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 1. Premessa La disciplina delle società di comodo venne introdotta nel nostro ordinamento dall’articolo 30 della legge 724 dell’ormai lontano 23 dicembre 1994. La ratio di tale controversa normativa è ravvisabile nell’intento di arginare la nascita (e favorire lo scioglimento) di società ed enti aventi finalità di mera intestazione di patrimoni, allo scopo di creare uno schermo tra beni, che magari denotano una notevole capacità contributivo-  patrimoniale, e reali proprietari, nonché per fruire di vantaggi tr ibutari non spettanti alle persone fisiche. In taluni casi, infatti, l’operazione di costituzione della società è fatta  per eludere la progressività del tributo personale ma anche per ridurre il rischio di accertamenti sintetici. Senza dimenticare che con il trasferimento delle azioni o delle quote si riesce ad ottenere una tassazione ridotta rispetto a quella connessa al diretto trasferimento dei beni cosiddetti di secondo grado, soprattutto in presenza di immobili. La società che viene creata non svolge quindi alcuna attività economica ma persegue gli obiettivi che sono propri della comunione a scopo di godimento (fatto questo che non può che scatenare le pretese del fisco). Da un punto di vista fiscale la problematica è stata affrontata, con diverse sfacce ttature, a livello di imposte d irette e indirette. Prendiamo a base di partenza una sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III, n. 8939 del 1 dicembre 1987, che riguarda, in un certo senso, ambedue le tipologie di impos izione. Co n questa sentenza la Suprema Corte stabilisce che ai fini dell’acquisto della personalità giuridica rileva “ l’effettiva attività svolta in concreto e stabilmente; non la  prospettazione dell’esercizio dell’attività imprenditoriale indicata nell’atto costitutivo come scopo sociale, che è mera apparenza”. 1

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1. Premessa

La disciplina delle società di comodo venne introdotta nel nostro

ordinamento dall’articolo 30 della legge 724 dell’ormai lontano 23 dicembre1994.

La ratio di tale controversa normativa è ravvisabile nell’intento di

arginare la nascita (e favorire lo scioglimento) di società ed enti aventi

finalità di mera intestazione di patrimoni, allo scopo di creare uno schermo

tra beni, che magari denotano una notevole capacità contributivo-

patrimoniale, e reali proprietari, nonché per fruire di vantaggi tributari non

spettanti alle persone fisiche.In taluni casi, infatti, l’operazione di costituzione della società è fatta

per eludere la progressività del tributo personale ma anche per ridurre il

rischio di accertamenti sintetici. Senza dimenticare che con il trasferimento

delle azioni o delle quote si riesce ad ottenere una tassazione ridotta rispetto

a quella connessa al diretto trasferimento dei beni cosiddetti di secondo

grado, soprattutto in presenza di immobili.

La società che viene creata non svolge quindi alcuna attività

economica ma persegue gli obiettivi che sono propri della comunione a

scopo di godimento (fatto questo che non può che scatenare le pretese del

fisco).

Da un punto di vista fiscale la problematica è stata affrontata, con

diverse sfaccettature, a livello di imposte dirette e indirette.

Prendiamo a base di partenza una sentenza della Corte di

Cassazione, Sez. III, n. 8939 del 1 dicembre 1987, che riguarda, in un certo

senso, ambedue le tipologie di imposizione. Con questa sentenza la

Suprema Corte stabilisce che ai fini dell’acquisto della personalità giuridica

rileva “ l’effettiva attività svolta in concreto e stabilmente; non la

prospettazione dell’esercizio dell’attività imprenditoriale indicata nell’atto

costitutivo come scopo sociale, che è mera apparenza”.

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Detta sentenza riguardava una società avente per oggetto la vendita e

la gestione di immobili, la cui unica attività svolta era consistita

nell’acquisto di un fondo rustico e nella concessione in affitto dello stesso;

da ciò i giudici di legittimità facevano conseguire la nullità del contratto di

società per illiceità della causa, in base all’articolo 1324 del c.c.

Dal lato Iva il problema delle società di comodo si è posto per negare

la possibilità, a questi soggetti, della detrazione dell’imposta assolta sugli

acquisti.

Dapprima la Commissione tributaria centrale, sez. 25, con decisione

n. 7017 del 25/10/1988 ha stabilito il principio che non è sufficiente che

esista formalmente la società per ottenere la detraibilità dell’iva sugli

acquisti, ma occorre altresì dimostrare che la stessa abbia svolto “ ancorché

in misura minima e per un breve periodo della sua esistenza”, operazioni

economiche proprie dell’attività imprenditoriale, rispetto alla quale gli

acquisti di beni e servizi abbiano assunto funzione strumentale.

Nel caso esaminato la società era stata costituita “ acquisendo per

questo la soggettività e i tratti fisionomici dell’impresa, ma rimanendo tale

solo sulla carta; ebbe soltanto esistenza giuridica ma non effettiva, in quanto

dagli atti risulta non aver mai svolto attività imprenditoriale….”

Successivamente l’ormai soppresso Comitato per il coordinamento

del Secit (Servizio consultivo ed ispettivo tributario) ha preso posizione in

materia con la delibera 77/1991, nella quale ha ritenuto inammissibile la

detrazione dell’iva per le società che non esercitano effettivamente attività

d’impresa e che, in quanto tali, sono da equiparare ai consumatori finali per

ciò che concerne gli acquisti, rimanendo imprenditori per le operazioni di

vendita solo per presunzione legislativa.

La risoluzione 501239 del 30/12/1991 del Ministero delle Finanze,

Direzione Generale Tasse, fa proprie le interpretazioni fornite dalla citata

C.T.C. e dal Secit per ribadire: “ Nella fattispecie in esame, poiché non

risultano poste in essere operazioni attive, tranne quelle, come sopra detto,

nei confronti di persone legate in qualche modo alla società, sembra alla

scrivente che la società C. Srl abbia soltanto voluto dissimulare una

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comunione di godimento, non intendendo svolgere alcuna attività

imprenditoriale, con la conseguenza che per l’acquisto dei beni mobili in

argomento deve essere considerata alla stregua del consumatore finale.”

E’ il caso di argomentare meglio questo concetto che potremmo

definire esemplare per la trattazione dell’argomento.

Si tratta di una società a responsabilità limitata sottoposta a verifica

da parte di funzionari di un ufficio IVA.

I rilievi effettuati dai verbalizzanti riguardano l’indetraibilità dell’iva

sull’acquisto di due imbarcazioni e di un’autovettura, ritenuti non inerenti

all’attività propria dell’impresa.

Infatti la società , il cui oggetto sociale era costituito dall’acquisto, la

costruzione, la vendita di beni mobili (registrati e non) e di immobili,

nonché dalla gestione degli stessi, non avrebbe, a parere dei verbalizzanti, in

concreto esercitato alcuna attività armatoriale, tanto più che la stessa non era

nemmeno prevista nell’oggetto sociale, limitandosi a stipulare contratti di

noleggio nei confronti di persone collegate alla sfera societaria.

Pertanto, alla luce di quanto sopra, anche in considerazione del fatto

che la presunta attività veniva “esercitata con accordi verbali e gratuiti, non

esistendo alcuna traccia documentale, i verbalizzanti hanno ritenuto non

spettante in capo alla società il diritto alla detrazione dell’iva assolta sugli

acquisti e sulle prestazioni di servizi relativi alle imbarcazioni e

all’autovettura sopra citate”.

Continuando nel nostro excursus storico arriviamo alla risoluzione

del Ministero delle Finanze n. 530643 del 28/7/1992 con la quale viene

negata la detrazione dell’iva a società immobiliari, create al solo scopo di

essere successivamente incorporate in società assicuratrici con attività

tipicamente esente che, se avessero proceduto all’acquisto diretto, non

avrebbero potuto beneficiare della detrazione dell’imposta.

Afferma il Ministero che “ il fondamento giuridico della pretesa

discende non già dalla presunzione che il contratto societario simuli un

contratto di comunione, bensì dall’accertamento di una circostanza di fatto,

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ossia il mancato effettivo esercizio dell’impresa, che esclude la ricorrenza

della condizione richiesta per legittimare il diritto alla detrazione “.

Infine, anche la commissione tributria di primo grado di Salerno

Sezione I, con decisione numero 52 del 7 febbraio 1994, ha stabilito che, per

legittimare la detrazione della relativa imposta, le operazioni devono

possedere il requisito dell’inerenza all’attività svolta, requisito che necessita

dell’esistenza concreta di una attività d’impresa effettiva e non potenziale.

Il problema relativo alla “società senza impresa” è stato in qualche

modo risolto diversamente a proposito delle imposte dirette.

Nella Risoluzione 224/E/6-906 del 20/07/1995 il Ministero delle

Finanze prende posizione in maniera diversa rispetto a quella assunta a

proposito delle imposte indirette.

Viene prospettato il caso di una società a responsabilità limitata che

aveva per oggetto sociale l’attività di costruzione, acquisto, ristrutturazione,

vendita e permuta di immobili, nonché la gestione e l’amministrazione degli

immobili di sua proprietà, l’intermediazione e ogni altra operazione

connessa, e che ad avviso dell’organo verificatore (Guardia di Finanza) non

presentava quegli aspetti tipici che il codice civile e le norme fiscali

prevedono affinché si possa parlare di effettivo esercizio di attività

d’impresa.

Pertanto l’organo predetto, anche facendo riferimento alle sentenze e

alle risoluzioni sopra citate relativamente alle imposte indirette, riteneva che

le attività della società non avessero natura commerciale ma che si

concretizzassero in una mera comunione di beni immobili finalizzata al

godimento degli stessi da parte dei soci.

Sulla base di queste argomentazioni viene ritenuto che la società

aveva indebitamente dedotto, ai sensi dell’articolo 75 del TUIR, i costi di

esercizio poiché la stessa di fatto non svolgeva alcun esercizio di impresa

commerciale di cui l’articolo 51 del citato testo unico.

In questo caso il Ministero rileva che l’articolo 95 comma 1 del testo

unico delle imposte sui redditi, dispone che il reddito complessivo delle

società e degli enti commerciali di cui alle lettere a) e b) del comma 1

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dell’articolo 87 del TUIR stesso, da qualsiasi fonte provenga, è considerato

reddito d’impresa ed è determinato secondo le disposizioni degli articoli da

52 a 77 del capo IV del titolo I del TUIR.

Dalla lettura della norma si riscontra una presunzione iuris et de iure 

in base alla quale il reddito prodotto dalle società di capitali va in ogni caso

considerato reddito d’impresa.

Nella risoluzione si dà forza a quanto stabilito facendo riferimento

proprio all’articolo 30 della legge 23/12/1994, modificato dall’articolo 27

del decreto-legge 23/2/1995, n. 41, convertito dalla legge 22/3/1995, n. 85,

che disciplina la tassazione delle società non operative e che contrasta

quindi, in sostanza, il fenomeno delle “società senza impresa” senza

disconoscere la natura di reddito d’impresa prodotto dalle stesse, bensì

presumendo un reddito minimo.

Nonostante questa presa di posizione da parte della competente

Direzione delle imposte dirette, quella delle indirette ha ribadito il suo

orientamento, già ampiamente sopra considerato, con la circolare n.128 del

15/5/1996 anche se con toni un po’ più morbidi rispetto al passato.

In sintesi, in merito alle richieste di rimborso iva da parte di società

in odore di non operatività, viene disposto affinché gli uffici si attivino in

un’opera di controllo dell’esercizio concreto di impresa che si esplichi per

un periodo di tempo che viene definito “congruo”.

In mancanza di una sufficiente attività d’indagine, la Direzione

concede agli uffici la possibilità di accordare il rimborso alle società

richiedenti ma con l’obbligo di vigilare sull’effettiva attività svolta onde

procedere all’eventuale recupero dell’iva, prima della scadenza della

fideiussione, qualora la suddetta prova sia raggiunta.

Anche in questo caso il problema dovrebbe aver trovato la sua

soluzione con la previsione contenuta nelle disposizioni della Finanziaria

1996, comma 45, dove viene precisato che alle società e agli enti, che non

superino il test di operatività, non è concessa la possibilità di ottenere il

rimborso dell’iva (si vedrà, nel corso del lavoro, come non ci si fermerà solo

a questa limitazione).

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Per cui all’obbligo di dichiarare un reddito minimo si aggiungerebbe

il danno derivante dall’impossibilità di richiedere il rimborso dell’eccedenza

iva a credito.

Ma in virtù di questa disposizione normativa si potrebbe superare

l’impasse di dover sindacare caso per caso, da parte dell’Amministrazione

finanziaria, l’effettività dell’attività d’impresa svolta dalle società sottoposte

a controllo.

Casomai compito degli organi di controllo sarebbe solo quello di

verificare la mancata inerenza dei costi per singole operazioni.

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 2. Evoluzione della disciplina della società di comodo

Vediamo come si è evoluta nel tempo la normativa relativa alla

disciplina delle società di comodo, a partire dalla sua introduzione conl’articolo 30 della legge del 23/12/1994, n. 724, tenendo presente che le

precisazioni e i chiarimenti forniti vanno intesi sempre come validi e

operanti, fino a quando non vengano espressamente richiamati e rielaborati,

in considerazione di modifiche apportate alla norma dal legislatore o a

seguito di nuove interpretazioni proposte dalla prassi.

Innanzitutto ciò che colpisce l’attenzione è il fatto che le disposizioni

riguardano esclusivamente le società di capitali e le società e gli enti di ognitipo, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello

Stato.

Probabilmente la ratio della scelta sta nel fatto che ai sensi dell’art.

95, comma 1 del TUIR, il legislatore ha stabilito che il reddito complessivo

delle società di capitali, da qualsivoglia fonte provenga va considerato

sempre come reddito d’impresa; per cui con la normativa in questione, come

argomentato nel capitolo precedente, si è voluto evitare un annoso e

dispendioso contraddittorio con il contribuente tacciato di essere non

operativo e quindi non esercente attività commerciale.

La norma poi prevede che vengano considerate di comodo le società

che hanno meno di cinque dipendenti e ricavi e proventi che non

raggiungano gli 800 milioni di lire. Come si vedrà nel prosieguo del lavoro

si tratta di parametri poco indicativi della condizione di non operatività.

Consideriamo ora quali sono le cause di esclusione dall’applicazione

della normativa in commento. Vengono escluse le società che non si trovino

in un normale periodo di imposta; quelle in amministrazione controllata o

straordinaria; quelle che hanno iniziato l’attività nel corso dell’esercizio;

quelle che entro il 31 maggio 1995 abbiano formalmente deliberato la

trasformazione in società commerciali di persone.

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Viene poi prevista la possibilità di scioglimento delle società non

operative esistenti alla data del 30/9/1994 con assegnazione agevolata dei

beni ai soci, persone fisiche ed enti non commerciali, anche per singoli beni,

anche se per diversa natura, purché detti scioglimenti vengano deliberati tra

il 1 gennaio 1995 e il 31 marzo 1995.

Le agevolazioni consistono nel fatto che le assegnazioni sono

assoggettate alle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura

complessiva dell’1 % del valore catastale rivalutato dei beni; non sono

considerate cessioni agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto; sono

soggette all’imposta comunale sull’incremento del valore degli immobili

ridotta al 50%; ai fini delle imposte sui redditi le plusvalenze sono soggette

ad un’ imposta sostitutiva nella misura del 8 %, il cui pagamento potrà

avvenire in 12 rate mensili a partire dalla data dell’atto di scioglimento.

Viene rimarcato al comma 3 che le plusvalenze da rivalutazioni

monetarie e quelle accantonate in sospensione d’imposta sono assoggettate,

per effetto dello scioglimento, alle imposte sul reddito.

Al comma 4 viene previsto che le assegnazioni agevolate possano

avvenire a condizione che i soci assegnatari dei beni risultino iscritti nel

libro dei soci alla data del 30/9/1994, oppure che vengano iscritti entro 30

giorni dalla data di entrata in vigore della legge in forza di titolo di

trasferimento avente data certa anteriore al 1/10/1994.

Viene poi stabilito nel comma 5 che il valore di acquisizione dei

predetti beni sarà considerato quello iscritto nell’ultimo bilancio della

società di cui è stato deliberato lo scioglimento. Questo ai fini della

tassazione in base all’articolo 81 (redditi diversi) del TUIR nel caso di

successivo trasferimento dei beni da parte dei soci assegnatari.

Nel comma 6 viene prevista l’esclusione del riporto a nuovo delle

perdite e viene stabilito per le società non operative la presunzione di un

reddito imponibile minimo da dichiarare pari a :

- 2 % del patrimonio netto, aumentato dei finanziamenti da parte di

soci e di terzi destinati a immobilizzazioni aziendali e comunque non

inferiore a 8 milioni di lire. Questo vale per tutte le tipologie di soggetti

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indicati dalla norma. Solo per le società a responsabilità limitata vengono

previsti due scaglioni, per cui se il loro patrimonio netto è inferiore a 40

milioni di lire il reddito imponibile dovrà essere almeno uguale a 4 milioni;

se il patrimonio netto è superiore a 40 milioni ma non a 150 milioni il

reddito minimo imponibile sarà uguale a 6 milioni di lire.

Di fondamentale importanza sono le parole con cui inizia il predetto

comma 6 : “Fermo l’ordinario potere di accertamento e salva, comunque, la

prova contraria”. La prima parte della frase ammonisce il contribuente sulla

possibilità di un’eventuale azione accertatrice da parte degli organi di

controllo a prescindere dall’adeguamento al reddito minimo previsto dalla

norma.

In altri termini, il reddito minimo da dichiarare non è fonte di alcuna

garanzia per il contribuente, il quale, pertanto, ben potrebbe essere oggetto

di accertamento ai sensi dell’art. 39 del Dpr 29/9/1973, n. 600.

Effettivamente, il legislatore, nel disporre “fermo l’ordinario potere

di accertamento”, riserva all’Amministrazione finanziaria l’esercizio di tutte

le facoltà e poteri riconosciuti dall’ordinamento, comprese le indagini

finanziarie.

Per quanto riguarda la seconda parte della frase in commento si

riporta integralmente il comma 7 considerata l’importanza di questa parte

della norma anche alla luce di quelli che saranno gli stravolgimenti che la

norma stessa subirà nel corso del tempo e alla cui disamina verrà dedicato

un apposito capitolo : “La prova contraria di effettiva inesistenza del reddito

determinato a norma del comma 6 non può consistere nella sola

corrispondenza alle scritture contabili o alle risultanze del bilancio del

minor reddito asserito, ma deve essere sostenuta da oggettivi riferimenti al

particolare settore in cui opera la società, ovvero a particolari o temporanee

situazioni di mercato anche territoriali, che hanno reso impossibile il

conseguimento dei ricavi ordinariamente ritraibili dal possesso delle

immobilizzazioni di cui all’articolo 2426, numeri da 1 a 4, del codice civile,

ovvero dalla tipologia dell’attività esercitata che obblighi la società a

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sostenere per più esercizi costi finalizzati alla realizzazione di beni destinati

alla cessione”.

Già dopo alcuni mesi la normativa viene rivisitata con le variazioni

apportate dal D.L. 23/2/1995, n. 41 convertito in legge 22/3/1995, n. 85.

In particolare:

- vengono puntualizzati i parametri economici di riferimento: adesso

la norma prevede che vengano considerati “..ricavi, incrementi di rimanenze

nonché proventi, esclusi quelli straordinari..” e che vengano ragguagliati

alla durata dell’esercizio se questa è inferiore o superiore a 12 mesi.

Viene poi precisato a proposito dei proventi che questi vanno

considerati solo per le società finanziarie di cui all’art. 113 del decreto

legislativo 1/9/1993, n. 385.

- la prova contraria deve ora fare riferimento a oggettive situazioni

di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento di

ricavi, proventi e incrementi di rimanenze nella misura minima richiesta.

- viene introdotta una nuova causa di esclusione relativa a quei

soggetti che sono obbligati a costituirsi sotto forma di società di capitali per

specifiche disposizioni di legge.

- il secondo comma viene completamente riscritto per puntualizzare

meglio le modalità di tassazione delle assegnazioni ai singoli soci (fra i

quali vengono ricomprese anche le società semplici), in seguito a

scioglimenti deliberati tra il 1/1/1995 e il 31/5/1995. Vengono quindi

concessi due mesi in più di tempo per deliberare lo scioglimento; la

modifica apportata dall’art. 2, D.L. 8/8/1996 porterà il termine al

31/10/1995, anche per la trasformazione;

- la disciplina delle perdite viene ritoccata: scompare la precedente

frase che escludeva il riporto a nuovo delle perdite conseguite nel periodo di

non operatività (probabilmente ritenuto un refuso, considerato che,

teoricamente, la società non operativa è obbligata a dichiarare un reddito

minimo); viene aggiunta una disposizione che permette di utilizzare le

perdite pregresse in diminuzione del reddito, per la differenza fra reddito

dichiarato e reddito minimo, nella particolare ipotesi di società che sia non

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operativa in virtù dei ricavi conseguiti ma con un reddito determinato

analiticamente superiore al minimo presunto.

Quanto asserito sopra fra parentesi non è propriamente vero. Infatti

in presenza di determinate disposizioni agevolative, quali proventi esenti,

soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o di imposta sostitutiva,

redditi esenti o agevolati, e di perdite determinate analiticamente,

tecnicamente esiste la possibilità che, nonostante un reddito minimo da

tenere sempre presente, i predetti redditi esenti permettano di dichiarare

perdite riportabili nei successivi periodi d’imposta ma naturalmente non

oltre il quinto.

- anche il comma 7 viene completamente riscritto avvertendo il

contribuente che nel caso in cui “il reddito dichiarato dalle società che si

presumono non operative risulti inferiore a quello minimo presunto, gli

uffici delle entrate possono determinare induttivamente il reddito in misura

pari a quella presunta anche mediante l’applicazione delle disposizioni di

cui all’articolo 41-bis del decreto del presidente della repubblica 29

settembre 1973, n. 600.

Tale accertamento è effettuato, a pena di nullità, previa richiesta al

contribuente, anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per

iscritto entro 60 giorni.

Nella risposta devono essere indicati i motivi posti a fondamento

della prova contraria di cui al comma 1. I motivi non addotti in risposta alla

richiesta di chiarimenti non possono essere fatti valere in sede di

impugnazione dell’atto di accertamento; di ciò l’amministrazione finanziaria

deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta”.

A questo punto, approfondiamo gli aspetti della normativa anche alla

luce delle precisazioni fornite dall’Amministrazione finanziaria tramite la

circolare del Ministero delle Finanze del 15/5/1995, n. 140.

Sappiamo che sono assoggettate alla normativa tutte le tipologie di

società di capitali ed inoltre società ed enti di ogni tipo non residenti, con

stabile organizzazione nel territorio dello Stato.

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È evidente che sono esclusi sia gli enti non commerciali che quelli

commerciali così come qualsiasi tipo di associazione riconosciuta o senza

riconoscimento.

Un’ interpretazione diversa sarebbe stata totalmente inopportuna

considerato che sarebbero state penalizzate tipologie di associazioni

pienamente legittimate ad operare nel panorama societario italiano, che di

fatto non sono destinate ad attività di lucro.

Pertanto vengono esclusi i seguenti tipi di società:

- le società cooperative e le società di mutua assicurazione e, come

detto sopra, gli enti commerciali e non commerciali residenti nel territorio

dello Stato. Ciò in quanto tali soggetti non sono espressamente richiamati

dalla norma tra i soggetti destinatari della disciplina in esame;

- le società consortili considerato che le stesse hanno lo stesso scopo

mutualistico che caratterizza le società cooperative e quelle di mutua

assicurazione;

- le società ed enti non residenti privi di stabile organizzazione nel

territorio dello Stato.

Abbiamo visto che sono inoltre esclusi :

a) soggetti cui è fatto obbligo di assumere la veste giuridica di

società di capitali in virtù della particolare attività svolta. Sono elencate

nella circolare a titolo di esempio:

- le società finanziarie, indicate nell’art. 106 del D. Lgs. N.

385/1993, che hanno l’obbligo di iscrizione in un apposito elenco generale

tenuto dal Ministero del Tesoro;

- i C.A.F., in base all’art. 78 della legge 413/1991;

- le società sportive che, dovendo stipulare contratti con atleti

professionisti, sono costituite nella forma di S.p.A. o di S.r.l. ai sensi

dell’art. 10 della legge 23/3/1981, n. 91;

- le società per azioni costituite da enti locali territoriali.

La circolare precisa che si sono volute escludere dalla disciplina in

esame tutti quei particolari tipi di società cui è preclusa la possibilità di

trasformarsi in società di persone per poterne evitare l’applicazione. Questa

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possibilità non spetta alle società che annoverino nella compagine sociale

società di capitali visto che l’impossibilità di trasformazione in società di

persone dipende non già dal tipo di attività svolta, ma da un impedimento

giurisprudenziale.

b) i soggetti che non si trovano in un periodo di normale svolgimento

dell’attività, con la precisazione che va considerato periodo di normale

svolgimento quello in cui è stata svolta l’attività prevista dall’oggetto

sociale. Questo aspetto della norma assume un’importanza fondamentale

visto che permette una automatica esclusione dalla disciplina delle società di

comodo per tante casistiche di situazioni, alcune delle quali sono

espressamente citate dalla circolare ed altre che, per analogia, magari

attraverso un’interpretazione “forzata” , vi si possono far rientrare.

I periodi di non normale attività elencati a titolo di esempio nella

circolare sono:

- quello da cui decorre la messa in liquidazione ordinaria o l’inizio

delle procedure di liquidazione coatta amministrativa o di fallimento. Non si

può considerare normale l’attività svolta in questi periodi considerato che è

finalizzata alla definizione dei rapporti intercorrenti con i terzi per poter poi

ripartire l’eventuale attivo residuo fra i soci. Naturalmente se lo

scioglimento viene revocato decade anche la possibilità di usufruire della

causa di esclusione. Peraltro il periodo che precede quello in cui ha avuto

inizio la messa in liquidazione è da considerarsi normale anche se di durata

inferiore rispetto all’ordinario. Va considerato periodo normale anche quello

che viene interrotto per cause che non interrompono lo svolgimento

effettivo dell’attività sociale, per esempio in caso di fusione, scissione o

trasformazione;

- quelli successivi al primo periodo di imposta, nel caso in cui, per

cause non dipendenti dalla volontà dell’imprenditore, non si sia potuto

avviare l’attività produttiva prevista dall’oggetto sociale, ad esempio perché

la costruzione dell’impianto da utilizzare per l’attività si protrae oltre il

primo periodo d’imposta o per mancanza delle autorizzazioni

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amministrative necessarie per lo svolgimento dell’attività, purchè le stesse

siano state tempestivamente richieste.

Rappresenta periodo di normale svolgimento dell’attività anche

quello in cui la società ha affittato o concesso in usufrutto l’unica azienda

posseduta. E ancora, anche l’attività stagionale viene considerata come

normale.

Nel corso del tempo si sono avuti vari interventi in merito a queste

problematiche.

Una situazione emblematica è stata rappresentata nella risoluzione

18/7/1996, n. 131 nella quale viene stabilito che una società che svolga

esclusivamente attività di ricerca, essendo l’esercizio di questa propedeutica

all’ottenimento dell’autorizzazione per il successivo svolgimento di attività

produttiva, viene considerata in un periodo di non normale attività e quindi

di diritto esclusa dall’applicazione della disciplina delle società non

operative. Viene altresì puntualizzato “..semprechè l’attività di ricerca non

consenta di per sé la produzione di beni e servizi e quindi la realizzazione di

proventi, indipendentemente dalla possibilità o meno di raggiungere i limiti

di ricavi e di incrementi di rimanenze previsti per essere esclusa

dall’applicazione della disciplina in esame”.

c) le società in amministrazione controllata o straordinaria,

relativamente ai periodi d’imposta interessati da tali procedure.

d) le società che si trovano nel primo periodo d’imposta (anche a

seguito di trasformazione da società di persone in società di capitali). La

formula utilizzata inizialmente nella legge 724/94 era quella di società che

hanno iniziato l’attività nel corso dell’esercizio; formula che è poi stata

superata con la legge 85/95. Con la formulazione precedente della norma

veniva consentito lo spostamento del momento iniziale al verificarsi

dell’effettivo inizio dell’attività. La modifica apportata collega l’esonero

solo al primo periodo d’imposta indipendentemente dall’inizio dell’attività,

quindi non conta la durata di tale primo periodo. A questo punto, dopo la

modifica apportata al quadro normativo, viene in aiuto sotto il profilo logico

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l’altro concetto di periodo normale di attività che sicuramente non si

realizza quando l’attività non è ancora iniziata.

e) le società che entro il 31 ottobre 1995 abbiano formalmente

deliberato lo scioglimento o la trasformazione in società commerciali di

persone.

Per quanto riguarda i presupposti di carattere oggettivo che

qualificano le società come non operative, quindi numero di dipendenti

inferiore a 5 e ammontare di ricavi, proventi e incrementi di rimanenze

complessivamente inferiori a lire 800 milioni, viene precisato che i due

requisiti devono sussistere congiuntamente nello stesso periodo d’imposta.

Per la determinazione del numero dei dipendenti occorre far

riferimento a quelli che mediamente risultano alle dipendenze della società

nel corso del periodo d’imposta. Tale dato si ottiene normalizzando il

numero degli stessi in base alle giornate retribuite e tenendo presente che le

giornate retribuibili per un lavoratore che ha prestato la propria attività per

un intero anno sono pari a 312.

Per quanto riguarda la verifica del limite di lire 800 milioni si

considerano, in particolare, per la generalità dei contribuenti:

a) per i ricavi, la somma degli importi risultanti dalle voci 1 e 5 dello

schema di conto economico previsto dall’art. 2425 del C.C. e quindi ricavi

derivanti dalle vendite, dalle prestazioni e altri ricavi, compresi i contributi

in conto esercizio;

b) per gli incrementi di rimanenze, la somma delle variazioni

positive delle voci A2, A3 e B11 e cioè variazioni delle rimanenze di

prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti; variazioni di lavori in

corso su ordinazione; variazioni delle rimanenze di materie prime,

sussidiarie, di consumo e merci. Precisa la circolare 140/E che

“l’ammontare delle predette voci va assunto quale risulta dal conto

economico anche quando il relativo importo deriva dalla somma algebrica

di sottovoci con opposto segno algebrico”. Si sommano solo i valori positivi

delle voci (A2; A3 e B11), a nulla rilevando eventuali decrementi. Quindi

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se, per esempio, poniamo A2 = 100; A3 = -10 e B11 = 40 il valore totale da

assumere quale incremento delle rimanenze sarà uguale a 140 (A2 + B11).

Viene ancora precisato che il limite di 800 milioni deve essere

ragguagliato alla durata dell’esercizio. Pertanto qualora l’esercizio abbia una

durata superiore o inferiore ai 12 mesi bisognerà ragguagliare l’ammontare

suddetto ai giorni di effettiva durata dell’esercizio stesso.

Altra precisazione riguarda le società e gli enti non residenti che

svolgono la loro attività in Italia tramite stabile organizzazione. I ricavi e gli

incrementi di rimanenze di cui tener conto sono solo quelli prodotti dalla

stabile organizzazione in Italia.

Inoltre per i soggetti indicati nell’art. 113 del D. Lgs. 1/9/1993, n.

385 i proventi da considerare sono quelli indicati alle voci C15 (proventi da

partecipazioni) e C16 (altri proventi finanziari) se il bilancio è redatto

secondo lo schema dall’art. 2425 del C.C.; alle voci 10,20,30,40 e 70 se è

invece redatto in base alle disposizioni del D. Lgs. n. 87/1992 e al

provvedimento della Banca d’Italia del 31/7/1992.

Abbiamo visto come il reddito minimo che deve essere dichiarato

dalle società di comodo deve essere pari al 2% del patrimonio netto, che va

considerato quale risulta dallo stato patrimoniale alla data di chiusura del

periodo d’imposta, senza tener conto dell’utile o della perdita dell’esercizio,

aumentato dei finanziamenti effettuati dai soci e dai terzi che siano destinati

alle immobilizzazioni aziendali.

Per le società e gli enti non residenti tenuti all’obbligo della

contabilità ordinaria, che compilano quindi il modello 760/A, il patrimonio

netto è quello che risulta dalla situazione patrimoniale relativa alle attività

svolte dalla stabile organizzazione sul territorio dello Stato.

Per gli enti non commerciali non residenti con stabile organizzazione

nel territorio dello Stato, che non compilano il modello 760/A, il reddito

minimo da dichiarare va calcolato sull’importo complessivo delle

immobilizzazioni aziendali relative alla stabile organizzazione. A tal fine

deve essere allegata alla dichiarazione un apposito prospetto nel quale

evidenziare le immobilizzazioni afferenti alla stabile organizzazione stessa.

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I finanziamenti dei soci e dei terzi si considerano destinati alle

immobilizzazioni aziendali nel limite del loro ammontare totale

corrispondente alla differenza fra il valore complessivo delle

immobilizzazioni stesse iscritto nell’attivo e l’ammontare del patrimonio

netto sopra indicato.

Per chiarire quanto appena detto si fa presente, ad esempio, che se il

valore delle immobilizzazioni aziendali iscritto nell’attivo è pari a 200, il

patrimonio netto è pari a 80 e i finanziamenti di soci e di terzi sono 160,

l’ammontare di questi ultimi da prendere in considerazione ai fini del

calcolo sarà pari a 120.

Nessun importo verrà preso in considerazione nel caso in cui il

patrimonio netto risulti pari o superiore a 200. Le immobilizzazioni

(materiali, immateriali e finanziarie) vanno assunte nell’importo risultante

dall’aggregato B dello stato patrimoniale, quindi, al netto di eventuali

ammortamenti e svalutazioni operati.

Ai fini del calcolo relativo ai minimali previsti dalla norma (8

milioni per tutte le tipologie di soggetti destinatari della normativa, che

abbiano un patrimonio netto superiore a 150 milioni; 6 milioni per le società

a responsabilità limitata il cui patrimonio netto risulta fra i 40 e i 150

milioni; 4 milioni per le società a responsabilità limitata con un patrimonio

netto inferiore a 40 milioni) si precisa che in questo caso non vanno

considerati i finanziamenti sopra citati in virtù del fatto che la norma stessa

non li contempla.

Le ipotesi di dichiarazione di un reddito minimo mal si concilia con

situazioni giuridiche previste da leggi agevolative che siano già consolidate

in capo alla società. Dalla circolare n. 140/95 : “La disciplina delle società

di comodo non implica il venire meno delle agevolazioni fiscali previste da

specifiche disposizioni di legge”. 

Il confronto istituito tra reddito dichiarato e reddito minimo va

effettuato aggiungendo al primo tutti gli importi non assoggettati ad

imposizione per effetto di specifiche disposizioni agevolative che spettano

al contribuente e da lui richieste in dichiarazione. A dire il vero non è molto

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chiaro, e non è mai stato oggetto di precisazioni, il comportamento da

seguire quando il reddito è completamente esente ai fini IRPEG.

“Se l’ipotesi si accomuna a quella dei redditi non assoggettati si può

arrivare alla seguente situazione, nell’ipotesi di reddito minimo pari a L. 25

milioni:

- non dovrà adeguarsi la società che ha conseguito almeno il reddito

di L. 25 milioni totalmente esente;

- dovrà invece adeguarsi la società che ha conseguito il reddito di L.

12 milioni, dovendo integrare il reddito per 13 milioni.

È da ritenersi che la presenza di reddito esente non debba

comportare alcuna integrazione3”. 

Continua la circolare: “Per tanto, i soggetti interessati dovranno

procedere al raffronto tra gli importi risultanti nelle seguenti lettere a) e b) :

a) reddito imponibile minimo determinato nel modo

precedentemente illustrato;

b) reddito o perdita che, applicando le ordinarie regole dello stesso,

si dovrebbe indicare nel rigo 16 del Mod. 760/M o nel rigo 32 del Mod.

760/B della dichiarazione relativa ai redditi del 1994, aumentato degli

importi non assoggettati ad imposizione per effetto di specifiche

disposizioni agevolative quali ad esempio:

- proventi esenti, soggetti alla ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o

ad imposta sostitutiva;

- 60 % degli utili distribuiti da società collegate ai sensi dell’articolo

2359 del C.C., non residenti nel territorio dello Stato;

- 95 % degli utili distribuiti da società “figlie” residenti in paesi della

U.E.;

- reddito esente ai fini IRPEG;

- reddito agevolato ai sensi dell’art. 3 del D.L. 10 giugno 1994, n.

357;

3 Oneto Carlo, (1997), Le società di comodo, Giuffrè Editore, Milano.

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- reddito agevolato ai sensi dell’art. 12 del D.L. 11 luglio 1992, n.

333.”

Tali valori sono quindi parificati al reddito dichiarato; solo se tra i

due termini posti a raffronto il reddito minimo presunto risulta superiore a

quello determinato analiticamente si rende necessario procedere per

differenza alla sua integrazione. Questa impostazione permette di “salvare”

le agevolazioni che concorrono alla determinazione del reddito minimo.

Nella circolare 140/E la situazione viene così esemplificata:

“Conseguentemente, in presenza di importi non assoggettati a

tassazione, le società non operative, pur adeguandosi al reddito minimo

potrebbero legittimamente esporre in dichiarazione un reddito imponibile

inferiore al predetto minimo ed eventualmente anche una perdita riportabile

nei successivi periodi di imposta ma non oltre il quinto. A titolo di esempio

si prospettano le seguenti ipotesi:

 Esempio n. 1

•  Reddito minimo L. 300 milioni 

•  Reddito del periodo di imposta

determinato “analiticamente” L. 150 milioni

•  Reddito agevolato per nuovi investi-

menti (art. 3 del D.L. n. 357/94). L. 60 milioni

•  Reddito “analiticamente” integrato

(150 + 60) L. 210 milioni

•  Integrazione da effettuare (300 – 210) L. 90 milioni

•  Reddito minimo da dichiarare

(150 + 90) L. 240 milioni

 Esempio n. 2

•  Reddito minimo L. 8 milioni

•  Perdita del periodo d’imposta

determinata “analiticamente” L. - 150 milioni

•  Reddito agevolato per nuovi investi-

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menti (art. 3 del D.L. n. 357/94) L. 100 milioni

•  Perdita “analitica” integrata

( -150 + 100) L. -50 milioni

• Integrazione da effettuare [8 - (-50)] L. 58 milioni

•  Perdita da dichiarare (riportabile nei

successivi esercizi ma non oltre il

quinto) L. - 92 milioni”.

A titolo esemplificativo, a livello di redazione della dichiarazione,

riportiamo le seguenti ipotesi:

1) reddito rigo M11 L. 2.000.000

Si è giunti a questo valore indicando al rigo A/87 L. 21.000.000 per

agevolazioni ex - D.L. 357/94.

Dichiarato 2.000.000 Reddito minimo 9.000.000

Agev. D.L. 357/94 21.000.000

23.000.000

In questo caso il valore del reddito determinato analiticamente

sommato all’importo dell’agevolazione è superiore al valore del reddito

minimo presunto. Non bisognerà effettuare alcuna integrazione e il valore

da considerare quale imponibile sarà quello indicato al rigo M11 (L. 2

milioni).

2) Perdita rigo M12 L. -20.000.000

A tale valore si è pervenuti sempre considerando l’agevolazione di

cui sopra per L. 21.000.000.

Dichiarato -20.000.000 Reddito minimo 9.000.000

Agev. D.L. 357/94 +21.000.000

+ 1.000.000

Poiché il valore della prima colonna è inferiore rispetto a quello della

seconda, sarà necessario integrare il reddito da dichiarare adeguandolo a

quello minimo (9.000.000 – 1.000.000 = 8.000.000). Al rigo M16 andrà,

quindi, indicata la perdita di L. 12.000.000 (-20.000.000 + l’integrazione di

8.000.000).

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Inoltre va precisato che nei periodi in cui la società non operativa si

adegua al reddito minimo, il risultato che rileva a livello civilistico non

assume alcuna valenza da un punto di vista fiscale. Per cui una eventuale

perdita civilistica non verrà annotata sul modello 760 e non potrà essere

utilizzata in futuro per compensare utili.

Il reddito imponibile minimo rileva solo ai fini Irpeg e non anche per

l’Ilor.

Quest’ultima verrà quindi calcolata sull’imponibile determinato

ordinariamente apportando all’utile civilistico le variazioni tipiche previste

dalla normativa specifica ai fini Irpeg, senza tenere in alcun conto

dell’eventuale adeguamento al reddito minimo.

Le perdite possono essere portate in compensazione soltanto per la

parte di reddito eccedente quello minimo da dichiarare. L’obiettivo risulta

finalizzato solo alla dichiarazione di tale misura minima; è consentito,

pertanto, compensare le perdite fino alla dichiarazione di tale reddito

minimo.

Per le perdite relative agli anni pregressi la circolare n. 140/E così

esemplifica: “In base all’ultimo periodo del comma 6 dell’art. 30, la società

non operativa che ha conseguito un reddito superiore a quello minimo potrà

computare in diminuzione dall’eccedenza l’ammontare delle perdite di

esercizi precedenti fino a concorrenza dell’eccedenza stessa. Pertanto, ad

esempio, nel seguente caso si avrà:

 Esempio

•  Reddito minimo L. 300 milioni

•  Reddito del periodo d’imposta determinato

“analiticamente” L. 350 milioni

•  Perdite di esercizi precedenti L. 90 milioni

•  Eccedenza (350 – 300) L. 50 milioni

•  Importo da portare in diminuzione dalla

eccedenza L. 50 milioni

•  Reddito da dichiarare L. 300 milioni

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•  Perdite riportabili negli esercizi successivi L. 40 milioni

Le perdite degli esercizi precedenti che la società non ha potuto

portare in diminuzione dal reddito complessivo potranno, ricorrendone ipresupposti, essere utilizzate nei successivi periodi d’imposta rispettando il

limite temporale dei cinque periodi d’imposta successivi a quello in cui si è

determinata la perdita, così come previsto dal TUIR negli articoli 8, per gli

enti non commerciali non residenti, e 102 per gli altri soggetti.

Nel caso in cui l’adeguamento al reddito minimo sia avvenuto

tenendo conto degli importi non assoggettati a tassazione per effetto di

specifiche disposizioni agevolative, qualora vi siano perdite degli esercizi

precedenti, le stesse potranno essere utilizzate solo per la parte che consente

di rispettare il reddito minimo determinato tenendo conto dei predetti

ammontari.

Pertanto, ad esempio, si avrà:

 Esempio

•  Reddito minimo L. 300 milioni

•  Reddito del periodo di imposta determinato

“analiticamente” L. 350 milioni

•  Reddito agevolato per nuovi investimenti

(art. 3 D.L. n. 357/94) L. 60 milioni

•  Reddito “analitico” integrato (350 + 60). L. 410 milioni

•  Differenza (410 – 300) L. 110 milioni

•  Perdite di esercizi precedenti L. 150 milioni

•  Reddito da dichiarare (reddito meno perdite

anni precedenti nel limite della differenza) L. 240 milioni

•  Perdite riportabili negli esercizi successivi L. 40 milioni”.

Arriviamo al 1996 con le sostanziali modifiche apportate dall’art. 3

della Legge 23/12/1996, n. 662, commi dal 37 al 45, modifiche che , citiamo

dalla circolare del Ministero delle Finanze del 26/2/1997, n. 48, “sono

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rivolte, come chiarisce la relazione ministeriale di accompagnamento alla

citata legge n. 662 del 1996, ad introdurre correttivi alla previgente

disciplina al fine di superare le critiche addotte ai criteri di individuazione

delle società non operative e, al tempo stesso, permettere di individuare una

struttura che possa definire meglio lo stato di non operatività”.

In effetti, con i cambiamenti di cui sopra, si fa discendere adesso la

capacità contributiva di un soggetto correlandola ad aspetti patrimoniali

molto più pregnanti, rispetto ad una semplice aliquota proporzionale

applicata al patrimonio netto della società, come avveniva in precedenza.

Procediamo con ordine.

Una prima grossa novità è rappresentata dalla estensione della

normativa alle società di persone.

Di conseguenza anche le società in nome collettivo e le società in

accomandita semplice e quelle ad esse equiparate ai sensi dell’art. 5 del

TUIR (società di armamento e società di fatto) devono essere assoggettate

alle norme che regolano la disciplina delle società di comodo.

Altra conseguenza è la ovvia scomparsa della possibilità di

fuoriuscita agevolata tramite l’istituto della trasformazione in società di

persone.

Viene, invece, riproposta, ai sensi dell’art. 3, comma 38, della citata

legge n. 662 del 1996, la possibilità di fuoriuscita dal regime per le società

non operative tramite l’istituto dello scioglimento agevolato.

Scompare poi la discriminazione a proposito dei proventi, esclusi

quelli straordinari, che adesso vanno considerati, ai fini del raffronto per la

determinazione della operatività della società, per tutte le tipologie delle

stesse. La vecchia normativa prevedeva che i proventi fossero considerati

solo per le società finanziare indicate nell’art. 113 del D. Lgs. 1/9/1993, n.

385.

Vengono rivoluzionati i criteri per la determinazione dei requisiti

oggettivi in base ai quali stabilire se una società è di comodo o meno e, per

logica conseguenza, anche quelli per la determinazione del reddito minimo

presunto.

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Aumentano le cause di esclusione, segnatamente non si applicano le

disposizioni della normativa ad altre due casistiche:

- società ed enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati

italiani;

- società esercenti pubblici servizi di trasporto.

Per le prime, nella circolare del 15/5/1997, n. 137, verrà chiarito che

la condizione della negoziazione nei mercati regolamentati italiani si

considera soddisfatta se entro la chiusura del periodo d’imposta sia

intervenuta la delibera con la quale la Consob disponga l’ammissione dei

titoli stessi nei mercati regolamentati nazionali.

L’esclusione delle seconde si giustifica per le tariffe da “pubblico

servizio” che sono costrette ad applicare, tali da non permettere loro il

superamento dei test di operatività.

Altra modifica di importanza fondamentale alla normativa in esame

e’ quella introdotta dal comma 45 dell’art. 3 della legge 662/1996 a

proposito dell’inammissibilità del rimborso dell’iva a credito risultante dalla

dichiarazione annuale per i periodi in cui la società non risulta operativa.

Approfondiamo i punti di maggior pregnanza aiutandoci con le

spiegazioni fornite dalla circolare 48/1997 sopra citata.

Per quanto riguarda l’estensione della normativa alle società di

persone c’è poco da dire, se non che aveva poco senso permettere a chi

volesse fare i propri “comodi” continuare a farlo trasformandosi in società

personali.

Non si può non sposare la scelta del legislatore nel modificare i

requisiti oggettivi per determinare la non operatività. Quelli precedenti

erano assolutamente inadeguati.

Vengono ora considerate non operative le società e gli enti che

hanno conseguito un ammontare complessivo di ricavi , incrementi di

rimanenze e proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti, ove prescritto,

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dal conto economico4, inferiore alla somma degli importi che risultano

applicando:

a)  l’1 per cento al valore dei beni indicati nell’art. 53, comma 1, lettera

c) del TUIR, anche se costituiscono immobilizzazioni finanziarie,

aumentato del valore dei crediti;

b)  il 4 per cento al valore delle immobilizzazioni costituite da beni

immobili e dai beni indicati nell’art. 8-bis, comma 1, lettera a) del

D.P.R. 26/10/1972, n. 633, anche in locazione finanziaria;

c)  il 15 per cento al valore delle altre immobilizzazioni, anche in

locazione finanziaria.

Va rilevato che, come da Nota 17/7/1997, n. 984/E, non vanno

computati, ai fini della determinazione dei ricavi effettivi, quelli dichiarati

in adeguamento ai parametri o agli studi di settore.

Naturalmente, visto che le società di persone possono non essere

tenute alla redazione del bilancio, i valori dei ricavi, degli incrementi di

rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, va desunto dalle

scritture contabili previste dall’art. 18 del DPR 600/1973.

Vediamo un po’ più nel dettaglio come devono essere individuati i

beni di cui sopra.

Innanzitutto, come si rileva anche dalla circolare citata, bisogna

considerare che il legislatore ha inteso operare una prima distinzione a

livello civilistico; ci riferiamo alle immobilizzazioni che non hanno una

definizione specifica a livello fiscale, ma che l’hanno nell’art. 2424-bis del

codice civile, comma 1, dove viene precisato che “ gli elementi patrimoniali

destinati ad essere utilizzati durevolmente devono essere iscritti tra le

immobilizzazioni”.

La classificazione si fonda quindi sull’aspetto sostanziale dei beni,

ma anche sulla loro esposizione formale all’interno del bilancio come

indicato nel codice civile, all’articolo 2424. Illustriamo l’elencazione

4 Dato il riferimento al conto economico, non assumono rilevanza le variazioni apportate insede di compilazione della dichiarazione dei redditi.

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sommaria delle voci che ci interessano per aiutarci nella trattazione della

materia:

Art. 2424 – Contenuto dello Stato Patrimoniale

B) IMMOBILIZZAZIONI

I Immateriali

II Materiali

III Finanziarie

C) ATTIVO CIRCOLANTE

I Rimanenze

II Crediti

III Attività finanziarie

IV Disponibilità liquide

Va notato, innanzitutto, che gli immobili vanno considerati solo se

iscritti nella voce B II) al numero 1 (terreni e fabbricati), e quindi non

anche gli “immobili-merce”. Accanto agli immobili vanno indicati anche i

beni indicati nell’art. 8-bis, comma 1, lett. a) del Dpr 633/72. Si tratta delle

navi destinate all’esercizio di attività commerciali o della pesca o ad

operazioni di salvataggio o di assistenza in mare, ovvero alla demolizione,

escluse le unità da diporto di cui alla legge 11/2/1971, n. 50, che, invece,

vanno incluse fra le altre immobilizzazioni.

Avuto riguardo al tenore letterale della norma, questi beni rilevano

solo se di proprietà o in locazione finanziaria, e non anche quelli in

locazione, comodato o presi a noleggio.

Le altre immobilizzazioni rientrano in tutte le residuali voci della

categoria B [B I) Immateriali; B II) Materiali; B III) Finanziarie]. Quindi gli

impianti e i macchinari (B, II, 2), nonché le attrezzature industriali e

commerciali (B, II, 3) e gli altri beni di cui alla voce B, II, 4, diversi dalle

navi.

Si ribadisce che le attività finanziarie, diverse da quelle indicate

nell’art. 53 comma 1, lettera c), del TUIR, sono da considerare, ai fini

d’esame, soltanto se costituiscono immobilizzazioni.

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Un ulteriore precisazione va fatta per le immobilizzazioni

immateriali; infatti quelle costituenti veri e propri beni immateriali vanno

assunte al costo storico, a differenza delle cosiddette spese relative a più

esercizi (costi di impianto e di ampliamento, costi di ricerca e di sviluppo e

spese di pubblicità) il cui ammontare va assunto come risultante da bilancio

(cioè al netto degli importi già dedotti in precedenti esercizi).

Vanno considerati tra le altre immobilizzazioni anche i beni

strumentali inferiori al milione.

Sia per le immobilizzazioni materiali che per quelle immateriali

vanno comunque escluse quelle “in corso”, in quanto non produttive di

ricavi. Per analogia vanno esclusi anche “gli acconti”.

Anche se nella circolare non viene espressamente ricordato, si ritiene

che anche per questa categoria di beni non rilevano i beni utilizzati in

locazione, in comodato o presi a noleggio.

Per quanto riguarda i beni indicati all’articolo 53 primo comma,

lettera c), del TUIR vanno considerati:

- azioni o quote di partecipazione nelle società di capitali, comprese

le società cooperative e quelle di mutua assicurazione, residenti nel territorio

dello Stato;

- quote di enti pubblici e privati, diversi dalle società, residenti nel

territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale

l’esercizio di attività commerciali;

- azioni o quote in società ed enti di ogni tipo con o senza personalità

giuridica, non residenti nel territorio dello Stato;

- obbligazioni e altri titoli in serie o di massa.

La norma precisa che tali beni devono essere considerati sia che

vengano iscritti fra le immobilizzazioni, sia che vengano iscritti nell’attivo

circolante.

In proposito, per quanto riguarda i soggetti tenuti alla redazione del

bilancio secondo il D. Lgs. N. 127 del 1991, tali beni sono allocati, come

immobilizzazioni finanziarie, nei seguenti punti dello schema di stato

patrimoniale di cui all’art. 2424 del codice civile:

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- B, III, 1) alla voce partecipazioni;

- B, III, 3) alla voce altri titoli;

- B, III, 4) alla voce azioni proprie.

Quest’ultima voce, però, pur essendo richiamata dall’art. 53 del

TUIR, non rileva ai fini in esame non essendo le azioni proprie idonee a

produrre proventi. Esse, infatti, non danno diritto all’utile che è attribuibile

proporzionalmente alle altre tipologie di azioni, ai sensi dell’art. 2357-ter

del codice civile.

Inoltre, i già citati beni possono essere allocati, come attivo

circolante, nei seguenti punti del predetto schema di stato patrimoniale:

- C, III, 1), 2), 3) e 4) - partecipazioni;

- C, III, 5) - azioni proprie;

- C, III, 6) - altri titoli.

Va da sé che, anche in questo caso, le azioni proprie non rilevano per

gli stessi motivi precedentemente indicati.

Per quanto riguarda le quote di partecipazione in società di persone

va ricordato che esse, non essendo comprese fra i beni indicati nell’articolo

53, comma 1, lettera c) del TUIR, sono rilevanti ai fini della disciplina in

esame come altre immobilizzazioni, su cui si applica la percentuale del

15%, semprechè costituiscano immobilizzazioni finanziarie.

Si precisa inoltre che vanno considerati soltanto i crediti da

finanziamento, suscettibili, quindi, di produrre ricavi, con esclusione dei

crediti commerciali. Alla stessa maniera si ritiene che non debbano essere

inclusi i depositi bancari in quanto gli stessi costituiscono disponibilità

liquide e quindi non rientrano nelle voci indicate dalla norma in esame.

Queste precisazioni, che ritroviamo nella circolare già citata, sono

importanti perché permettono di stabilire un criterio di fondo che dovrebbe

essere sempre rispettato: quello per cui, se un elemento è compreso nei

parametri di riferimento, i correlativi ricavi vanno compresi nei ricavi di

confronto.

Ai fini della disciplina in esame non si tiene conto dei crediti per i

soggetti non tenuti ai fini fiscali alla redazione del bilancio. Per essi, infatti,

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i valori dei beni da considerare, come già accennato, va desunto dalle

scritture contabili previste dall’articolo 18 del D.P.R., n. 600/1973, dalle

quali non è possibile rilevare i predetti crediti.

La norma, relativamente agli immobili e alle immobilizzazioni che

non compaiono all’attivo dello stato patrimoniale perché assunti in leasing,

evidenzia che il valore che si assegna a tali beni è regolato dal comma 2

dell’articolo 52 per cui si assume come costo :

a)  quello sostenuto dall’impresa concedente, come documentato dal

contratto di leasing, laddove costituisce la base per la

determinazione dei canoni del prezzo di riscatto (cosiddetto valore

contrattuale dei beni);

b)  in mancanza di documentazione va assunto il totale corrispondente

ai canoni di locazione più il prezzo del riscatto risultante dal

contratto.

Naturalmente la soluzione b) è sicuramente penalizzante poiché nel

costo indicato vengono compresi anche gli interessi sostenuti.

Per i beni in leasing per i quali sia stata esercitata l’opzione di

riscatto, la circolare n. 48/1997, prevede che vada assunto quale valore di

riferimento il prezzo del riscatto stesso; soluzione contro logica e che verrà

disattesa con indicazioni successive.

Gli immobili e le immobilizzazioni di proprietà vengono assunti al

costo come determinato all’art. 76, comma 1 del Tuir.

Il valore dei beni, per espressa previsione della norma, va assunto in

base alle risultanze medie dell’esercizio e dei due precedenti. In sostanza si

è voluto evitare che fosse solo il valore desunto dall’esercizio in corso a

determinare l’ammontare dei valori teorici derivanti dagli elementi

patrimoniali suddetti.

Vediamo cosa si è voluto intendere per risultanze medie. In buona

sostanza bisogna considerare i giorni di mantenimento dei beni nei vari

esercizi quindi tenendo conto di eventuali acquisizioni e alienazioni; i valori

da considerare vanno dunque ragguagliati al periodo di possesso in ogni

esercizio considerato.

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Seguendo le indicazioni della circolare, i risultati ottenuti anno per

anno vanno divisi per tre, ottenendo per ciascun gruppo di beni posseduti

nei tre esercizi il valore medio.

Ad ognuno dei detti valori medi devono essere applicate le

percentuali rispettivamente dell’ 1, del 4 e del 15 (quindi per chiarezza l’ 1

% sul valore dei beni indicati nell’art. 53, comma 1, lettera c) del TUIR,

aumentato del valore dei crediti da finanziamento; il 4 % sul valore di beni

immobili e navi; il 15 % sul valore delle altre immobilizzazioni); sommando

i prodotti così ottenuti si ottiene il valore di riferimento, il valore minimo

teorico cui va raffrontato l’ammontare complessivo dei ricavi,

dell’incremento delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari.

Anche detto ammontare va calcolato in base alle risultanze medie

dell’esercizio e dei due precedenti. Naturalmente se il valore minimo teorico

di cui sopra è superiore a quello effettivo appena determinato, la società sarà

considerata non operativa.

In effetti il presupposto che viene disatteso nell’ipotesi appena fatta è

quello che “..con utilizzo appropriato dei beni sociali i ricavi devono coprire

almeno l’ammortamento del costo dei beni e delle spese generali”.5 

Immediata conseguenza di questo fatto sarà la necessità di determinare il

reddito imponibile minimo.

Quest’ultimo dev’essere non inferiore all’ammontare della somma

degli importi derivanti dall’applicazione, ai valori dei beni indicati alle

lettere a), b) e c) di cui al comma 1 dell’art. 30 della legge 724/24, posseduti

nell’esercizio e solo nell’esercizio interessato dalla verifica, delle

percentuali rispettivamente dello 0,75, del 3 e del 12.

Il reddito minimo presunto così determinato andrà poi confrontato

col reddito effettivo, che verrà adeguato secondo le modalità già analizzate

nelle pagine precedenti, tenendo, quindi, presente che anche la novellata

disciplina delle società di comodo non implica il venir meno delle

agevolazioni fiscali previste da specifiche disposizioni di legge.

5 Circolare del 26 febbraio 1997, n. 48, pag. 1

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Di particolare importanza è la situazione delle perdite degli esercizi

pregressi. Se nulla muta per le società di capitali rispetto alla previgente

disciplina, la situazione cambia per le società di persone che imputano i loro

redditi per trasparenza ai propri soci.

Alla luce di questa novità si rende necessario stabilire quale

dev’essere il criterio che devono adottare i soci medesimi ai fini della

deduzione delle perdite di esercizi precedenti. La disciplina, come precisato

nella circolare, diventa estremamente penalizzante per i soci delle società di

persone, visto che non si fa distinzione alcuna nell’ambito delle perdite

sostenute.

In buona sostanza, può accadere che il socio vanti perdite anche

derivanti da attività personale o da partecipazioni in altre società, che siano

però operative.

Tali perdite non sono distinguibili rispetto a quelle derivanti dalla

partecipazione a società non operative, come si evince dall’apposito

prospetto delle perdite della dichiarazione dei redditi personale.

Di conseguenza le perdite di esercizi precedenti, risultanti dal

relativo prospetto, possono essere portate in diminuzione soltanto per la

parte eccedente il totale delle quote di reddito minimo presunto determinate

come già indicato precedentemente, al netto delle eventuali agevolazioni o

esenzioni spettanti alla medesima società non operativa.

La circolare non ne parla affatto, ma la normativa comincia ad

“aggredire” le società di comodo anche dal lato dell’Iva.

In effetti il comma 45, l’ultimo dell’art. 3 della legge 23/12/1996, n.

662 che va a ritoccare la disciplina delle società di comodo prevede che:

“Per le società e gli enti non operativi di cui al comma 37, non è ammessa al

rimborso l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai

fini dell’imposta sul valore aggiunto per l’anno che comprende l’esercizio, o

la maggior parte dell’esercizio, per il quale si verificano le condizioni ivi

previste”.

Del resto è singolare il fatto che, viste le considerazioni fatte in

premessa, il legislatore abbia voluto colpire le società di comodo sul

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versante imposte indirette con tanto ritardo rispetto a quanto non abbia fatto

rispetto alle dirette.

Facciamo ora un bel salto in avanti per arrivare, dopo un decennio, al

4 luglio 2006 data di approvazione del D.L. n. 223 6.

Nel periodo intercorrente fra il 1996 e il 2006 si è verificato un solo

cambiamento alla normativa in commento: il D.L. 11/3/1997, n. 50, all’art.

4 introduce il numero 6-bis) al comma 1 della legge 724/1994 con il quale il

legislatore amplia le cause di esclusione alle società con un numero di soci

non inferiore a 100.

In questo caso, la scelta del legislatore di escludere a priori tali

soggetti dall’ambito di applicazione della disciplina recata dalla suddetta

norma pare riconducibile al fatto che, in presenza di compagini sociali così

fortemente articolate, è piuttosto arduo ipotizzare che la loro costituzione

possa essere ascritta alla volontà di una più comoda gestione fiscale,

nell’interesse dei soci, dei beni di proprietà dei medesimi.

In questo periodo si inserisce la sentenza della Corte di Cassazione

del 17/6/2005, n. 13079, che provvede a fare definitivamente luce sulla

quantificazione del credito iva, derivante da dichiarazione annuale, non

rimborsabile in presenza della condizione di non operatività.

La vicenda in argomento può essere presa a emblema delle difficoltà

che si possono incontrare nell’interpretare ed applicare le disposizioni

normative in ambito tributario.

Si tratta del caso di una società non operativa, cui l’Ufficio Iva di

Roma aveva negato il rimborso del credito iva maturato in anni anteriori

all’entrata in vigore della normativa sulle società di comodo. La

commissione di I° grado aveva accolto il ricorso della società. Quella

regionale aveva rigettato il ricorso dell’Ufficio Iva. Infine, la Corte di

Cassazione ha ribaltato i precedenti giudizi dando ragione all’Ufficio Iva

ricorrente, considerato il tenore letterale della norma.

6 Cosiddetto Decreto “Bersani”, convertito, con modificazioni, nella Legge 11/8/2006, n.248.

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Dunque, dicevamo, dopo tanto tempo il legislatore si accorge della

necessità di rimettere mano a questa normativa, per certi aspetti, controversa

e lo fa con mano piuttosto pesante.

Anche in questa occasione, la circolare 4/8/2006, n. 28 ribadisce

“Come si evince dalla relazione di accompagnamento, le modifiche

apportate dalla norma in commento hanno la finalità di rendere più efficaci

le disposizioni che contrastano l’attività delle società non operative“.

Le modifiche apportate si possono così riassumere:

- si incrementano le percentuali da applicare ai beni patrimoniali per

stabilire se una società possa rientrare nel novero di quelle non operative;

- si inasprisce la tassazione poiché aumentano le percentuali da

applicare ai valori dell’attivo per determinare l’entità del reddito minimo da

dichiararsi obbligatoriamente;

- il credito IVA derivante dalla dichiarazione annuale relativa a un

periodo di non operatività, oltre che non essere ammesso al rimborso, come

già previsto dalle modifiche apportate nel 1996, non può più essere

utilizzata in compensazione ovvero costituire oggetto di cessione;

- lo stesso credito, in assenza di operazioni attive rilevanti ai fini

IVA superiori ai valori limite, per tre anni consecutivi, non può più essere

riportato in avanti;

- viene soppressa la “generica” causa di esclusione dall’applicazione

della disciplina delle società di comodo per quei soggetti che non si trovano

in un periodo di normale svolgimento dell’attività:

- viene introdotta la possibilità di provare che la società è operativa e

che non ha potuto raggiungere il volume di ricavi, nonché di reddito,

minimo a causa di fatti straordinari. La dimostrazione deve essere fornita

mediante la procedura di interpello di cui all’art. 37-bis, comma 8, del

D.P.R. 600/1973.

Di conseguenza, non è più concesso “autocertificare” la propria

operatività, come era stato finora consentito dalla circolare del 21/9/1999, n.

189, in seguito alla approvazione della legge “Bassanini”.

Nell’approfondire le novità seguiamo il dettato della norma.

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Innanzitutto diventa più difficile dimostrare la propria operatività

considerato l’aumento delle percentuali dei parametri di riferimento.

Infatti la percentuale da applicare ai beni previsti dalla lettera a) del

primo comma del provvedimento si innalza del doppio, passando dall’uno al

due per cento.

Non di poco conto è anche l’aumento subito dal valore percentuale

dei beni di cui alla lettera b), vale a dire terreni, fabbricati e navi, escluse

quelle da diporto, che passa dal 4 al 6, con un incremento del 50 per cento

rispetto al passato. Quest’ultimo aumento ha una valenza superiore rispetto

al primo sopra citato perché è noto che la maggior parte delle società in

odore di non operatività possiede ingenti patrimoni fondiari.

Anche il ritocco subito dai valori delle aliquote per la

determinazione del reddito minimo è di un certo effetto e in termini

percentuali anche più elevato rispetto a quello relativo ai ricavi di cui sopra.

Anche in questo caso, per i beni di cui alla lettera a), registriamo un

aumento in termini percentuali di 100 punti, passando dallo 0.75 all’1,5 per

cento; per i beni della lettera b) l’aumento è del 58 per cento. Si va infatti

dalla precedente aliquota del 3 a quella del 4,75 per cento.

Altra tegola sulla testa del contribuente: l’art. 36 al comma 34 del

D.L. 233/2006 obbliga le società di capitali al versamento dell’acconto per il

periodo d’imposta in corso al 4 luglio 2006, tenendo conto delle nuove

disposizioni di legge. Sono interessate dall’obbligo del ricalcolo

dell’acconto Ires le società per le quali, in via ordinaria, i termini per il

versamento della prima rata erano già scaduti al 4/7/2006. Ciò potrebbe

determinare l’obbligo per dette società di rideterminare l’acconto Ires sulla

base di un reddito figurativo, applicando i nuovi coefficienti di calcolo al

fine di verificarne l’operatività. Non è chiaro se i nuovi coefficienti per il

calcolo dei redditi presunti debbano essere applicati a tutti e tre i periodi

d’imposta di riferimento oppure soltanto sull’ultimo.

Anche sul versante delle imposte indirette le novità sono sostanziali

e certamente non indolori.

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Abbiamo già avuto modo di osservare come l’art. 3, comma 45, della

legge 23/12/1996, n. 662 (Finanziaria 1997) aveva stabilito che per le

società non operative non era ammessa al rimborso l’eccedenza di credito

risultante dalla dichiarazione presentata ai fini Iva per l’anno che comprende

l’esercizio per il quale si verifica la non operatività della società.

Con le modifiche apportate dal D.L. 223/2006 la disciplina ai fini Iva

diventa ancora più stringente.

Innanzitutto, in caso di non operatività, si perdono sia la possibilità

di compensare l’eccedenza di credito con altri tributi, ai sensi dell’art. 17 del

D. Lgs. n. 241/1997, sia di cederla a terzi ai sensi del D.L. n. 70 del

14/3/1988; pertanto il credito Iva potrà essere utilizzato solo nell’ambito

delle singole liquidazioni d’imposta, mensili o trimestrali. Inoltre, è stabilito

che, nell’ipotesi in cui la società risulti essere di comodo per tre esercizi

consecutivi, il credito Iva non sia più riportabile ai periodi successivi e sia,

quindi, definitivamente perduto.

Si osservi che, mentre i limiti posti dalla prima parte del comma 4 al

rimborso, alla cessione o all’utilizzo in compensazione del credito scattano

quando la società risulti essere non operativa ai sensi del comma 1, vale a

dire quando la sommatoria dei ricavi, incrementi di rimanenze e altri

proventi, esclusi gli straordinari, non raggiunga il minimo presunto, la

perdita definitiva del credito, stabilita dal secondo periodo del comma 4, si

verifica se, per tre periodi d’imposta consecutivi, la società non effettui

operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto in misura non

inferiore al minimo di cui al comma 1.

In questa seconda ipotesi, dunque, occorre fare riferimento alle

operazioni rilevanti ai fini Iva, che non necessariamente coincidono con i

ricavi, e, tanto meno con gli incrementi delle rimanenze.

E’ quindi possibile ipotizzare, dalla lettera della norma, che si possa

verificare il caso di una società, che pur essendo operativa agli effetti delle

imposte dirette, paradossalmente non lo sia anche ai fini del riporto del

credito Iva.

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Il comma 16 dell’art. 35 del citato D.L. prevede che le predette

disposizioni si applicano a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data

di entrata in vigore del decreto stesso.

A distanza di pochi mesi il legislatore, non soddisfatto, rimette mano

alla normativa, con conseguenze di un certo rilievo.

La legge 27/12/2006, n. 296 all’art. 1, comma 109 è nuovamente

intervenuta, apportando ulteriori modifiche all’art. 30 della L. 724/1994,

sempre con effetto dall’esercizio in corso al 4 luglio 2006 e precisamente:

- ha espressamente eliminato la facoltà del contribuente di non

allinearsi di sua iniziativa al regime delle società di comodo, riservandosi di

fornire la “prova contraria” all’Agenzia delle Entrate in un secondo

momento;

- ha ridotto i coefficienti per la determinazione dei ricavi minimi e i

coefficienti di redditività in relazione a particolari categorie di beni

immobili;

- ha incluso nel novero delle immobilizzazioni finanziarie di cui al

comma 1 lettera a) dell’art. 30, della già citata Legge n. 724/1994, anche le

partecipazioni in società commerciali di persone, nonché i beni e i titoli

indicati alle lettere d) ed e) dell’art. 85 del TUIR, in precedenza non

contemplati;

- ha esteso la disapplicazione ex lege del regime alle società

controllanti di società quotate in borsa ed alle società controllate da queste

ultime. Si ricorda che il testo precedente della norma citava soltanto le

società quotate;

- ha stabilito che, con effetto dall’esercizio in corso al 1 gennaio

2007, il regime di comodo sarà esteso anche all’ Irap;

- ha reintrodotto la possibilità di utilizzare lo scioglimento agevolato

o la trasformazione in società semplice, per le società che risultino di

comodo.

Si dà il caso che il legislatore riammette l’utilizzo di questi istituti ad

ogni modifica sostanziale della normativa, considerato il suo inasprimento

progressivo. A tal proposito, non sarebbe sbagliato prevedere questa

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opportunità a “regime”, per concedere un epilogo il meno doloroso possibile

a quelle società che non dovessero essere in grado, in futuro, di sopportare

l’aggravio dei parametri dei test, come previsto dalla novellata legge.

Per commentare le suddette modifiche ci avvarremo, anche in questo

caso, della prassi emanata dall’Amministrazione finanziaria che è stata

davvero corposa, considerate le cinque circolari7 emanate nel volgere di

pochi mesi (in alcuni casi si parla addirittura di giorni), senza contare

risoluzioni e comunicati vari. Segno dell’importanza notevole che ha

assunto la disciplina delle società di comodo nel nostro panorama tributario.

Cominciamo con l’integrazione degli asset patrimoniali che formano

la base di calcolo per il test di operatività. Alla lettera a) del comma 1

dell’art. 30 sono stati aggiunti i beni indicati alle lettere d) ed e) del TUIR.

Si tratta in particolare degli strumenti finanziari similari alle azioni

[art. 85, comma 1, lettera d)] ; delle obbligazioni o altri titoli in serie o di

massa [art. 85, comma 1, lettera e)]; con la precisazione che i beni

appartenenti a questo comparto, comprese le quote di partecipazione in

società di persone commerciali (che nella precedente disciplina rilevavano

solo se iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie) debbono essere presi in

considerazione indipendentemente dalla loro appostazione in bilancio e,

quindi, sia che siano state iscritte nell’attivo circolante sia che costituiscano

immobilizzazioni finanziarie.

Un’osservazione merita di essere fatta: la riclassificazione, operata

dal comma 109 dell’art. 1 della legge 296/2006, delle partecipazioni in

società di persone nell’ambito del comparto “titoli e assimilati”,

comprendente in precedenza soltanto le partecipazioni in società di capitali,

ha avuto un effetto positivo per i contribuenti, in quanto, secondo le norme

previgenti, tali attività, se iscritte fra le immobilizzazioni, venivano

comprese nella categoria residuale “altre immobilizzazioni” e soggette,

quindi, ai coefficienti del 15 e del 12 per cento, mentre ora, invece, in

seguito alle novità normative, saranno soggette ai coefficienti del 2 e

7 Si tratta della n° 5/E del 2 febbraio 2007, della n° 11/E del 16 febbraio 2007, della n° 14/Edel 15 marzo 2007, della n° 25/E del 4 maggio 2007 e infine della 44/E del 9 luglio 2007.

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dell’1,5 per cento, relativamente ai test dell’operatività e del reddito

minimo.

Per completezza d’informazione, d’altro canto, non possiamo fare a

meno di rilevare che c’è un rovescio della medaglia di cui tener conto: se le

suddette partecipazioni fossero state iscritte nell’attivo circolante, non

avrebbero avuto in passato alcun rilievo, mentre, adesso, sono soggette alle

aliquote relative al comparto “titoli e assimilati”.

Per quanto riguarda i soggetti tenuti alla redazione del bilancio

secondo lo schema previsto dal D. Lgs. n.127/1991, è bene ricordare che i

beni in esame sono quelli che vanno indicati al punto B III dello schema di

stato patrimoniale di cui all’art. 2424 del codice civile, potendo essere

allocati, a seconda dei casi, ai numeri 1) partecipazioni, 3) altri titoli e 4)

azioni proprie.

Nell’ipotesi in cui tali beni facciano parte dell’attivo circolante, gli

stessi risulteranno alla voce C III dello stato patrimoniale, ai numeri 1), 2),

3) e 4) partecipazioni, 5) azioni proprie e 6) altri titoli.

Si ricorda che le azioni proprie, dovunque collocate, non vanno mai

considerate ai fini del calcolo in esame, non essendo idonee a produrre

proventi.

I beni richiamati all’art. 85 comma 1 del TUIR rilevano

indipendentemente dal regime di esenzione cui possono essere soggetti;

concorrono, pertanto, per intero al test anche le partecipazioni in possesso

dei requisiti di cui all’art. 87 del TUIR in materia di  participation

exemption, insieme ai relativi ricavi da esse ritraibili (utili e dividendi), 

come precisato nelle circolari 13/2/2006, n. 6 e 16/2/2007 n. 11.

Per ciò che concerne i crediti commerciali la circolare 25/E precisa

che gli stessi non vanno esclusi dal test, come previsto generalmente, nei

particolari casi in cui le modalità e le condizioni di pagamento pattuite siano

non in linea con la prassi commerciale del settore e tali da far ritenere che

detti crediti derivino da veri e propri negozi di finanziamento. Quindi

bisogna guardare alla sostanza del credito stesso, piuttosto che al suo

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posizionamento in bilancio; il che, a dire il vero, può essere abbastanza

problematico.

Altra indicazione della circolare, che si rifà alla ratio della norma,

precisa che anche gli interessi che maturano sui crediti diversi da quelli di

finanziamento non rilevano fra i ricavi effettivi da contrapporre a quelli

presunti.

Una precisazione meriterebbe di essere fatta, cosa che non è mai

avvenuta nelle varie circolari emanate nel corso degli anni, a proposito dei

crediti da finanziamento, laddove questi siano contrattualmente previsti

come infruttiferi di interessi. Per analogia con precisazioni similari

contenute nei documenti di prassi, detti crediti dovrebbero essere esclusi dal

computo previsto per le società di comodo.

Per quanto riguarda il comparto relativo agli immobili una prima

indicazione si rifà alla Risoluzione n. 94/E del 25/7/2005 nella quale veniva

precisato che gli immobili concessi in usufrutto costituito a titolo gratuito, in

favore di soggetti diversi dai soci e dai loro familiari di cui all’art. 5, ultimo

comma del TUIR, non essendo idonei a produrre reddito per la società nuda

proprietaria, non rientrano tra i beni da considerare ai fini del calcolo dei

test.

Un’altra precisazione degna di nota, che stranamente non era mai

stata fatta prima, riguarda il valore dei beni ammortizzabili che vanno presi

a base del calcolo dei test.

Questo, in effetti, va assunto indipendentemente dalla deducibilità

fiscale delle relative quote d’ammortamento. La disposizione si applica ai

beni ammortizzabili, materiali e immateriali, ma a condizione che non siano

stati eliminati dal processo produttivo. Vengono citati i casi emblematici,

anche in considerazione delle recenti novità legislative, dei fabbricati, il cui

valore va assunto al lordo della quota di scorporo dell’area di sedime, ai

sensi del comma 7, art. 36 del D.L. 223/2006, e dei veicoli a motore, per i

quali non rilevano le limitazioni previste dall’art. 164 del TUIR.

Il valore dei beni va assunto al netto delle plusvalenze iscritte, ai

sensi dell’art. 110, comma 1, lett. c) del TUIR.

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Per i beni che hanno fruito di contributi imponibili in conto impianti,

il valore da considerare è lo stesso che la società assume ai fini della

determinazione del reddito d’impresa. Il relativo valore da assumere

dipenderà dalla modalità di rappresentazione contabile adottata.

In definitiva, se il contributo è stato utilizzato a diretta riduzione del

valore del bene, l’imponibile rilevante ai fini del test sarà più basso rispetto

all’ipotesi in cui il contributo concorra alla determinazione del reddito con

la tecnica dei risconti in correlazione con il processo d’ammortamento.

Quindi la prima modalità di contabilizzazione determinerà dei valori più

bassi, sia per gli asset che per i correlati ricavi; la seconda li prevedrà più

alti.

Per i beni in leasing, a differenza di quanto previsto dai precedenti

documenti di prassi, si cambia rotta; in caso di riscatto, il valore da prendere

in considerazione ai fini dei calcoli continuerà ad essere quello del valore

contrattuale, ovvero in mancanza di documentazione , la somma delle quote

capitale delle rate cui sommare il prezzo di riscatto.

La nuova posizione, quindi, supera radicalmente i precedenti

chiarimenti emanati e introduce un concetto di equità, che prima, a nostro

avviso non esisteva. E’ chiara, però, anche la portata deflagrante del

chiarimento.

Molte società, infatti, avranno valutato la propria posizione nei test

di operatività e di redditività assumendo quelli che, ad oggi, sono

indicazioni ufficiali ormai superate.

Con la possibilità, a ridosso delle scadenze di pagamento e

dichiarazione delle imposte sui redditi, di non risultare più operative e,

paradossalmente, di non essere più in tempo utile per presentare eventuale

istanza di interpello disapplicativo, con tutte le conseguenze del caso.

Nel caso di beni costituiti da azioni, quote e strumenti finanziari

similari alle azioni trova applicazione la disposizione contenuta nel comma

1, lett. d) dell’art. 110 del TUIR secondo cui il costo si intende non

comprensivo di maggiori o minori valori iscritti.

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Nel calcolo dei valori medi debbono essere necessariamente

considerati i due periodi di imposta precedenti a quello in osservazione,

anche se interessati da cause di esclusione dall’applicazione della norma,

siano esse di natura “automatica” (ad esempio, primo periodo d’imposta) o

conseguenti all’accoglimento dell’istanza disapplicativa prevista dal comma

4-bis dell’art. 30. Resta inteso che in ipotesi di contribuente costituitosi da

meno di tre periodi d’imposta, il valore medio in esame dovrà essere

calcolato con riferimento al periodo d’imposta in osservazione e a quello

immediatamente precedente (coincidente quest’ultimo con l’esercizio di

costituzione).

Sempre ai fini del test di operatività, i maggiori valori, conseguenti

alla eventuale rivalutazione ai sensi dell’art. 1, commi 469 e seguenti, della

legge 23/12/2005, n. 266, di tutti gli asset interessati, rileveranno ai fini del

calcolo, a partire dal 2008.

Continuiamo illustrando l’ennesimo ritocco subito dalle percentuali

in base alle quali effettuare il test di operatività e quello per la

determinazione del reddito minimo presunto.

Intanto possiamo affermare, senza tema di smentita, che, da questo

punto di vista, i correttivi sono tutti a favore del contribuente che, quindi,

potrà beneficiare di tali disposizioni favorevoli in sede di determinazione

delle imposte dovute a saldo per il primo periodo d’imposta in cui trova

applicazione la nuova disciplina; così si potranno eventualmente recuperare

la maggiori somme sborsate a titolo di acconto per effetto delle disposizioni

più sfavorevoli introdotte dal D.L. 223/2006.

Un primo correttivo abbassa la percentuale da applicare, per il test di

operatività, sul valore degli immobili classificati nella categoria A/10 che

passa dal 6 al 5. Il secondo riguarda, per lo stesso test, gli immobili a

destinazione abitativa (tutti quelli appartenenti alla categoria A, esclusi

ovviamente gli A/10) cui la norma destina la percentuale del 4, a condizione

che si tratti di immobili acquisiti o rivalutati nell’esercizio e nei due

precedenti. Per gli asset  indicati nel secondo correttivo, la norma prevede

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l’applicazione di un aliquota del 3 per cento ai fini del calcolo del reddito

minimo.

Queste disposizioni entrano in vigore a partire dal periodo d’imposta

in vigore alla data del 4 luglio 2006.

Un’altra variazione di un certo impatto riguarda le percentuali da

applicare al comparto titoli e assimilati e a quello delle altre

immobilizzazioni; queste si abbassano, rispettivamente, all’1 e al 10 per i

beni situati in Comuni con popolazione inferiore ai mille abitanti. Per la

localizzazione la circolare 25/E del 4/5/2007 precisa che bisogna far

riferimento alla sede legale delle società che detengono i predetti beni.

Questa agevolazione è applicabile a decorrere dal 1 gennaio 2007.

A questo punto utilizziamo delle tabelle storiche che permettano uno

sguardo d’insieme chiarificatore:

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Tabella 1 Coefficienti per il calcolo dei ricavi presunti

L. 662/96 D.L. 223/06 L. 296/06

Titoli e

assimilati 1 % 2 %2 %

8 1 %

Immobili

4 % 6 %6 %

9

5 %104 %

Altre immobiliz-

zazioni 15 % 15 %15 %

1110 %

8 Per i beni situati in Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti. Disposizioneapplicabile a partire dal 1 gennaio 2007

9 Immobili classificati nella categoria catastale A/10

10 Immobili a destinazione abitativa appartenenti alla categoria A (esclusi A/10) acquisiti orivalutati nell’esercizio e nei due precedenti

11 Per i beni situati in Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti. Disposizioneapplicabile a partire dal 1 gennaio 2007

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Tabella 2 Coefficienti per l’individuazione del reddito minimo

L. 662/96 D.L. 223/06 L. 296/06

Titoli e

assimilati 0,75 % 1,50 %1,50 %

Immobili

3 % 4,75 %4,75 %12

3 %

Altre immobiliz-

zazioni 12 % 12 %12 %

12 Beni immobili a destinazione abitativa acquisiti o rivalutati nell’esercizio e nei dueprecedenti

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Qualche precisazione importante riguarda anche l’ambito soggettivo

della normativa.

Intanto viene precisato che, fra le società escluse, perché non

espressamente richiamate dalla norma, nell’ambito della categoria delle

società ed enti non residenti privi di stabile organizzazione nel territorio

dello Stato, non si possono considerare i soggetti solo formalmente

domiciliati all’estero per effetto della presunzione della cosiddetta

“esterovestizione” di cui al comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR.

Viene ampliata la casistica dei soggetti esclusi per l’obbligo

derivante dalla legge di costituirsi in società di capitali. Infatti, fra queste,

vengono annoverate anche le società, a prevalente partecipazione pubblica,

derivanti dal processo di trasformazione ex lege in società per azioni degli

enti appartenenti al comparto delle cosiddette “partecipazioni pubbliche”.

Il trattamento stabilito per le società in amministrazione controllata e

straordinaria può essere esteso, per analogia, anche alle società che versino

in stato di fallimento, di liquidazione coatta amministrativa e a quelle

interessate da procedure di liquidazione giudiziaria. A dire il vero queste

condizioni rientravano fra quelle previste in caso di non normale

svolgimento dell’attività, locuzione che, sappiamo, è stata già cancellata

dalla versione della normativa corretta dagli interventi del D.L. 223/2006.

E’ stato quanto meno precisato che le società nelle suddette condizioni non

hanno necessità di presentare istanza di interpello.

Peraltro la circolare n. 44/E del 9/7/2007 dell’Agenzia delle Entrate

ha chiarito che l’esclusione “automatica” dall’ambito di applicazione della

disciplina in commento, si estende per i suddetti soggetti oltre che per il

periodo di durata della procedura concorsuale anche per il periodo

d’imposta ad essa immediatamente precedente, ossia per il periodo o

frazione di periodo d’imposta che si chiude in corrispondenza della data da

cui decorrono gli effetti del fallimento o della messa in liquidazione coatta

amministrativa o giudiziaria.

Per quanto riguarda invece le società che hanno avuto accesso alla

diversa procedura concorsuale di concordato preventivo, sempre la succitata

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circolare ribadisce che non opera alcuna causa di esclusione “automatica”

dalla disciplina delle società non operative, in considerazione del fatto che

l’imprenditore ammesso al concordato preventivo conserva il potere di

amministrare i propri beni e pertanto, salvo i limiti previsti dalla legge per

gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, continua l’esercizio

dell’impresa. Per cui questi soggetti sono tenuti a presentare istanza di

interpello per poter sperare di ottenere il permesso di disapplicare la

disciplina.

Con riferimento all’esclusione delle società quotate, come chiarito

dalla circolare n. 25/2007, questa è riconosciuta anche quando i titoli siano

negoziati in mercati regolamentati esteri, a nulla rilevando la circostanza che

la società quotata (controllante o controllata) sia non residente.

L’esclusione è riconosciuta non solo quando i titoli quotati (dal

soggetto stesso, oppure dalla controllante o dalla controllata) sono titoli

azionari, ma anche quando si tratti di titoli obbligazionari.

Inoltre, nel precisare che, laddove il requisito del controllo (sul

soggetto quotato o da parte del soggetto quotato) si perfezioni nel corso del

periodo d’imposta, la società interessata potrà considerarsi controllante o

controllata dal soggetto quotato, ai fini dell’esclusione automatica dalla

presunzione di “non operatività”, se tale circostanza si sia verificata per la

maggior parte del periodo d’imposta; la stessa circolare precisa

ulteriormente che la nozione di “controllo” rileva in tutte le forme previste

dall’art. 2359 del codice civile:

•  controllo assembleare di diritto;

•  controllo assembleare di fatto;

•  controllo extra-assembleare di fatto, ovvero in virtù di particolari

accordi contrattuali.

Per quanto riguarda la causa di esclusione prevista per i soggetti

esercenti attività di pubblico servizio di trasporto, la risoluzione n. 43/E del

12/3/2007 dell’Agenzia delle Entrate ha avuto modo di sottolineare che la

causa di esclusione opera limitatamente ai soggetti che la esercitano

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direttamente e non può considerarsi estesa anche ai soggetti che, per il

tramite di partecipazioni in essi possedute, svolgono tale attività in via

indiretta.

Nella circolare 25/E viene fatta una precisazione di una certa

rilevanza a proposito delle perdite.

Citiamo testualmente l’ultimo comma del capitolo 5: “In coerenza

alla ratio della disciplina di contrasto alle società non operative (che impone

a queste ultime di evidenziare un reddito da assoggettare a tassazione non

inferiore ad un imponibile minimo forfetariamente determinato), si ritiene

che le perdite di periodo di Tizio non possano essere utilizzate per

compensare l’imponibile ricevuto per trasparenza dalla propria partecipata

non operativa”.

Quanto appena asserito nella citata circolare ci appare in palese

contrasto con quanto si potrebbe dedurre dall’ultima frase del capitolo 4 di

un’altra circolare, la n. 48 del 26/2/1997.

Citiamo testualmente anche questa: “Va infine precisato che

eventuali perdite dell’esercizio possono essere computate in diminuzione

del reddito imputato al socio”.

Se abbiamo ben interpretato, le nuove disposizioni non permettono

più di usufruire di questa importante “possibilità fiscale”.

L’art. 1, comma 109, lettera g), della L. n. 296/2006 ha poi stabilito

che, con effetto dall’esercizio in corso al 1 gennaio 2007, il regime di

comodo sarà esteso anche all’Irap, prevedendo l’imputazione in capo alle

società non operative, di un valor aggiunto presunto in misura non inferiore

al reddito minimo determinato presuntivamente agli effetti delle imposte sui

redditi, aumentato delle retribuzioni del personale dipendente, dei compensi

dei collaboratori coordinati e continuativi e dei lavoratori autonomi

occasionali e degli interessi passivi.

Ora passiamo all’Iva. Nella circolare n. 25/E sono contenute alcune

importanti precisazioni sull’applicazione delle disposizioni relative a questa

imposta.

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Intanto viene sottolineato il fatto che la preclusione al rimborso

dell’Iva, riguarda solo l’eccedenza derivante da dichiarazione annuale; in

altre parole significa che il contribuente, nel rispetto degli ordinari requisiti

previsti dalla legge, può ottenere il rimborso dell’eccedenza Iva previsto

dall’art. 38-bis del Dpr 633/72 per periodi inferiori all’anno; anche se,

nell’ipotesi in cui il contribuente risulti a fine esercizio non operativo e

abbia chiesto e ottenuto nel medesimo esercizio un rimborso cosiddetto

“infrannuale”, è tenuto alla sua restituzione maggiorato di interessi e senza

applicazioni di sanzioni.

Per quanto riguarda le limitazioni previste ai fini Iva nel caso di

mancato superamento del test di operatività la circolare ribadisce che esse

decorrono dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del

D.L. 223/2006; il che si traduce, per i soggetti con periodo d’imposta

coincidente con l’anno solare, nella potenziale perdita a titolo definitivo del

credito Iva esistente alla data del 31 dicembre 2008, a condizione che si

riscontrino le seguenti condizioni: a) che la società risulti non operativa per

tutto il triennio 2006-2008; b) mancata effettuazione nel medesimo periodo

di cessioni di beni o prestazioni di servizi di ammontare superiore quello

dei ricavi presunti determinati sulla base del test di operatività.

Inoltre, per i soggetti con periodo d’imposta non coincidente con

l’anno solare la circolare precisa che, annualmente, e a partire dal periodo

d’imposta in corso al 4 luglio 2006, il confronto va operato fra l’importo

risultante dall’applicazione del comma 1 dell’art. 30 e il volume d’affari Iva

ricalcolato, ai fini del confronto in questione, rispetto al medesimo arco

temporale compreso nel periodo d’imposta rilevante ai fini dell’imposte

dirette.

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 3. Dalla prova contraria all’interpello disapplicativo

Sappiamo bene come quello della prova contraria sia sempre stato un

argomento di estremo interesse per la possibilità che viene offerta ai soggettiche non soddisfino i requisiti di operatività di sfuggire alla “tagliola” di un

reddito minimo non prodotto effettivamente, ma da dichiarare in ogni caso.

Ripercorriamo brevemente l’evoluzione di questa parte della

disciplina delle società di comodo.

Nella versione originaria della norma è previsto che la prova

contraria deve riguardare l’effettiva inesistenza del reddito minimo 

determinato ai sensi del comma 6 dell’art. 30 della L. 724/1994; ladimostrazione di ciò deve derivare da oggettivi riferimenti al particolare

settore in cui opera la società o da situazioni di mercato, anche a livello

territoriale, che non hanno permesso l’ottenimento di ricavi in misura

proporzionale al valore delle immobilizzazioni materiali, immateriali e

finanziarie possedute, o dalla particolare tipologia del ciclo produttivo

adottato.

Abbiamo messo in evidenza la locuzione reddito minimo, perché

l’immediato aggiornamento della norma, che avviene ad opera dell’art. 27

del D.L. 23/2/1995, n. 41, prevede: “ La prova contraria deve essere

sostenuta da riferimenti a oggettive13 situazioni di carattere straordinario

che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi, di proventi e di

rimanenze nella misura richiesta dalle disposizioni del presente comma”.

Si badi bene che, rispetto alla formulazione precedente della norma,

il legislatore richiede che la società in via ordinaria è in grado di produrre i

ricavi minimi previsti. In buona sostanza non ci si riferisce più al reddito

minimo, con la conseguenza che eventuali costi straordinari o sostenuti una

tantum non permettono più la possibilità di dimostrare che la società sarebbe

risultata operativa in mancanza di questi.

13 Si richiede la prova che la causa determinante la situazione di non operatività siatotalmente indipendente dalla volontà del contribuente.

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Si potrebbe perciò asserire: l’attività è stata interrotta per due mesi a

causa della ristrutturazione dei locali; questo è un evento da cui può

scaturire una diminuzione dei ricavi. Se, però, per sostenere i costi derivanti

da questo intervento, si è reso necessario accendere un mutuo piuttosto

oneroso, per cui sono stati sostenuti interessi passivi in misura superiore alla

loro consistenza media ordinaria, tanto da comportare la riduzione dell’utile

o addirittura il conseguimento di una perdita, la circostanza non assumerà

alcuna valenza ai fini di cui si parla, considerato che l’importante è

dimostrare l’effettiva contrazione dei ricavi.

Ai fini della prova contraria non è possibile affermare , ad esempio,

che il furto della merce in deposito o la sua distruzione per un incendio

consentano di uscire dal regime in argomento. Se si tiene conto solo della

perdita patrimoniale le circostanze suddette non possono assolvere a tale

compito. L’unica possibilità permessa dalla norma è quella di dimostrare

che la perdita indicata ha comportato una contrazione dei ricavi perché

l’attività ne è risultata compromessa o per una diminuzione delle rimanenze.

La circolare del 15/5/1995, n. 140 precisa: “La prova contraria può

essere fornita ogni qualvolta si verifichino situazioni di carattere

straordinario da cui scaturiscono conseguenze obiettivamente riscontrabili,

non suscettibili di valutazioni soggettive”.

In altri termini occorre dimostrare che la società in via ordinaria è in

grado di produrre ricavi nella misura prevista dalla norma e come gli eventi

di carattere straordinario non ne abbiano permesso la realizzazione, facendo

per esempio riferimento all’ammontare dei ricavi risultanti dai bilanci degli

esercizi precedenti, in cui non si era in presenza di una situazione di crisi.

Un’altra circostanza, che viene portata a titolo di esempio nella

circolare citata, è quella di una società finanziaria che abbia conseguito

minori proventi a causa della mancata distribuzione di dividendi da parte

delle società controllate, interessate, ad esempio, da una crisi del settore di

appartenenza, semprechè, naturalmente, si possa presumere che sarebbero

stati, altrimenti, distribuiti dividendi in misura tale da consentire alla

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controllante di raggiungere il limite minimo di ricavi per porsi al sicuro

dagli strali del fisco.

Lo stesso D.L. n. 41/1995 introduce le modalità attraverso le quali

esperire la prova contraria.

Intanto stabilisce che gli uffici delle entrate possono determinare il

reddito induttivamente , in misura pari a quella presunta, anche con la

procedura prevista dall’art. 41-bis del Dpr n. 600/1973, fermo però

l’ordinario potere di accertamento.

Di conseguenza:

•  se la società dichiara il reddito minimo presunto,

l’Amministrazione finanziaria non chiede alcuna informazione in quanto la

società si è adeguata spontaneamente alla normativa; questo non significa

che la stessa non possa far ricorso alle norme ordinarie sull’accertamento

per contestare la non inerenza o la indetraibilità di costi o la omissione di

ricavi;

•  se la società non dichiara il reddito minimo presunto, gli uffici

delle entrate lo determinano induttivamente in misura pari a quella presunta

ai sensi dell’art. 41-bis del Dpr 600/1973. Detto accertamento viene

eseguito, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente, anche per lettera

raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni. Nella

risposta devono essere indicati i motivi posti a fondamento della cosiddetta

“prova contraria”. I motivi non addotti in risposta alla richiesta di

chiarimenti non possono essere fatti valere in sede di un’eventuale

successiva impugnazione dell’atto di accertamento; situazione, quest’ultima,

che l’amministrazione finanziaria è obbligata a portare a conoscenza del

contribuente contestualmente alla richiesta. In relazione a quest’ultimo

aspetto non si sono fatte attendere le critiche della dottrina tanto da

configurare una violazione all’art. 24 della Costituzione. Nel caso in cui

l’ufficio non dovesse ritenere fondati o sufficienti i motivi di giustificazione

addotti, l’accertamento viene eseguito ai sensi dell’art. 41-bis del Dpr

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600/1973; in pratica si tratta di un particolare accertamento parziale che

viene automaticamente redatto dal sistema informativo centrale.

“Alla natura <<parziale>> di simile accertamento si collegano due

conseguenze: a) la prima è che resta impregiudicata l’ulteriore eventuale

attività istruttoria dell’ufficio, e la possibilità di emanare un successivo

avviso di accertamento, anche in base ad elementi già acquisiti dall’ufficio

al momento dell’emissione dell’accertamento parziale; b) la seconda è che

l’accertamento parziale non richiede la collaborazione del comune”.14 

La risoluzione del 4/7/1997, n. 154 fornisce un caso emblematico di

come vadano interpretate ed applicate le disposizioni della norma relative

alla prova contraria.

Si riporta il caso di una società insediata in una delle aree costruite a

seguito del sisma avvenuto in Irpinia nel 1980 nell’ambito di un programma

di industrializzazione anche mediante provvidenze finanziarie subordinate

all’effettuazione di investimenti produttivi di importo rilevante ed al

superamento di tassativi collaudi sulle linee di produzione.

La istante fa presente tutta una serie di situazioni di carattere

straordinario e valutabili in modo oggettivo (l’attività svolta nell’ultimo

triennio è stata necessariamente di ricerca, sperimentazione e formazione e,

quindi, prodromica alla realizzazione del prodotto; la necessità di dover

rispettare particolari disposizioni che hanno subordinato l’ottenimento di

determinate risorse finanziarie all’effettuazione di notevoli investimenti

produttivi, per giunta sproporzionati rispetto alla fase iniziale dell’attività in

cui si trova l’impresa; l’inagibilità delle infrastrutture per il mancato

collaudo di alcune opere da parte delle competenti autorità) che fanno

ritenere al Dipartimento delle Entrate giustificato il temporaneo

conseguimento di ricavi, proventi e incrementi di rimanenze in misura

inferiore a quella presuntivamente stabilita dalla normativa sulle società non

operative.

14Francesco Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Vol. 1, parte generale, ottava edizione,Utet giuridica, Cap. XI, pag. 240

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E’ di una certa rilevanza la precisazione che viene fornita alla fine

della risoluzione: “Ove, comunque, tali circostanze non dovessero trovare

reale rispondenza, sembra opportuno evidenziare che, ai fini della verifica

della condizione di operatività mediante l’applicazione dei previsti

coefficienti di rendimento al valore delle immobilizzazioni e di determinati

elementi dell’attivo patrimoniale, non deve tenersi conto di quelle

immobilizzazioni e di quegli elementi patrimoniali che, per specifici motivi

oggettivi (come ad esempio il mancato collaudo), non è stato possibile

utilizzare”.

Viene quindi rimarcata la possibilità, per il contribuente, di non

considerare ai fini del test di operatività quegli asset che non hanno

prodotto i correlati ricavi.

Ed arriviamo al 2006 con le deflagranti novità apportate dal D.L. 223

e dalla Finanziaria 2007.

Innanzitutto, viene eliminata dal testo normativo l’ipotesi

contemplata espressamente dal previgente n. 2) dell’ultimo periodo del

comma 1 dell’art. 30, che disponeva di diritto la non applicazione del

regime ai soggetti che non si trovano in un periodo di normale svolgimento

dell’attività.

Ne abbiamo già accennato nel capitolo precedente. Qui ricordiamo

che la circolare n. 48/E del 26/2/1997 aveva elencato alcuni casi in cui si

poteva esemplificare un non normale svolgimento dell’attività, come

nell’ipotesi in cui la costruzione degli impianti necessari per iniziare

l’attività produttiva prevista nell’oggetto sociale si fosse protratta per più

esercizi; non fossero state rilasciate le concessioni o le autorizzazioni

amministrative necessarie per lo svolgimento dell’attività; fosse svolta

esclusivamente un’attività di ricerca, di per sé improduttiva di ricavi,

propedeutica all’inizio dell’effettiva attività produttiva.

Cerchiamo di comprendere la ratio di questo intervento legislativo

che cambia in modo dirompente le regole cui, fino a questo momento, ci si

doveva attenere. Possiamo ritenere che in questo modo il legislatore abbia

voluto consentire all’Amministrazione finanziaria di “censire” in maniera

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più agevole le società in odore di non operatività; di evitare, cioè, che queste

ultime potessero nascondersi dietro il “velo” del non normale svolgimento

dell’attività.

Tale ipotesi di esclusione, prevista per legge, consentiva ai

contribuenti di “autoescludersi” dall’applicazione del regime delle società di

comodo, salvo l’obbligo eventuale di fornire successivamente all’Agenzia

delle Entrate, su richiesta della stessa, la prova di essersi trovati, nel periodo

d’imposta in oggetto, in una situazione di anormale svolgimento

dell’attività.

Sino all’esercizio chiuso anteriormente al 4 luglio 2006 (per la

generalità dei soggetti il periodo d’imposta 2005) i contribuenti che

ritenevano di trovarsi in detta situazione potevano, dunque, autonomamente

decidere di non adeguarsi, salvo la facoltà dell’Amministrazione Finanziaria

di contestare tale scelta in un momento successivo.

Quindi, ricapitolando, i contribuenti, vigendo la precedente

disciplina delle società di comodo, avevano a disposizione due possibilità

per sfuggire alle presunzioni da questa previste, con valutazione autonoma,

di cui era possibile fornire successivamente prova e giustificazioni, a

richiesta, eventuale, degli organi di controllo: la prima, che permetteva

l’esclusione a quei soggetti che ritenessero di trovarsi in un periodo di non

normale svolgimento dell’attività (art. 30, comma 1, ultimo periodo, n. 2);

costoro, per giunta, non erano neppure tenuti alla compilazione

dell’apposito prospetto per la verifica dell’operatività contenuto nella

dichiarazione dei redditi; la seconda rappresentata dalla possibilità di fornire

a posteriori la prova contraria con riferimento a particolari situazioni

oggettive di carattere straordinario che non avevano consentito il

conseguimento dei ricavi nella misura minima presunta dalla legge (art. 30,

comma 1, secondo periodo e art. 30, comma 4); in tali casi il contribuente

aveva l’obbligo di compilare in dichiarazione il suddetto prospetto di

verifica, determinando quindi sia l’entità dei ricavi sia quella del reddito

minimo presunto, ma aveva facoltà di non adeguarvisi, con riserva di fornire

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successivamente la prova contraria, a giustificazione del proprio operato, nel

caso in cui, in sede di accertamento, l’A.F. l’avesse richiesta.

Il D.L. n. 223/2006 ha stravolto completamente questa impostazione,

non solo sopprimendo, come già anticipato, dal novero delle ipotesi espresse

di esclusione il caso di non normale svolgimento dell’attività, ma anche

eliminando ogni riferimento alla possibilità di fornire la prova contraria in

momento successivo alla decisione di non adeguarsi alla disciplina delle

società di comodo.

Tale innovazione è stata introdotta dal comma 4-bis dell’art. 30

(inserito ex novo dal D.L. n. 223/2006 e modificato dalla L. 296/2006) e

consente che “In presenza di oggettive situazioni di carattere straordinario15 

che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di

rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente

articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai

fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4, la società interessata

può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai

sensi dell’art. 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica

n. 600 del 1973”.

L’unica possibilità di contrastare le presunzioni previste dalla legge

circa la non operatività della società è ormai affidata esclusivamente alla

presentazione di un’istanza di disapplicazione delle medesime, da avanzare

all’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, del Dpr

29/9/1973, n. 600.

“Il contribuente, per ottenere la disapplicazione, deve presentare

istanza al Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate; nell’istanza deve:

a) descrivere compiutamente l’operazione; b) dimostrare che non possono

verificarsi effetti elusivi; c) indicare le disposizioni normative di cui chiede

la disapplicazione.

15 Le parole sottolineate vengono cancellate nella versione novellata dalla L. 296/2006, laqual cosa ha la sua importanza considerato che in tal modo viene facilitata l’accettazionedelle proprie tesi (come prospettato nella circolare del 16/2/2007, n. 11, risposta 6.7); comepure verrà fatto sparire l’inciso “salvo prova contraria” dal comma 1 della L. 724/1994 cheresisteva dalla versione originaria.

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L’istanza è accolta o respinta, con provvedimento definitivo, dal

Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate16”.

L’istanza ha natura preventiva, per cui deve essere presentata

dall’interessato prima della compilazione della dichiarazione dei redditi

all’interno della quale si opera la scelta di adeguare o meno il proprio

reddito imponibile a quello minimo previsto dalla disciplina.

Non si può fare a meno di rilevare la posizione assunta dall’Agenzia

delle Entrate, per la quale la presentazione dell’istanza è “condicio sine qua

non” alla possibilità di impugnazione di un eventuale avviso di

accertamento. Ma avremo modo di approfondire tale aspetto nel corso del

lavoro.

L’Agenzia delle Entrate è già intervenuta sull’argomento, dapprima

con la circolare n. 5/E del 2/2/2007 e, poi, con la circolare n. 14/E del

15/3/2007.

In primo luogo è stato precisato che le nuove disposizioni decorrono

a partire dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del

D.L. n. 223/2006.

L’istanza deve contenere i seguenti elementi essenziali, richiesti

dall’art. 1, comma 2, lettera c), del D.M. 19/6/1998, n. 259:

•  dati identificativi del contribuente e del suo legale

rappresentante;

•  indicazione dell’eventuale domiciliatario presso il quale

effettuare le comunicazioni;

•  sottoscrizione del contribuente o del suo legale

rappresentante.

In mancanza di uno dei su elencati elementi, l’istanza sarà ritenuta

inammissibile e considerata, a tutti gli effetti, come non presentata.

Nella domanda dovrà, inoltre essere descritta compiutamente la

fattispecie concreta sottoposta all’esame della Direzione Regionale in base

16 Francesco Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Vol. 1, parte generale, ottava edizione,Utet giuridica, Cap. XII, pag. 257

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all’art. 1, comma 3, del D.M. 19/6/1998, n. 259, prevedendo che essa,

sebbene indirizzata al Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate

competente per territorio, sia spedita in plico raccomandato con avviso di

ricevimento al competente ufficio locale; viene consentito che la

presentazione possa avvenire anche mediante consegna a mano all’ufficio

locale.

Quest’ultimo, entro 30 giorni dal ricevimento, trasmetterà l’istanza

al Direttore Regionale, corredandola del proprio parere; il Direttore emanerà

il provvedimento di accoglimento o di rigetto dell’istanza, avendo cura che

ciò avvenga entro 90 giorni dalla data di presentazione all’ufficio locale,

salvo che richieda ulteriore documentazione al contribuente; in tale ipotesi,

la richiesta sospenderà il termine per l’emanazione del provvedimento.

E’ d’obbligo, a questo punto, fare alcune considerazioni.

Al paragrafo 5 della circolare 14/E del 15/3/2007 viene precisato che

l’istanza di disapplicazione sarà dichiarata “improcedibile” ogni qual volta

non descriva compiutamente la fattispecie concreta presentata all’esame del

Direttore regionale. Tuttavia, in tale ipotesi, è facoltà degli organi

competenti richiedere ai contribuenti dati ed elementi di prova integrativi17.

Nel caso in cui venga fornito un riscontro parziale alla suddetta richiesta, il

Direttore dichiarerà nuovamente l’improcedibilità dell’istanza, e non il suo

rigetto, prospettando in ogni caso la possibilità di riproporre l’istanza

adeguatamente argomentata.

Orbene, quello che ci preme mettere in evidenza è che, sia in caso di

inammissibilità sia in caso di improcedibilità, l’istanza sarà da considerarsi

come non presentata affatto, con la conseguenza che non sarà consentito

successivamente, in sede di eventuale contenzioso tributario, addurre alcuna

prova contraria volta a disattendere la presunzione di non operatività.

La penalizzazione per quei contribuenti che dovessero trovarsi nelle

suddette situazioni (inammissibilità o improcedibilità delle proprie istanze

17 Si badi bene che, in base a quanto riportato nella citata circolare, la richiesta può essereavanzata una sola volta, atteso che reiterate richieste, comportando altrettante sospensionidel termine per l’emanazione del provvedimento, contrasterebbero con i principi di nonaggravamento e di celerità del procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241/1990.

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presentate), rispetto a coloro che non presentano alcuna istanza, deriva dal

fatto che risultano comunque censite dall’Amministrazione finanziaria e, di

conseguenza, suscettibili di essere inserite nelle liste selettive di controllo.

Diverso è il ragionamento che si può fare per coloro che dovessero

ottenere un provvedimento di accoglimento per l’istanza presentata.

Per costoro, infatti, si potrebbe prospettare un eventuale controllo

sostanziale da parte degli organi verificatori, per accertare l’effettiva

sussistenza degli elementi forniti nell’istanza presentata.

In caso di un’eventuale successiva revoca del provvedimento di

accoglimento per acclarata diversità dei fatti ed elementi esposti rispetto a

quelli appurati, e conseguente emanazione dell’avviso di accertamento,

rimarrà in ogni casi impregiudicato il diritto di difesa del contribuente in

sede di contenzioso.

Infine, per i contribuenti che ottengono un provvedimento di rigetto

dovrebbe scattare automaticamente l’avvio della procedura di accertamento,

qualora dovessero decidere di non adeguarsi al provvedimento sfavorevole.

In ogni caso, anche per costoro, rimarrà impregiudicato il pieno

diritto di difesa in sede di giudizio tributario, avverso l’avviso di

accertamento emanato dai competenti organi dell’Amministrazione

finanziaria.

Rispetto alla previgente formulazione della norma, va evidenziato il

mancato richiamo all’art. 41-bis del Dpr 600/1973.

Il precedente comma 4 dell’art. 30 della L. 724/1994, prevedeva,

infatti, che qualora il contribuente avesse dichiarato un reddito inferiore a

quello minimo, l’Amministrazione Finanziaria avrebbe potuto determinarlo

“induttivamente”, in misura pari a quella presunta, anche mediante

l’applicazione di cui all’art. 41-bis del Dpr n. 600/1973.

Il mancato richiamo, nell’ultima versione, di detta norma non

esclude, comunque, tale possibilità tenuto conto della formulazione della

disposizione che consente, ad esempio, di emettere avvisi di accertamento

parziale sulla base anche dei soli dati in possesso dell’Anagrafe Tributaria.

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Naturalmente, viene ricordato come, considerato il carattere

preventivo dell’interpello rispetto alla presentazione della dichiarazione, sia

necessario attivarsi in tempo debito per poter ottenere una risposta in tempo

utile.

Tanto più che il contribuente potrebbe avere interesse a conoscere le

decisioni del Direttore regionale entro il termine stabilito per l’adozione

della delibera di scioglimento agevolato o di trasformazione in società

semplice, cioè entro il 31 maggio 2007. Non può escludersi, infatti, che la

decisione in merito allo scioglimento o alla trasformazione possa essere

influenzata da una eventuale risposta negativa.

Approfittiamo di quest’ultima precisazione per ricordare che non

sono tenute a presentare interpello disapplicativo le società che

presentandosi non operative nel periodo in corso alla data del 4 luglio 2006,

nonché quelle che a tale data si trovavano nel primo periodo d’imposta,

abbiano deciso di deliberare lo scioglimento o la trasformazione in società

semplice.

La citata circolare n. 5/E del 2/2/2007 ha precisato alcuni concetti di

basilare importanza:

•  nella novellata norma, al comma 4-bis, non si fa più

riferimento solo ai ricavi, incrementi di rimanenze e proventi, esclusi quelli

straordinari, conseguiti in misura inferiore ai limiti consentiti dalla legge,

ma si torna a prendere in considerazione anche il reddito minimo, nonché le

operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. La conseguenza

di rilievo è che la società potrebbe essere interessata a presentare istanza di

disapplicazione ai soli fini del reddito minimo presunto, evidenziando

situazioni (ad esempio il sostenimento di costi straordinari) che ne hanno

impedito il conseguimento; ciò anche in presenza di componenti positivi di

reddito che non abbiano permesso di superare il test di operatività.

Puntualizza la circolare che la tipologia dei costi straordinari portati a

sostegno della richiesta di disapplicazione deve essere oggetto di attenta

indagine da parte dei Direttori regionali, facendo particolare attenzione a

quelli addebitati alla società, ma sostenuti a diretto beneficio dei soci. Lo

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stesso discorso fatto finora vale per la possibilità di richiedere, ricorrendone

le circostanze, una disapplicazione “parziale” ai fini Irap e/o Iva;

•  ha precisato che la soppressione del riferimento alla “prova

contraria” al comma 1 dell’art. 30, operata dalla Finanziaria 2007, all’art. 1,comma 109, lett. a), ha avuto esclusivamente lo scopo di impedire che detta

prova potesse essere fornita soltanto a posteriori in sede di un eventuale

accertamento o di contenzioso, richiedendo, invece, che venga fornita

preventivamente, con la proposizione dell’interpello;

•  ha riconosciuto che deve, comunque, essere ammessa la

possibilità di ricorrere ai giudici tributari impugnando l’eventuale avviso di

accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate, a seguito del rigetto

dell’istanza, precisando però l’obbligatorietà della presentazione dell’istanza

stessa, in mancanza della quale il ricorso è inammissibile;

•  ha ritenuto, d’altra parte, non ammissibile l’impugnazione

del provvedimento di diniego da parte del Direttore regionale, poiché esso

non è compreso fra gli atti autonomamente impugnabili elencati nell’art. 19

del D.Lgs. 31/12/1992, n. 546.18 

Nella circolare vi sono altre considerazioni di un certo interesse.

Se, in sede di interpello vengono addotte e ritenute valide situazioni

ed elementi che condizionino la redditività anche di più periodi d’imposta, il

Direttore destinatario della richiesta potrà essere indotto a dare parere

positivo anche per una pluralità di esercizi, che siano, però, puntualmente

individuati.

Abbiamo già visto come le novità introdotte dal D.L. 223/2006

decorrano dal periodo d’imposta in corso al 4 luglio 2006. Per i periodi

precedenti resta ferma la validità delle disposizioni previste dal previgente

comma 4 dell’articolo 30 della L. 724/1994.

L’istanza può essere presentata anche nel corso dello stesso periodo

d’imposta di cui si presuppone la non operatività.

18 La questione è controversa. In effetti l’istituto non risulta fra gli atti autonomamenteimpugnabili, elencati nel D. Lgs. n. 546/1992, anche se la Corte di Cassazione ha ritenutoimpugnabile un provvedimento di diniego nella sentenza 11 ottobre 2004, n. 23731.

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Considerato che il periodo di non normale svolgimento dell’attività

non configura più una causa di esclusione apprezzabile autonomamente dal

contribuente, questi è tenuto a presentare l’interpello anche se la causa che

gli permetteva di sfuggire alla disciplina delle società di comodo sia tuttora

perdurante.

Anche la liquidazione volontaria non costituisce più, a differenza del

passato, una causa di esclusione “automatica”. Adesso rappresenta una

condizione che permette la presentazione dell’interpello disapplicativo, a

condizione, però, che sia dimostrata dal contribuente una “effettiva” volontà

di liquidare la società, producendo ogni documentazione utile a dimostrarla.

Anche le holding possono rientrare nell’ambito di applicazione della

normativa sulle società di comodo, qualora non conseguano redditi

(tipicamente dividendi e plusvalenze) in misura necessaria per il

superamento del “test di operatività”.

L’estensore della circolare n. 5/E ha ritenuto giusto valutare se e

quando la mancata erogazione di dividendi costituisca una ragionevole

ipotesi per ottenere la disapplicazione. A tal fine, l’indagine circa

l’operatività, in linea di massima, dovrà spostarsi sulle società partecipate,

in modo tale che, qualora l’istanza di disapplicazione sia accolta in capo a

queste ultime, si potrà normalmente accogliere anche quella presentata dalla

holding stessa.

Il riscontro positivo dell’istanza potrà, a titolo di esempio, aversi per

i seguenti casi:

•  società partecipate con riserve di utili non sufficienti, in caso

di integrale distribuzione, a consentire alla holding di superare il test di

operatività;

•  mancata distribuzione di dividendi da parte delle partecipate

dovuta alla necessità di coprire con le riserve di utili esistenti le perdite

conseguite;

•  società partecipate che si trovano in fase di avvio dell’attività

o che operano in settori in crisi;

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•  cosiddette special purpose vehicle (SPV) che dimostrano di

dover necessariamente impiegare i proventi conseguiti dalla società target  

per il rimborso dei debiti contratti per l’acquisto della target stessa.

Con specifico riferimento al caso della mancata distribuzione delleriserve di utili, la circolare n. 25/E ha provveduto a fornire un’altra

precisazione di un certo rilievo, secondo cui può costituire circostanza utile

ai fini dell’accoglimento dell’istanza anche il fatto che la partecipata, pur

disponendo di utili e riserve di utili in quantità tale da permettere, in caso di

distribuzione delle stesse, il superamento del test da parte della partecipante,

non abbia proceduto alla relativa distribuzione in attuazione di un piano di

autofinanziamento finalizzato al rafforzamento dell’attività produttiva,

sempre che sia dimostrato che l’utile è o sarà destinato in tal senso.

Nella risposta 6.7 della circolare del 16/2/2007, n. 11 viene chiarito

che si può ottenere la disapplicazione anche quando si dimostri che

l’eventuale distribuzione di tutti gli utili della partecipata non sarebbe stata

sufficiente a raggiungere il livello minimo richiesto per superare il test di

operatività.

Con riferimento alle immobiliari, che hanno per oggetto la

realizzazione e la successiva locazione di immobili, il paragrafo 4.5 della

circolare n. 5/E riporta una serie di “oggettive situazioni” che possono

legittimare la disapplicazione della normativa in commento.

La prima ipotesi riguarda quelle immobiliari che abbiano iscritto in

bilancio esclusivamente immobilizzazioni in corso di realizzazione, da

destinare successivamente alla locazione, ma non suscettibili, al momento,

di produrre alcun reddito. In presenza di immobili già locati ed altri in corso

di realizzo, viene consentito, limitatamente a questi ultimi, che non rilevino

ai fini del test di operatività e a quello per la determinazione del reddito

minimo (si tratterebbe, quindi, di una disapplicazione parziale).

Per completezza di esposizione occorre sottolineare che la circolare

n. 25/E ha successivamente precisato che le società che detengono solo

immobilizzazioni in corso sono addirittura esonerate dall’obbligo di

presentare istanza disapplicativa.

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La seconda ipotesi ricorre quando la società immobiliare dimostri di

essere nell’impossibilità di praticare canoni di locazione in misura tale da

permetterle di superare i predetti test.

Ciò si verifica nei casi in cui i canoni dichiarati siano almeno pari a

quelli di mercato, determinati ai sensi dell’art. 9 del TUIR.

In aiuto del contribuente sono arrivate le disposizioni della circolare

n. 25/E, dove viene precisato che per la determinazione del valore di

mercato dei canoni di locazione si può fare riferimento ai valori (espressi in

euro per mq al mese) pubblicati nella banca dati delle quotazioni

immobiliari dell’Osservatorio del mercato immobiliare, consultabili sul sito

internet dell’Agenzia del Territorio.

La terza ipotesi fa riferimento all’impossibilità di modificare i

contratti locativi in corso.

L’ultima ipotesi riguarda gli immobili che siano inagibili, il cui

effettivo riscontro non potrà che essere effettuato sul “campo”.

E’ pacifico il fatto che le fattispecie sopra elencate possano essere

fatte valere anche nel caso si tratti di società ed enti non immobiliari per casi

similari.

Di estrema importanza è quanto viene riportato nel paragrafo 8 della

circolare n. 25/E. Viene fatto espresso riferimento alla possibilità di

disapplicazione parziale qualora le situazioni oggettive invocate dal

contribuente si riferiscano soltanto ad alcuni dei beni considerati al comma

1 dell’art. 30 ovvero riguardino solo parte del triennio di riferimento per la

determinazione dei ricavi presunti. In questi casi, il Direttore regionale potrà

tenerne conto per permettere che detti beni non rilevino totalmente o solo

per gli anni nei quali sono stati ritenuti improduttivi, determinando, quindi,

diversamente l’ammontare dei ricavi figurativi o del reddito minimo.

In tal caso il Direttore regionale, valutate positivamente le richieste

del contribuente in merito a dette situazioni, sarà tenuto a specificare nella

risposta all’istanza di interpello che “sarà cura del contribuente provvedere a

neutralizzare l’effetto della presenza di tali situazioni eliminando nei calcoli

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il valore degli asset interessati dalle stesse e dei ricavi ad essi direttamente

correlabili”.

Gli importi dei ricavi presunti e del reddito minimo determinato

applicando i coefficienti previsti dalla legge al valore degli asset calcolato in

base ai suddetti criteri, rileveranno come limite di riferimento per

l’applicazione dell’intera disciplina delle società di comodo; quindi anche

per le disposizioni riguardanti IVA e IRAP.

La circolare n. 44/E del 9/7/2007 offre tutta una serie di esempi su

come debbano essere interpretate le condizioni e gli elementi oggettivi

(quindi non riconducibili alla volontà del contribuente) e su quali sono i

principi che stanno alla base del ragionamento che conduce alla eventuale

accettazione (anche parziale) o negazione dell’istanza disapplicativa

presentata.

Dall’esame delle risposte fornite ai quesiti prospettati colpisce quella

data alla domanda 2.7, dove viene prospettato il caso di una società

immobiliare, proprietaria di un unico fabbricato commerciale locato da

diversi anni a uno stesso soggetto. Nonostante che il contratto sia stato

rinnovato a gennaio 2006 a un canone molto più elevato rispetto al passato,

la società non è in grado di superare il test di operatività a causa dei più

bassi canoni incassati nei due anni precedenti; in considerazione di quanto

appena evidenziato si chiede l’accoglimento dell’istanza di disapplicazione.

La risposta, a nostro avviso, rende l’idea di quanto sia diventata

elastica la disciplina in riferimento alla prova contraria da fornire per

sfuggire ai lacci di questa normativa tanto controversa.

In effetti, viene risposto che innanzitutto bisogna verificare se i

canoni previsti nel vecchio contratto fossero non inferiori a quelli di mercato

riferiti alla data di stipula dello stesso; gli stessi canoni, infatti, possono

ritenersi congrui per l’intera durata del contratto solo se lo risultano rispetto

ai canoni vigenti nel primo anno di locazione.

Acclarato questo fatto si potrà effettuare il test senza considerare i

canoni del biennio precedente, ma solo il canone del 2006.

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Da ultimo citiamo la Risoluzione 24/7/2007 n.180/E nella quale, in

risposta ad una istanza di interpello, viene chiarito che gli oneri pluriennali

capitalizzati come “migliorie su beni di terzi” rilevano nel comparto “altre

immobilizzazioni” come costi ad utilità pluriennale, sebbene non siano mai

stati espressamente elencati nei precedenti documenti di prassi.

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 4. Considerazioni conclusive

Quella delle società di comodo è una vecchia disciplina tornata

prepotentemente di attualità.E’ figlia della “smania” dei nostri legislatori di presumere tutto quel

che è possibile in ambito fiscale.

E’ un istituto che si affianca alla disciplina degli studi di settore,

altro strumento che viene utilizzato per stimare la capacità contributiva delle

aziende.

Per giunta, l’applicazione dello studio di settore non esclude quella

del regime delle società di comodo. Paradossalmente potrebbe verificarsiuna situazione come quella di seguito descritta.

Una società, la cui dichiarazione annuale iva evidenzia un forte

credito, viene sottoposta allo studio di settore, risultando non congrua. Di

conseguenza adegua i propri ricavi alle risultanze di Ge.Ri.Co. e diventa

debitrice dell’iva calcolata sul maggior imponibile. Purtroppo, anche il test

di operatività dà risultato negativo. Essendo una società di comodo perde il

diritto all’utilizzo in compensazione del credito iva derivante dalla

dichiarazione annuale ed è quindi costretta a versare la maggiore imposta

scaturente dall’applicazione dello studio di settore (oltre alle maggiori

Ires/Irpef e Irap). Francamente, questo è troppo.

Se si può condividere la ratio dell’utilizzo degli studi di settore (ma

anche in questo caso i motivi per lamentarsi non mancano), molto meno lo

si può fare per la normativa sulle società non operative.

Mentre gli studi rappresentano un mezzo abbastanza sofisticato per

combattere la tendenza dei contribuenti a “nascondere” i propri ricavi per

abbassare il proprio reddito imponibile, lo strumento escogitato per la

seconda va a sindacare l’effettiva operatività di una società, basandosi

esclusivamente su dati patrimoniali, senza tenere in alcun conto quelli che

sono i dati contabili relativi al conto economico.

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Anzi, per dirla tutta, si è soggetti ad una doppia presunzione: quella

relativa ai ricavi, in base ai quali determinare se si è operativi o meno;

quella relativa al reddito, per determinare se assoggettare a tassazione quello

risultante dai dati contabili o quello minimo risultante dal test previsto dalla

legge.

Insomma le società di comodo vengono sottratte al loro regime

naturale: sul versante delle imposte dirette, con l’attribuzione di un reddito

minimo, comunque assoggettato ad imposta e sul versante iva con la loro

equiparazione al consumatore finale non imprenditore, con conseguente

carico dell’imposta.

Orbene, mentre si potrebbe convivere con il reddito forfettario

determinato ai sensi del comma 3 della L. 724/1994, la norma pare invece

aver ecceduto per ciò che concerne l’imposta sul valore aggiunto.

Infatti, le varie esclusioni previste dal regime all’utilizzo del credito

iva risultante dalla dichiarazione annuale (fino addirittura alla sua perdita

definitiva), addebitano l’imposta alla società considerata di comodo, come

se questa fosse il consumatore finale che effettivamente non è. Invece, essa

è da considerarsi impresa a tutti gli effetti e, come tale soggetta alle regole

che disciplinano l’iva, ovvero all’emissione delle fatture con addebito o

meno dell’imposta e al beneficio della deduzione della stessa sugli acquisti,

con diritto all’utilizzo o al rimborso dell’eventuale eccedenza a credito.

Il diniego di tale utilizzo viola un diritto riconosciuto alle imprese ed

è irrispettoso della struttura normativa del tributo.

A ben vedere l’introduzione del regime delle società di comodo con

l’art. 30 della legge 23/12/1994, n. 724 non aveva interessato in alcun modo

l’iva, verosimilmente per non scontrarsi con i principi comunitari e con la

legge delega istitutiva del tributo.

Successivamente le varie riformulazioni della legge hanno portato

all’abbandono di questo atteggiamento prudenziale da parte del legislatore,

con il risultato di violare il principio della detrazione dell’imposta sul valore

aggiunto [art. 5, n. 6), della legge n. 825/1971] e il diritto al rimborso

dell’eccedenza a credito [art. 5, n. 10), della legge n. 825/1971].

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Insomma, l’introduzione di questo istituto tributario fa comodo

all’Erario, visto che continua a servirsi di tali società per la riscossione

dell’iva19 e, allo stesso tempo, nega loro i diritti riconosciuti

all’imprenditore dalla legislazione tributaria vigente relativa all’imposta sul

valore aggiunto.

Invece, l’Amministrazione finanziaria ha il potere-dovere di

accertare l’interposizione fittizia della società di comodo, quando questa

appaia impresa ed in realtà sia comunione (art. 37, comma 3, del Dpr n.

600/1973) e dispone dei poteri di accertamento, controllo e rettifica (artt. 31

e seguenti del Dpr n. 600/1973 per le imposte dirette e artt. 51 e seguenti del

Dpr n. 633/1972 per l’iva) avendo riguardo all’individuazione di ricavi non

dichiarati, perché destinati a finalità estranee all’esercizio d’impresa (art. 85,

comma 2 del Tuir e artt. 2, comma 2, n. 5), e 3, comma 3, del Dpr n.

633/1972) e di costi non inerenti (artt. 109, comma 5, del Tuir e 19, comma

1, del Dpr n. 633/1972).

Si è messa in evidenza la parola dovere perché sarebbe ora che

l’Amministrazione finanziaria procedesse a migliorare i controlli mirati ed

effettivi, piuttosto che affidarsi alle presunzioni.

Non è possibile continuare ad accettare questi metodi, soprattutto se

si deve andare a sindacare sulla effettiva sussistenza dei requisiti per

considerare o meno operativa una società o ente che sia.

Non si può liquidare la questione basandosi su dati patrimoniali,

senza andare ad indagare “sul campo”, controllando identità, atti,

documenti, registri e quant’altro può essere utile ai fini del riscontro di cui

sopra.

Alla fine è forte il sospetto che, in barba ai principi ispiratori della

normativa sulle società di comodo, ribadita a più riprese nei vari documenti

di prassi emanati in tutti questi anni, tutto questo sistema sia stato

improntato e implementato nel tempo soltanto per ragioni di cassa.

19 In effetti le società non operative continuano ad essere soggetti passivi d’imposta tenutiall’addebito e alla rivalsa del tributo ai sensi degli artt. 17 e 18 del Dpr n. 633/1972.

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In definitiva, sarebbe ora di finirla, una volta per tutte, di prendere a

modello questo sistema di “sparare nel mucchio” per riuscire a colpire chi si

comporta in maniera non corretta.

Non si può pensare di risolvere i problemi fiscali rendendo la vita

impossibile a tutti i contribuenti, nessuno escluso, partendo dal presupposto

che si è tutti colpevoli.

Un altro aspetto che lascia perplessi è l’aumento non giustificato dei

coefficienti che vanno applicati agli immobili ai fini dei test di cui al regime

in esame; aspetto, questo, che riguarda in particolar modo le società

immobiliari, guarda caso, le principali indiziate di non operatività e, in

quanto tali, le principali destinatarie della normativa.

Gli studiosi sono concordi nel ritenere che l’incremento del

parametro da applicarsi al costo degli immobili (dal 4 al 6 per cento) sia tale

da far rientrare potenzialmente nel novero delle società di comodo quasi

tutte le società immobiliari “pure” operanti in alcune zone del nostro paese;

in particolare le più penalizzate dovrebbero essere quelle che hanno

acquistato o rivalutato di recente, per le quali sarà molto difficile conseguire

ricavi superiori a quelli presunti. Se la potrebbero cavare quelle che

detengono i fabbricati da molto tempo e quindi con un costo iscritto in

bilancio relativamente modesto.

Singolare è poi il fatto che vengono aumentati i coefficienti relativi

agli immobili quando studi di fonte Nomisma, pubblicati sul Sole 24 Ore del

24 luglio 2006, dimostrano, in modo inequivocabile, che i rendimenti medi

lordi derivanti da locazioni di uffici, negozi e abitazioni si sono

progressivamente ridotti nel periodo intercorrente fra il 2002 e il 2006.

Qualche parola bisogna pur spenderla a proposito di quella parte

della disciplina che riguarda la prova contraria e l’interpello disapplicativo.

Anche qua le dolenti note non mancano.

Abbiamo visto nei precedenti capitoli come, in relazione a questa

parte della normativa, l’Agenzia delle Entrate assume una posizione

decisamente rigida e francamente poco convincente, soprattutto alla luce del

ruolo che l’Agenzia medesima ha ritenuto di poter rivestire.

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Ricordiamo brevemente le tesi dell’Agenzia: la società che ritenga di

voler disapplicare le norme in materia di società di comodo deve inoltrare

istanza di interpello come da art. 37-bis, Dpr n. 600/1973. In caso di risposta

negativa da parte del Direttore regionale, sarà possibile esperire il ricorso

avverso l’eventuale avviso di accertamento, considerato che non è

consentito impugnare autonomamente il diniego del Direttore. Nel caso in

cui non sia stata inoltrata l’istanza di interpello il ricorso contro l’avviso di

accertamento diventa inammissibile.

Questa impostazione non è condivisibile, innanzitutto, perchè risulta

inaccettabile il fatto che l’Agenzia delle Entrate si arroghi il diritto di poter

giudicare inammissibile la possibilità di presentare un ricorso, quando

questa facoltà spetta esclusivamente al giudice tributario.

Non è di molto tempo fa l’intervento della Suprema Corte di

Cassazione che stigmatizza questi comportamenti dell’Amministrazione

finanziaria.

Infatti, nella sentenza 30 novembre 2006, n° 25506 si legge: “in

materia fiscale gli interventi interpretativi sono sempre pro Fisco, in quanto

dettati da ragioni di cassa (nell’intento di realizzare maggiori entrate). Non

sono ispirati, quindi, alla esigenza di realizzare la certezza del diritto, ma

soltanto a garantire gli interessi di una delle parti in causa” e ancora si

afferma che “non è facile distinguere l’Amministrazione finanziaria, parte in

causa, dal legislatore”.

In buona sostanza, l’Agenzia delle Entrate non può, allo stesso

tempo, rivestire il ruolo di parte in causa e giudice del contenzioso

tributario.

Inoltre, la tesi delle Entrate non convince affatto per i motivi che

seguono:

•  se l’interpello fosse un passaggio necessario per poter

successivamente produrre ricorso avverso l’avviso di accertamento il dettato

dell’art. 30, comma 4-bis, L. 724/1994 avrebbe dovuto prevedere l’obbligo

dell’istanza, mentre, a ben vedere, la norma riferisce di una facoltà, atteso

che viene utilizzato il termine “può” e non “deve”;

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•  il D. Lgs. 31/12/1992, n. 546 prevede all’art. 18, commi 2 e

4, i presupposti che determinano l’inammissibilità del ricorso e tra questi

non figura l’assenza dell’istanza di interpello.

Bisogna poi ricordare che si possono verificare particolari situazioniin cui la società può venire a conoscenza di essere soggetta alla normativa

sulle società di comodo quando non è più possibile l’inoltro della istanza.

E’ di recente accadimento l’incredibile “balletto” cui ha dato vita

l’Agenzia delle Entrate a proposito dell’inclusione della liquidazione

giudiziaria nel novero delle possibili cause di esclusione “automatica” dal

regime delle società non operative.

Da principio, la condizione di cui sopra non viene considerata fra le

cause di esclusione; in seguito, la circolare n. 25/E del 4 maggio 2007 al par.

2 la estende, per analogia, a quella prevista per le società in amministrazione

controllata o straordinaria; la circolare 44/E del 9 luglio 2007 alla risposta

3.2 rimette tutto in discussione, visto che ne fa oggetto di interpello

disapplicativo; infine, la risoluzione 209/E dell’8 agosto 2007 (si noti la

data) dà una risposta definitiva20 al contribuente, disattendendo quanto

affermato nella circolare precedente.

Un eventuale liquidatore si potrebbe trovare nella spiacevole

situazione di non sapere se è obbligato o meno a presentare l’istanza.

Con la possibilità, qualora lo fosse, di essere fuori tempo limite per

farlo; non avendo più, a questo punto, la facoltà di impugnare un successivo

avviso di accertamento.

Non è certo questa la certezza del diritto che tutti auspicano.

Si era partiti con la versione primigenia della legge col proposito di

stroncare il fenomeno delle società “fittizie”, come delineato in premessa.

Si è arrivati alla versione attuale della normativa, che, alla fine, serve

solo ad appesantire gli adempimenti amministrativo-contabili e ad

20 “Si ritiene, pertanto – a rettifica di quanto indicato al paragrafo 3.2 della Circolare del 9luglio 2007, n. 44 – che le società interessate da procedure di liquidazione giudiziaria sonoescluse dall’applicazione della disciplina di cui all’art. 30 della legge n. 724 del 1994 senzanecessità di presentare istanza di interpello”.

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aumentare il gettito fiscale, tradendo, in un certo senso, la ratio originaria

della legge.

Non resta che concludere augurandoci un sereno ripensamento del

legislatore sugli aspetti più critici della disciplina, soprattutto nel senso

dell’utilizzo della stessa quale strumento per far emergere quelle società

“potenzialmente” non operative da sottoporre a più mirati e stringenti

controlli.

Ad epilogo di questo mio elaborato vorrei esprimere il mio caloroso

ringraziamento al Prof. Del Federico e al Dott. Cermignani per l’opportunità

e l’aiuto concessomi nella stesura della tesi; a mia moglie, ai miei figli, a

tutta la mia famiglia, al Dott. Pagliaricci e ai colleghi dello studio, che mi

hanno supportato e “sopportato” lungo i tre anni di fatica e studio

universitari; a tutti i professori dei vari corsi d’insegnamento, di ognuno dei

quali ho potuto apprezzare le qualità umane e professionali.