, D.L. 8/8/1996 porterà il termine al
31/10/1995, anche per la trasformazione;
- la disciplina delle perdite viene ritoccata: scompare la precedente
frase che escludeva il riporto a nuovo delle perdite conseguite nel periodo di
non operatività (probabilmente ritenuto un refuso, considerato che,
teoricamente, la società non operativa è obbligata a dichiarare un reddito
minimo); viene aggiunta una disposizione che permette di utilizzare le
perdite pregresse in diminuzione del reddito, per la differenza fra reddito
dichiarato e reddito minimo, nella particolare ipotesi di società che sia non
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operativa in virtù dei ricavi conseguiti ma con un reddito determinato
analiticamente superiore al minimo presunto.
Quanto asserito sopra fra parentesi non è propriamente vero. Infatti
in presenza di determinate disposizioni agevolative, quali proventi esenti,
soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o di imposta sostitutiva,
redditi esenti o agevolati, e di perdite determinate analiticamente,
tecnicamente esiste la possibilità che, nonostante un reddito minimo da
tenere sempre presente, i predetti redditi esenti permettano di dichiarare
perdite riportabili nei successivi periodi d’imposta ma naturalmente non
oltre il quinto.
- anche il comma 7 viene completamente riscritto avvertendo il
contribuente che nel caso in cui “il reddito dichiarato dalle società che si
presumono non operative risulti inferiore a quello minimo presunto, gli
uffici delle entrate possono determinare induttivamente il reddito in misura
pari a quella presunta anche mediante l’applicazione delle disposizioni di
cui all’articolo 41-bis del decreto del presidente della repubblica 29
settembre 1973, n. 600.
Tale accertamento è effettuato, a pena di nullità, previa richiesta al
contribuente, anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per
iscritto entro 60 giorni.
Nella risposta devono essere indicati i motivi posti a fondamento
della prova contraria di cui al comma 1. I motivi non addotti in risposta alla
richiesta di chiarimenti non possono essere fatti valere in sede di
impugnazione dell’atto di accertamento; di ciò l’amministrazione finanziaria
deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta”.
A questo punto, approfondiamo gli aspetti della normativa anche alla
luce delle precisazioni fornite dall’Amministrazione finanziaria tramite la
circolare del Ministero delle Finanze del 15/5/1995, n. 140.
Sappiamo che sono assoggettate alla normativa tutte le tipologie di
società di capitali ed inoltre società ed enti di ogni tipo non residenti, con
stabile organizzazione nel territorio dello Stato.
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È evidente che sono esclusi sia gli enti non commerciali che quelli
commerciali così come qualsiasi tipo di associazione riconosciuta o senza
riconoscimento.
Un’ interpretazione diversa sarebbe stata totalmente inopportuna
considerato che sarebbero state penalizzate tipologie di associazioni
pienamente legittimate ad operare nel panorama societario italiano, che di
fatto non sono destinate ad attività di lucro.
Pertanto vengono esclusi i seguenti tipi di società:
- le società cooperative e le società di mutua assicurazione e, come
detto sopra, gli enti commerciali e non commerciali residenti nel territorio
dello Stato. Ciò in quanto tali soggetti non sono espressamente richiamati
dalla norma tra i soggetti destinatari della disciplina in esame;
- le società consortili considerato che le stesse hanno lo stesso scopo
mutualistico che caratterizza le società cooperative e quelle di mutua
assicurazione;
- le società ed enti non residenti privi di stabile organizzazione nel
territorio dello Stato.
Abbiamo visto che sono inoltre esclusi :
a) soggetti cui è fatto obbligo di assumere la veste giuridica di
società di capitali in virtù della particolare attività svolta. Sono elencate
nella circolare a titolo di esempio:
- le società finanziarie, indicate nell’art. 106 del D. Lgs. N.
385/1993, che hanno l’obbligo di iscrizione in un apposito elenco generale
tenuto dal Ministero del Tesoro;
- i C.A.F., in base all’art. 78 della legge 413/1991;
- le società sportive che, dovendo stipulare contratti con atleti
professionisti, sono costituite nella forma di S.p.A. o di S.r.l. ai sensi
dell’art. 10 della legge 23/3/1981, n. 91;
- le società per azioni costituite da enti locali territoriali.
La circolare precisa che si sono volute escludere dalla disciplina in
esame tutti quei particolari tipi di società cui è preclusa la possibilità di
trasformarsi in società di persone per poterne evitare l’applicazione. Questa
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possibilità non spetta alle società che annoverino nella compagine sociale
società di capitali visto che l’impossibilità di trasformazione in società di
persone dipende non già dal tipo di attività svolta, ma da un impedimento
giurisprudenziale.
b) i soggetti che non si trovano in un periodo di normale svolgimento
dell’attività, con la precisazione che va considerato periodo di normale
svolgimento quello in cui è stata svolta l’attività prevista dall’oggetto
sociale. Questo aspetto della norma assume un’importanza fondamentale
visto che permette una automatica esclusione dalla disciplina delle società di
comodo per tante casistiche di situazioni, alcune delle quali sono
espressamente citate dalla circolare ed altre che, per analogia, magari
attraverso un’interpretazione “forzata” , vi si possono far rientrare.
I periodi di non normale attività elencati a titolo di esempio nella
circolare sono:
- quello da cui decorre la messa in liquidazione ordinaria o l’inizio
delle procedure di liquidazione coatta amministrativa o di fallimento. Non si
può considerare normale l’attività svolta in questi periodi considerato che è
finalizzata alla definizione dei rapporti intercorrenti con i terzi per poter poi
ripartire l’eventuale attivo residuo fra i soci. Naturalmente se lo
scioglimento viene revocato decade anche la possibilità di usufruire della
causa di esclusione. Peraltro il periodo che precede quello in cui ha avuto
inizio la messa in liquidazione è da considerarsi normale anche se di durata
inferiore rispetto all’ordinario. Va considerato periodo normale anche quello
che viene interrotto per cause che non interrompono lo svolgimento
effettivo dell’attività sociale, per esempio in caso di fusione, scissione o
trasformazione;
- quelli successivi al primo periodo di imposta, nel caso in cui, per
cause non dipendenti dalla volontà dell’imprenditore, non si sia potuto
avviare l’attività produttiva prevista dall’oggetto sociale, ad esempio perché
la costruzione dell’impianto da utilizzare per l’attività si protrae oltre il
primo periodo d’imposta o per mancanza delle autorizzazioni
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amministrative necessarie per lo svolgimento dell’attività, purchè le stesse
siano state tempestivamente richieste.
Rappresenta periodo di normale svolgimento dell’attività anche
quello in cui la società ha affittato o concesso in usufrutto l’unica azienda
posseduta. E ancora, anche l’attività stagionale viene considerata come
normale.
Nel corso del tempo si sono avuti vari interventi in merito a queste
problematiche.
Una situazione emblematica è stata rappresentata nella risoluzione
18/7/1996, n. 131 nella quale viene stabilito che una società che svolga
esclusivamente attività di ricerca, essendo l’esercizio di questa propedeutica
all’ottenimento dell’autorizzazione per il successivo svolgimento di attività
produttiva, viene considerata in un periodo di non normale attività e quindi
di diritto esclusa dall’applicazione della disciplina delle società non
operative. Viene altresì puntualizzato “..semprechè l’attività di ricerca non
consenta di per sé la produzione di beni e servizi e quindi la realizzazione di
proventi, indipendentemente dalla possibilità o meno di raggiungere i limiti
di ricavi e di incrementi di rimanenze previsti per essere esclusa
dall’applicazione della disciplina in esame”.
c) le società in amministrazione controllata o straordinaria,
relativamente ai periodi d’imposta interessati da tali procedure.
d) le società che si trovano nel primo periodo d’imposta (anche a
seguito di trasformazione da società di persone in società di capitali). La
formula utilizzata inizialmente nella legge 724/94 era quella di società che
hanno iniziato l’attività nel corso dell’esercizio; formula che è poi stata
superata con la legge 85/95. Con la formulazione precedente della norma
veniva consentito lo spostamento del momento iniziale al verificarsi
dell’effettivo inizio dell’attività. La modifica apportata collega l’esonero
solo al primo periodo d’imposta indipendentemente dall’inizio dell’attività,
quindi non conta la durata di tale primo periodo. A questo punto, dopo la
modifica apportata al quadro normativo, viene in aiuto sotto il profilo logico
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l’altro concetto di periodo normale di attività che sicuramente non si
realizza quando l’attività non è ancora iniziata.
e) le società che entro il 31 ottobre 1995 abbiano formalmente
deliberato lo scioglimento o la trasformazione in società commerciali di
persone.
Per quanto riguarda i presupposti di carattere oggettivo che
qualificano le società come non operative, quindi numero di dipendenti
inferiore a 5 e ammontare di ricavi, proventi e incrementi di rimanenze
complessivamente inferiori a lire 800 milioni, viene precisato che i due
requisiti devono sussistere congiuntamente nello stesso periodo d’imposta.
Per la determinazione del numero dei dipendenti occorre far
riferimento a quelli che mediamente risultano alle dipendenze della società
nel corso del periodo d’imposta. Tale dato si ottiene normalizzando il
numero degli stessi in base alle giornate retribuite e tenendo presente che le
giornate retribuibili per un lavoratore che ha prestato la propria attività per
un intero anno sono pari a 312.
Per quanto riguarda la verifica del limite di lire 800 milioni si
considerano, in particolare, per la generalità dei contribuenti:
a) per i ricavi, la somma degli importi risultanti dalle voci 1 e 5 dello
schema di conto economico previsto dall’art. 2425 del C.C. e quindi ricavi
derivanti dalle vendite, dalle prestazioni e altri ricavi, compresi i contributi
in conto esercizio;
b) per gli incrementi di rimanenze, la somma delle variazioni
positive delle voci A2, A3 e B11 e cioè variazioni delle rimanenze di
prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti; variazioni di lavori in
corso su ordinazione; variazioni delle rimanenze di materie prime,
sussidiarie, di consumo e merci. Precisa la circolare 140/E che
“l’ammontare delle predette voci va assunto quale risulta dal conto
economico anche quando il relativo importo deriva dalla somma algebrica
di sottovoci con opposto segno algebrico”. Si sommano solo i valori positivi
delle voci (A2; A3 e B11), a nulla rilevando eventuali decrementi. Quindi
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se, per esempio, poniamo A2 = 100; A3 = -10 e B11 = 40 il valore totale da
assumere quale incremento delle rimanenze sarà uguale a 140 (A2 + B11).
Viene ancora precisato che il limite di 800 milioni deve essere
ragguagliato alla durata dell’esercizio. Pertanto qualora l’esercizio abbia una
durata superiore o inferiore ai 12 mesi bisognerà ragguagliare l’ammontare
suddetto ai giorni di effettiva durata dell’esercizio stesso.
Altra precisazione riguarda le società e gli enti non residenti che
svolgono la loro attività in Italia tramite stabile organizzazione. I ricavi e gli
incrementi di rimanenze di cui tener conto sono solo quelli prodotti dalla
stabile organizzazione in Italia.
Inoltre per i soggetti indicati nell’art. 113 del D. Lgs. 1/9/1993, n.
385 i proventi da considerare sono quelli indicati alle voci C15 (proventi da
partecipazioni) e C16 (altri proventi finanziari) se il bilancio è redatto
secondo lo schema dall’art. 2425 del C.C.; alle voci 10,20,30,40 e 70 se è
invece redatto in base alle disposizioni del D. Lgs. n. 87/1992 e al
provvedimento della Banca d’Italia del 31/7/1992.
Abbiamo visto come il reddito minimo che deve essere dichiarato
dalle società di comodo deve essere pari al 2% del patrimonio netto, che va
considerato quale risulta dallo stato patrimoniale alla data di chiusura del
periodo d’imposta, senza tener conto dell’utile o della perdita dell’esercizio,
aumentato dei finanziamenti effettuati dai soci e dai terzi che siano destinati
alle immobilizzazioni aziendali.
Per le società e gli enti non residenti tenuti all’obbligo della
contabilità ordinaria, che compilano quindi il modello 760/A, il patrimonio
netto è quello che risulta dalla situazione patrimoniale relativa alle attività
svolte dalla stabile organizzazione sul territorio dello Stato.
Per gli enti non commerciali non residenti con stabile organizzazione
nel territorio dello Stato, che non compilano il modello 760/A, il reddito
minimo da dichiarare va calcolato sull’importo complessivo delle
immobilizzazioni aziendali relative alla stabile organizzazione. A tal fine
deve essere allegata alla dichiarazione un apposito prospetto nel quale
evidenziare le immobilizzazioni afferenti alla stabile organizzazione stessa.
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I finanziamenti dei soci e dei terzi si considerano destinati alle
immobilizzazioni aziendali nel limite del loro ammontare totale
corrispondente alla differenza fra il valore complessivo delle
immobilizzazioni stesse iscritto nell’attivo e l’ammontare del patrimonio
netto sopra indicato.
Per chiarire quanto appena detto si fa presente, ad esempio, che se il
valore delle immobilizzazioni aziendali iscritto nell’attivo è pari a 200, il
patrimonio netto è pari a 80 e i finanziamenti di soci e di terzi sono 160,
l’ammontare di questi ultimi da prendere in considerazione ai fini del
calcolo sarà pari a 120.
Nessun importo verrà preso in considerazione nel caso in cui il
patrimonio netto risulti pari o superiore a 200. Le immobilizzazioni
(materiali, immateriali e finanziarie) vanno assunte nell’importo risultante
dall’aggregato B dello stato patrimoniale, quindi, al netto di eventuali
ammortamenti e svalutazioni operati.
Ai fini del calcolo relativo ai minimali previsti dalla norma (8
milioni per tutte le tipologie di soggetti destinatari della normativa, che
abbiano un patrimonio netto superiore a 150 milioni; 6 milioni per le società
a responsabilità limitata il cui patrimonio netto risulta fra i 40 e i 150
milioni; 4 milioni per le società a responsabilità limitata con un patrimonio
netto inferiore a 40 milioni) si precisa che in questo caso non vanno
considerati i finanziamenti sopra citati in virtù del fatto che la norma stessa
non li contempla.
Le ipotesi di dichiarazione di un reddito minimo mal si concilia con
situazioni giuridiche previste da leggi agevolative che siano già consolidate
in capo alla società. Dalla circolare n. 140/95 : “La disciplina delle società
di comodo non implica il venire meno delle agevolazioni fiscali previste da
specifiche disposizioni di legge”.
Il confronto istituito tra reddito dichiarato e reddito minimo va
effettuato aggiungendo al primo tutti gli importi non assoggettati ad
imposizione per effetto di specifiche disposizioni agevolative che spettano
al contribuente e da lui richieste in dichiarazione. A dire il vero non è molto
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chiaro, e non è mai stato oggetto di precisazioni, il comportamento da
seguire quando il reddito è completamente esente ai fini IRPEG.
“Se l’ipotesi si accomuna a quella dei redditi non assoggettati si può
arrivare alla seguente situazione, nell’ipotesi di reddito minimo pari a L. 25
milioni:
- non dovrà adeguarsi la società che ha conseguito almeno il reddito
di L. 25 milioni totalmente esente;
- dovrà invece adeguarsi la società che ha conseguito il reddito di L.
12 milioni, dovendo integrare il reddito per 13 milioni.
È da ritenersi che la presenza di reddito esente non debba
comportare alcuna integrazione3”.
Continua la circolare: “Per tanto, i soggetti interessati dovranno
procedere al raffronto tra gli importi risultanti nelle seguenti lettere a) e b) :
a) reddito imponibile minimo determinato nel modo
precedentemente illustrato;
b) reddito o perdita che, applicando le ordinarie regole dello stesso,
si dovrebbe indicare nel rigo 16 del Mod. 760/M o nel rigo 32 del Mod.
760/B della dichiarazione relativa ai redditi del 1994, aumentato degli
importi non assoggettati ad imposizione per effetto di specifiche
disposizioni agevolative quali ad esempio:
- proventi esenti, soggetti alla ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o
ad imposta sostitutiva;
- 60 % degli utili distribuiti da società collegate ai sensi dell’articolo
2359 del C.C., non residenti nel territorio dello Stato;
- 95 % degli utili distribuiti da società “figlie” residenti in paesi della
U.E.;
- reddito esente ai fini IRPEG;
- reddito agevolato ai sensi dell’art. 3 del D.L. 10 giugno 1994, n.
357;
3 Oneto Carlo, (1997), Le società di comodo, Giuffrè Editore, Milano.
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- reddito agevolato ai sensi dell’art. 12 del D.L. 11 luglio 1992, n.
333.”
Tali valori sono quindi parificati al reddito dichiarato; solo se tra i
due termini posti a raffronto il reddito minimo presunto risulta superiore a
quello determinato analiticamente si rende necessario procedere per
differenza alla sua integrazione. Questa impostazione permette di “salvare”
le agevolazioni che concorrono alla determinazione del reddito minimo.
Nella circolare 140/E la situazione viene così esemplificata:
“Conseguentemente, in presenza di importi non assoggettati a
tassazione, le società non operative, pur adeguandosi al reddito minimo
potrebbero legittimamente esporre in dichiarazione un reddito imponibile
inferiore al predetto minimo ed eventualmente anche una perdita riportabile
nei successivi periodi di imposta ma non oltre il quinto. A titolo di esempio
si prospettano le seguenti ipotesi:
Esempio n. 1
• Reddito minimo L. 300 milioni
• Reddito del periodo di imposta
determinato “analiticamente” L. 150 milioni
• Reddito agevolato per nuovi investi-
menti (art. 3 del D.L. n. 357/94). L. 60 milioni
• Reddito “analiticamente” integrato
(150 + 60) L. 210 milioni
• Integrazione da effettuare (300 – 210) L. 90 milioni
• Reddito minimo da dichiarare
(150 + 90) L. 240 milioni
Esempio n. 2
• Reddito minimo L. 8 milioni
• Perdita del periodo d’imposta
determinata “analiticamente” L. - 150 milioni
• Reddito agevolato per nuovi investi-
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menti (art. 3 del D.L. n. 357/94) L. 100 milioni
• Perdita “analitica” integrata
( -150 + 100) L. -50 milioni
• Integrazione da effettuare [8 - (-50)] L. 58 milioni
• Perdita da dichiarare (riportabile nei
successivi esercizi ma non oltre il
quinto) L. - 92 milioni”.
A titolo esemplificativo, a livello di redazione della dichiarazione,
riportiamo le seguenti ipotesi:
1) reddito rigo M11 L. 2.000.000
Si è giunti a questo valore indicando al rigo A/87 L. 21.000.000 per
agevolazioni ex - D.L. 357/94.
Dichiarato 2.000.000 Reddito minimo 9.000.000
Agev. D.L. 357/94 21.000.000
23.000.000
In questo caso il valore del reddito determinato analiticamente
sommato all’importo dell’agevolazione è superiore al valore del reddito
minimo presunto. Non bisognerà effettuare alcuna integrazione e il valore
da considerare quale imponibile sarà quello indicato al rigo M11 (L. 2
milioni).
2) Perdita rigo M12 L. -20.000.000
A tale valore si è pervenuti sempre considerando l’agevolazione di
cui sopra per L. 21.000.000.
Dichiarato -20.000.000 Reddito minimo 9.000.000
Agev. D.L. 357/94 +21.000.000
+ 1.000.000
Poiché il valore della prima colonna è inferiore rispetto a quello della
seconda, sarà necessario integrare il reddito da dichiarare adeguandolo a
quello minimo (9.000.000 – 1.000.000 = 8.000.000). Al rigo M16 andrà,
quindi, indicata la perdita di L. 12.000.000 (-20.000.000 + l’integrazione di
8.000.000).
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Inoltre va precisato che nei periodi in cui la società non operativa si
adegua al reddito minimo, il risultato che rileva a livello civilistico non
assume alcuna valenza da un punto di vista fiscale. Per cui una eventuale
perdita civilistica non verrà annotata sul modello 760 e non potrà essere
utilizzata in futuro per compensare utili.
Il reddito imponibile minimo rileva solo ai fini Irpeg e non anche per
l’Ilor.
Quest’ultima verrà quindi calcolata sull’imponibile determinato
ordinariamente apportando all’utile civilistico le variazioni tipiche previste
dalla normativa specifica ai fini Irpeg, senza tenere in alcun conto
dell’eventuale adeguamento al reddito minimo.
Le perdite possono essere portate in compensazione soltanto per la
parte di reddito eccedente quello minimo da dichiarare. L’obiettivo risulta
finalizzato solo alla dichiarazione di tale misura minima; è consentito,
pertanto, compensare le perdite fino alla dichiarazione di tale reddito
minimo.
Per le perdite relative agli anni pregressi la circolare n. 140/E così
esemplifica: “In base all’ultimo periodo del comma 6 dell’art. 30, la società
non operativa che ha conseguito un reddito superiore a quello minimo potrà
computare in diminuzione dall’eccedenza l’ammontare delle perdite di
esercizi precedenti fino a concorrenza dell’eccedenza stessa. Pertanto, ad
esempio, nel seguente caso si avrà:
Esempio
• Reddito minimo L. 300 milioni
• Reddito del periodo d’imposta determinato
“analiticamente” L. 350 milioni
• Perdite di esercizi precedenti L. 90 milioni
• Eccedenza (350 – 300) L. 50 milioni
• Importo da portare in diminuzione dalla
eccedenza L. 50 milioni
• Reddito da dichiarare L. 300 milioni
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• Perdite riportabili negli esercizi successivi L. 40 milioni
Le perdite degli esercizi precedenti che la società non ha potuto
portare in diminuzione dal reddito complessivo potranno, ricorrendone ipresupposti, essere utilizzate nei successivi periodi d’imposta rispettando il
limite temporale dei cinque periodi d’imposta successivi a quello in cui si è
determinata la perdita, così come previsto dal TUIR negli articoli 8, per gli
enti non commerciali non residenti, e 102 per gli altri soggetti.
Nel caso in cui l’adeguamento al reddito minimo sia avvenuto
tenendo conto degli importi non assoggettati a tassazione per effetto di
specifiche disposizioni agevolative, qualora vi siano perdite degli esercizi
precedenti, le stesse potranno essere utilizzate solo per la parte che consente
di rispettare il reddito minimo determinato tenendo conto dei predetti
ammontari.
Pertanto, ad esempio, si avrà:
Esempio
• Reddito minimo L. 300 milioni
• Reddito del periodo di imposta determinato
“analiticamente” L. 350 milioni
• Reddito agevolato per nuovi investimenti
(art. 3 D.L. n. 357/94) L. 60 milioni
• Reddito “analitico” integrato (350 + 60). L. 410 milioni
• Differenza (410 – 300) L. 110 milioni
• Perdite di esercizi precedenti L. 150 milioni
• Reddito da dichiarare (reddito meno perdite
anni precedenti nel limite della differenza) L. 240 milioni
• Perdite riportabili negli esercizi successivi L. 40 milioni”.
Arriviamo al 1996 con le sostanziali modifiche apportate dall’art. 3
della Legge 23/12/1996, n. 662, commi dal 37 al 45, modifiche che , citiamo
dalla circolare del Ministero delle Finanze del 26/2/1997, n. 48, “sono
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rivolte, come chiarisce la relazione ministeriale di accompagnamento alla
citata legge n. 662 del 1996, ad introdurre correttivi alla previgente
disciplina al fine di superare le critiche addotte ai criteri di individuazione
delle società non operative e, al tempo stesso, permettere di individuare una
struttura che possa definire meglio lo stato di non operatività”.
In effetti, con i cambiamenti di cui sopra, si fa discendere adesso la
capacità contributiva di un soggetto correlandola ad aspetti patrimoniali
molto più pregnanti, rispetto ad una semplice aliquota proporzionale
applicata al patrimonio netto della società, come avveniva in precedenza.
Procediamo con ordine.
Una prima grossa novità è rappresentata dalla estensione della
normativa alle società di persone.
Di conseguenza anche le società in nome collettivo e le società in
accomandita semplice e quelle ad esse equiparate ai sensi dell’art. 5 del
TUIR (società di armamento e società di fatto) devono essere assoggettate
alle norme che regolano la disciplina delle società di comodo.
Altra conseguenza è la ovvia scomparsa della possibilità di
fuoriuscita agevolata tramite l’istituto della trasformazione in società di
persone.
Viene, invece, riproposta, ai sensi dell’art. 3, comma 38, della citata
legge n. 662 del 1996, la possibilità di fuoriuscita dal regime per le società
non operative tramite l’istituto dello scioglimento agevolato.
Scompare poi la discriminazione a proposito dei proventi, esclusi
quelli straordinari, che adesso vanno considerati, ai fini del raffronto per la
determinazione della operatività della società, per tutte le tipologie delle
stesse. La vecchia normativa prevedeva che i proventi fossero considerati
solo per le società finanziare indicate nell’art. 113 del D. Lgs. 1/9/1993, n.
385.
Vengono rivoluzionati i criteri per la determinazione dei requisiti
oggettivi in base ai quali stabilire se una società è di comodo o meno e, per
logica conseguenza, anche quelli per la determinazione del reddito minimo
presunto.
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Aumentano le cause di esclusione, segnatamente non si applicano le
disposizioni della normativa ad altre due casistiche:
- società ed enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati
italiani;
- società esercenti pubblici servizi di trasporto.
Per le prime, nella circolare del 15/5/1997, n. 137, verrà chiarito che
la condizione della negoziazione nei mercati regolamentati italiani si
considera soddisfatta se entro la chiusura del periodo d’imposta sia
intervenuta la delibera con la quale la Consob disponga l’ammissione dei
titoli stessi nei mercati regolamentati nazionali.
L’esclusione delle seconde si giustifica per le tariffe da “pubblico
servizio” che sono costrette ad applicare, tali da non permettere loro il
superamento dei test di operatività.
Altra modifica di importanza fondamentale alla normativa in esame
e’ quella introdotta dal comma 45 dell’art. 3 della legge 662/1996 a
proposito dell’inammissibilità del rimborso dell’iva a credito risultante dalla
dichiarazione annuale per i periodi in cui la società non risulta operativa.
Approfondiamo i punti di maggior pregnanza aiutandoci con le
spiegazioni fornite dalla circolare 48/1997 sopra citata.
Per quanto riguarda l’estensione della normativa alle società di
persone c’è poco da dire, se non che aveva poco senso permettere a chi
volesse fare i propri “comodi” continuare a farlo trasformandosi in società
personali.
Non si può non sposare la scelta del legislatore nel modificare i
requisiti oggettivi per determinare la non operatività. Quelli precedenti
erano assolutamente inadeguati.
Vengono ora considerate non operative le società e gli enti che
hanno conseguito un ammontare complessivo di ricavi , incrementi di
rimanenze e proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti, ove prescritto,
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dal conto economico4, inferiore alla somma degli importi che risultano
applicando:
a) l’1 per cento al valore dei beni indicati nell’art. 53, comma 1, lettera
c) del TUIR, anche se costituiscono immobilizzazioni finanziarie,
aumentato del valore dei crediti;
b) il 4 per cento al valore delle immobilizzazioni costituite da beni
immobili e dai beni indicati nell’art. 8-bis, comma 1, lettera a) del
D.P.R. 26/10/1972, n. 633, anche in locazione finanziaria;
c) il 15 per cento al valore delle altre immobilizzazioni, anche in
locazione finanziaria.
Va rilevato che, come da Nota 17/7/1997, n. 984/E, non vanno
computati, ai fini della determinazione dei ricavi effettivi, quelli dichiarati
in adeguamento ai parametri o agli studi di settore.
Naturalmente, visto che le società di persone possono non essere
tenute alla redazione del bilancio, i valori dei ricavi, degli incrementi di
rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, va desunto dalle
scritture contabili previste dall’art. 18 del DPR 600/1973.
Vediamo un po’ più nel dettaglio come devono essere individuati i
beni di cui sopra.
Innanzitutto, come si rileva anche dalla circolare citata, bisogna
considerare che il legislatore ha inteso operare una prima distinzione a
livello civilistico; ci riferiamo alle immobilizzazioni che non hanno una
definizione specifica a livello fiscale, ma che l’hanno nell’art. 2424-bis del
codice civile, comma 1, dove viene precisato che “ gli elementi patrimoniali
destinati ad essere utilizzati durevolmente devono essere iscritti tra le
immobilizzazioni”.
La classificazione si fonda quindi sull’aspetto sostanziale dei beni,
ma anche sulla loro esposizione formale all’interno del bilancio come
indicato nel codice civile, all’articolo 2424. Illustriamo l’elencazione
4 Dato il riferimento al conto economico, non assumono rilevanza le variazioni apportate insede di compilazione della dichiarazione dei redditi.
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sommaria delle voci che ci interessano per aiutarci nella trattazione della
materia:
Art. 2424 – Contenuto dello Stato Patrimoniale
B) IMMOBILIZZAZIONI
I Immateriali
II Materiali
III Finanziarie
C) ATTIVO CIRCOLANTE
I Rimanenze
II Crediti
III Attività finanziarie
IV Disponibilità liquide
Va notato, innanzitutto, che gli immobili vanno considerati solo se
iscritti nella voce B II) al numero 1 (terreni e fabbricati), e quindi non
anche gli “immobili-merce”. Accanto agli immobili vanno indicati anche i
beni indicati nell’art. 8-bis, comma 1, lett. a) del Dpr 633/72. Si tratta delle
navi destinate all’esercizio di attività commerciali o della pesca o ad
operazioni di salvataggio o di assistenza in mare, ovvero alla demolizione,
escluse le unità da diporto di cui alla legge 11/2/1971, n. 50, che, invece,
vanno incluse fra le altre immobilizzazioni.
Avuto riguardo al tenore letterale della norma, questi beni rilevano
solo se di proprietà o in locazione finanziaria, e non anche quelli in
locazione, comodato o presi a noleggio.
Le altre immobilizzazioni rientrano in tutte le residuali voci della
categoria B [B I) Immateriali; B II) Materiali; B III) Finanziarie]. Quindi gli
impianti e i macchinari (B, II, 2), nonché le attrezzature industriali e
commerciali (B, II, 3) e gli altri beni di cui alla voce B, II, 4, diversi dalle
navi.
Si ribadisce che le attività finanziarie, diverse da quelle indicate
nell’art. 53 comma 1, lettera c), del TUIR, sono da considerare, ai fini
d’esame, soltanto se costituiscono immobilizzazioni.
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Un ulteriore precisazione va fatta per le immobilizzazioni
immateriali; infatti quelle costituenti veri e propri beni immateriali vanno
assunte al costo storico, a differenza delle cosiddette spese relative a più
esercizi (costi di impianto e di ampliamento, costi di ricerca e di sviluppo e
spese di pubblicità) il cui ammontare va assunto come risultante da bilancio
(cioè al netto degli importi già dedotti in precedenti esercizi).
Vanno considerati tra le altre immobilizzazioni anche i beni
strumentali inferiori al milione.
Sia per le immobilizzazioni materiali che per quelle immateriali
vanno comunque escluse quelle “in corso”, in quanto non produttive di
ricavi. Per analogia vanno esclusi anche “gli acconti”.
Anche se nella circolare non viene espressamente ricordato, si ritiene
che anche per questa categoria di beni non rilevano i beni utilizzati in
locazione, in comodato o presi a noleggio.
Per quanto riguarda i beni indicati all’articolo 53 primo comma,
lettera c), del TUIR vanno considerati:
- azioni o quote di partecipazione nelle società di capitali, comprese
le società cooperative e quelle di mutua assicurazione, residenti nel territorio
dello Stato;
- quote di enti pubblici e privati, diversi dalle società, residenti nel
territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale
l’esercizio di attività commerciali;
- azioni o quote in società ed enti di ogni tipo con o senza personalità
giuridica, non residenti nel territorio dello Stato;
- obbligazioni e altri titoli in serie o di massa.
La norma precisa che tali beni devono essere considerati sia che
vengano iscritti fra le immobilizzazioni, sia che vengano iscritti nell’attivo
circolante.
In proposito, per quanto riguarda i soggetti tenuti alla redazione del
bilancio secondo il D. Lgs. N. 127 del 1991, tali beni sono allocati, come
immobilizzazioni finanziarie, nei seguenti punti dello schema di stato
patrimoniale di cui all’art. 2424 del codice civile:
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- B, III, 1) alla voce partecipazioni;
- B, III, 3) alla voce altri titoli;
- B, III, 4) alla voce azioni proprie.
Quest’ultima voce, però, pur essendo richiamata dall’art. 53 del
TUIR, non rileva ai fini in esame non essendo le azioni proprie idonee a
produrre proventi. Esse, infatti, non danno diritto all’utile che è attribuibile
proporzionalmente alle altre tipologie di azioni, ai sensi dell’art. 2357-ter
del codice civile.
Inoltre, i già citati beni possono essere allocati, come attivo
circolante, nei seguenti punti del predetto schema di stato patrimoniale:
- C, III, 1), 2), 3) e 4) - partecipazioni;
- C, III, 5) - azioni proprie;
- C, III, 6) - altri titoli.
Va da sé che, anche in questo caso, le azioni proprie non rilevano per
gli stessi motivi precedentemente indicati.
Per quanto riguarda le quote di partecipazione in società di persone
va ricordato che esse, non essendo comprese fra i beni indicati nell’articolo
53, comma 1, lettera c) del TUIR, sono rilevanti ai fini della disciplina in
esame come altre immobilizzazioni, su cui si applica la percentuale del
15%, semprechè costituiscano immobilizzazioni finanziarie.
Si precisa inoltre che vanno considerati soltanto i crediti da
finanziamento, suscettibili, quindi, di produrre ricavi, con esclusione dei
crediti commerciali. Alla stessa maniera si ritiene che non debbano essere
inclusi i depositi bancari in quanto gli stessi costituiscono disponibilità
liquide e quindi non rientrano nelle voci indicate dalla norma in esame.
Queste precisazioni, che ritroviamo nella circolare già citata, sono
importanti perché permettono di stabilire un criterio di fondo che dovrebbe
essere sempre rispettato: quello per cui, se un elemento è compreso nei
parametri di riferimento, i correlativi ricavi vanno compresi nei ricavi di
confronto.
Ai fini della disciplina in esame non si tiene conto dei crediti per i
soggetti non tenuti ai fini fiscali alla redazione del bilancio. Per essi, infatti,
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i valori dei beni da considerare, come già accennato, va desunto dalle
scritture contabili previste dall’articolo 18 del D.P.R., n. 600/1973, dalle
quali non è possibile rilevare i predetti crediti.
La norma, relativamente agli immobili e alle immobilizzazioni che
non compaiono all’attivo dello stato patrimoniale perché assunti in leasing,
evidenzia che il valore che si assegna a tali beni è regolato dal comma 2
dell’articolo 52 per cui si assume come costo :
a) quello sostenuto dall’impresa concedente, come documentato dal
contratto di leasing, laddove costituisce la base per la
determinazione dei canoni del prezzo di riscatto (cosiddetto valore
contrattuale dei beni);
b) in mancanza di documentazione va assunto il totale corrispondente
ai canoni di locazione più il prezzo del riscatto risultante dal
contratto.
Naturalmente la soluzione b) è sicuramente penalizzante poiché nel
costo indicato vengono compresi anche gli interessi sostenuti.
Per i beni in leasing per i quali sia stata esercitata l’opzione di
riscatto, la circolare n. 48/1997, prevede che vada assunto quale valore di
riferimento il prezzo del riscatto stesso; soluzione contro logica e che verrà
disattesa con indicazioni successive.
Gli immobili e le immobilizzazioni di proprietà vengono assunti al
costo come determinato all’art. 76, comma 1 del Tuir.
Il valore dei beni, per espressa previsione della norma, va assunto in
base alle risultanze medie dell’esercizio e dei due precedenti. In sostanza si
è voluto evitare che fosse solo il valore desunto dall’esercizio in corso a
determinare l’ammontare dei valori teorici derivanti dagli elementi
patrimoniali suddetti.
Vediamo cosa si è voluto intendere per risultanze medie. In buona
sostanza bisogna considerare i giorni di mantenimento dei beni nei vari
esercizi quindi tenendo conto di eventuali acquisizioni e alienazioni; i valori
da considerare vanno dunque ragguagliati al periodo di possesso in ogni
esercizio considerato.
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Seguendo le indicazioni della circolare, i risultati ottenuti anno per
anno vanno divisi per tre, ottenendo per ciascun gruppo di beni posseduti
nei tre esercizi il valore medio.
Ad ognuno dei detti valori medi devono essere applicate le
percentuali rispettivamente dell’ 1, del 4 e del 15 (quindi per chiarezza l’ 1
% sul valore dei beni indicati nell’art. 53, comma 1, lettera c) del TUIR,
aumentato del valore dei crediti da finanziamento; il 4 % sul valore di beni
immobili e navi; il 15 % sul valore delle altre immobilizzazioni); sommando
i prodotti così ottenuti si ottiene il valore di riferimento, il valore minimo
teorico cui va raffrontato l’ammontare complessivo dei ricavi,
dell’incremento delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari.
Anche detto ammontare va calcolato in base alle risultanze medie
dell’esercizio e dei due precedenti. Naturalmente se il valore minimo teorico
di cui sopra è superiore a quello effettivo appena determinato, la società sarà
considerata non operativa.
In effetti il presupposto che viene disatteso nell’ipotesi appena fatta è
quello che “..con utilizzo appropriato dei beni sociali i ricavi devono coprire
almeno l’ammortamento del costo dei beni e delle spese generali”.5
Immediata conseguenza di questo fatto sarà la necessità di determinare il
reddito imponibile minimo.
Quest’ultimo dev’essere non inferiore all’ammontare della somma
degli importi derivanti dall’applicazione, ai valori dei beni indicati alle
lettere a), b) e c) di cui al comma 1 dell’art. 30 della legge 724/24, posseduti
nell’esercizio e solo nell’esercizio interessato dalla verifica, delle
percentuali rispettivamente dello 0,75, del 3 e del 12.
Il reddito minimo presunto così determinato andrà poi confrontato
col reddito effettivo, che verrà adeguato secondo le modalità già analizzate
nelle pagine precedenti, tenendo, quindi, presente che anche la novellata
disciplina delle società di comodo non implica il venir meno delle
agevolazioni fiscali previste da specifiche disposizioni di legge.
5 Circolare del 26 febbraio 1997, n. 48, pag. 1
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Di particolare importanza è la situazione delle perdite degli esercizi
pregressi. Se nulla muta per le società di capitali rispetto alla previgente
disciplina, la situazione cambia per le società di persone che imputano i loro
redditi per trasparenza ai propri soci.
Alla luce di questa novità si rende necessario stabilire quale
dev’essere il criterio che devono adottare i soci medesimi ai fini della
deduzione delle perdite di esercizi precedenti. La disciplina, come precisato
nella circolare, diventa estremamente penalizzante per i soci delle società di
persone, visto che non si fa distinzione alcuna nell’ambito delle perdite
sostenute.
In buona sostanza, può accadere che il socio vanti perdite anche
derivanti da attività personale o da partecipazioni in altre società, che siano
però operative.
Tali perdite non sono distinguibili rispetto a quelle derivanti dalla
partecipazione a società non operative, come si evince dall’apposito
prospetto delle perdite della dichiarazione dei redditi personale.
Di conseguenza le perdite di esercizi precedenti, risultanti dal
relativo prospetto, possono essere portate in diminuzione soltanto per la
parte eccedente il totale delle quote di reddito minimo presunto determinate
come già indicato precedentemente, al netto delle eventuali agevolazioni o
esenzioni spettanti alla medesima società non operativa.
La circolare non ne parla affatto, ma la normativa comincia ad
“aggredire” le società di comodo anche dal lato dell’Iva.
In effetti il comma 45, l’ultimo dell’art. 3 della legge 23/12/1996, n.
662 che va a ritoccare la disciplina delle società di comodo prevede che:
“Per le società e gli enti non operativi di cui al comma 37, non è ammessa al
rimborso l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai
fini dell’imposta sul valore aggiunto per l’anno che comprende l’esercizio, o
la maggior parte dell’esercizio, per il quale si verificano le condizioni ivi
previste”.
Del resto è singolare il fatto che, viste le considerazioni fatte in
premessa, il legislatore abbia voluto colpire le società di comodo sul
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versante imposte indirette con tanto ritardo rispetto a quanto non abbia fatto
rispetto alle dirette.
Facciamo ora un bel salto in avanti per arrivare, dopo un decennio, al
4 luglio 2006 data di approvazione del D.L. n. 223 6.
Nel periodo intercorrente fra il 1996 e il 2006 si è verificato un solo
cambiamento alla normativa in commento: il D.L. 11/3/1997, n. 50, all’art.
4 introduce il numero 6-bis) al comma 1 della legge 724/1994 con il quale il
legislatore amplia le cause di esclusione alle società con un numero di soci
non inferiore a 100.
In questo caso, la scelta del legislatore di escludere a priori tali
soggetti dall’ambito di applicazione della disciplina recata dalla suddetta
norma pare riconducibile al fatto che, in presenza di compagini sociali così
fortemente articolate, è piuttosto arduo ipotizzare che la loro costituzione
possa essere ascritta alla volontà di una più comoda gestione fiscale,
nell’interesse dei soci, dei beni di proprietà dei medesimi.
In questo periodo si inserisce la sentenza della Corte di Cassazione
del 17/6/2005, n. 13079, che provvede a fare definitivamente luce sulla
quantificazione del credito iva, derivante da dichiarazione annuale, non
rimborsabile in presenza della condizione di non operatività.
La vicenda in argomento può essere presa a emblema delle difficoltà
che si possono incontrare nell’interpretare ed applicare le disposizioni
normative in ambito tributario.
Si tratta del caso di una società non operativa, cui l’Ufficio Iva di
Roma aveva negato il rimborso del credito iva maturato in anni anteriori
all’entrata in vigore della normativa sulle società di comodo. La
commissione di I° grado aveva accolto il ricorso della società. Quella
regionale aveva rigettato il ricorso dell’Ufficio Iva. Infine, la Corte di
Cassazione ha ribaltato i precedenti giudizi dando ragione all’Ufficio Iva
ricorrente, considerato il tenore letterale della norma.
6 Cosiddetto Decreto “Bersani”, convertito, con modificazioni, nella Legge 11/8/2006, n.248.
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Dunque, dicevamo, dopo tanto tempo il legislatore si accorge della
necessità di rimettere mano a questa normativa, per certi aspetti, controversa
e lo fa con mano piuttosto pesante.
Anche in questa occasione, la circolare 4/8/2006, n. 28 ribadisce
“Come si evince dalla relazione di accompagnamento, le modifiche
apportate dalla norma in commento hanno la finalità di rendere più efficaci
le disposizioni che contrastano l’attività delle società non operative“.
Le modifiche apportate si possono così riassumere:
- si incrementano le percentuali da applicare ai beni patrimoniali per
stabilire se una società possa rientrare nel novero di quelle non operative;
- si inasprisce la tassazione poiché aumentano le percentuali da
applicare ai valori dell’attivo per determinare l’entità del reddito minimo da
dichiararsi obbligatoriamente;
- il credito IVA derivante dalla dichiarazione annuale relativa a un
periodo di non operatività, oltre che non essere ammesso al rimborso, come
già previsto dalle modifiche apportate nel 1996, non può più essere
utilizzata in compensazione ovvero costituire oggetto di cessione;
- lo stesso credito, in assenza di operazioni attive rilevanti ai fini
IVA superiori ai valori limite, per tre anni consecutivi, non può più essere
riportato in avanti;
- viene soppressa la “generica” causa di esclusione dall’applicazione
della disciplina delle società di comodo per quei soggetti che non si trovano
in un periodo di normale svolgimento dell’attività:
- viene introdotta la possibilità di provare che la società è operativa e
che non ha potuto raggiungere il volume di ricavi, nonché di reddito,
minimo a causa di fatti straordinari. La dimostrazione deve essere fornita
mediante la procedura di interpello di cui all’art. 37-bis, comma 8, del
D.P.R. 600/1973.
Di conseguenza, non è più concesso “autocertificare” la propria
operatività, come era stato finora consentito dalla circolare del 21/9/1999, n.
189, in seguito alla approvazione della legge “Bassanini”.
Nell’approfondire le novità seguiamo il dettato della norma.
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Innanzitutto diventa più difficile dimostrare la propria operatività
considerato l’aumento delle percentuali dei parametri di riferimento.
Infatti la percentuale da applicare ai beni previsti dalla lettera a) del
primo comma del provvedimento si innalza del doppio, passando dall’uno al
due per cento.
Non di poco conto è anche l’aumento subito dal valore percentuale
dei beni di cui alla lettera b), vale a dire terreni, fabbricati e navi, escluse
quelle da diporto, che passa dal 4 al 6, con un incremento del 50 per cento
rispetto al passato. Quest’ultimo aumento ha una valenza superiore rispetto
al primo sopra citato perché è noto che la maggior parte delle società in
odore di non operatività possiede ingenti patrimoni fondiari.
Anche il ritocco subito dai valori delle aliquote per la
determinazione del reddito minimo è di un certo effetto e in termini
percentuali anche più elevato rispetto a quello relativo ai ricavi di cui sopra.
Anche in questo caso, per i beni di cui alla lettera a), registriamo un
aumento in termini percentuali di 100 punti, passando dallo 0.75 all’1,5 per
cento; per i beni della lettera b) l’aumento è del 58 per cento. Si va infatti
dalla precedente aliquota del 3 a quella del 4,75 per cento.
Altra tegola sulla testa del contribuente: l’art. 36 al comma 34 del
D.L. 233/2006 obbliga le società di capitali al versamento dell’acconto per il
periodo d’imposta in corso al 4 luglio 2006, tenendo conto delle nuove
disposizioni di legge. Sono interessate dall’obbligo del ricalcolo
dell’acconto Ires le società per le quali, in via ordinaria, i termini per il
versamento della prima rata erano già scaduti al 4/7/2006. Ciò potrebbe
determinare l’obbligo per dette società di rideterminare l’acconto Ires sulla
base di un reddito figurativo, applicando i nuovi coefficienti di calcolo al
fine di verificarne l’operatività. Non è chiaro se i nuovi coefficienti per il
calcolo dei redditi presunti debbano essere applicati a tutti e tre i periodi
d’imposta di riferimento oppure soltanto sull’ultimo.
Anche sul versante delle imposte indirette le novità sono sostanziali
e certamente non indolori.
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Abbiamo già avuto modo di osservare come l’art. 3, comma 45, della
legge 23/12/1996, n. 662 (Finanziaria 1997) aveva stabilito che per le
società non operative non era ammessa al rimborso l’eccedenza di credito
risultante dalla dichiarazione presentata ai fini Iva per l’anno che comprende
l’esercizio per il quale si verifica la non operatività della società.
Con le modifiche apportate dal D.L. 223/2006 la disciplina ai fini Iva
diventa ancora più stringente.
Innanzitutto, in caso di non operatività, si perdono sia la possibilità
di compensare l’eccedenza di credito con altri tributi, ai sensi dell’art. 17 del
D. Lgs. n. 241/1997, sia di cederla a terzi ai sensi del D.L. n. 70 del
14/3/1988; pertanto il credito Iva potrà essere utilizzato solo nell’ambito
delle singole liquidazioni d’imposta, mensili o trimestrali. Inoltre, è stabilito
che, nell’ipotesi in cui la società risulti essere di comodo per tre esercizi
consecutivi, il credito Iva non sia più riportabile ai periodi successivi e sia,
quindi, definitivamente perduto.
Si osservi che, mentre i limiti posti dalla prima parte del comma 4 al
rimborso, alla cessione o all’utilizzo in compensazione del credito scattano
quando la società risulti essere non operativa ai sensi del comma 1, vale a
dire quando la sommatoria dei ricavi, incrementi di rimanenze e altri
proventi, esclusi gli straordinari, non raggiunga il minimo presunto, la
perdita definitiva del credito, stabilita dal secondo periodo del comma 4, si
verifica se, per tre periodi d’imposta consecutivi, la società non effettui
operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto in misura non
inferiore al minimo di cui al comma 1.
In questa seconda ipotesi, dunque, occorre fare riferimento alle
operazioni rilevanti ai fini Iva, che non necessariamente coincidono con i
ricavi, e, tanto meno con gli incrementi delle rimanenze.
E’ quindi possibile ipotizzare, dalla lettera della norma, che si possa
verificare il caso di una società, che pur essendo operativa agli effetti delle
imposte dirette, paradossalmente non lo sia anche ai fini del riporto del
credito Iva.
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Il comma 16 dell’art. 35 del citato D.L. prevede che le predette
disposizioni si applicano a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data
di entrata in vigore del decreto stesso.
A distanza di pochi mesi il legislatore, non soddisfatto, rimette mano
alla normativa, con conseguenze di un certo rilievo.
La legge 27/12/2006, n. 296 all’art. 1, comma 109 è nuovamente
intervenuta, apportando ulteriori modifiche all’art. 30 della L. 724/1994,
sempre con effetto dall’esercizio in corso al 4 luglio 2006 e precisamente:
- ha espressamente eliminato la facoltà del contribuente di non
allinearsi di sua iniziativa al regime delle società di comodo, riservandosi di
fornire la “prova contraria” all’Agenzia delle Entrate in un secondo
momento;
- ha ridotto i coefficienti per la determinazione dei ricavi minimi e i
coefficienti di redditività in relazione a particolari categorie di beni
immobili;
- ha incluso nel novero delle immobilizzazioni finanziarie di cui al
comma 1 lettera a) dell’art. 30, della già citata Legge n. 724/1994, anche le
partecipazioni in società commerciali di persone, nonché i beni e i titoli
indicati alle lettere d) ed e) dell’art. 85 del TUIR, in precedenza non
contemplati;
- ha esteso la disapplicazione ex lege del regime alle società
controllanti di società quotate in borsa ed alle società controllate da queste
ultime. Si ricorda che il testo precedente della norma citava soltanto le
società quotate;
- ha stabilito che, con effetto dall’esercizio in corso al 1 gennaio
2007, il regime di comodo sarà esteso anche all’ Irap;
- ha reintrodotto la possibilità di utilizzare lo scioglimento agevolato
o la trasformazione in società semplice, per le società che risultino di
comodo.
Si dà il caso che il legislatore riammette l’utilizzo di questi istituti ad
ogni modifica sostanziale della normativa, considerato il suo inasprimento
progressivo. A tal proposito, non sarebbe sbagliato prevedere questa
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opportunità a “regime”, per concedere un epilogo il meno doloroso possibile
a quelle società che non dovessero essere in grado, in futuro, di sopportare
l’aggravio dei parametri dei test, come previsto dalla novellata legge.
Per commentare le suddette modifiche ci avvarremo, anche in questo
caso, della prassi emanata dall’Amministrazione finanziaria che è stata
davvero corposa, considerate le cinque circolari7 emanate nel volgere di
pochi mesi (in alcuni casi si parla addirittura di giorni), senza contare
risoluzioni e comunicati vari. Segno dell’importanza notevole che ha
assunto la disciplina delle società di comodo nel nostro panorama tributario.
Cominciamo con l’integrazione degli asset patrimoniali che formano
la base di calcolo per il test di operatività. Alla lettera a) del comma 1
dell’art. 30 sono stati aggiunti i beni indicati alle lettere d) ed e) del TUIR.
Si tratta in particolare degli strumenti finanziari similari alle azioni
[art. 85, comma 1, lettera d)] ; delle obbligazioni o altri titoli in serie o di
massa [art. 85, comma 1, lettera e)]; con la precisazione che i beni
appartenenti a questo comparto, comprese le quote di partecipazione in
società di persone commerciali (che nella precedente disciplina rilevavano
solo se iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie) debbono essere presi in
considerazione indipendentemente dalla loro appostazione in bilancio e,
quindi, sia che siano state iscritte nell’attivo circolante sia che costituiscano
immobilizzazioni finanziarie.
Un’osservazione merita di essere fatta: la riclassificazione, operata
dal comma 109 dell’art. 1 della legge 296/2006, delle partecipazioni in
società di persone nell’ambito del comparto “titoli e assimilati”,
comprendente in precedenza soltanto le partecipazioni in società di capitali,
ha avuto un effetto positivo per i contribuenti, in quanto, secondo le norme
previgenti, tali attività, se iscritte fra le immobilizzazioni, venivano
comprese nella categoria residuale “altre immobilizzazioni” e soggette,
quindi, ai coefficienti del 15 e del 12 per cento, mentre ora, invece, in
seguito alle novità normative, saranno soggette ai coefficienti del 2 e
7 Si tratta della n° 5/E del 2 febbraio 2007, della n° 11/E del 16 febbraio 2007, della n° 14/Edel 15 marzo 2007, della n° 25/E del 4 maggio 2007 e infine della 44/E del 9 luglio 2007.
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dell’1,5 per cento, relativamente ai test dell’operatività e del reddito
minimo.
Per completezza d’informazione, d’altro canto, non possiamo fare a
meno di rilevare che c’è un rovescio della medaglia di cui tener conto: se le
suddette partecipazioni fossero state iscritte nell’attivo circolante, non
avrebbero avuto in passato alcun rilievo, mentre, adesso, sono soggette alle
aliquote relative al comparto “titoli e assimilati”.
Per quanto riguarda i soggetti tenuti alla redazione del bilancio
secondo lo schema previsto dal D. Lgs. n.127/1991, è bene ricordare che i
beni in esame sono quelli che vanno indicati al punto B III dello schema di
stato patrimoniale di cui all’art. 2424 del codice civile, potendo essere
allocati, a seconda dei casi, ai numeri 1) partecipazioni, 3) altri titoli e 4)
azioni proprie.
Nell’ipotesi in cui tali beni facciano parte dell’attivo circolante, gli
stessi risulteranno alla voce C III dello stato patrimoniale, ai numeri 1), 2),
3) e 4) partecipazioni, 5) azioni proprie e 6) altri titoli.
Si ricorda che le azioni proprie, dovunque collocate, non vanno mai
considerate ai fini del calcolo in esame, non essendo idonee a produrre
proventi.
I beni richiamati all’art. 85 comma 1 del TUIR rilevano
indipendentemente dal regime di esenzione cui possono essere soggetti;
concorrono, pertanto, per intero al test anche le partecipazioni in possesso
dei requisiti di cui all’art. 87 del TUIR in materia di participation
exemption, insieme ai relativi ricavi da esse ritraibili (utili e dividendi),
come precisato nelle circolari 13/2/2006, n. 6 e 16/2/2007 n. 11.
Per ciò che concerne i crediti commerciali la circolare 25/E precisa
che gli stessi non vanno esclusi dal test, come previsto generalmente, nei
particolari casi in cui le modalità e le condizioni di pagamento pattuite siano
non in linea con la prassi commerciale del settore e tali da far ritenere che
detti crediti derivino da veri e propri negozi di finanziamento. Quindi
bisogna guardare alla sostanza del credito stesso, piuttosto che al suo
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posizionamento in bilancio; il che, a dire il vero, può essere abbastanza
problematico.
Altra indicazione della circolare, che si rifà alla ratio della norma,
precisa che anche gli interessi che maturano sui crediti diversi da quelli di
finanziamento non rilevano fra i ricavi effettivi da contrapporre a quelli
presunti.
Una precisazione meriterebbe di essere fatta, cosa che non è mai
avvenuta nelle varie circolari emanate nel corso degli anni, a proposito dei
crediti da finanziamento, laddove questi siano contrattualmente previsti
come infruttiferi di interessi. Per analogia con precisazioni similari
contenute nei documenti di prassi, detti crediti dovrebbero essere esclusi dal
computo previsto per le società di comodo.
Per quanto riguarda il comparto relativo agli immobili una prima
indicazione si rifà alla Risoluzione n. 94/E del 25/7/2005 nella quale veniva
precisato che gli immobili concessi in usufrutto costituito a titolo gratuito, in
favore di soggetti diversi dai soci e dai loro familiari di cui all’art. 5, ultimo
comma del TUIR, non essendo idonei a produrre reddito per la società nuda
proprietaria, non rientrano tra i beni da considerare ai fini del calcolo dei
test.
Un’altra precisazione degna di nota, che stranamente non era mai
stata fatta prima, riguarda il valore dei beni ammortizzabili che vanno presi
a base del calcolo dei test.
Questo, in effetti, va assunto indipendentemente dalla deducibilità
fiscale delle relative quote d’ammortamento. La disposizione si applica ai
beni ammortizzabili, materiali e immateriali, ma a condizione che non siano
stati eliminati dal processo produttivo. Vengono citati i casi emblematici,
anche in considerazione delle recenti novità legislative, dei fabbricati, il cui
valore va assunto al lordo della quota di scorporo dell’area di sedime, ai
sensi del comma 7, art. 36 del D.L. 223/2006, e dei veicoli a motore, per i
quali non rilevano le limitazioni previste dall’art. 164 del TUIR.
Il valore dei beni va assunto al netto delle plusvalenze iscritte, ai
sensi dell’art. 110, comma 1, lett. c) del TUIR.
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Per i beni che hanno fruito di contributi imponibili in conto impianti,
il valore da considerare è lo stesso che la società assume ai fini della
determinazione del reddito d’impresa. Il relativo valore da assumere
dipenderà dalla modalità di rappresentazione contabile adottata.
In definitiva, se il contributo è stato utilizzato a diretta riduzione del
valore del bene, l’imponibile rilevante ai fini del test sarà più basso rispetto
all’ipotesi in cui il contributo concorra alla determinazione del reddito con
la tecnica dei risconti in correlazione con il processo d’ammortamento.
Quindi la prima modalità di contabilizzazione determinerà dei valori più
bassi, sia per gli asset che per i correlati ricavi; la seconda li prevedrà più
alti.
Per i beni in leasing, a differenza di quanto previsto dai precedenti
documenti di prassi, si cambia rotta; in caso di riscatto, il valore da prendere
in considerazione ai fini dei calcoli continuerà ad essere quello del valore
contrattuale, ovvero in mancanza di documentazione , la somma delle quote
capitale delle rate cui sommare il prezzo di riscatto.
La nuova posizione, quindi, supera radicalmente i precedenti
chiarimenti emanati e introduce un concetto di equità, che prima, a nostro
avviso non esisteva. E’ chiara, però, anche la portata deflagrante del
chiarimento.
Molte società, infatti, avranno valutato la propria posizione nei test
di operatività e di redditività assumendo quelli che, ad oggi, sono
indicazioni ufficiali ormai superate.
Con la possibilità, a ridosso delle scadenze di pagamento e
dichiarazione delle imposte sui redditi, di non risultare più operative e,
paradossalmente, di non essere più in tempo utile per presentare eventuale
istanza di interpello disapplicativo, con tutte le conseguenze del caso.
Nel caso di beni costituiti da azioni, quote e strumenti finanziari
similari alle azioni trova applicazione la disposizione contenuta nel comma
1, lett. d) dell’art. 110 del TUIR secondo cui il costo si intende non
comprensivo di maggiori o minori valori iscritti.
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Nel calcolo dei valori medi debbono essere necessariamente
considerati i due periodi di imposta precedenti a quello in osservazione,
anche se interessati da cause di esclusione dall’applicazione della norma,
siano esse di natura “automatica” (ad esempio, primo periodo d’imposta) o
conseguenti all’accoglimento dell’istanza disapplicativa prevista dal comma
4-bis dell’art. 30. Resta inteso che in ipotesi di contribuente costituitosi da
meno di tre periodi d’imposta, il valore medio in esame dovrà essere
calcolato con riferimento al periodo d’imposta in osservazione e a quello
immediatamente precedente (coincidente quest’ultimo con l’esercizio di
costituzione).
Sempre ai fini del test di operatività, i maggiori valori, conseguenti
alla eventuale rivalutazione ai sensi dell’art. 1, commi 469 e seguenti, della
legge 23/12/2005, n. 266, di tutti gli asset interessati, rileveranno ai fini del
calcolo, a partire dal 2008.
Continuiamo illustrando l’ennesimo ritocco subito dalle percentuali
in base alle quali effettuare il test di operatività e quello per la
determinazione del reddito minimo presunto.
Intanto possiamo affermare, senza tema di smentita, che, da questo
punto di vista, i correttivi sono tutti a favore del contribuente che, quindi,
potrà beneficiare di tali disposizioni favorevoli in sede di determinazione
delle imposte dovute a saldo per il primo periodo d’imposta in cui trova
applicazione la nuova disciplina; così si potranno eventualmente recuperare
la maggiori somme sborsate a titolo di acconto per effetto delle disposizioni
più sfavorevoli introdotte dal D.L. 223/2006.
Un primo correttivo abbassa la percentuale da applicare, per il test di
operatività, sul valore degli immobili classificati nella categoria A/10 che
passa dal 6 al 5. Il secondo riguarda, per lo stesso test, gli immobili a
destinazione abitativa (tutti quelli appartenenti alla categoria A, esclusi
ovviamente gli A/10) cui la norma destina la percentuale del 4, a condizione
che si tratti di immobili acquisiti o rivalutati nell’esercizio e nei due
precedenti. Per gli asset indicati nel secondo correttivo, la norma prevede
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l’applicazione di un aliquota del 3 per cento ai fini del calcolo del reddito
minimo.
Queste disposizioni entrano in vigore a partire dal periodo d’imposta
in vigore alla data del 4 luglio 2006.
Un’altra variazione di un certo impatto riguarda le percentuali da
applicare al comparto titoli e assimilati e a quello delle altre
immobilizzazioni; queste si abbassano, rispettivamente, all’1 e al 10 per i
beni situati in Comuni con popolazione inferiore ai mille abitanti. Per la
localizzazione la circolare 25/E del 4/5/2007 precisa che bisogna far
riferimento alla sede legale delle società che detengono i predetti beni.
Questa agevolazione è applicabile a decorrere dal 1 gennaio 2007.
A questo punto utilizziamo delle tabelle storiche che permettano uno
sguardo d’insieme chiarificatore:
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Tabella 1 Coefficienti per il calcolo dei ricavi presunti
L. 662/96 D.L. 223/06 L. 296/06
Titoli e
assimilati 1 % 2 %2 %
8 1 %
Immobili
4 % 6 %6 %
9
5 %104 %
Altre immobiliz-
zazioni 15 % 15 %15 %
1110 %
8 Per i beni situati in Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti. Disposizioneapplicabile a partire dal 1 gennaio 2007
9 Immobili classificati nella categoria catastale A/10
10 Immobili a destinazione abitativa appartenenti alla categoria A (esclusi A/10) acquisiti orivalutati nell’esercizio e nei due precedenti
11 Per i beni situati in Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti. Disposizioneapplicabile a partire dal 1 gennaio 2007
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Tabella 2 Coefficienti per l’individuazione del reddito minimo
L. 662/96 D.L. 223/06 L. 296/06
Titoli e
assimilati 0,75 % 1,50 %1,50 %
Immobili
3 % 4,75 %4,75 %12
3 %
Altre immobiliz-
zazioni 12 % 12 %12 %
12 Beni immobili a destinazione abitativa acquisiti o rivalutati nell’esercizio e nei dueprecedenti
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Qualche precisazione importante riguarda anche l’ambito soggettivo
della normativa.
Intanto viene precisato che, fra le società escluse, perché non
espressamente richiamate dalla norma, nell’ambito della categoria delle
società ed enti non residenti privi di stabile organizzazione nel territorio
dello Stato, non si possono considerare i soggetti solo formalmente
domiciliati all’estero per effetto della presunzione della cosiddetta
“esterovestizione” di cui al comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR.
Viene ampliata la casistica dei soggetti esclusi per l’obbligo
derivante dalla legge di costituirsi in società di capitali. Infatti, fra queste,
vengono annoverate anche le società, a prevalente partecipazione pubblica,
derivanti dal processo di trasformazione ex lege in società per azioni degli
enti appartenenti al comparto delle cosiddette “partecipazioni pubbliche”.
Il trattamento stabilito per le società in amministrazione controllata e
straordinaria può essere esteso, per analogia, anche alle società che versino
in stato di fallimento, di liquidazione coatta amministrativa e a quelle
interessate da procedure di liquidazione giudiziaria. A dire il vero queste
condizioni rientravano fra quelle previste in caso di non normale
svolgimento dell’attività, locuzione che, sappiamo, è stata già cancellata
dalla versione della normativa corretta dagli interventi del D.L. 223/2006.
E’ stato quanto meno precisato che le società nelle suddette condizioni non
hanno necessità di presentare istanza di interpello.
Peraltro la circolare n. 44/E del 9/7/2007 dell’Agenzia delle Entrate
ha chiarito che l’esclusione “automatica” dall’ambito di applicazione della
disciplina in commento, si estende per i suddetti soggetti oltre che per il
periodo di durata della procedura concorsuale anche per il periodo
d’imposta ad essa immediatamente precedente, ossia per il periodo o
frazione di periodo d’imposta che si chiude in corrispondenza della data da
cui decorrono gli effetti del fallimento o della messa in liquidazione coatta
amministrativa o giudiziaria.
Per quanto riguarda invece le società che hanno avuto accesso alla
diversa procedura concorsuale di concordato preventivo, sempre la succitata
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circolare ribadisce che non opera alcuna causa di esclusione “automatica”
dalla disciplina delle società non operative, in considerazione del fatto che
l’imprenditore ammesso al concordato preventivo conserva il potere di
amministrare i propri beni e pertanto, salvo i limiti previsti dalla legge per
gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, continua l’esercizio
dell’impresa. Per cui questi soggetti sono tenuti a presentare istanza di
interpello per poter sperare di ottenere il permesso di disapplicare la
disciplina.
Con riferimento all’esclusione delle società quotate, come chiarito
dalla circolare n. 25/2007, questa è riconosciuta anche quando i titoli siano
negoziati in mercati regolamentati esteri, a nulla rilevando la circostanza che
la società quotata (controllante o controllata) sia non residente.
L’esclusione è riconosciuta non solo quando i titoli quotati (dal
soggetto stesso, oppure dalla controllante o dalla controllata) sono titoli
azionari, ma anche quando si tratti di titoli obbligazionari.
Inoltre, nel precisare che, laddove il requisito del controllo (sul
soggetto quotato o da parte del soggetto quotato) si perfezioni nel corso del
periodo d’imposta, la società interessata potrà considerarsi controllante o
controllata dal soggetto quotato, ai fini dell’esclusione automatica dalla
presunzione di “non operatività”, se tale circostanza si sia verificata per la
maggior parte del periodo d’imposta; la stessa circolare precisa
ulteriormente che la nozione di “controllo” rileva in tutte le forme previste
dall’art. 2359 del codice civile:
• controllo assembleare di diritto;
• controllo assembleare di fatto;
• controllo extra-assembleare di fatto, ovvero in virtù di particolari
accordi contrattuali.
Per quanto riguarda la causa di esclusione prevista per i soggetti
esercenti attività di pubblico servizio di trasporto, la risoluzione n. 43/E del
12/3/2007 dell’Agenzia delle Entrate ha avuto modo di sottolineare che la
causa di esclusione opera limitatamente ai soggetti che la esercitano
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direttamente e non può considerarsi estesa anche ai soggetti che, per il
tramite di partecipazioni in essi possedute, svolgono tale attività in via
indiretta.
Nella circolare 25/E viene fatta una precisazione di una certa
rilevanza a proposito delle perdite.
Citiamo testualmente l’ultimo comma del capitolo 5: “In coerenza
alla ratio della disciplina di contrasto alle società non operative (che impone
a queste ultime di evidenziare un reddito da assoggettare a tassazione non
inferiore ad un imponibile minimo forfetariamente determinato), si ritiene
che le perdite di periodo di Tizio non possano essere utilizzate per
compensare l’imponibile ricevuto per trasparenza dalla propria partecipata
non operativa”.
Quanto appena asserito nella citata circolare ci appare in palese
contrasto con quanto si potrebbe dedurre dall’ultima frase del capitolo 4 di
un’altra circolare, la n. 48 del 26/2/1997.
Citiamo testualmente anche questa: “Va infine precisato che
eventuali perdite dell’esercizio possono essere computate in diminuzione
del reddito imputato al socio”.
Se abbiamo ben interpretato, le nuove disposizioni non permettono
più di usufruire di questa importante “possibilità fiscale”.
L’art. 1, comma 109, lettera g), della L. n. 296/2006 ha poi stabilito
che, con effetto dall’esercizio in corso al 1 gennaio 2007, il regime di
comodo sarà esteso anche all’Irap, prevedendo l’imputazione in capo alle
società non operative, di un valor aggiunto presunto in misura non inferiore
al reddito minimo determinato presuntivamente agli effetti delle imposte sui
redditi, aumentato delle retribuzioni del personale dipendente, dei compensi
dei collaboratori coordinati e continuativi e dei lavoratori autonomi
occasionali e degli interessi passivi.
Ora passiamo all’Iva. Nella circolare n. 25/E sono contenute alcune
importanti precisazioni sull’applicazione delle disposizioni relative a questa
imposta.
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Intanto viene sottolineato il fatto che la preclusione al rimborso
dell’Iva, riguarda solo l’eccedenza derivante da dichiarazione annuale; in
altre parole significa che il contribuente, nel rispetto degli ordinari requisiti
previsti dalla legge, può ottenere il rimborso dell’eccedenza Iva previsto
dall’art. 38-bis del Dpr 633/72 per periodi inferiori all’anno; anche se,
nell’ipotesi in cui il contribuente risulti a fine esercizio non operativo e
abbia chiesto e ottenuto nel medesimo esercizio un rimborso cosiddetto
“infrannuale”, è tenuto alla sua restituzione maggiorato di interessi e senza
applicazioni di sanzioni.
Per quanto riguarda le limitazioni previste ai fini Iva nel caso di
mancato superamento del test di operatività la circolare ribadisce che esse
decorrono dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del
D.L. 223/2006; il che si traduce, per i soggetti con periodo d’imposta
coincidente con l’anno solare, nella potenziale perdita a titolo definitivo del
credito Iva esistente alla data del 31 dicembre 2008, a condizione che si
riscontrino le seguenti condizioni: a) che la società risulti non operativa per
tutto il triennio 2006-2008; b) mancata effettuazione nel medesimo periodo
di cessioni di beni o prestazioni di servizi di ammontare superiore quello
dei ricavi presunti determinati sulla base del test di operatività.
Inoltre, per i soggetti con periodo d’imposta non coincidente con
l’anno solare la circolare precisa che, annualmente, e a partire dal periodo
d’imposta in corso al 4 luglio 2006, il confronto va operato fra l’importo
risultante dall’applicazione del comma 1 dell’art. 30 e il volume d’affari Iva
ricalcolato, ai fini del confronto in questione, rispetto al medesimo arco
temporale compreso nel periodo d’imposta rilevante ai fini dell’imposte
dirette.
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3. Dalla prova contraria all’interpello disapplicativo
Sappiamo bene come quello della prova contraria sia sempre stato un
argomento di estremo interesse per la possibilità che viene offerta ai soggettiche non soddisfino i requisiti di operatività di sfuggire alla “tagliola” di un
reddito minimo non prodotto effettivamente, ma da dichiarare in ogni caso.
Ripercorriamo brevemente l’evoluzione di questa parte della
disciplina delle società di comodo.
Nella versione originaria della norma è previsto che la prova
contraria deve riguardare l’effettiva inesistenza del reddito minimo
determinato ai sensi del comma 6 dell’art. 30 della L. 724/1994; ladimostrazione di ciò deve derivare da oggettivi riferimenti al particolare
settore in cui opera la società o da situazioni di mercato, anche a livello
territoriale, che non hanno permesso l’ottenimento di ricavi in misura
proporzionale al valore delle immobilizzazioni materiali, immateriali e
finanziarie possedute, o dalla particolare tipologia del ciclo produttivo
adottato.
Abbiamo messo in evidenza la locuzione reddito minimo, perché
l’immediato aggiornamento della norma, che avviene ad opera dell’art. 27
del D.L. 23/2/1995, n. 41, prevede: “ La prova contraria deve essere
sostenuta da riferimenti a oggettive13 situazioni di carattere straordinario
che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi, di proventi e di
rimanenze nella misura richiesta dalle disposizioni del presente comma”.
Si badi bene che, rispetto alla formulazione precedente della norma,
il legislatore richiede che la società in via ordinaria è in grado di produrre i
ricavi minimi previsti. In buona sostanza non ci si riferisce più al reddito
minimo, con la conseguenza che eventuali costi straordinari o sostenuti una
tantum non permettono più la possibilità di dimostrare che la società sarebbe
risultata operativa in mancanza di questi.
13 Si richiede la prova che la causa determinante la situazione di non operatività siatotalmente indipendente dalla volontà del contribuente.
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Si potrebbe perciò asserire: l’attività è stata interrotta per due mesi a
causa della ristrutturazione dei locali; questo è un evento da cui può
scaturire una diminuzione dei ricavi. Se, però, per sostenere i costi derivanti
da questo intervento, si è reso necessario accendere un mutuo piuttosto
oneroso, per cui sono stati sostenuti interessi passivi in misura superiore alla
loro consistenza media ordinaria, tanto da comportare la riduzione dell’utile
o addirittura il conseguimento di una perdita, la circostanza non assumerà
alcuna valenza ai fini di cui si parla, considerato che l’importante è
dimostrare l’effettiva contrazione dei ricavi.
Ai fini della prova contraria non è possibile affermare , ad esempio,
che il furto della merce in deposito o la sua distruzione per un incendio
consentano di uscire dal regime in argomento. Se si tiene conto solo della
perdita patrimoniale le circostanze suddette non possono assolvere a tale
compito. L’unica possibilità permessa dalla norma è quella di dimostrare
che la perdita indicata ha comportato una contrazione dei ricavi perché
l’attività ne è risultata compromessa o per una diminuzione delle rimanenze.
La circolare del 15/5/1995, n. 140 precisa: “La prova contraria può
essere fornita ogni qualvolta si verifichino situazioni di carattere
straordinario da cui scaturiscono conseguenze obiettivamente riscontrabili,
non suscettibili di valutazioni soggettive”.
In altri termini occorre dimostrare che la società in via ordinaria è in
grado di produrre ricavi nella misura prevista dalla norma e come gli eventi
di carattere straordinario non ne abbiano permesso la realizzazione, facendo
per esempio riferimento all’ammontare dei ricavi risultanti dai bilanci degli
esercizi precedenti, in cui non si era in presenza di una situazione di crisi.
Un’altra circostanza, che viene portata a titolo di esempio nella
circolare citata, è quella di una società finanziaria che abbia conseguito
minori proventi a causa della mancata distribuzione di dividendi da parte
delle società controllate, interessate, ad esempio, da una crisi del settore di
appartenenza, semprechè, naturalmente, si possa presumere che sarebbero
stati, altrimenti, distribuiti dividendi in misura tale da consentire alla
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controllante di raggiungere il limite minimo di ricavi per porsi al sicuro
dagli strali del fisco.
Lo stesso D.L. n. 41/1995 introduce le modalità attraverso le quali
esperire la prova contraria.
Intanto stabilisce che gli uffici delle entrate possono determinare il
reddito induttivamente , in misura pari a quella presunta, anche con la
procedura prevista dall’art. 41-bis del Dpr n. 600/1973, fermo però
l’ordinario potere di accertamento.
Di conseguenza:
• se la società dichiara il reddito minimo presunto,
l’Amministrazione finanziaria non chiede alcuna informazione in quanto la
società si è adeguata spontaneamente alla normativa; questo non significa
che la stessa non possa far ricorso alle norme ordinarie sull’accertamento
per contestare la non inerenza o la indetraibilità di costi o la omissione di
ricavi;
• se la società non dichiara il reddito minimo presunto, gli uffici
delle entrate lo determinano induttivamente in misura pari a quella presunta
ai sensi dell’art. 41-bis del Dpr 600/1973. Detto accertamento viene
eseguito, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente, anche per lettera
raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni. Nella
risposta devono essere indicati i motivi posti a fondamento della cosiddetta
“prova contraria”. I motivi non addotti in risposta alla richiesta di
chiarimenti non possono essere fatti valere in sede di un’eventuale
successiva impugnazione dell’atto di accertamento; situazione, quest’ultima,
che l’amministrazione finanziaria è obbligata a portare a conoscenza del
contribuente contestualmente alla richiesta. In relazione a quest’ultimo
aspetto non si sono fatte attendere le critiche della dottrina tanto da
configurare una violazione all’art. 24 della Costituzione. Nel caso in cui
l’ufficio non dovesse ritenere fondati o sufficienti i motivi di giustificazione
addotti, l’accertamento viene eseguito ai sensi dell’art. 41-bis del Dpr
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600/1973; in pratica si tratta di un particolare accertamento parziale che
viene automaticamente redatto dal sistema informativo centrale.
“Alla natura <<parziale>> di simile accertamento si collegano due
conseguenze: a) la prima è che resta impregiudicata l’ulteriore eventuale
attività istruttoria dell’ufficio, e la possibilità di emanare un successivo
avviso di accertamento, anche in base ad elementi già acquisiti dall’ufficio
al momento dell’emissione dell’accertamento parziale; b) la seconda è che
l’accertamento parziale non richiede la collaborazione del comune”.14
La risoluzione del 4/7/1997, n. 154 fornisce un caso emblematico di
come vadano interpretate ed applicate le disposizioni della norma relative
alla prova contraria.
Si riporta il caso di una società insediata in una delle aree costruite a
seguito del sisma avvenuto in Irpinia nel 1980 nell’ambito di un programma
di industrializzazione anche mediante provvidenze finanziarie subordinate
all’effettuazione di investimenti produttivi di importo rilevante ed al
superamento di tassativi collaudi sulle linee di produzione.
La istante fa presente tutta una serie di situazioni di carattere
straordinario e valutabili in modo oggettivo (l’attività svolta nell’ultimo
triennio è stata necessariamente di ricerca, sperimentazione e formazione e,
quindi, prodromica alla realizzazione del prodotto; la necessità di dover
rispettare particolari disposizioni che hanno subordinato l’ottenimento di
determinate risorse finanziarie all’effettuazione di notevoli investimenti
produttivi, per giunta sproporzionati rispetto alla fase iniziale dell’attività in
cui si trova l’impresa; l’inagibilità delle infrastrutture per il mancato
collaudo di alcune opere da parte delle competenti autorità) che fanno
ritenere al Dipartimento delle Entrate giustificato il temporaneo
conseguimento di ricavi, proventi e incrementi di rimanenze in misura
inferiore a quella presuntivamente stabilita dalla normativa sulle società non
operative.
14Francesco Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Vol. 1, parte generale, ottava edizione,Utet giuridica, Cap. XI, pag. 240
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E’ di una certa rilevanza la precisazione che viene fornita alla fine
della risoluzione: “Ove, comunque, tali circostanze non dovessero trovare
reale rispondenza, sembra opportuno evidenziare che, ai fini della verifica
della condizione di operatività mediante l’applicazione dei previsti
coefficienti di rendimento al valore delle immobilizzazioni e di determinati
elementi dell’attivo patrimoniale, non deve tenersi conto di quelle
immobilizzazioni e di quegli elementi patrimoniali che, per specifici motivi
oggettivi (come ad esempio il mancato collaudo), non è stato possibile
utilizzare”.
Viene quindi rimarcata la possibilità, per il contribuente, di non
considerare ai fini del test di operatività quegli asset che non hanno
prodotto i correlati ricavi.
Ed arriviamo al 2006 con le deflagranti novità apportate dal D.L. 223
e dalla Finanziaria 2007.
Innanzitutto, viene eliminata dal testo normativo l’ipotesi
contemplata espressamente dal previgente n. 2) dell’ultimo periodo del
comma 1 dell’art. 30, che disponeva di diritto la non applicazione del
regime ai soggetti che non si trovano in un periodo di normale svolgimento
dell’attività.
Ne abbiamo già accennato nel capitolo precedente. Qui ricordiamo
che la circolare n. 48/E del 26/2/1997 aveva elencato alcuni casi in cui si
poteva esemplificare un non normale svolgimento dell’attività, come
nell’ipotesi in cui la costruzione degli impianti necessari per iniziare
l’attività produttiva prevista nell’oggetto sociale si fosse protratta per più
esercizi; non fossero state rilasciate le concessioni o le autorizzazioni
amministrative necessarie per lo svolgimento dell’attività; fosse svolta
esclusivamente un’attività di ricerca, di per sé improduttiva di ricavi,
propedeutica all’inizio dell’effettiva attività produttiva.
Cerchiamo di comprendere la ratio di questo intervento legislativo
che cambia in modo dirompente le regole cui, fino a questo momento, ci si
doveva attenere. Possiamo ritenere che in questo modo il legislatore abbia
voluto consentire all’Amministrazione finanziaria di “censire” in maniera
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più agevole le società in odore di non operatività; di evitare, cioè, che queste
ultime potessero nascondersi dietro il “velo” del non normale svolgimento
dell’attività.
Tale ipotesi di esclusione, prevista per legge, consentiva ai
contribuenti di “autoescludersi” dall’applicazione del regime delle società di
comodo, salvo l’obbligo eventuale di fornire successivamente all’Agenzia
delle Entrate, su richiesta della stessa, la prova di essersi trovati, nel periodo
d’imposta in oggetto, in una situazione di anormale svolgimento
dell’attività.
Sino all’esercizio chiuso anteriormente al 4 luglio 2006 (per la
generalità dei soggetti il periodo d’imposta 2005) i contribuenti che
ritenevano di trovarsi in detta situazione potevano, dunque, autonomamente
decidere di non adeguarsi, salvo la facoltà dell’Amministrazione Finanziaria
di contestare tale scelta in un momento successivo.
Quindi, ricapitolando, i contribuenti, vigendo la precedente
disciplina delle società di comodo, avevano a disposizione due possibilità
per sfuggire alle presunzioni da questa previste, con valutazione autonoma,
di cui era possibile fornire successivamente prova e giustificazioni, a
richiesta, eventuale, degli organi di controllo: la prima, che permetteva
l’esclusione a quei soggetti che ritenessero di trovarsi in un periodo di non
normale svolgimento dell’attività (art. 30, comma 1, ultimo periodo, n. 2);
costoro, per giunta, non erano neppure tenuti alla compilazione
dell’apposito prospetto per la verifica dell’operatività contenuto nella
dichiarazione dei redditi; la seconda rappresentata dalla possibilità di fornire
a posteriori la prova contraria con riferimento a particolari situazioni
oggettive di carattere straordinario che non avevano consentito il
conseguimento dei ricavi nella misura minima presunta dalla legge (art. 30,
comma 1, secondo periodo e art. 30, comma 4); in tali casi il contribuente
aveva l’obbligo di compilare in dichiarazione il suddetto prospetto di
verifica, determinando quindi sia l’entità dei ricavi sia quella del reddito
minimo presunto, ma aveva facoltà di non adeguarvisi, con riserva di fornire
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successivamente la prova contraria, a giustificazione del proprio operato, nel
caso in cui, in sede di accertamento, l’A.F. l’avesse richiesta.
Il D.L. n. 223/2006 ha stravolto completamente questa impostazione,
non solo sopprimendo, come già anticipato, dal novero delle ipotesi espresse
di esclusione il caso di non normale svolgimento dell’attività, ma anche
eliminando ogni riferimento alla possibilità di fornire la prova contraria in
momento successivo alla decisione di non adeguarsi alla disciplina delle
società di comodo.
Tale innovazione è stata introdotta dal comma 4-bis dell’art. 30
(inserito ex novo dal D.L. n. 223/2006 e modificato dalla L. 296/2006) e
consente che “In presenza di oggettive situazioni di carattere straordinario15
che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di
rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente
articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai
fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4, la società interessata
può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai
sensi dell’art. 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica
n. 600 del 1973”.
L’unica possibilità di contrastare le presunzioni previste dalla legge
circa la non operatività della società è ormai affidata esclusivamente alla
presentazione di un’istanza di disapplicazione delle medesime, da avanzare
all’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, del Dpr
29/9/1973, n. 600.
“Il contribuente, per ottenere la disapplicazione, deve presentare
istanza al Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate; nell’istanza deve:
a) descrivere compiutamente l’operazione; b) dimostrare che non possono
verificarsi effetti elusivi; c) indicare le disposizioni normative di cui chiede
la disapplicazione.
15 Le parole sottolineate vengono cancellate nella versione novellata dalla L. 296/2006, laqual cosa ha la sua importanza considerato che in tal modo viene facilitata l’accettazionedelle proprie tesi (come prospettato nella circolare del 16/2/2007, n. 11, risposta 6.7); comepure verrà fatto sparire l’inciso “salvo prova contraria” dal comma 1 della L. 724/1994 cheresisteva dalla versione originaria.
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L’istanza è accolta o respinta, con provvedimento definitivo, dal
Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate16”.
L’istanza ha natura preventiva, per cui deve essere presentata
dall’interessato prima della compilazione della dichiarazione dei redditi
all’interno della quale si opera la scelta di adeguare o meno il proprio
reddito imponibile a quello minimo previsto dalla disciplina.
Non si può fare a meno di rilevare la posizione assunta dall’Agenzia
delle Entrate, per la quale la presentazione dell’istanza è “condicio sine qua
non” alla possibilità di impugnazione di un eventuale avviso di
accertamento. Ma avremo modo di approfondire tale aspetto nel corso del
lavoro.
L’Agenzia delle Entrate è già intervenuta sull’argomento, dapprima
con la circolare n. 5/E del 2/2/2007 e, poi, con la circolare n. 14/E del
15/3/2007.
In primo luogo è stato precisato che le nuove disposizioni decorrono
a partire dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del
D.L. n. 223/2006.
L’istanza deve contenere i seguenti elementi essenziali, richiesti
dall’art. 1, comma 2, lettera c), del D.M. 19/6/1998, n. 259:
• dati identificativi del contribuente e del suo legale
rappresentante;
• indicazione dell’eventuale domiciliatario presso il quale
effettuare le comunicazioni;
• sottoscrizione del contribuente o del suo legale
rappresentante.
In mancanza di uno dei su elencati elementi, l’istanza sarà ritenuta
inammissibile e considerata, a tutti gli effetti, come non presentata.
Nella domanda dovrà, inoltre essere descritta compiutamente la
fattispecie concreta sottoposta all’esame della Direzione Regionale in base
16 Francesco Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Vol. 1, parte generale, ottava edizione,Utet giuridica, Cap. XII, pag. 257
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all’art. 1, comma 3, del D.M. 19/6/1998, n. 259, prevedendo che essa,
sebbene indirizzata al Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate
competente per territorio, sia spedita in plico raccomandato con avviso di
ricevimento al competente ufficio locale; viene consentito che la
presentazione possa avvenire anche mediante consegna a mano all’ufficio
locale.
Quest’ultimo, entro 30 giorni dal ricevimento, trasmetterà l’istanza
al Direttore Regionale, corredandola del proprio parere; il Direttore emanerà
il provvedimento di accoglimento o di rigetto dell’istanza, avendo cura che
ciò avvenga entro 90 giorni dalla data di presentazione all’ufficio locale,
salvo che richieda ulteriore documentazione al contribuente; in tale ipotesi,
la richiesta sospenderà il termine per l’emanazione del provvedimento.
E’ d’obbligo, a questo punto, fare alcune considerazioni.
Al paragrafo 5 della circolare 14/E del 15/3/2007 viene precisato che
l’istanza di disapplicazione sarà dichiarata “improcedibile” ogni qual volta
non descriva compiutamente la fattispecie concreta presentata all’esame del
Direttore regionale. Tuttavia, in tale ipotesi, è facoltà degli organi
competenti richiedere ai contribuenti dati ed elementi di prova integrativi17.
Nel caso in cui venga fornito un riscontro parziale alla suddetta richiesta, il
Direttore dichiarerà nuovamente l’improcedibilità dell’istanza, e non il suo
rigetto, prospettando in ogni caso la possibilità di riproporre l’istanza
adeguatamente argomentata.
Orbene, quello che ci preme mettere in evidenza è che, sia in caso di
inammissibilità sia in caso di improcedibilità, l’istanza sarà da considerarsi
come non presentata affatto, con la conseguenza che non sarà consentito
successivamente, in sede di eventuale contenzioso tributario, addurre alcuna
prova contraria volta a disattendere la presunzione di non operatività.
La penalizzazione per quei contribuenti che dovessero trovarsi nelle
suddette situazioni (inammissibilità o improcedibilità delle proprie istanze
17 Si badi bene che, in base a quanto riportato nella citata circolare, la richiesta può essereavanzata una sola volta, atteso che reiterate richieste, comportando altrettante sospensionidel termine per l’emanazione del provvedimento, contrasterebbero con i principi di nonaggravamento e di celerità del procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241/1990.
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presentate), rispetto a coloro che non presentano alcuna istanza, deriva dal
fatto che risultano comunque censite dall’Amministrazione finanziaria e, di
conseguenza, suscettibili di essere inserite nelle liste selettive di controllo.
Diverso è il ragionamento che si può fare per coloro che dovessero
ottenere un provvedimento di accoglimento per l’istanza presentata.
Per costoro, infatti, si potrebbe prospettare un eventuale controllo
sostanziale da parte degli organi verificatori, per accertare l’effettiva
sussistenza degli elementi forniti nell’istanza presentata.
In caso di un’eventuale successiva revoca del provvedimento di
accoglimento per acclarata diversità dei fatti ed elementi esposti rispetto a
quelli appurati, e conseguente emanazione dell’avviso di accertamento,
rimarrà in ogni casi impregiudicato il diritto di difesa del contribuente in
sede di contenzioso.
Infine, per i contribuenti che ottengono un provvedimento di rigetto
dovrebbe scattare automaticamente l’avvio della procedura di accertamento,
qualora dovessero decidere di non adeguarsi al provvedimento sfavorevole.
In ogni caso, anche per costoro, rimarrà impregiudicato il pieno
diritto di difesa in sede di giudizio tributario, avverso l’avviso di
accertamento emanato dai competenti organi dell’Amministrazione
finanziaria.
Rispetto alla previgente formulazione della norma, va evidenziato il
mancato richiamo all’art. 41-bis del Dpr 600/1973.
Il precedente comma 4 dell’art. 30 della L. 724/1994, prevedeva,
infatti, che qualora il contribuente avesse dichiarato un reddito inferiore a
quello minimo, l’Amministrazione Finanziaria avrebbe potuto determinarlo
“induttivamente”, in misura pari a quella presunta, anche mediante
l’applicazione di cui all’art. 41-bis del Dpr n. 600/1973.
Il mancato richiamo, nell’ultima versione, di detta norma non
esclude, comunque, tale possibilità tenuto conto della formulazione della
disposizione che consente, ad esempio, di emettere avvisi di accertamento
parziale sulla base anche dei soli dati in possesso dell’Anagrafe Tributaria.
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Naturalmente, viene ricordato come, considerato il carattere
preventivo dell’interpello rispetto alla presentazione della dichiarazione, sia
necessario attivarsi in tempo debito per poter ottenere una risposta in tempo
utile.
Tanto più che il contribuente potrebbe avere interesse a conoscere le
decisioni del Direttore regionale entro il termine stabilito per l’adozione
della delibera di scioglimento agevolato o di trasformazione in società
semplice, cioè entro il 31 maggio 2007. Non può escludersi, infatti, che la
decisione in merito allo scioglimento o alla trasformazione possa essere
influenzata da una eventuale risposta negativa.
Approfittiamo di quest’ultima precisazione per ricordare che non
sono tenute a presentare interpello disapplicativo le società che
presentandosi non operative nel periodo in corso alla data del 4 luglio 2006,
nonché quelle che a tale data si trovavano nel primo periodo d’imposta,
abbiano deciso di deliberare lo scioglimento o la trasformazione in società
semplice.
La citata circolare n. 5/E del 2/2/2007 ha precisato alcuni concetti di
basilare importanza:
• nella novellata norma, al comma 4-bis, non si fa più
riferimento solo ai ricavi, incrementi di rimanenze e proventi, esclusi quelli
straordinari, conseguiti in misura inferiore ai limiti consentiti dalla legge,
ma si torna a prendere in considerazione anche il reddito minimo, nonché le
operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. La conseguenza
di rilievo è che la società potrebbe essere interessata a presentare istanza di
disapplicazione ai soli fini del reddito minimo presunto, evidenziando
situazioni (ad esempio il sostenimento di costi straordinari) che ne hanno
impedito il conseguimento; ciò anche in presenza di componenti positivi di
reddito che non abbiano permesso di superare il test di operatività.
Puntualizza la circolare che la tipologia dei costi straordinari portati a
sostegno della richiesta di disapplicazione deve essere oggetto di attenta
indagine da parte dei Direttori regionali, facendo particolare attenzione a
quelli addebitati alla società, ma sostenuti a diretto beneficio dei soci. Lo
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stesso discorso fatto finora vale per la possibilità di richiedere, ricorrendone
le circostanze, una disapplicazione “parziale” ai fini Irap e/o Iva;
• ha precisato che la soppressione del riferimento alla “prova
contraria” al comma 1 dell’art. 30, operata dalla Finanziaria 2007, all’art. 1,comma 109, lett. a), ha avuto esclusivamente lo scopo di impedire che detta
prova potesse essere fornita soltanto a posteriori in sede di un eventuale
accertamento o di contenzioso, richiedendo, invece, che venga fornita
preventivamente, con la proposizione dell’interpello;
• ha riconosciuto che deve, comunque, essere ammessa la
possibilità di ricorrere ai giudici tributari impugnando l’eventuale avviso di
accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate, a seguito del rigetto
dell’istanza, precisando però l’obbligatorietà della presentazione dell’istanza
stessa, in mancanza della quale il ricorso è inammissibile;
• ha ritenuto, d’altra parte, non ammissibile l’impugnazione
del provvedimento di diniego da parte del Direttore regionale, poiché esso
non è compreso fra gli atti autonomamente impugnabili elencati nell’art. 19
del D.Lgs. 31/12/1992, n. 546.18
Nella circolare vi sono altre considerazioni di un certo interesse.
Se, in sede di interpello vengono addotte e ritenute valide situazioni
ed elementi che condizionino la redditività anche di più periodi d’imposta, il
Direttore destinatario della richiesta potrà essere indotto a dare parere
positivo anche per una pluralità di esercizi, che siano, però, puntualmente
individuati.
Abbiamo già visto come le novità introdotte dal D.L. 223/2006
decorrano dal periodo d’imposta in corso al 4 luglio 2006. Per i periodi
precedenti resta ferma la validità delle disposizioni previste dal previgente
comma 4 dell’articolo 30 della L. 724/1994.
L’istanza può essere presentata anche nel corso dello stesso periodo
d’imposta di cui si presuppone la non operatività.
18 La questione è controversa. In effetti l’istituto non risulta fra gli atti autonomamenteimpugnabili, elencati nel D. Lgs. n. 546/1992, anche se la Corte di Cassazione ha ritenutoimpugnabile un provvedimento di diniego nella sentenza 11 ottobre 2004, n. 23731.
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Considerato che il periodo di non normale svolgimento dell’attività
non configura più una causa di esclusione apprezzabile autonomamente dal
contribuente, questi è tenuto a presentare l’interpello anche se la causa che
gli permetteva di sfuggire alla disciplina delle società di comodo sia tuttora
perdurante.
Anche la liquidazione volontaria non costituisce più, a differenza del
passato, una causa di esclusione “automatica”. Adesso rappresenta una
condizione che permette la presentazione dell’interpello disapplicativo, a
condizione, però, che sia dimostrata dal contribuente una “effettiva” volontà
di liquidare la società, producendo ogni documentazione utile a dimostrarla.
Anche le holding possono rientrare nell’ambito di applicazione della
normativa sulle società di comodo, qualora non conseguano redditi
(tipicamente dividendi e plusvalenze) in misura necessaria per il
superamento del “test di operatività”.
L’estensore della circolare n. 5/E ha ritenuto giusto valutare se e
quando la mancata erogazione di dividendi costituisca una ragionevole
ipotesi per ottenere la disapplicazione. A tal fine, l’indagine circa
l’operatività, in linea di massima, dovrà spostarsi sulle società partecipate,
in modo tale che, qualora l’istanza di disapplicazione sia accolta in capo a
queste ultime, si potrà normalmente accogliere anche quella presentata dalla
holding stessa.
Il riscontro positivo dell’istanza potrà, a titolo di esempio, aversi per
i seguenti casi:
• società partecipate con riserve di utili non sufficienti, in caso
di integrale distribuzione, a consentire alla holding di superare il test di
operatività;
• mancata distribuzione di dividendi da parte delle partecipate
dovuta alla necessità di coprire con le riserve di utili esistenti le perdite
conseguite;
• società partecipate che si trovano in fase di avvio dell’attività
o che operano in settori in crisi;
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• cosiddette special purpose vehicle (SPV) che dimostrano di
dover necessariamente impiegare i proventi conseguiti dalla società target
per il rimborso dei debiti contratti per l’acquisto della target stessa.
Con specifico riferimento al caso della mancata distribuzione delleriserve di utili, la circolare n. 25/E ha provveduto a fornire un’altra
precisazione di un certo rilievo, secondo cui può costituire circostanza utile
ai fini dell’accoglimento dell’istanza anche il fatto che la partecipata, pur
disponendo di utili e riserve di utili in quantità tale da permettere, in caso di
distribuzione delle stesse, il superamento del test da parte della partecipante,
non abbia proceduto alla relativa distribuzione in attuazione di un piano di
autofinanziamento finalizzato al rafforzamento dell’attività produttiva,
sempre che sia dimostrato che l’utile è o sarà destinato in tal senso.
Nella risposta 6.7 della circolare del 16/2/2007, n. 11 viene chiarito
che si può ottenere la disapplicazione anche quando si dimostri che
l’eventuale distribuzione di tutti gli utili della partecipata non sarebbe stata
sufficiente a raggiungere il livello minimo richiesto per superare il test di
operatività.
Con riferimento alle immobiliari, che hanno per oggetto la
realizzazione e la successiva locazione di immobili, il paragrafo 4.5 della
circolare n. 5/E riporta una serie di “oggettive situazioni” che possono
legittimare la disapplicazione della normativa in commento.
La prima ipotesi riguarda quelle immobiliari che abbiano iscritto in
bilancio esclusivamente immobilizzazioni in corso di realizzazione, da
destinare successivamente alla locazione, ma non suscettibili, al momento,
di produrre alcun reddito. In presenza di immobili già locati ed altri in corso
di realizzo, viene consentito, limitatamente a questi ultimi, che non rilevino
ai fini del test di operatività e a quello per la determinazione del reddito
minimo (si tratterebbe, quindi, di una disapplicazione parziale).
Per completezza di esposizione occorre sottolineare che la circolare
n. 25/E ha successivamente precisato che le società che detengono solo
immobilizzazioni in corso sono addirittura esonerate dall’obbligo di
presentare istanza disapplicativa.
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La seconda ipotesi ricorre quando la società immobiliare dimostri di
essere nell’impossibilità di praticare canoni di locazione in misura tale da
permetterle di superare i predetti test.
Ciò si verifica nei casi in cui i canoni dichiarati siano almeno pari a
quelli di mercato, determinati ai sensi dell’art. 9 del TUIR.
In aiuto del contribuente sono arrivate le disposizioni della circolare
n. 25/E, dove viene precisato che per la determinazione del valore di
mercato dei canoni di locazione si può fare riferimento ai valori (espressi in
euro per mq al mese) pubblicati nella banca dati delle quotazioni
immobiliari dell’Osservatorio del mercato immobiliare, consultabili sul sito
internet dell’Agenzia del Territorio.
La terza ipotesi fa riferimento all’impossibilità di modificare i
contratti locativi in corso.
L’ultima ipotesi riguarda gli immobili che siano inagibili, il cui
effettivo riscontro non potrà che essere effettuato sul “campo”.
E’ pacifico il fatto che le fattispecie sopra elencate possano essere
fatte valere anche nel caso si tratti di società ed enti non immobiliari per casi
similari.
Di estrema importanza è quanto viene riportato nel paragrafo 8 della
circolare n. 25/E. Viene fatto espresso riferimento alla possibilità di
disapplicazione parziale qualora le situazioni oggettive invocate dal
contribuente si riferiscano soltanto ad alcuni dei beni considerati al comma
1 dell’art. 30 ovvero riguardino solo parte del triennio di riferimento per la
determinazione dei ricavi presunti. In questi casi, il Direttore regionale potrà
tenerne conto per permettere che detti beni non rilevino totalmente o solo
per gli anni nei quali sono stati ritenuti improduttivi, determinando, quindi,
diversamente l’ammontare dei ricavi figurativi o del reddito minimo.
In tal caso il Direttore regionale, valutate positivamente le richieste
del contribuente in merito a dette situazioni, sarà tenuto a specificare nella
risposta all’istanza di interpello che “sarà cura del contribuente provvedere a
neutralizzare l’effetto della presenza di tali situazioni eliminando nei calcoli
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il valore degli asset interessati dalle stesse e dei ricavi ad essi direttamente
correlabili”.
Gli importi dei ricavi presunti e del reddito minimo determinato
applicando i coefficienti previsti dalla legge al valore degli asset calcolato in
base ai suddetti criteri, rileveranno come limite di riferimento per
l’applicazione dell’intera disciplina delle società di comodo; quindi anche
per le disposizioni riguardanti IVA e IRAP.
La circolare n. 44/E del 9/7/2007 offre tutta una serie di esempi su
come debbano essere interpretate le condizioni e gli elementi oggettivi
(quindi non riconducibili alla volontà del contribuente) e su quali sono i
principi che stanno alla base del ragionamento che conduce alla eventuale
accettazione (anche parziale) o negazione dell’istanza disapplicativa
presentata.
Dall’esame delle risposte fornite ai quesiti prospettati colpisce quella
data alla domanda 2.7, dove viene prospettato il caso di una società
immobiliare, proprietaria di un unico fabbricato commerciale locato da
diversi anni a uno stesso soggetto. Nonostante che il contratto sia stato
rinnovato a gennaio 2006 a un canone molto più elevato rispetto al passato,
la società non è in grado di superare il test di operatività a causa dei più
bassi canoni incassati nei due anni precedenti; in considerazione di quanto
appena evidenziato si chiede l’accoglimento dell’istanza di disapplicazione.
La risposta, a nostro avviso, rende l’idea di quanto sia diventata
elastica la disciplina in riferimento alla prova contraria da fornire per
sfuggire ai lacci di questa normativa tanto controversa.
In effetti, viene risposto che innanzitutto bisogna verificare se i
canoni previsti nel vecchio contratto fossero non inferiori a quelli di mercato
riferiti alla data di stipula dello stesso; gli stessi canoni, infatti, possono
ritenersi congrui per l’intera durata del contratto solo se lo risultano rispetto
ai canoni vigenti nel primo anno di locazione.
Acclarato questo fatto si potrà effettuare il test senza considerare i
canoni del biennio precedente, ma solo il canone del 2006.
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Da ultimo citiamo la Risoluzione 24/7/2007 n.180/E nella quale, in
risposta ad una istanza di interpello, viene chiarito che gli oneri pluriennali
capitalizzati come “migliorie su beni di terzi” rilevano nel comparto “altre
immobilizzazioni” come costi ad utilità pluriennale, sebbene non siano mai
stati espressamente elencati nei precedenti documenti di prassi.
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4. Considerazioni conclusive
Quella delle società di comodo è una vecchia disciplina tornata
prepotentemente di attualità.E’ figlia della “smania” dei nostri legislatori di presumere tutto quel
che è possibile in ambito fiscale.
E’ un istituto che si affianca alla disciplina degli studi di settore,
altro strumento che viene utilizzato per stimare la capacità contributiva delle
aziende.
Per giunta, l’applicazione dello studio di settore non esclude quella
del regime delle società di comodo. Paradossalmente potrebbe verificarsiuna situazione come quella di seguito descritta.
Una società, la cui dichiarazione annuale iva evidenzia un forte
credito, viene sottoposta allo studio di settore, risultando non congrua. Di
conseguenza adegua i propri ricavi alle risultanze di Ge.Ri.Co. e diventa
debitrice dell’iva calcolata sul maggior imponibile. Purtroppo, anche il test
di operatività dà risultato negativo. Essendo una società di comodo perde il
diritto all’utilizzo in compensazione del credito iva derivante dalla
dichiarazione annuale ed è quindi costretta a versare la maggiore imposta
scaturente dall’applicazione dello studio di settore (oltre alle maggiori
Ires/Irpef e Irap). Francamente, questo è troppo.
Se si può condividere la ratio dell’utilizzo degli studi di settore (ma
anche in questo caso i motivi per lamentarsi non mancano), molto meno lo
si può fare per la normativa sulle società non operative.
Mentre gli studi rappresentano un mezzo abbastanza sofisticato per
combattere la tendenza dei contribuenti a “nascondere” i propri ricavi per
abbassare il proprio reddito imponibile, lo strumento escogitato per la
seconda va a sindacare l’effettiva operatività di una società, basandosi
esclusivamente su dati patrimoniali, senza tenere in alcun conto quelli che
sono i dati contabili relativi al conto economico.
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Anzi, per dirla tutta, si è soggetti ad una doppia presunzione: quella
relativa ai ricavi, in base ai quali determinare se si è operativi o meno;
quella relativa al reddito, per determinare se assoggettare a tassazione quello
risultante dai dati contabili o quello minimo risultante dal test previsto dalla
legge.
Insomma le società di comodo vengono sottratte al loro regime
naturale: sul versante delle imposte dirette, con l’attribuzione di un reddito
minimo, comunque assoggettato ad imposta e sul versante iva con la loro
equiparazione al consumatore finale non imprenditore, con conseguente
carico dell’imposta.
Orbene, mentre si potrebbe convivere con il reddito forfettario
determinato ai sensi del comma 3 della L. 724/1994, la norma pare invece
aver ecceduto per ciò che concerne l’imposta sul valore aggiunto.
Infatti, le varie esclusioni previste dal regime all’utilizzo del credito
iva risultante dalla dichiarazione annuale (fino addirittura alla sua perdita
definitiva), addebitano l’imposta alla società considerata di comodo, come
se questa fosse il consumatore finale che effettivamente non è. Invece, essa
è da considerarsi impresa a tutti gli effetti e, come tale soggetta alle regole
che disciplinano l’iva, ovvero all’emissione delle fatture con addebito o
meno dell’imposta e al beneficio della deduzione della stessa sugli acquisti,
con diritto all’utilizzo o al rimborso dell’eventuale eccedenza a credito.
Il diniego di tale utilizzo viola un diritto riconosciuto alle imprese ed
è irrispettoso della struttura normativa del tributo.
A ben vedere l’introduzione del regime delle società di comodo con
l’art. 30 della legge 23/12/1994, n. 724 non aveva interessato in alcun modo
l’iva, verosimilmente per non scontrarsi con i principi comunitari e con la
legge delega istitutiva del tributo.
Successivamente le varie riformulazioni della legge hanno portato
all’abbandono di questo atteggiamento prudenziale da parte del legislatore,
con il risultato di violare il principio della detrazione dell’imposta sul valore
aggiunto [art. 5, n. 6), della legge n. 825/1971] e il diritto al rimborso
dell’eccedenza a credito [art. 5, n. 10), della legge n. 825/1971].
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Insomma, l’introduzione di questo istituto tributario fa comodo
all’Erario, visto che continua a servirsi di tali società per la riscossione
dell’iva19 e, allo stesso tempo, nega loro i diritti riconosciuti
all’imprenditore dalla legislazione tributaria vigente relativa all’imposta sul
valore aggiunto.
Invece, l’Amministrazione finanziaria ha il potere-dovere di
accertare l’interposizione fittizia della società di comodo, quando questa
appaia impresa ed in realtà sia comunione (art. 37, comma 3, del Dpr n.
600/1973) e dispone dei poteri di accertamento, controllo e rettifica (artt. 31
e seguenti del Dpr n. 600/1973 per le imposte dirette e artt. 51 e seguenti del
Dpr n. 633/1972 per l’iva) avendo riguardo all’individuazione di ricavi non
dichiarati, perché destinati a finalità estranee all’esercizio d’impresa (art. 85,
comma 2 del Tuir e artt. 2, comma 2, n. 5), e 3, comma 3, del Dpr n.
633/1972) e di costi non inerenti (artt. 109, comma 5, del Tuir e 19, comma
1, del Dpr n. 633/1972).
Si è messa in evidenza la parola dovere perché sarebbe ora che
l’Amministrazione finanziaria procedesse a migliorare i controlli mirati ed
effettivi, piuttosto che affidarsi alle presunzioni.
Non è possibile continuare ad accettare questi metodi, soprattutto se
si deve andare a sindacare sulla effettiva sussistenza dei requisiti per
considerare o meno operativa una società o ente che sia.
Non si può liquidare la questione basandosi su dati patrimoniali,
senza andare ad indagare “sul campo”, controllando identità, atti,
documenti, registri e quant’altro può essere utile ai fini del riscontro di cui
sopra.
Alla fine è forte il sospetto che, in barba ai principi ispiratori della
normativa sulle società di comodo, ribadita a più riprese nei vari documenti
di prassi emanati in tutti questi anni, tutto questo sistema sia stato
improntato e implementato nel tempo soltanto per ragioni di cassa.
19 In effetti le società non operative continuano ad essere soggetti passivi d’imposta tenutiall’addebito e alla rivalsa del tributo ai sensi degli artt. 17 e 18 del Dpr n. 633/1972.
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In definitiva, sarebbe ora di finirla, una volta per tutte, di prendere a
modello questo sistema di “sparare nel mucchio” per riuscire a colpire chi si
comporta in maniera non corretta.
Non si può pensare di risolvere i problemi fiscali rendendo la vita
impossibile a tutti i contribuenti, nessuno escluso, partendo dal presupposto
che si è tutti colpevoli.
Un altro aspetto che lascia perplessi è l’aumento non giustificato dei
coefficienti che vanno applicati agli immobili ai fini dei test di cui al regime
in esame; aspetto, questo, che riguarda in particolar modo le società
immobiliari, guarda caso, le principali indiziate di non operatività e, in
quanto tali, le principali destinatarie della normativa.
Gli studiosi sono concordi nel ritenere che l’incremento del
parametro da applicarsi al costo degli immobili (dal 4 al 6 per cento) sia tale
da far rientrare potenzialmente nel novero delle società di comodo quasi
tutte le società immobiliari “pure” operanti in alcune zone del nostro paese;
in particolare le più penalizzate dovrebbero essere quelle che hanno
acquistato o rivalutato di recente, per le quali sarà molto difficile conseguire
ricavi superiori a quelli presunti. Se la potrebbero cavare quelle che
detengono i fabbricati da molto tempo e quindi con un costo iscritto in
bilancio relativamente modesto.
Singolare è poi il fatto che vengono aumentati i coefficienti relativi
agli immobili quando studi di fonte Nomisma, pubblicati sul Sole 24 Ore del
24 luglio 2006, dimostrano, in modo inequivocabile, che i rendimenti medi
lordi derivanti da locazioni di uffici, negozi e abitazioni si sono
progressivamente ridotti nel periodo intercorrente fra il 2002 e il 2006.
Qualche parola bisogna pur spenderla a proposito di quella parte
della disciplina che riguarda la prova contraria e l’interpello disapplicativo.
Anche qua le dolenti note non mancano.
Abbiamo visto nei precedenti capitoli come, in relazione a questa
parte della normativa, l’Agenzia delle Entrate assume una posizione
decisamente rigida e francamente poco convincente, soprattutto alla luce del
ruolo che l’Agenzia medesima ha ritenuto di poter rivestire.
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Ricordiamo brevemente le tesi dell’Agenzia: la società che ritenga di
voler disapplicare le norme in materia di società di comodo deve inoltrare
istanza di interpello come da art. 37-bis, Dpr n. 600/1973. In caso di risposta
negativa da parte del Direttore regionale, sarà possibile esperire il ricorso
avverso l’eventuale avviso di accertamento, considerato che non è
consentito impugnare autonomamente il diniego del Direttore. Nel caso in
cui non sia stata inoltrata l’istanza di interpello il ricorso contro l’avviso di
accertamento diventa inammissibile.
Questa impostazione non è condivisibile, innanzitutto, perchè risulta
inaccettabile il fatto che l’Agenzia delle Entrate si arroghi il diritto di poter
giudicare inammissibile la possibilità di presentare un ricorso, quando
questa facoltà spetta esclusivamente al giudice tributario.
Non è di molto tempo fa l’intervento della Suprema Corte di
Cassazione che stigmatizza questi comportamenti dell’Amministrazione
finanziaria.
Infatti, nella sentenza 30 novembre 2006, n° 25506 si legge: “in
materia fiscale gli interventi interpretativi sono sempre pro Fisco, in quanto
dettati da ragioni di cassa (nell’intento di realizzare maggiori entrate). Non
sono ispirati, quindi, alla esigenza di realizzare la certezza del diritto, ma
soltanto a garantire gli interessi di una delle parti in causa” e ancora si
afferma che “non è facile distinguere l’Amministrazione finanziaria, parte in
causa, dal legislatore”.
In buona sostanza, l’Agenzia delle Entrate non può, allo stesso
tempo, rivestire il ruolo di parte in causa e giudice del contenzioso
tributario.
Inoltre, la tesi delle Entrate non convince affatto per i motivi che
seguono:
• se l’interpello fosse un passaggio necessario per poter
successivamente produrre ricorso avverso l’avviso di accertamento il dettato
dell’art. 30, comma 4-bis, L. 724/1994 avrebbe dovuto prevedere l’obbligo
dell’istanza, mentre, a ben vedere, la norma riferisce di una facoltà, atteso
che viene utilizzato il termine “può” e non “deve”;
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• il D. Lgs. 31/12/1992, n. 546 prevede all’art. 18, commi 2 e
4, i presupposti che determinano l’inammissibilità del ricorso e tra questi
non figura l’assenza dell’istanza di interpello.
Bisogna poi ricordare che si possono verificare particolari situazioniin cui la società può venire a conoscenza di essere soggetta alla normativa
sulle società di comodo quando non è più possibile l’inoltro della istanza.
E’ di recente accadimento l’incredibile “balletto” cui ha dato vita
l’Agenzia delle Entrate a proposito dell’inclusione della liquidazione
giudiziaria nel novero delle possibili cause di esclusione “automatica” dal
regime delle società non operative.
Da principio, la condizione di cui sopra non viene considerata fra le
cause di esclusione; in seguito, la circolare n. 25/E del 4 maggio 2007 al par.
2 la estende, per analogia, a quella prevista per le società in amministrazione
controllata o straordinaria; la circolare 44/E del 9 luglio 2007 alla risposta
3.2 rimette tutto in discussione, visto che ne fa oggetto di interpello
disapplicativo; infine, la risoluzione 209/E dell’8 agosto 2007 (si noti la
data) dà una risposta definitiva20 al contribuente, disattendendo quanto
affermato nella circolare precedente.
Un eventuale liquidatore si potrebbe trovare nella spiacevole
situazione di non sapere se è obbligato o meno a presentare l’istanza.
Con la possibilità, qualora lo fosse, di essere fuori tempo limite per
farlo; non avendo più, a questo punto, la facoltà di impugnare un successivo
avviso di accertamento.
Non è certo questa la certezza del diritto che tutti auspicano.
Si era partiti con la versione primigenia della legge col proposito di
stroncare il fenomeno delle società “fittizie”, come delineato in premessa.
Si è arrivati alla versione attuale della normativa, che, alla fine, serve
solo ad appesantire gli adempimenti amministrativo-contabili e ad
20 “Si ritiene, pertanto – a rettifica di quanto indicato al paragrafo 3.2 della Circolare del 9luglio 2007, n. 44 – che le società interessate da procedure di liquidazione giudiziaria sonoescluse dall’applicazione della disciplina di cui all’art. 30 della legge n. 724 del 1994 senzanecessità di presentare istanza di interpello”.
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aumentare il gettito fiscale, tradendo, in un certo senso, la ratio originaria
della legge.
Non resta che concludere augurandoci un sereno ripensamento del
legislatore sugli aspetti più critici della disciplina, soprattutto nel senso
dell’utilizzo della stessa quale strumento per far emergere quelle società
“potenzialmente” non operative da sottoporre a più mirati e stringenti
controlli.
Ad epilogo di questo mio elaborato vorrei esprimere il mio caloroso
ringraziamento al Prof. Del Federico e al Dott. Cermignani per l’opportunità
e l’aiuto concessomi nella stesura della tesi; a mia moglie, ai miei figli, a
tutta la mia famiglia, al Dott. Pagliaricci e ai colleghi dello studio, che mi
hanno supportato e “sopportato” lungo i tre anni di fatica e studio
universitari; a tutti i professori dei vari corsi d’insegnamento, di ognuno dei
quali ho potuto apprezzare le qualità umane e professionali.