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ValVIBRATA life TERRITORIO CULTURA ECCELLENZE AMBIENTE SOCIETA’ CHEF FOR FISH photo credit: Nicola Cericola www.valvibratalife.com MAGGIO 2014 MENSILE A DISTRIBUZIONE GRATUITA

Val Vibrata Life edizione Maggio 2014

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VAL VIBRATA Life è un giornale Free Press dedicato al territorio della Val Vibrata e dintorni.

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I faccioni “settantacento” sparsi ovunque, che ammiccano a chi l’incrocia, sembrano sorrider-ci. In realtà chiedono. Chiedono il voto, chie-dono di sostenere il partito che li rappresenta insieme all’esercito di soldatini pronti a con-quistare lo scranno delle istituzioni. Chiedono di approvare il programma del fare per il bene collettivo. Perché ad ogni tornata elettorale, tutti sembrano improvvisamente più umani? I candidati di ogni latitudine e colore si ergono a paladini, ai nuovi messia. Cercano di convince-re l’opinione pubblica che ci sarà futuro miglio-re solo se crediamo che il cammello passi attra-verso la cruna del loro ago. Ma non l’avevamo già sentito altre volte il richiamo delle sirene? E’ lo stesso canto di sempre. Volti vecchi e nuovi sembrano usciti da una beauty farm, dopo un lungo trattamento anti aging. Ma sono solo i ri-flessi di Photoshop. La politica si rifà la plastica facciale ma non riuscirà a rimpolpare le rughe dell’etica svenduta. Quella, quando è sana, ce l’hai o non ce l’hai. I buoni ed i cattivi abitano questo mondo dalla notte dei tempi. Ed anche domani sarà così.

In merito all’articolo “Chiuso per legge” (febbraio 2014), riceviamo la replica dell’assessore al Comu-ne di Nereto, Patrizio Baldini. “E’ stato più sempli-ce ascrivere la responsabilità della soppressione dell’ufficio del giudice di Pace anche al Comune di Nereto. L ’amministrazione Minora ha posto in es-sere fin da gennaio 2012 ogni utile attività volta a scongiurarne la soppressione. Anche allorquando il Presidente della Corte di Appello di L’Aquila ha decretato il trasferimento del personale dell’Ufficio del Giudice di Pace di Nereto, per “… l’impossibili-tà di un regolare funzionamento …” ( sancendo di fatto una anticipata soppressione), l’amministrazio-ne comunale si è attivata ottenendo un rinvio. Per il mantenimento dell’Ufficio del Giudice di Pace che la legge accolla per intero all’ente pubblico locale, la spesa era quantificata in circa euro 150mila euro annui. Ovviamente, l’amministrazione neretese, non potendo farsi carico in via esclusiva dei costi,ha cer-cato di coinvolgere i Comuni ai quali è stato richiesto di compartecipare anche in proporzione alla densità demografica. Solo due risposero positivamente.

VAL VIBRATA LIFE Anno III Numero 21

DIRETTORE RESPONSABILEAlex De Palo

HANNO COLLABORATOAlfonso Aloisi, Federica Bernardini, Virginia Ciminà,

Anna Di Donato, Martina Di Donato, Noemi Di Emidio, Alessandra Di Giuseppe,

Roberto Di Nicola,Francesco Galiffa, Giordana Galli, Virginia Maloni, Stefania Mezzina, Nando Perilli,

Andrea Spada, Paride Travaglini

EDITOREDiamond Media Group s.r.l.

Via Carlo Levi, 1- Garrufo di Sant’Omero (TE)Tel. 0861 887405 - [email protected]

VAL VIBRATA LIFEReg. Trib. di Teramo n° 670\2013

GRAFICADiamond Media Group s.r.l.

STAMPAArti Grafiche Picene s.r.l.

PUBBLICITA’[email protected]

RESPONSABILE TRATTAMENTO DATI Dlgs 196/03Alex De Palo

Riservato ogni diritto e uso. Vietata la riproduzione anche parziale

LA POLITICA ANTI AGING

ALEX DE PALO

LETTERE AL DIRETTORE

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LO STORICO MERCATO ITTICO DISAN BENEDETTO DEL TRONTO

I BECCACECI MAESTRIDELLA CUCINA

IL PITTOSCULTORE MARCO DI LUIGI

I PUPAZZI DI PAGLIA

TONY E LA PIZZA CAMPIONE DEL MONDO

IL MACELLAIO NOVANTENNE DI MONTEMONACO LE CEPPE CIVITELLESI

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SOMMARIOMaggio 2014

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IL DISSESTO DELLE STRADEPROVINCIALI

INTORNO A UN CHICCO DI gRANO

ALFIO CAPPELLETTI E LA SUAMACCHINA DA CUCIRE

ABRUZZO LIVE IN LONDON

MODA

VAL VIBRATA BABY

LA SATIRA DI PERILLI

CINEMA

I CANARINI DI gABRIELE NEPA

UNA REgIONE VERDE CON POCO BIO

EVENTI

LA MOSTRA DELLE RADIOD’EPOCA

BELLEZZA

DIALOgO

RICETTE DELLA MEMORIA

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Stando ai dati della Provincia, il sistema via-rio di competenza è di1800 km che si sno-dano sui 47 comuni teramani. Ciò che traspare è che dal 2009 (anno di

insediamento dell’ultima giunta) i finanziamenti regionali hanno subito un disastroso blocco e dei circa 8 milioni annui assegnati a ciascuna Provin-cia negli anni ora non c’è neppure l’ombra.A ciò va aggiunto il mutuo di 4miliardi di euro chiesto dalla Regione per coprire i debiti contratti negli anni e far fronte ad una crisi sempre più cre-scente.Per quanto concerne la viabilità nel particolare, uno dei problemi che la provincia si è trovata ad affrontare è stata la cessione di 250 km di strade dall’Anas insieme ad 1,5 milione di euro che la giunta avrebbe dovuto utilizzare per la manuten-zione di quei tratti ma che, essendo l’unica fonte di sostentamento, è stata spalmata sui 1800 km complessivi. A complicare la situazione, oltre alla fragilità del territorio ed al maltempo, è stata la burocrazia. L’alluvione del primo marzo 2011, infatti, provocò ben 135milioni di danni di cui 115milioni agli enti pubblici e 20milioni ai privati; dei 33milioni pro-messi dalla Protezione Civile, 5 milioni sono giunti

BENVENUTI NELLE STRADE GROVIERA DELLA VAL VIBRATA

nel dicembre 2013 e gli altri 28 a gennaio, esat-tamente dopo 3 anni. Di questi, 13milioni sono stati immediatamente utilizzati per rimborsare i comuni. Un’altra alluvione ha colpito il territorio a dicembre 2013, riconoscendo danni per 15 milioni di euro, ancora in attesa di essere erogati.A rendere sempre più complicato l’intreccio sono i 20 milioni di euro restanti e immediatamente uti-lizzabili. La Protezione Civile ha posto dei limiti per cui non è possibile versarli nelle casse senza previa autorizzazione.Così accade che alcuni Comuni facciano di neces-sità virtù. Ancarano ha deciso di trattenere ben 30mila euro destinati alla Provincia, per riparare la strada provinciale 1/B scatenando quasi certa-mente un contenzioso giudiziario. Per la Sp 259 che va da Maltignano ad Alba sono stati stanziati 6 milioni inseriti nel cronoprogramma di manuten-zione e restauro dei 25 km; i 15 milioni destinati alle altre strade provinciali sono invece in attesa di erogazione ed i 20 a disposizione sono sotto la direzione della Protezione Civile.Infine, di 473 dipendenti, 30 sono cantonieri e ben 443 gli impiegati.

Quelle provinciali sono ridotte a mulattiere Per molte mancano i soldi per la manutenzione

ANNA DI DONATO

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Sono numerosi gli utenti della strada che a seguito di un sinistro stradale intendono chiedere un risarcimento alla pubblica am-ministrazione per il danno subito, ritenen-

do la stessa responsabile anche solo parzialmente, dell’incidente occorso. In ogni caso la domanda di risarcimento va sempre rivolta al Comune, stato o ente gestore della strada, che potranno poi a loro volta chiamare in causa le ditte da loro designate per la custodia. La giurisprudenza più recente è concorde nel ritenere che non si debba esclude-re a priori l’applicazione dell’art. 2051 cc nei con-fronti della pubblica amministrazione (Cass. civ., 15384/06, Cass. civ., 4962/07, Cass. civ., 5308/07, 20427/08), salvo il caso in cui sia oggettivamente impossibile l’effettiva custodia del bene demaniale (Cass. civ., 20827/06). Sicchè l’applicazione dell’art. 2051 cc sarà, ad esempio, possibile nel caso in cui la strada si trovi nel perimetro urbano del Comune o si tratti di strada aperta al pubblico transito. A carico della pubblica amministrazione graveranno quei rischi connessi all’inosservanza dei doveri di sorveglianza e manutenzione razionalmente esi-gibili in base a criteri di corretta e diligente gestio-ne, con esclusione della responsabilità della PA nelle ipotesi di pericolo impre-vedibile ed inevitabile ascrivibile a ter-zi o allo stesso danneggiato. Sulla scor-ta di quanto affermato dalla Suprema Corte, la pubblica amministrazione, in qualità di custode della rete stradale di propria competenza, è soggetta all’ap-plicazione della c.d. “responsabilità aggravata” prevista all’articolo 2051 cc. Per avere buone chances di vincere una causa per risarcimento da danno da sinistro stradale, devono sicura-mente sussistere due elementi fonda-mentali: l’imprevedibilità della pre-senza di una buca o di una sostanziale anomalia nell’asfalto e l’inevitabilità dell’impatto che ha causato il sinistro. Occorrerà, ad esempio, provare che è

stata la cattiva condizione del manto stradale a provocare l’incidente o, ancora, documentare ade-guatamente l’inevitabilità della buca, ad esempio dimostrando che la stessa poteva essere evitata solo effettuando brusche e pericolose manovre. Utili saranno foto sia alla strada, da varie angola-zioni, che alle vetture danneggiate; chiamando le forze dell’ordine affinchè verbalizzino quanto accaduto. Il danneggiato dovrà quindi inoltrare la richiesta di risarcimento al sindaco (precisando data, ora luogo del sinistro, modalità dell’accadu-to, foto del luogo, dei danni oltre che la fattura at-testante i danni subiti). Qualora la richiesta di risar-cimento venga disattesa o non riscontrata, si potrà sempre ricorrere in giudizio provando l’entità del danno subito, documentandolo dettagliatamente. Sul tema in esame, infine, si segnala una recente pronuncia della Corte di Cassazione, la n. 3640 del 14 febbraio 2013, che ha ribadito un principio, oramai consolidato, secondo cui: “agli enti pub-blici proprietari di strade aperte al pubblico tran-sito in linea generale è applicabile l’art. 2051 c.c”.

*(Avvocato)

QUANDO LE STRADE SONO INSIDIA O TRABOcchETTORisarcimento dei danni, cosa dice la legge

*BRUNO MASSUCCI

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RIO Domanda e offerta per la vendita del pesce

si incontrano al Mercato Ittico di San Be-nedetto del Tronto, dove fanno capo i vari compartimenti, tra cui quello di Martinsi-

curo. Un luogo che supporta a terra lo sforzo del lavoro e della produzione, preservando il pesca-tore da interferenze parassitarie, facendo in modo il giuoco della domanda e dell’offerta avvenga in assoluta trasparenza. Fatte salve esigue quantità che il piccolo pescatore vende direttamente e le forniture continuative destinate ad altri mercati o a stabilimenti, nel Mercato all’ Ingrosso confluisce, alla fine, tutto il pescato locale. Agli acquisti sono ammessi commercianti, esercenti di pubblici eser-cizi, aziende di trasformazione, produttori singoli ed associati, comunità, convivenze, cooperative di consumo ed enti pubblici, mentre alle vendite sono ammessi commercianti, aziende di trasfor-mazione, produttori, cooperative e commissio-nari in genere. Nel passato, in assenza di queste infrastrutture, la vendita del pesce avveniva sulla spiaggia.Fu nel 1886, che il Comune di San Benedetto del Tronto costruì il primo Mercato all’Ingrosso. Con l’andare del tempo, però, subì un forte degrado, rivelandosi antigienico ed incapace di soddisfare le esigenze delle categorie interessate.Fu così che si rese necessario costruire un nuo-vo Mercato, quello attuale, in stile architettonico pompeiano, che entrò ufficialmente in funzione nel 1935, sostituendo la vecchia Pescheria che sor-geva poco distante. Negli anni trenta del secolo scorso, San Benedetto del Trontootteneva il primato italiano e dell’intero bacino del Mediterraneo di pesce sbarcato, astato e commer-cializzato. Il pesce annualmente pescato si aggi-rava intorno ai 70 mila quintali e il complesso del nuovo mercato doveva per forza di cose adeguarsi a questo primato. Concepito dal suo progettista, l’ingegner Luigi Onorati, in maniera razionalista, venne considerato all’avanguardia, rispetto ad al-tri mercati d’Italia. La struttura fu distrutta durante la seconda guerra mondiale; poi, ripresa l’attività peschereccia sam-benedettese e di conseguenza la commercializza-zione del pescato, si rese necessario ricostruire an-

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che il Mercato ittico e nel 1964 venne inaugurata la prima asta automatica. Alla fine del 1992 entrò in funzione una nuova asta elettronica detta di tipo “olandese”, nel 1996 il Mercato Ittico ottenne il riconoscimento CE definitivo per la sala d’asta e l’anno successivo il Mercato Ittico all’Ingrosso ven-ne ristrutturato ed ampliato. Nel 2002 prenderà il via il nuovo sistema di asta elettronica.Dal 1994, direttrice del Mercato Ittico è Maria Grazia Villa; anni nei quali erano 100 le imbarca-zioni che rientravano al porto di San Benedetto del Tronto, che vendevano all’asta pesce bianco, mentre attualmente le imbarcazioni sono poco sopra 40. Un ridimensionamento drastico, una ri-duzione del pescato, un dato imputabile ad una minore offerta del mare, al cambiamento delle modalità di pesca, alle imbarcazioni dalle diffe-

chI SI SVEGLIA (LA NOTTE) PIGLIA PEScISono gli operai del mare che animano il mercato ittico di San Benedetto, nato nel 1886 Loro lavorano quando noi dormiamo per garantire le bontà dell’Adriatico sui banchi di Marche e Abruzzo

STEFANIA MEzzINA

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tura particolare che si ripete. Dal 6 maggio, l’orario di vendita del pesce bianco all’asta automatica, con contrattazione a ribasso, è stato anticipato alle 3.45, anziché alle 4.30. Un cambiamento determinato dalla richiesta degli armatori – ci viene riferito- nella convinzione che possa agevolare l’aumento del prezzo della vendi-ta all’asta.Per il pesce azzurro si tengono ulteriori due aste. Si svolgono intorno alle 10.30, quando sbarcano le lampare, mentre nel pomeriggio si tiene l’asta per le volanti: in questo caso l’asta è a rialzo e si svolge a voce, trattandosi di quantità massive di pescato, di gran lunga maggiore rispetto al pesce bianco. Se Maria Grazia Villa e il vice direttore Mario Carda-relli rappresentano il presente, il passato è nei ri-cordi di Amedeo Staderini, ex vice direttore, arriva-to al Mercato Ittico nel 1972, quando era già stata meccanizzata la vendita all’asta. L’asta era mecca-nizzata, ma non lo era la registrazione, che avveni-va a mano. Tutti i fogli dell’asta venivano realizzati a mano, con l’aiuto di una semplice calcolatrice. All’epoca erano 18 i dipendenti, che effettuava-no il rientro pomeridiano, per l’asta dedicata alla piccola pesca. I ricordi dell’ex direttore Staderini spaziano anche al diverso orario che si effettuava in quegli anni, anche per via di una flotta molto numerosa e importante come tonnellaggio; c’era-

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chI SI SVEGLIA (LA NOTTE) PIGLIA PEScI

renti tecnologie, a partire dalla potenza dei motori all’utilizzo della doppia rete americana, non solo singola e con la pesca a strascico. Ma se in termini numerici il quantitativo si è ridotto drasticamen-te, resta contenuto il volume di affari perché ov-viamente sono aumentati i prezzi del pescato. La sofferenza del settore della pesca è dettata dagli aumenti delle tasse e del prezzo del gasolio, dai nuovi adempimenti, dalla richiesta di attrezzatu-re di bordo. Una crisi del settore, dunque, che ha portato a registrare il fenomeno della demolizione delle imbarcazioni. Dunque, il mercato ittico è un luogo caratteristi-co, che da 20 anni a questa parte registra la stessa modalità di vendita. Sono gli stessi addetti ai lavori che lo descrivono come un posto statico, difficil-mente modificabile, per una tradizione e una cul-

Sono gli operai del mare che animano il mercato ittico di San Benedetto, nato nel 1886 Loro lavorano quando noi dormiamo per garantire le bontà dell’Adriatico sui banchi di Marche e Abruzzo

Foto di Paride Travaglini

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no le navi d’altura, che andavano a pescare nel ca-nale di Sicilia e stavano fuori 5 o 6 giorni, dunque quasi tutta la settimana e che pescavano un po’ di tutto. Staderini ricorda anche le altre barche, che stavano in mare 2 o 3 giorni, mentre ora è cam-biato tutto, è più facile, grazie all’avvento di nuove attrezzature. L’ulteriore ricordo positivo, a parte quello del gran-de lavoro dettato proprio dalla maggior presenza di barche, era il rapporto che si instaurava con i marinai, sempre molto alla mano e con un gran-dissimo cuore. “La mattina quando arrivavano le barche, si dava loro un numero e si sorteggiava con la classica conta, per determinare chi avrebbe dovuto pe-scare per prima il numero abbinato alla posizione. La buonanima di Sofia Prichiò – ricorda Amedeo Staderini – per scaramanzia lasciava il sale dentro il sacchetto con i numeri, e prendeva il numero. Ho imparato lì ad alzare la voce, perché qualche pescatore se la prendeva con me se gli capitava troppo spesso di scegliere il numero che lo face-va vendere per ultimo. Ovviamente è sempre più conveniente essere tra i primi, entro la decina sicu-ramente. I tempi erano più lenti, si iniziava alle 4 e si finiva anche alle 11 e in quel periodo sicuramen-te gli scampi erano pescati in grande quantità così come i rospi”. Qualche statistica, che rende l’idea dei cambia-menti del pescato, negli anni:nel 1937 il movimento del pesce fu di 3.508.085 kg di pescato, per un importo di lire 9.504.179, ci-

fre destinate ad aumentare anno per anno, sino al 1940, anno dell’entrata in guerra dell’Italia, che vide molti motopescherecci requisiti dal governo e utilizzati come dragamine, portando ad una ine-vitabile flessione nel settore. Il pesce venduto nel 1940 scese, infatti, a kg 2.256.230, e il ricavo a lire 8.528.309 e alla chiusura del mercato all’ingrosso del pesce per la guerra, furono numerosi i moto-pescherecci che si allontanarono dal porto di San Benedetto del Tronto. Negli anni successivi la ri-presa fu regolare, in crescendo.In anni più vicini, è interessante il raffronto tra va-rie tipologie di pesce: a dicembre 1997 sono stati introdotti al mercato ittico kg 58.051 di alici, 466,5 di sgombri, 38.848 di merluzzi, 4.139 di calamari, pannocchie 3.632 kg e scampi 12.837. A dicembre 2013, sono stati 96317 i kg di alici in-trodotte, 950 gli sgombri, 22.094 i merluzzi, 498 kg di calamari, 23.999 di pannocchie e 5.703 gli scampi.

Si ringrazia per la collaborazione:lo storico Giuseppe Merliniil Direttore/ Responsabile del Mercato Ittico, Dot-toressa Maria Grazia Villa e il Vice Direttore Mario Cardarelli l’ex Vice Direttore Amedeo Staderini

Foto di Giuseppe Merlini

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INTORNO A UN chIccO DI GRANOLo spettacolo della trebbiatura: si gira, azione! (parte prima)

FRANCESCO GALIFFA

Quando tutti gli attori si erano sistema-ti sulla scena, il motorista alzava i ritmi della macchina generatrice dell’energia, che, trasmessa da una grossa cinta (“lu

centò”) era distribuita, tramite cinte più piccole, ai vari organismi della trebbiatrice; quando questi entravano tutti in funzione sembrava di assistere a un concerto! Il timbro del suono si faceva più cupo nel momento in cui il battitore cominciava a ingo-iare i primi covoni e l’intestino della trebbiatrice a tritare la paglia. La “nota” più lieta era quella emes-sa dal tintinnare dei primi chicchi di grano, i quali, dalla bocchetta della trebbiatrice, cadevano den-tro “lu beunze”, un recipiente di ferro largo e basso.Un osservatore esterno si trovava di fronte un qua-dro pieno di persone, che si muovevano, con sicu-rezza e perizia, nel settore di propria pertinenza. Alla serra del grano erano destinati sei giovani e forti operai, divisi in due squadre, con il compito di trasferire con la forca di legno i “manocchi” sul piano della trebbiatrice; tra di loro doveva regnare un assoluto affiatamento e per questo si precosti-tuivano dei gruppi nei quali non si accettavano soggetti riconosciuti come abituali scansafati-che. Il loro lavoro era pesante e si faceva sfibrante quando il livello della serra si abbassava e i covoni dovevano essere sollevati; per alleviare la fatica i due gruppi si davano periodicamente il cambio, in genere dopo un certo quantitativo di grano pro-dotto. Presso i contadini che coltivavano piccoli appezzamenti, quelli per intenderci che raccoglie-vano 40-50 quintali di grano, generalmente non era previsto il doppio turno; quando c’era, chi non stava sulla serra del grano andava a spostare i sac-chi. Il numero più consistente di operai era dislocato sulla serra (8-10 unità) o sul mucchio (5-6) della pa-glia; di solito erano uomini non più giovanissimi, ormai alla fine della loro carriera; avevano il com-pito di prelevare con la forca la paglia dal punto in cui l’alzapaglia la lasciava cadere, di distribuirla in modo uniforme su tutta la superficie della serra e di pressarla camminandoci sopra; il numero degli addetti era quindi proporzionale alla quantità di paglia da sistemare. Per costoro non era previsto

alcun cambio: chi doveva recarsi a fare un biso-gno o, più semplicemente, desiderava prendersi una pausa, faceva appoggiare la scala, scendeva e capitava, a volte, che si assentasse per un tempo piuttosto lungo. Quando tornava al suo posto, si doveva sorbire naturalmente i rimbrotti e anche gli improperi dei compagni, i quali, nel frattempo, si erano dovuti sobbarcare la sua parte di lavoro. Quando lo “sgarro” era compiuto nei confronti di qualcuno a cui saliva facilmente il sangue alla te-sta, si scatenava l’inevitabile lite, che poteva dege-nerare in rissa; questo era il motivo principale per cui era vietato, durante la trebbiatura, l’uso di for-che di ferro, più pericolose, oltre che più pesanti, di quelle in legno. Coloro che stavano sul mucchio o sulla serra incorrevano negli stessi inconvenien-ti dei due operatori che si trovavano sulla “piazza” della trebbiatrice perché, soprattutto nelle giorna-te molto arieggiate, dalla paglia che cadeva si le-vava una densa nuvola di polvere, che li investiva in pieno, specialmente quando si trovavano con-trovento. Muoversi, inoltre, era alquanto faticoso perché le gambe si affossavano nella paglia fino alle ginocchia. A dirigere la realizzazione del mucchio e della serra, erano addette una o due persone, le quali, come si diceva in gergo, “li tiravano”, ne governa-vano le forme. Erano degli specialisti, dotati di un gran senso delle proporzioni, affinato con l’espe-rienza di tanti anni di lavoro; li potremmo definire gli architetti dell’aia, che progettavano e realizza-vano volumetrie affascinanti, spazzate via, in se-guito, dall’avvento delle cataste di balle o di enor-mi rotoloni di paglia riparati sotto orribili tettoie con copertura in lamiera. Costoro entravano in azione prima ancora che ini-ziassero le operazioni della trebbiatura. Dopo aver stimato il volume dei covoni, disegnavano per ter-ra il perimetro della serra della paglia o del muc-chio, collocati, come tutti gli altri annessi, ai mar-gini dell’aia. La base della serra aveva la forma di un trapezio equilatero. Per squadrarla, allineavano tre punti sull’asse centrale e poi, con l’ausilio di due corde e alcuni pioli, ultimavano la costruzione della figura; lungo i lati piantavano dei paletti alti

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una cinquantina di centimetri, che fungevano da punti di riferimento nella prima fase della sua re-alizzazione. Tra i lati paralleli, che delimitavano le estremità della serra, il più corto misurava il 20% in meno di quello più lungo: se quest’ultimo era di 5 metri, il più piccolo era di 4. Anche le distanze da terra dei punti in cui la serra cominciava a rastre-marsi e quella del colmo rispettavano le suddette proporzioni. Prolungando tutte le linee laterali del solido ci si accorgeva che finivano con l’incrociar-ci in un punto focale, che probabilmente rappre-sentava il riferimento iniziale scelto dall’architetto: ad esso avrebbe sempre guardato l’architetto per

realizzare un solido dalle forme geometriche per-fette. Il perimetro del mucchio aveva la forma di un cer-chio; per disegnarlo, l’esperto fissava l’estremità di una corda al palo di legno intorno al quale si sa-rebbe ammassata la paglia, individuava la misura del raggio basandosi sulla quantità di covoni da trebbiare e marcava la linea perimetrale confic-cando per terra i soliti bastoncini. Il mucchio era costituito da due solidi: un cilindro, al quale si so-vrapponeva un cono. Affinché le forme delle serre

e dei mucchi fossero le più equilibrate possibili, i “direttori dei lavori” impartivano precise disposi-zioni per spargere la paglia in modo uniforme su tutto il piano. Suggerivano agli incaricati di farla sporgere di più o di ritirarla e di pressarla al pun-to giusto, soprattutto agli angoli della serra, dove agivano gli operai più esperti; dirigevano le ope-razioni girando intorno alla costruzione e, con l’ausilio di pertiche di varia lunghezza e di rastrelli, tiravano via la paglia in eccesso. La loro responsa-bilità più gravosa ara quella di decidere quando era il momento di iniziare a rastremare; sbagliando i calcoli, correvano il rischio di non avere la paglia

sufficiente per chiudere il mucchio o, viceversa, di trovarsene parecchia in esubero; strada facendo era possibile porvi in qualche modo rimedio, ren-dendo il cono più o meno spiovente; ma quando veniva fuori una figura schiacciata, i malcapitati re-sponsabili erano scherniti e ritenuti autori, parlan-do con rispetto, di una “cacata”. Durante l’assolvi-mento del loro compito sostavano principalmente sul versante ombreggiato della serra; nelle torride giornate di luglio ciò costituiva una condizione di assoluto privilegio, che provocava molta invidia

Sguardo d’insieme sulla trebbiatura. (Dal libro “Agricoltura di ieri e di oggi” di Luigi Pezzatini)

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in coloro che, soprattutto se capaci di svolgere la stessa mansione, grondavano sudore sotto il sole; costoro arrivavano persino, per dispetto, a boicot-tare i loro amici/nemici non eseguendo le indica-zioni date e buttando molta paglia per terra. Una procedura analoga era seguita per tirar su la serretta della “cama”, la cui parte perimetrale era realizzata con il recupero della paglia caduta alla base del mucchio. Due persone, quasi sempre i vecchi, raccoglievano con un rastrello di legno la pula, costituta dai resti della spiga e dai frammenti più piccoli di paglia, che l’ultimo crivello lasciava cadere sotto la trebbiatrice, e poi, con una pala, la lanciavano all’interno del recinto, dove aveva-no preso posto 3-4 operai, i quali, sotto la guida dell’esperto, la sistemavano. Questo era il posto che tutti avrebbero voluto evitare perché al fasti-dio della polvere si aggiungeva quello procurato dalle piccole particelle di “cama”, le quali, infilan-dosi all’interno degli abiti sino alle parti intime, provocavano, soprattutto quando s’impastavano al sudore, un irritante prurito. Per questo, alla ser-ra della pula finivano abitualmente i ritardatari e i più giovani, che dovevano pagare lo scotto del noviziato. Quando la quantità di pula prodotta era scarsa, era messa dentro “li cestù”, che le donne si sollevavano sulla testa e poi, salendo anche diversi pioli di una scala di legno, vuotavano sulla serra della paglia. A titolo di curiosità, riferiamo che la

serra della “cama” era il luogo ideale per collocare le trappole per i passeri quando la campagna era innevata; rovistando tra la pula, gli affamati uc-cellini trovavano sì qualcosa con cui sfamarsi, ma spesso anche la morte. Ultimiamo la nostra carrellata sui protagonisti del-la trebbiatura con gli addetti alla bocchetta del grano, che per primi avevano chiara la percezione dell’entità del raccolto. Nei tempi più lontani erano tre: uno reggeva il sacco e gli altri due vi svuota-vano dentro il contenuto dei recipienti che racco-glievano il grano, “lu tummule”, della capienza di 50 kg circa, o “lu beunze”; se ne usavano due ed erano l’oggetto del desiderio di tutti gli operai, che, appena giunti sull’aia, facevano a gara per ac-caparrarseli perché l’operazione del riempimento dei sacchi, per i tempi morti che presentava, era ritenuta un lavoro leggero. Con l’evoluzione delle trebbiatrici, la bocchetta del grano fu dotata di un congegno che permetteva di fissarvi direttamente i sacchi e il numero degli addetti al loro sposta-mento salì a 4, divisi in due coppie, che si alterna-vano nel trasportarli alla bascula per la pesa, effet-tuata sotto il controllo del padrone o del fattore. Queste figure scomparvero quando la trebbiatrice fu dotata di una coclea o di un lanciagrano pneu-matico, che trasferivano il grano direttamente nel magazzino.

Il mucchio della paglia e la serra della pula.

La serra della paglia. (Collezione Attanasio Piccioni)

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IL MARE A TAVOLALa storia della famiglia Beccaceci, monumento della cucina giuliese

ALFONSO ALOISI

Foto di Nicola Cericola

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Occorre tornare indietro negli anni per ri-costruire a grandi linee la storia del risto-rante Beccaceci e ciò che ha significato per Giulianova. Siamo a cavallo del XIX e

XX Secolo, diversi anni prima della Grande Guerra. La strada Adriatica, l’attuale Statale 16, era un’arte-ria realizzata quasi esclusivamente in terra battuta, percorsa da carrozze, cavalli e qualche sporadica bicicletta. Molto lontani dal mondo dei rumori e dei motori che man mano hanno soppiantato quelli che erano i trasporti tradizionali di merci e persone. Sicchè Pasquale Beccaceci, antesignano operatore dell’accoglienza sulla costa teramana, creò uno dei primi alberghi lungo l’arteria paral-lela alla riviera abruzzese. L’esercizio partì con il nome di “Albergo Beccaceci”, una sorta di stazione di posta con stalla per accudire i mezzi di locomo-zione rappresentati dai cavalli e farli riposare du-rante la notte. Un albergo un po’ particolare dove si poteva mangiare e dormire, ma che i viandanti, quelli meno abbienti, potevano utilizzare per pre-pararsi i pasti autonomamente utilizzando scorte e vivande al seguito. Pasquale Beccaceci era padre di sei figli, tre donne e tre uomini, tra questi c’è An-drea che convolò a nozze negli anni ’20 con Anna Sabatini, donna energica e con la passione dell’ar-te culinaria. Poco dopo fu inaugurato in piazzale della Stazione un ristorante-caffè che non porta-va ancora il marchio ‘Beccaceci’. Lo sarà più tardi quando il “Ristorante Beccaceci” fu avviato in via Galilei. Nel frattempo Anna Sabatini, vedova dal 1942 con due figli a carico, Carlo e Imperia, prese in mano le redini dell’attività rimanendo attiva fino a pochi mesi prima della morte avvenuta nel 1999. “Una donna con settanta anni di cucina sulle spal-le”, sottolinea il nipote Andrea Beccaceci che ha ereditato in pieno l’attività di famiglia. Ritornando alla “storia” occorre ricordare che Anna Sabatini fu

Foto storica con Carlo Beccaceci

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affiancata dal figlio diciottenne Carlo Beccaceci ed in quel periodo l’esercizio fu diversamente deno-minato prendendo il nome di “Ristorante Gloria” per rendere omaggio ad una causa vinta in tribu-nale. La fortuna del ristorante arrivò alla fine del 1940, in concomitanza con la realizzazione del porto di Giulianova. Fino a quel momento si cu-cinavano esclusivamente pietanze a base di carne ed il pesce in circolazione era quello povero pro-veniente dalle sciabiche a riva o dalle paranze. Fu cambiata completamente la filosofia dei pasti. L’o-biettivo non era più quello di sfamare il viandante, ma far gustare alla clientela il piacere della tavola. Il passaggio al ‘pescato’ fu immediato visto che la marineria, disponendo di un nuovo approdo e con mezzi certamente più moderni, era in grado di for-nire una varietà di pesce fino ad allora impensabi-le. Nel 1953 un’altra figura entrò a far parte della famiglia, Maddalena Mazzaufo detta Nena, allora fidanzata di Carlo Beccaceci che sposerà due anni dopo. Nena iniziò così l’apprendistato fino a diven-tare, nel corso di quarantasei anni di convivenza vicino ai fornelli, l’erede di fatto di tutti i segreti di Anna Sabatini. Dicevamo, nel 1960, per motivi di spazio, fu avviata l’attuale sede del Ristorante Beccaceci in via zola. Scelta voluta soprattutto da Carlo Beccaceci diventato nel frattempo uno dei personaggi più in vista della zona anche per altri interessi non necessariamente legati al mondo della ristorazione. Un episodio negativo, in parte compensato da una vincita, segnò la vita dell’atti-vità di ristorazione. Nel 1977 Carlo Beccaceci cen-trò un bel “13” al Totocalcio che gli fruttò la bella cifra di settanta milioni delle vecchie lire. Qualche mese dopo accadde l’imponderabile. I ladri, dopo aver ripulito la cassa contenente gli incassi del week end, diedero fuoco al locale forse per non lasciare tracce o per dispetto. L’assicurazione co-prì solo la tinteggiatura delle pareti. Carlo non si perdette d’animo ed avviò subito una veloce ed efficace ristrutturazione conferendo al locale un tocco di buon gusto e signorilità. Lo stesso di oggi. Il legame del Ristorante Beccaceci con la Città di Giulianova è stato sempre e comunque forte. Più in particolare i rapporti con la gente di mare sono stati in ogni caso molto profondi e si sono sempre più consolidati negli anni. Carlo Beccaceci, anche nello sport, ha rappresentato la giuliesità. Non a caso lo slogan che ha sempre accompagnato il ri-storante è “Giulianova è ovunque…”. Ed esistono testimonianze di giuliesi che, recatisi all’estero per lavoro o per turismo, si sono sentiti dire: “Ma allora lei è della stessa zona del ristorante Beccaceci…!”. A rendere famoso il nome, ma anche la qualità e la genuinità del locale, ha contribuito la presenza negli anni di personaggi di spicco del mondo del cinema, dello spettacolo, della musica, dello sport, della letteratura e della moda. Si potrebbe iniziare a caso con il mitico Tazio Nuvolari per continuare con Sergio Leone, Ennio Morricone, Claudio Vil-la, Rita Pavone, Franco Battiato, Claudio Baglioni, Nanni Loy, Mario Bo, Giuseppe Ungaretti, Ottavia Piccolo, Tino Buazzelli, Lando Buzzanca, Paolo Vil-

laggio, Lucio Dalla, Ottavio Missoni, Antonio Con-te, Gigi Proietti e tanti altri ancora. A proposito di quest’ultimo si racconta un particolare episodio rimasto nella storia. Al momento del pranzo, qual-cuno del tavolo vicino riconobbe l’attore romano e come gesto di amicizia offrì una bottiglia di cham-pagne. Proietti rimase sorpreso ed entusiasta del gesto e così si trattenne nel ristorante per diverse ore andando via solo nel tardo pomeriggio dopo aver raccontato barzellette e simpatici aneddoti di vita vissuta. Caratteristica dei titolari del ristorante è stata sempre l’estrema sobrietà, tant’è che non si sono mai fatti fotografare accanto ai personaggi di cui abbiamo detto. Anche questo è stile.

RICETTA DEL RISTORANTE BECCACECI PER VALVIBRATA LIFE (inedita)

FUSILLONI CON SOGLIOLE E FAVE

Ingredienti per 4 persone :

100gr di fava fresca sgranata e decorticata 50gr di carota grattugiata4 sogliole da circa 120gr l’una1 cipolla1 bicchiere di spumante320 gr di fusilloni grandi0,5 dl olio extra vergine di oliva

Procedimento:

Soffriggere nell’olio la carota e la cipolla e una volta dorate aggiungere le fave e le sogliole private della pelle e della testa. Sfumare con lo spumante, aggiun-gere una piccola quantità di sale e lasciar cuocere per circa 10 minuti. Giunte a cottura spinare le sogliole e tagliarle a piccole parti .Cuocere i fusilloni in abbondante acqua salata e, mol-to al dente, unire alla salsa insieme a un piccola parte di acqua di cottura o, meglio ancora, brodo di pesce. Amalgamare bene e servire in piatti caldi.

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Al centro di tutto c’è una particolare mac-china da cucire, una Singer modello “51 w 54 Colonna”, divenuta col tempo l’asso nella manica per il lavoro di Alfio Cap-

pelletti. Una macchina tutta americana giunta a Milano direttamente dagli Stati Uniti nel 1947 impiegata nella cucitura del cuoio e del pellame in genere. Forse è l’unico esemplare ancora fun-zionante presentew in Italia. Era stata acquistata poco meno di settanta anni or sono da Antonio Cappelletti, padre di Alfio e vecchio commercian-te di cuoio e pellame vibratiano di Tortoreto Alto. All’epoca abitava nel fabbricato di proprietà in cui ora è ubicata la pizzeria da Anchise e dove è nato Alfio Cappelletti. Qualche anno più tardi Antonio

Cappelletti lasciò Tortoreto Alto, vendette tutto e si trasferì a Giulianova Lido dove ha acquistato in via Thaon de Revel un appezzamento di terreno al prezzo di 500 lire al metro quadro. In breve tempo fu realizzata una palazzina: al piano terra, fronte strada, nacque il negozio di cuoio e pellame oltre al laboratorio per la lavorazione artigianale di to-maie. Regina dell’attività, proprio la Singer 51 w 54. All’età di 15 anni, come era frequente all’epoca, Al-fio iniziò a lavorare nella bottega paterna dedican-dosi al taglio delle tomaie ed al cucito delle stesse. Più tardi, scoprirà che la lavorazione delle tomaie non è più remunerativa a causa delle industrie del settore che riescono a confezionare a prezzi più contenuti. Tutto questo grazie ad una produzio-

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UNA VEcchIA SINGER IL PRIMO “BOLIDE” DA cORSA

Alfio Cappelletti, la passione per le “rosse” di Maranello e l’inseparabile macchina da cucire

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ne più ampia grazie allo sfruttamento di tecno-logie all’avanguardia. Così Alfio Cappelletti avviò un altro percorso lavorativo che alla fine si rivelerà essere la sua fortuna. La nuova strada è rappre-sentata dalla riparazione artigianale di articoli in pelle e cuoio, borse, giubbotti e quant’altro avesse attinenza con il materiale tanto caro alla famiglia Ceppelletti. Alfio coltivava, non ancora quindicen-ne, una particolare passione per le competizioni motociclistiche. A Tortoreto a quei tempi veniva utilizzato il circuito “Tortoreto Alto-Alba Adriatica (che non si era ancora divisa da Tortoreto)-Tortore-to Lido-Tortoreto Alto”. Alfio Cappelletti era affasci-nato dal pilota locale Guido Guidobaldi in sella ad una Gilera 500 Saturno. Nel 1952 arrivò per Alfio un gran regalo, ovvero una Gilera 150 Sport elabo-rata dai F.lli Colangeli di Pescara, concessionari per l’Abruzzo del marchio monzese delle due ruote. Abbandonati i centauri, Cappelletti si avvicinò alle vetture sportive e competitive. La passione per le “rosse” di Maranello gli entrò presto nel sangue e nel 1953 assistette per la prima volta ad un Gran Premio di Formula Uno. Diciassettenne partì dalla stazione ferroviaria di Giulianova con il treno diret-tissimo Lecce-Milano destinazione finale Monza. Qualche anno dopo affronterà un viaggio a bordo di una Fiat 500 fino a Montecarlo per assistere al Gran Premio di Formula Uno. Ad oggi, Alfio Cap-pelletti ha stabilito un personale record assistendo in Europa a circa centro Gran Premi raggiungen-do le varie destinazioni quasi sempre in auto. Nel suo palmares anche due Coppe Acerbo a Pescara. Altro particolare primato è stato il cambio di ben sette modelli dell’allora inglese Mini Cooper. Il passo verso il cavallino rampante fu breve e così Alfio, grazie a qualche risparmio accumulato con il lavoro portato avanti sempre con la instancabile e fedele Singer 51 w 54, riuscì ad acquistare nel 1980 una nuova fiammante “Ferrari GTB 208” al prezzo di 42 milioni delle vecchie lire. Tutta la storia di una vita, familiare sportiva e lavorativa, ruota attorno a quell’americana Singer 51 w 54 che ancora oggi

è fonte di reddito e di soddisfazioni anche per i clienti. Impossibile trovare qualcuno che possa sostituirlo nel lavoro che svolge fedelmente da ol-tre cinquanta anni. Il grande appagamento Alfio Cappelletti l’ha avuto nell’agosto del 2012 quan-do, nel corso della tradizionale Festa del Nonno, il professor Giovanni Gasbarrini gli ha consegnato una targa-premio. Mettendo in parallelo il mestie-re e la passione di Alfio, Gasbarrini così ha inciso sul metallo: “il cuoio” è materiale d’arte, “il rosso” è colore dell’amore, Alfio Vittorio Cappelletti (detto Scamard), ha saputo raccogliere in loro la passione della sua vita.

Biglietto GP di Spagna di F1 1973

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L’artista che realizza le sue opere, impiega molto tempo per entrare in sintonia con le stesse”. Non é cosi per Marco Di Luigi. Infat-ti, il pittoscultore di origine santegidiese ha

un modo tutto suo per trovare l’ispirazione: lavora quando non ha tempo e la fretta per lui è una buo-na consigliera. Tutto ciò che vede in giro a partire dai tasti delle tastiere, polistirolo, lenzuola da let-to, drappeggi, televisori, pannelli, cavalletti, colla dei pavimenti e pelle di pelletteria diventa mate-riale per le sue opere d’arte. Ha iniziato 18 anni fa da autodidatta e nel tempo ha anche coltivato la passione per la musica, diventando un affermato musicista.Sensazioni ed emozioni, assemblati con materie diverse, olio su tela ma anche bombolette spray e smalto industriale. Ama pitturare con le mani, usando il pennello solo per stendere lo sfondo, scolpisce a mano utilizzando spesso lo scopettino del camino. Questo suo stile fa in modo che le sue opere siano spesso nuove ed originali senza nes-suna regola e con risultati stupefacenti.Per Marco, la vita degli oggetti è infinita: dalla sua prospettiva ogni oggetto - che siano una lampa-da, tavole di legno, manichini rotti - può diventare un’altra cosa. Basta cambiare il contesto ed ecco che sprigiona tutta la sua creatività personalizzan-

IL PITTOScULTORE DEL RIcIcLO

VIRGINIA CIMINà

Marco Di Luigi fa arte usando tutto ciò che trova “La fretta la mia musa”

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do ciò che ha a disposizione. Il suo primo quadro è stato uno schizzo su vetro ; il secondo raffigura un pianoforte.Barista di giorno e pittoscultore quando trova l’i-spirazione, trova anche il tempo di viaggiare, di scoprire mondi nuovi, usanze e culture diverse. “Ogni volta che viaggio entro nella cultura del po-sto - ci racconta Marco Di Luigi. Ho visto tutta Eu-ropa, Repubblica Ceca, Turchia, Egitto, deserto del Sarah e New York. Quando viaggio mi piace molto riportarmi un po’ di sabbia e terra del posto che poi utilizzo per creare i miei quadri. Il mio prossi-mo viaggio? Senegal”Da 5 anni mette in mostra le sue opere, i suoi qua-dri sono stati esposti al Peccato Originale ad Alba Adriatica, al ristorante i Caraibi, allo chalet Walkiki, e continuano ad essere in mostra permanente al centro commerciale la Torre di Martinsicuro. In programma ci sarà una mostra alla Fortezza di Ci-vitella del Tronto e a Palazzo dei Capitani ad Ascoli Piceno. La ricercatezza dei particolari e dei materiali ren-dono i suoi pezzi unici e originali. E’ un marchio di garanzia.

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Il detentore è Gabriele Nepa, originario di Sant’Omero, che all’avvio del 2014 ha conqui-stato il titolo mondiale, classificandosi al primo posto alla 62esima edizione del Campionato,

che si è svolto a Bari. Si tratta della competizione più importante per gli appassionati del settore, e Gabriele Nepa, nativo di Sant’Omero ma santegidiese di adozione, ha conquistato il gradino più alto del podio, grazie al suo canarino di razza nero-cobalto-giallo intenso, nella categoria D 355- Stam, che ha ottenuto 365 punti. Una vittoria importante, che è arrivata dopo ulte-riori riconoscimenti, tra i quali tre titoli italiani, e altri regionali e in ambito internazionale. Gabriele Nepa ha 59 anni e accudisce costante-mente i suoi canarini nei locali sottostanti la sua abitazione. Lui, come altri allevatori, dedica tante ore della sua giornata alla cura di questi animali, al loro accop-piamento, al momento della cova; a fare attenzio-ne e a predisporre tutti i comfort e ad adottare le accortezze che permettono agli uccellini di nasce-re sani e forti. Perché allevare uccellini o campioni di voliera, non è sicuramente un gioco da ragazzi. Una passione per un mondo fatto di code, di piu-me e di covate, che ci siamo fatti raccontare.

Cosa l’affascina di questo mondo?“E’ una passione iniziata quando avevo 18 anni: l’ho assorbita da mio zio, Antonio Scattolini, pri-mo allevatore d’Abruzzo in questo ambito. Lui mi donava i suoi canarini, quando doveva scartarli: si tratta di un percorso obbligatorio, in quanto si deve essere in grado di riconoscere i campioni. Dunque io prendevo i suoi doppioni o gli esempla-ri non idonei alla gara. E’ stato così che ho comin-ciato ad appassionarmi all’ornitologia; ho fatto ac-coppiare i canarini e pian piano anche io ho avuto i miei campioni. Prima della medaglia ottenuta a Bari, grazie al colore nero cobalto, ho conquistato ulteriori riconoscimenti, tra cui la medaglia mon-diale con lo “Stamm”, che vuol dire concorrere con 4 canarini dello stesso sesso e della stessa razza e prima di allora avevo ottenuto la medaglia agli internazionali, a Faenza, anche con ulteriori razze”.

Per la cura degli uccellini è necessario avere di-sponibilità di ampi spazi?“Quando ero ragazzo e vivevo con i miei genitori li sistemavo in soffitta. Sicuramente avevo poco spa-zio rispetto ad ora, che ho a disposizione un gara-ge. Anche se non è la collocazione migliore: do-vrebbero vivere più in alto, in garage infatti è più umido, però non ho alternative migliori. In ogni caso, nell’ambiente in cui vivono bisogna offrire

cIP E’ IL PIU’ BELLO DEI PIUMATI Il canarino allevato da un vibratiano si laurea campione mondiale

STEFANIA MEzzINA

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una luce che richiami la sequenza dall’alba al tra-monto e in questo caso si tratta di luce artificiale. I grandi allevatori, in ogni caso, realizzano strutture di lusso per ospitare i canarini. Bisogna considera-re, infatti, che vendendo un campione è possibile guadagnare 300 euro e in certi casi anche oltre”. Che regole ci sono per arrivarci?“Ce ne sono numerose da seguire: è importante ri-uscire a realizzare determinati colori. Certamente bisogna avere molta pazienza e costanza, perché spesso ci vogliono anni per ottenere buoni risul-tati ma quando succede è una grandissima soddi-sfazione”.

Quali sono i momenti più importanti nell’ambito della passione?“Se parliamo di competizioni, certamente quel-la di Reggio Emilia, che si svolge annualmente, a novembre. Qui si svolge il raduno mondiale degli allevatori, che comprende una mostra con zona commercio che conta 3o 4 padiglioni; insomma, andare lì è il massimo per ogni allevatore. Ogni anno dalla provincia di Teramo parte un pullman con circa 50 allevatori, mentre da tutto l’Abruzzo ne arrivano tantissimi. C’è da specificare che ogni città ha la sua associazione ornitologica.

Come viene scandita la sua giornata tipo? “Alle 9.30 dò a mangiare e bere ai miei canarini; in particolare l’acqua è importantissima, in quanto se manca i canarini muoiono. Ogni settimana, invece, provvedo a fare una pulizia accurata delle gabbie. Mentre a lavarsi provvedono autonomamente. Solo quando si deve partecipare a qualche gara si effettua manualmente il lavaggio. In particolare è necessario farlo quando si ha un canarino dal co-lore bianco, che ovviamente deve spiccare mag-giormente. Gli alimenti sono uovo sodo, oppure frittata, perché per ottenere delle buone nidiate la base principale è avere una alimentazione ricca di proteine, poi pastoncino alla verdura e semi. Poi, quando sta covando le uova la canarina ha biso-gno di una certa sicurezza e quindi bisogna ripara-re con cura il nido”.

Quanti canarini ha attualmente?“Sono arrivato ad avere 40 coppie, che da marzo in poi covano ogni mese, per tre covate circa. Biso-gna avere la fortuna di vedere continuare la vita, in quanti sono soggetti ad ammalarsi con una certa frequenza. Certamente hanno bisogno di maggio-ri cure, ad esempio se un giorno ci si dimentica di dare l’acqua, il canarino muore. Ecco perché affer-mo che ci vogliono attenzione e impegno costan-te. Diciamo che c’è un triangolo della vita: ambien-te, alimentazione e genetica. Può succedere che un canarino non abbia i requisiti genetici e quindi muoia”.

Il percorso successivo alla nascita?“Ogni canarino già a cinque giorni viene dotato di un anellino inamovibile, che lo scheda a vita. Quindi se viene ceduto in chissà quale parte del

mondo, si potrà risalire per sempre all’allevatore iniziale, e quindi alla provenienza del territorio. Dopo due mesi comincia a cambiare le piume, bi-sogna dargli delle vitamine per la formazione della piuma e dopo la muta si scelgono i campioni. Si fa in base al colore e al disegno. Deve avere certi requisiti, che devono essere quelli che valgono per ottenere il punteggio più alto. Ogni gabbia ha il suo numero, perché ad ogni co-vata si prelevano le uova che vengono sistemate in una cassetta con il rispettivo numero e al loro posto vengono sistemate uova finte, di plastica, in modo che la canarina non si accorga della man-canza. Le uova torneranno al loro posto quando i canarini finiscono a fare le uova. Insomma, dopo 14 giorni i canarini nascono tutti insieme, questo per evitare una percentuale alta di mortalità”.

Che consiglio si sente di dare a chi vuole intra-prendere la carriera di allevatore di canarini?“Di tenere in considerazione che questa passio-ne, perché bisogna avere una passione per essere allevatori, può essere sviluppata solo con grande costanza e pazienza”.

Contenitore dove vengono riposte le uova

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ILLUSTRAZIONI DI GIORDANA GALLI

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uando è Maggio, sulla Terra

si diffonde nella sera

il profumo delle rose.

Dolce e lieve come il velo

intrecciato insieme al vento

il profumo sale in cielo

e la luna bianca e argento

si dà un tocco di belletto

mette un poco di rossetto

e poi tutta profumata

dona luce alla serata.

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RITAGLIA E COLORA

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Ad ospitare il primo evento britannico sul-la fiorente regione abruzzese è stata la Gibson Hall, fatiscente salone vittoriano situato nel cuore della City.

L’incontro, organizzato dal Gambero Rosso e dal Consorzio Tutela Vini d’Abruzzo, ha registrato la presenza di ben 50 cantine abruzzesi provenienti in maggioranza dalle province di Teramo, Pescara e Chieti e questa volta anche la Val Vibrata ha la-sciato l’impronta.Nonostante il settore vinicolo sia uno dei più saturi al momento, le stime degli esperti dicono che la nostra regione è una delle poche in Italia ad ave-re una così larga gamma di vini di qualità che si estendono dalle linee economiche diffuse negli shops, markets e ristoranti di medio prestigio alle linee più costose pensate per locali e wine bars di più alto lignaggio.Le informazioni ricevute dall’onnipresente Ma-rammiero, da CentoRame Colline Teramane e dal pioniere zaccagnini hanno messo ancora una vol-ta in evidenza l’importanza della “caccia ai buyers”. Senza un compratore ed un distributore interes-sato ad investire anche il più motivato dei nostri venditori è impossibilitato a stabilire rapporti commerciale con l’ UK. Per questa ragione è fondamentale la partecipa-zione costante a manifestazioni di questo genere basate sulla sponsorizzazione e la ricerca.A differenza dei precedenti eventi - la militanza dei buyers aveva scoraggiato anche i più audaci - in questa occasione si è registrato infatti un notevole afflusso probabilmente proprio per la particolarità della presentazione: una regione unita nella pro-mozione di uno stesso prodotto sebbene con pe-culiarità proprie. La Cantina Sociale Colonnella si è fatta notare in questa occasione. Il rappresentante dell’azienda vibratiana per il Regno Unito, Stefano De Berar-dinis, era alla sua prima apparizione in territorio

londinese con i classici Pecorino, Montepulciano classico e Riserva e la linea economica Le Corone destinata ai mercati più in difficoltà. C’è da sottoli-neare, infatti, che gli importatori presenti proveni-vano non solo dall’ Inghilterra ma da tutto il mon-do, con opportunità di scambi anche con Paesi extraeuropei. Il responsabile alle vendite, Claudio Capoferri, ha parlato di un export in aumento sui mercati internazionali seppur di poco superiore al 10 % e senza ancora buyers in Uk.La seconda new entry vibratiana era la cantina De Angelis Corvi di Controguerra, carente di un rappresentante ma presente con la vasta gamma di Montepulciano, Trebbiano e Cerasuolo ed una griglia di contatti fruibili da eventuali importatori interessati.Nel caso De Angelis Corvi, stando alle informazioni fornite dallo stesso titolare Corrado De Angelis, la media annua dell’export è del 30-40% con i mag-giori risultati in America e con percentuali inferiori nelle piazze tedesche, belghe, francesi ed inglesi.Stringendo, la media export per ciascuna cantina varia dal 40 all’82 % di prodotti destinati a mercati esteri: un dato significativo se valutato in un’ottica di incremento e creazione di nuovi posti di lavoro in particolare per la nostra regione.Dimenticando Londra come immensa piattaforma sociale in grado di creare una forte rete di busi-ness, interessante è il vaglio di altri grandi mercati che siano capitali o città turistiche di media gran-dezza. Il fulcro dell’analisi risiede, dunque, nelle nuove opportunità che tale tipo di marketing offre al no-stro Paese e agli investimenti che potrebbero es-sere riversati su settori di questo genere.

L’ABRUZZO DEL VINO FA cARTELLO A LONDRA Si fa strada anche la produzione vibratiana che presenta i suoi “talenti”

ANNA DI DONATO

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ABRUZZO VERDE MA cON POcO BIO In Tutt’Italia nascono i distretti, da noi non ancoraLa Val Vibrata qualcosa produceEcco perché è un’occasione da non perdere

La struttura geografica della Val Vibrata ha favorito negli anni l’espansione del setto-re enogastronomico vedendo la nascita di numerose PMI che hanno scommesso sulla

tradizione e qualità dei prodotti locali.Agriturismi ed aziende biologiche stano diventan-do un vero patrimonio per l’economia e per il tu-rismo locale, limitando gli effetti della crisi di tutti gli altri settori.Senza esserne del tutto consapevoli, la Vibrata è rinata sotto il segno del BIO, della riconversione sulla terra, la nostra terra.Uno sguardo oltre confine e mi accorgo che in Italia esistono ben 11 Bio-Distretti distribuiti in 9 regioni.L’Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica (AIAB) ha promosso la costituzione dei seguenti

ALESSANDRA DI GIUSEPPE

Bio – Distretti:1. Bio – Distretto Cilento (Campania)2. Bio – Distretto Grecanico (Calabria)3. Bio – Distretto Via Amerina e Forre (Lazio)4. Bio – Distretto di Greve in Chianti (Toscana)5. Bio – Distretto del Chianti storico (Toscana)6. Bio – Distretto di San Gimignano (Toscana)7. Bio – Distretto della Val di Gresta (Provincia au-tonoma di Trento)8. Bio – Distretto delle Valli Valdesi (Piemonte)9. Bio – Distretto della Val di Vara (Liguria)10. Bio – Distretto Molise11. Bio – Distretto Il Piceno (Marche)

Che cos’è?Il 4 febbraio 2009 la Commissione Agricoltura del Parlamento ha adottato il testo di legge unificato

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“Nuove disposizioni per lo sviluppo e la competi-tività della produzione agricola ed agroalimentare con metodo biologico”, che al Titolo III (Disposizio-ni in materia di organizzazione della produzione e del mercato) riporta l’Art. 7 dedicato ai Distretti biologici.Il Bio – Distretto è un sistema produttivo a spiccata vocazione agricola ai sensi dell’articolo 13 del de-creto legislativo 8 maggio 2001, n. 228, nel quale è assolutamente preponderante:a) la coltivazione, l’allevamento, la trasformazione e la preparazione alimentare ed industriale di pro-dotti con il metodo biologico.b) la tutela delle produzioni e delle metodologie colturali, d’allevamento e di trasformazione tipi-che locali.Per l’agricoltura biologica vengono riconosciuti i soli processi produttivi certificati ai sensi della vi-gente normativa ed i particolare del Reg. 834/07 (e Reg CEE 2092/91) e successive modificazioni ed integrazioni.“Un Bio-distretto è un’area geografica dove agri-coltori, cittadini, operatori turistici, associazioni e pubbliche amministrazioni stringono un accor-do per la gestione sostenibile delle risorse locali, partendo dal modello biologico di produzione e consumo (filiera corta, gruppi di acquisto, mense pubbliche bio). Nel Bio-distretto, la promozione dei prodotti biologici si coniuga indissolubilmen-te con la promozione del territorio e delle sue pe-culiarità, per raggiungere un pieno sviluppo delle potenzialità economiche, sociali e culturali” ( tratto da www.biodistretto.net). Dal Testo Unificato Adottato dalla Commissione per i disegni di legge N° 1035, 1115 - 4 FEBBRA-IO 2009 (Nuove disposizioni per lo sviluppo e la competitività della produzione agricola ed agro-alimentare con metodo biologico) si evince che i distretti biologici sono istituiti al fine di agevolare e semplificare l’applicazione delle norme di certifi-cazione ambientale e territoriale.1. Il valore aggiunto del distretto biologico è nell’alta qualità ambientale che preserva i prodot-ti biologici da “ingerenze” quali pesticidi, inquina-menti vari, contaminazioni, OGM, ecc..2. Restituisce all’agricoltura (biologica) una valen-za territoriale.3. Si affianca e valorizza il marchio biologico (che certifica un processo) garantendo la qualità am-bientale del territorio i produzione.La costituzione di un bio – distretto presuppone la cooperazione delle comunità locali ed una proget-tualità partecipativa.E’ necessario un progetto condiviso ed è fonda-mentale il ruolo degli amministratori locali perché la produzione dei prodotti biologici non puo’pre-scindere dalla promozione e da una gestione so-stenibile del territorio.Le regioni individuano, nei rispettivi territori di competenza, le aree da destinare a distretti biolo-gici sulla base di:- criteri di identificazione- obiettivi attribuiti

I vantaggi

Ottimizzazione del sistema di certifi-cazione e delle politiche territoriali di-strettuali.Sviluppo del marketing territoriale, del-la Filiera corta e del Turismo.Favorisce l’imprenditoria giovanile.Consente il blocco delle OMG e delle biodiversità attraverso gli impegni del-le amministrazioni locali.Introduce strumenti innovativi di go-vernance che consentono alle comu-nità locali di progettare azioni virtuose territorialmente circoscritte ( la produ-zione di energia da fonti rinnovabili, un uso sostenibile delle reti idriche ecc..).L’Abruzzo è considerata la regione verde d’Europa, notoriamente dedita all’agricoltura e con eccellenze nell’e-nogastronomia; i Bio – Distretti potreb-bero essere una grande opportunità...ma soltanto quando inizieremo a ri-spettare e valorizzare davvero la nostra terra.

Come nasce un Bio – Distretto

E’ necessario avviare la procedura, effettuare uno studio di fattibilità distrettuale calcolando gli indica-tori per la vocazionalità biologica:

a) socio – economici (nume-ro di aziende, totale occupati in agricoltura, preminenza dell’agri-coltura biologica, tendenza all’in-novazione nel settore agricolo) b) ambientali (aree ad elevato pregio naturalistico e paesistico con misure di tutela ambientale, fragilità ambientale, biodiversità agricola, categorie d’uso del suo-lo non idonee, pressioni antropi-che puntuali

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Le radio hanno scandito momenti e periodi di intere generazioni, protagoniste e complici in epoche diverse. E’ un ritorno al passato, a quel passato che racconta la storia di tante

generazioni che rivivono i fasti dell’intramontabi-le invenzione nella grande vetrina della “Mostra Scambio di Radio d’Epoca ed apparecchiature per telecomunicazioni”. Le radio, lucidate e messe in mostra si fanno ammirare dai visitatori, che posso-no così fare un tuffo nel passato, tornare bambini. Chi non ha vissuto quelle emozioni, vive le radio come un oggetto di arredamento che racconta un passato che non è il loro. Non solo parole e musica, quella scatola racchiude usi e costumi della gente la storia e il progresso che arriva fino ai giorni no-stri. Gli apparecchi in vetrina ci guardano e sorri-dono. Quelle “rughe” hanno ancora fascino, dentro lo chassis pulsa forte il cuore valvolare che ha dato la voce a personaggi che popolano i ricordi, voci applaudite che hanno accompagnato tante gene-razioni e le aspettative di un futuro, i loro sogni. C’è l’imbarazzo della scelta girando tra i vari stand degli espositori che arrivano da tutta Italia, dove

TERR

ITO

RIO

lo sguardo degli appassionati o di semplici curio-si può passare da una radio all’altra, ammirando pezzi che raccontano una storia. Che male c’è a sentirsi profani del mondo radiantistico, a chie-dere spiegazioni alle persone che coltivano una passione: quella di condividere con altre la storia di “pezzi” di loro proprietà, oppure scambiati con altri espositori. Molti si disfano di cimeli del pas-sato, di queste nobili e splendide radio dalle varie forme, a cattedrale, a cassapanca, alcune nascoste dentro i mobili di legno pregiato, che le ha portate ad essere elementi di arredo. Il viaggio magico parte intorno al 1920 e passa via via negli anni ‘30, ‘40 e ancora, ‘50. Per ognuno, a seconda dell’età, c’è il momento di riconoscere i modelli, quelli in voga a quei tempi e quando que-sto accade, sfido chiunque a non farsi prendere dalla nostalgia e da amorevoli ricordi. Alla radio si aggiungono il giradischi, o il mangiadischi, i dischi in vinile, e magari un bel mobile bar tutto illumina-to, con bottiglie a vista per ricordare meglio quei tempi.

RADIO, E’ STATO AMORE AL PRIMO AScOLTO Follia e passione per la madre di tutte le comunicazioni Nereto ogni anno celebra l’amarcord

STEFANIA MEzzINA

CURIOSITàIl 6 Ottobre del 1924 nasce in Italia la prima tra-smissione radiofonica. La voce è quella di Maria Luisa Boncompagni. Ascolta l’audio

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“Un pessimista vede la difficoltà in ogni opportunità;un ottimista vede l'opportunitàin ogni difficoltà.”Winston Churchill

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Il futuroappartienea chi credealla bellezzadei propri sogni.

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TERR

ITO

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Il futuroappartienea chi credealla bellezzadei propri sogni.

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Un coniglio gigante con un uovo lungo il ciglio della strada, un Babbo Natale gi-gantesco accanto ad un albero di Natale, un Pulcinella con il suo mandolino. Ma-

estose figure abitano il ciglio della strada, quella prossima al Bivio di Corropoli. Pupazzi di paglia usciti dalla mente di un gruppo di creatori che, con molta fantasia, vestono ogni anno questi pu-pazzi diventati una vera attrattiva.Da quasi 7 anni, il gruppo Scataglia insie-me a Natale Di Sabatino e Gianfranco Di Luca realizzano questi bellissimi e particolari personaggi che po-tremmo definire delle vere e proprie opere d’arte. L’idea è nata quasi per gioco e, come tutte le belle idee, anche questa ha trovato il giusto seguito. I pupazzi, quando nacquero, susci-tarono molto interesse e curiosità, attirando vicini e passanti: tutti si fermavano a fotografar-li. Da qui l’idea di prose-guire ogni anno, curando il look dei “Golia”di paglia seguendo le stagioni o le ricorrenze. Infatti ne realiz-zano diversi, da Babbo Natale contornato da doni e Albero di Natale, alla befana; Pulcinella a Carnevale, il coniglio pasquale con tanto di uovo a Pasqua. Un ruolo molto importante in queste realizzazioni è svolto dalle donne, che con grande amore e passione creano gli abiti che incantano i passanti.

“Semplici ma efficaci, queste realizzazioni hanno lo scopo di riportare alla luce un pezzo della no-stra tradizione contadina- ci raccontano gli autori. Inizialmente venivano sistemate attrezzature anti-che utilizzate durante il periodo della trebbiatura. Quei giganti strappano un sorriso a chiunque li veda”.

I “MUPPETS” DI ScATAGLIA & cO. I pupazzi di paglia svettano sulla provinciale 259 e diventano un’attrazione

MARTINA DI DONATO

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PIZZA IN TEchNIcOLORMARTINA DI DONATO

Tra la varie ricchezze del territorio nazio-nale un posto importate lo merita la piz-za. A Sant’Omero c’è chi ne ha fatto un’ arte propria e con gioia e soddisfazione

la mostra a tutto il mondo.

Al Palacassa di Parma, quest’anno a salire sul podio tra i 765 partecipanti, provenienti da 32 nazioni, è stato Antonio Di Antonio, per tutti Tony. Non è il primo mondiale a cui partecipa con successo. Con orgoglio può dire di essere arri-vato terzo nella categoria “pizza in teglia”. Da-vanti alla giuria, quest’anno composta da chef, Di Antonio ha scatenato la fantasia: e allora via con la pizza ai frutti di bosco, fra le tante. “Dopo anni ormai siamo tutti amici, quindi la compe-tizione è poca – dice il pizzaiolo da premio. Il bello di queste esperienze è anche quello di ri-trovarsi e stare insieme in posti nuovi. Inoltre il ricavato della manifestazione viene devoluto a scopo benefico; lo scorso anno hanno costru-ito una scuola in Africa, quest’anno invece un ospedale pediatrico.In queste gare, Di Antonio ha visto, nel corso degli anni, molte nazioni perfezionarsi. Raccon-ta di pizze alla teglia alte 5 centimetri, che poi sono diventate sempre meno spesse. “La vittoria in un contesto mondiale è garantita da una serie di fattori: la temperatura dell’im-pasto, l’acqua e anche la giuria … infondo non esistono ricette segrete, ma un elemento vera-mente importante è l’utilizzo dei prodotti, che in questi concorsi portiamo da casa. Sono con-tento poi che quest’anno ci sia stata una giuria di esperti a valutare gli elaborati”.Le partecipazioni avvengono con la sua squa-dra “l’Interamnia”, nata all’interno della Scuola Pizzaioli Italiani di Venezia. Sono in quattro e ognuno ha la sua specialità. Sono conosciuti oramai in tutto il mondo e si apprestano ad af-frontare una sfida particolare: impastare la piz-za più grande del mondo, il record da battere è di ben 1.147 metri. Stanno lavorando duramen-te ma sono già arrivati i primi segnali per una buona riuscita. “Ai primi concorsi a cui ho partecipato guar-davo i tabelloni che indicavano la provenienza degli altri concorrenti: leggevo Roma, Milano, Parigi… io invece,con fierezza, vedevo scritto Sant’Omero. Nessuno riesce a pronunciare la mia città nella maniera corretta”.

Fantasista santomerese convince la giuria del Palacassa

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PIZZA IN TEchNIcOLORFantasista santomerese convince la giuria del Palacassa

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Un uomo minuto, sul volto i segni dei suoi 99 anni. Le mani ancora operose lavorano la carne.Bruno Strada, il macellaio storico di Mon-

temonaco, colpisce per la sua postura, per la sua maestria nel maneggiare i coltelli, per la sua vita-lità.Il lavoro e quel lavoro sono la sua vita. La macelle-ria è la sua casa: non può vivere lontano.Aveva 12 anni quando suo padre Giovanni, esper-to artigiano, lo iniziò all’arte della norcineria. Era il 1927. Da allora non ha mai smesso ed è considera-to ancora oggi uno dei maestri e custodi di questa antica tradizione.Quasi un secolo sulla scena, ma la passione è rima-sta immutata.Negli anni, ha creato un impero e quando si parla di Corona Salumi, non si può non incoronare un laboratorio che cura minuziosamente i prodotti.È grazie a questo simpatico ed arzillo signore del lavoro, anziano artista di un cibo di qualità, che ancora oggi l’azienda è sinonimo di garanzia. Tut-to inizia dalla selezione del cibo per i maiali, poi la scelta accurata delle carni,e la lavorazione che bandisce completamente i conservanti chimici e un’affumicatura sapientemente dosata.Strada è sicurezza alimentare, garante di un gusto naturale d’altri tempi che lega la vocazione del sito alla conservazione dei sapori sapientemente tute-lati come in una banca montana. Questo imprenditore cresciuto in una bottega ar-tigiana ha saputo realizzare due obiettivi: econo-mico e sociale. Si è ingrandito nel rispetto delle re-gole naturali di un’economia di qualità, rispettosa

dei clienti e della salute.È una risorsa questo Bruno Strada che lascia im-pronte e tracce nel suo laboratorio, nei negozi e nei clienti che si affidano a quelle magre mani che tanto hanno lavorato in modo francescano.Ora et labora:Bruno ha dato sapientemente prova di una fede incrollabile nell’onestà del lavoro, nel-la tenacia che sicuramente rappresenta un nuovo stimolo alle nuove generazioni.A lui, alla sua scuola di vita oltre che di lavoro sono affiancati altri cari: il suo apprendista/socio, il nipo-te ed i familiari tutti.Molti frequentano, non solo come clienti la ma-celleria Strada (Corona) nello stradone di Monte-monaco, in tanti percorrono quella via per quel piccolo uomo di lunga vita, comunque maestoso come un tiglio.Credente, lavoratore, uomo, nonno di tanti che gli vogliono bene e lo tengono preziosamente nel cuore per l’esempio raro di maestria.È un uomo di qualità come le sue carni.Gli animali che passano tra le sue mani, hanno vissuto in campi integri, curati nell’alimentazione e nei tempi necessari per realizzare un prodotto degno di Corona.Dal campo al piatto, il prodotto di questo mae-stro porta il marchio della salute per una catena di azioni non comuni nell’agroalimentare.Nei vari spazi dell’edificio di Montemonaco sono situati i prodotti secondo le regole di aerazione, lavorazione, conservazione delle diverse tipologie di salumi.Bruno ha voluto questa strutturazione ed ancora continua a dare direttive sulla lavorazione delle

Ha 99 anni Bruno Strada il mastro salumiere e macellaio di Montemonaco

PARIDE TRAVAGLINI

I SUOI FRATELLII cOLTELLI

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carni e contribuisce a migliorare prodotto e com-petenze di “apprendisti”di questo laboratorio.È il caso di dire che per esperienza, intuito e crea-tività ha saputo restituire ai prodotti la naturalità e la prova è nel sapore che appaga il vero gusto della montagna.Alla scuola del padre laborioso si apprende.Sicuramente la figlia di Bruno, Maria Grazia Strada, rende speciale l’identità del genitore, come testi-mone d’impegno, di tenacia e di valore. La sua reli-gione del lavoro è veramente “inCarnata” in questo signore avanti negli anni, figlio di un genitore se-vero, suo maestro, che gli affidava anche compiti “da adulto”. Bruno aveva un bernoccolo speciale per la stima del peso di agnelli o maiali che acquistava.A peso vivo era in grado di stimare tra i quintali di bestiame un peso che poi risultava con margini di errore minimi.Si racconta che per ovviare al rischio di perdite economiche dovute alla differenza di peso stima-to ad occhio ed alterato da sistemi sleali, da parte di venditori inaffidabili, Bruno si recasse all’alba ad acquistare gli animali.In una di queste “spedizioni”, all’alba di un Capo-danno, nelle vicinanze di Amandola, si dice che abbia colto in flagrante questi furbetti pronti a ri-empire di “liquidi gonfianti” questi animali da ven-dere, alterandone il reale peso. Avrebbero guada-gnato in modo illecito.Bruno fu più rapido e risolse la questione cogliendoli in flagrante e punendoli con una sfiducia definitiva. Non fu più cliente: loro persero denaro e la fiducia di un galantuomo giu-sto.Quest’uomo, più volte, ha perso fiducia a causa della disonestà di partner collaboratori.Pur avendo perso denaro, intuitivo e sveglio, ha mantenuto la grinta e la disponibilità di relazio-narsi con tutti.Questo uomo giusto, leale, caritatevole, ricono-scente, generoso e schivo ha mantenuto integro il nucleo familiare, prioritario obiettivo di vita per sé e per i figli.Il suo credo nella longevità, è simile al lungo im-pegno nel lavoro che continua anche a 99 anni e lo sostiene.Si reca in macelleria e nei laboratori (600 m di spazi per le carni in tre piani) e trae energia da quell’es-sere utile all’attività ed ai suoi “scolari”. Bruno ha insegnato la sua arte e resta il maestro artigiano, capace di trasmettere passione a chi lo avvicina Le nuove generazioni possono seguire certe trac-ce d’esempio e modello per il lavoro dell’avvenire. Il lavoro di questo “cavaliere” di montagna può re-stituire energie all’imprenditoria giovanile.

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La SaTIRaDI PERILLI

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Anche quest’anno è arrivato maggio, il mese che precede l’estate. Per tutti quelli che speravano di continuare a nascon-dere le proprie forme, lievitate per i ba-

gordi invernali e le leccornie pasquali, è arrivato il momento di riconquistare o, almeno, tentare di ritrovare la fisicità perduta. E per chi ha rimandato innumerevoli volte l’amaro confronto con lo spec-chio e con la bilancia, adesso non c’è più tempo da perdere: bisogna correre ai ripari. I concetti di schema corporeo e di immagine corporea com-portano numerosi interrogativi che riguardano non solo come ed in che modo noi avvertiamo il nostro corpo, ma anche come ed in che modo gli altri ci percepiscono e quindi quale e quanta influenza abbiano, in questa prospettiva, i fattori psicologici e sociali: si pone il complesso proble-ma del vissuto corporeo. L’immagine corporea è la rappresentazione mentale che realizziamo di noi stessi, ed è influenzata dai nostri impulsi, emo-zioni, riflessioni e comportamenti. La conoscenza del corpo, delle emozioni e delle nostre credenze orienta i nostri piani di lavoro, la natura delle no-stre interazioni ed il nostro benessere quotidiano. Ci costruiamo l’immagine corporea, influenzati dalle convenzioni culturali riguardanti l’apparen-za fisica. Nella società odierna, in cui l’apparire è, a volte, più importante dell’essere, le invidiabili silhouette delle star impazzano sulle copertine delle riviste patinate e sul web imponendo quasi sempre canoni estetici irraggiungibili dalla massa. E se un tempo, la voglia di esibire forme armoni-che e misure da urlo riguardavano principalmente il gentilsesso, sempre più uomini oggi ritengono che essere belli dentro non basta più: l’imperati-vo comune è dimagrire e tonificare. Le palestre diventano veri e propri campi di battaglia in cui si sfida il grasso a colpi di fitness. La fit-mania, con l’approssimarsi della bella stagione, raggiunge livelli altissimi; ma c’è anche chi, non riuscendo a sostenere la fatica richiesta dall’esercizio fisico co-stante, sceglie percorsi più veloci e drastici con dei risultati deludenti. In barba ai consigli dei medici, che suggeriscono di associare il movimento a un regime alimentare equilibrato, molti pigri oversi-ze cedono davanti alle false promesse dei mass

media, seguendo diete restrittive insostenibili a lungo termine (quella del minestrone, della frut-ta, del gelato e molte altre), oltre che potenzial-mente dannose per l’organismo, poiché non sono in grado di garantire il fabbisogno giornaliero di tutti i nutrienti necessari, assicurati invece da una alimentazione corretta e bilanciata. E’ importante stare in contatto con il proprio corpo, essendo cu-riosi di conoscerlo ed ascoltarlo, con la cognizione che il corpo è parte integrante di noi e del nostro modo di stare al mondo.Un dimagrimento last-minute come quello propo-sto dalla coppia Verdone-Pozzetto, in veste di im-probabili dottori nella spassosa pellicola Sette chili in sette giorni, non può funzionare! Per questo, se il vostro obiettivo è un ventre piatto e un addome scolpito, armatevi di buona volontà e sacrificio o voi maschietti continuerete a trattenere il respiro passeggiando sul bagnasciuga e voi femminucce farete “non vedo-non vedo” col pareo. *(Psicoterpeuta)

L’addominale offuscato e i chili di troppo: corsa alla “remise en forme” VIRGINIA MALONI*

ROBERTO DI NICOLA

SE LA BILANcIANON DIcE BUGIE

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BELL

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L’estate è alle porte e tutti sognano un colori-to perfetto e luminoso.Durante l’inverno la pelle, per la maggior parte delle persone, assume un colorito pal-

lido e spento, ma non bisogna esporsi rapidamen-te e in modo intensivo al sole, o ricorrere ad un uso eccessivo di lampade ultraviolette, per un’ab-bronzatura impeccabile in poco tempo, in quanto andremmo incontro a rischi che possono essere anche permanenti.Eritema, fotoallergia, invecchiamento cutaneo, macchie cutanee, fotosensibilità, lesioni cutanee e del DNA, carcinogenesi, tumori cutanei: sono i rischi che corriamo.Il sole apporta anche un’ azione benefica su tutto l’organismo.Oltre alla cute abbronzata e all’ispessimento dell’epidermide con conseguente rinforzo della barriera naturale, svolge un ruolo importante per il metabolismo del calcio, in quanto stimola la sin-tesi della vitamina D, ne facilita l’assorbimento nel nostro organismo; il sole inoltre esplica un effetto sterilizzante e decongestionante in caso di acne; stimola la sudorazione favorendo l’eliminazione delle tossine; apporta benefici anche su eczemi e psoriasi e a livello psicologico influisce in modo positivo anche sull’umore!Per evitare i rischi e beneficiare al meglio degli ef-fetti positivi del sole, occorre programmare una corretta esposizione con alcuni accorgimenti: è importante tener conto del proprio fototipo, idra-

tare molto la pelle prima, durante e dopo ogni esposizione, utilizzare una adeguata foto prote-zione e regolarne il ritmo e la durata.Il fototipo individuale è una classifica che tiene conto del colorito, del colore dei capelli, e della tendenza che ha la pelle a sviluppare l’abbronza-tura e l’eritema.La pelle con fototipo basso,con pelle chiara o lattea necessita di più accorgimenti e attenzioni maggiore; occorre esporsi in modo graduale con prodotti solari contenenti filtri ad elevata prote-zione, mantenendo sempre la pelle idratata, anche dopo l’esposizione; può essere utile l’utilizzo di in-tegratori alimentari come la vitamina A, betacaro-tene, bioflavonoidi, vitamina C, ecc. che stimolano le difese naturali della pelle con effetto filtrante, svolgendo anche un’azione di contrasto ai radicali liberi che causano l’invecchiamento cutaneo; per un effetto migliore, gli integratori vanno assunti un mese prima dell’esposizione. E’ importante sapere che, durante le esposizioni solari o solarium, per evitare la comparsa di mac-chie cutanee permanenti, occorre evitare, se pos-sibile, l’assunzione di farmaci fotosensibilizzanti come pillole anticoncezionali, antistaminici, psico-farmaci, ecc. e l’uso di maschere leviganti o trat-tamenti estetici contenenti acidi glicolico e altro.Seguendo questi piccoli accorgimenti, avremo una pelle sana e luminosa, con un’abbronzatura dorata e in tutta sicurezza!

VIA LIBERA ALLA TINTARELLA PROcEDERE cON cAUTELA Quali rischi si corrono se ci si espone ai raggi del sole

NOEMI DI EMIDIO *

* (Estetista)

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A FIOR DI LABBRA

Primavera – estate, un periodo di turbamen-ti, ormoni in subbuglio, passione, gioco, divertimento e soprattutto di baci: sotto la pioggia durante un acquazzone estivo, baci

sulla spiaggia, ma anche baci innocenti, tra bambi-ni, amici e dedicati ai nostri genitori.Insomma così tanta voglia di baciare, di peace in love, che gli stilisti per questa stagione non han-no potuto far a meno di portarla sugli abiti e sugli accessori. In particolar modo Saint Laurent, con il nuovo direttore creativo Hedi Slimane, propone una donna chic a tratti rock con pantalone classico nero ed un top voluminoso tempestato da mille baci di paillettes.Anche i divi hanno seguito questa tendenza come l’attrice Helena Bonham Carter, compagna dal 2001 di Tim Burton che arricchisce un abito lungo con pizzo ad una borsa a forma di labbra …

FEDERICA BERNARDINI

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TUTTE “BELLE IN ROSA”Non sembra anche a voi di avere un déjà

vu? Di essere tornate indietro nel tempo? La moda di questi mesi primaverili infatti ci propone fantasie a fiori, colori pastello,

pizzo, felpe e golfini..tutti elementi tipici degli anni 80 – 90 e dell’adolescenza di molte mie coetanee. Se per caso vi capita di fare una passeggiata o di guardare la tv la sensazione è quella di trovarsi in un film commedia come Bella in Rosa o Un Com-pleanno da Ricordare con l’attrice Molly Ringwald, beniamina di tutte le ragazzine del tempo. Il look della protagonista , fatto di tanto rosa, gonne lun-ghe, pantaloncini, gilet all’uncinetto, diventa un mezzo per esprimere il proprio rifiuto alle conven-zioni di una società perbenista e superficiale che a sua volta l’ostacola ritenendola non all’altezza. Come dimenticare l’abito cucito da Andie in Pretty in pink per il ballo della scuola? ( Non me ne vo-gliano le fan: un vestito dall’alto valore simbolico ma eccessivamente a sacco persino per gli anni ’80 ). Oggi, magari con motivi meno nobili, ma sicu-ramente con tanta voglia di divertirci, abbiamo la possibilità di fare un tuffo nostalgico nel passato a cui aggiungere un tocco di modernità e di gla-mour, e magari, perché no, scambiare i nostri abiti con le adolescenti di oggi!

FEDERICA BERNARDINI

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EVENTI IN VAL VIBRATA

SANT’OMEROIl 30 maggio presso la ex Sala Marchesale si terrà il terzo incontro di “Economia senz’anima” del pro-getto Mondo d’autore, dal titolo “Per una decrescita umana”. Interverranno il filosofo Umberto Ga-limberti, Marica di Pierri dell’associazione A Sud, Maurizio Pallante fondatore del Movimento per la decrescita felice e Fabio Salviato presidente FEBA. Intermezzi musicali a cura di Paolo Buconi. Coordi-natore della serata sarà Antimo Amore, giornalista di Rai Tre. Inizio ore 18.

CORROPOLIIl 31 maggio, in occasione della chiusa dei festeggiamenti della Madonna del Sabato Santo ci sarà Gabirele Cirilli che si esibirà in un divertente spettacolo presso la Piazza Pie’ di Corte.

CONTROGUERRAIl 2 giugno si terrà la sesta edizione della Confraternita dell’uva, organizzata dall’Associazione Cultura-le “Quelli del caminetto”. La manifestazione è stata organizzata con l’intento di far conoscere non solo i tesori culinari della tradizione vibratiana ma anche di far vivere esperienze culturali che il territorio offre.

ANCARANOIl 31 maggio alle ore 15 l’Associazione Culturale Valerio Capponi di Ancarano organizza un concerto per il loro decimo anniversario, presso il l’Auditorium Comunale di Ancarano. Saranno presenti gli ar-tisti Street Art provenienti da tutta Italia, che saranno chiamati a sfidarsi dando la loro interpretazione sulla storia dell’Associazione. Non manche la buona musica con le esibizioni degli artisti emergenti. Ingresso libero.

SANT’EGIDIO ALLA VIBRATAIl 7 giugno parte L’Onirico Festival 2014 con il concerto dei Kutso, che dopo aver calcato il palco del Primo maggio tornano a Sant’Egidio.

COLONNELLAA Colonnella ,nei giorni 18- 25 e 31 maggio, presso piazza dell’Infanzia si terranno delle giornate all’insegna del verde con la manifestazione E- COLONNELLA. Tre giornate immersi nel verde tra pas-seggiate a cavalo e passeggiate ecologiche. Sarà possibile trovare prodotti artigianali e autoprodotti all’interno di MercArte.

MARTINA DI DONATO

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ANDREA SPADA

LO SQUALO Steven Spielberg, Usa 1975

Ad Amity si aspetta la bella stagione balneare ,tut-to sembra promettere lauti incassi per le attività estive ... se non fosse che la minaccia di uno squalo antropofago affiora in carne e ossa nelle pacifiche

acque seminando il terrore tra i bagnanti. Toccherà allo sce-riffo locale , ad un oceanografico e ad un esperto marinaio dare la caccia al mostro e ripristinare la calma.Un grande successo commerciale spettacolare e convincen-te come poco in seguito é stato fatto sul tema. Grandi tecnici

per questo film che da una parte ha avuto l’intuito di trattare per primo e in maniera credibile il tema degli attacchi degli squali, dall’altra ha contribuito a peggiorare in maniera ingiustificata la fama di que-ste creature che di certo tutto sono tranne che veri mangiatori di uomini.Tre Oscar meritati per la musica, montaggio ed effetti speciali ... il film insinua una tensione palpabile a ritmo di musica con le famose soggettive dello squalo che attacca , creando una sorta di legame tra vittima e spettatore come in rari casi accade... ma non è solo questo... a creare il mito in questa pellicola infatti sono: il tema dell’ impalpabile, dell’ ignoto ,di ciò che non conosciamo ,degli abissi in tutti sensi. Il mostro, quello che alla fine vedremo letteralmente schizzare dalle acque per inabissare la barca dei protagonisti non fa più cosi paura, ma le ansie, l’ingiustizie l’ignoranza e la presunzione dell’ uomo di credere di poter controllare tutto e tutti … bhé si, quella da sempre fa ancora più paura.

GIGOLO’ PER CASO John Turturro USA 2013

Jonn Turturro dirige Woody Allen in questa sapiente ambiziosa commedia dal sapore agrodolce. E’ la storia di Fioravante (Tur-turro), gentiluomo tuttofare che insieme al suo amico Murray (Woody Allen ) , vivacchia in una calma, apparente routine nel

quartiere ebraico di New York. Murray da tempo in rotta con le sue radici culturali tenta di dare un senso ai suoi futuri giorni improvvi-sandosi in ogni sorta di proposta che lo riscatti dalla sua condizione di schiavitù emotiva . Fioravante è un acuto osservatore del genere umano e in particolare di quello femminile:qualcosa in lui attraverso gesti, atti, parole e soprattutto l’arte del massaggio risvegliano le an-tiche emozioni ... la donna per vivere deve essere guardata giustap-punto per essere tale insomma. Sicché sarà proprio Murray improv-

visatosi procuratore di appuntamenti ( pappa) e con tanto di soprannome a reinventare Fioravanti nel mestiere più antico del mondo: quello dello gigolò.Si susseguono poi una serie di situazioni in bilico tra umorismo e sensualità in cui il nostro protagonista incontrerà due ricche signore ( tra cui la bella Sharon Stone) annoiate da tempo e desiderose di partico-lari attenzioni e magari di un fantomatico menage à trois . Alla fine però Fioravante quasi per caso farà un incontro che lo metterà per la prima volta a contatto con la sua stessa emotività con quella parte irrazionale di sé che pur distante dalle problematiche dell’ esistenza quotidiane torna a chiedere il conto a sé stesso : si tratta di Avigail, bella e giovane vedova di un Rabbino, che vive nel suo stesso quartiere e che va da Fioravante per un massaggio.Da qui in poi il film si rivela in tutta la saggezza e la sua capacità di raccontare il vero filo conduttore delle esistenze dei protagonisti sin qui visti : la solitudine profonda che serpeggia in questi tempi difficili da vivere ... spetta cosi all’ introspezione, alla ricerca delle attese, degli sguardi, delle carezze che ci raccon-tano di noi più di ogni altra folle rincorsa spasmodica... e alla fine forse il turbinio della passione scatena anche una sommessa reazione nei personaggi che non sfuggono malinconicamente ai lori destini quasi come inevitabili e imprescindibili .

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“TRAFITTI” DAL GUSTO DELLE cEPPE cIVITELLESI

Per farle si usa il ferro da calza in acciaio

La peculiare bellezza di un territorio è data dai suoi incantevoli paesaggi, dalla presenza di famosi edifici storici e dalle opere di emi-nenti personalità culturali; ma è anche attra-

verso la cucina che un determinato luogo parla di sé apertamente senza bisogno di intermediari e si rende riconoscibile nel tempo.Oggi, a raccontarci qualcosa in più di Civitella del Tronto è un piatto tipico di questa nota cittadina abruzzese: le ceppe (lì makkarù ngh’ lì cépp): gros-si bucatini fatti a mano, arrotolando la pasta intor-no ad un bastoncino. La leggenda narra che durante un assedio alla For-tezza, un cuoco militare, non avendo a disposizio-ne attrezzi idonei, utilizzò un bastoncino di legno (la ceppa), dando quindi vita a questo particolare taglio di pasta. Ma come si preparano?La signora Amelia che vive a Civitella del Tronto ci insegnerà come preparare la pasta.

Qual è l’occorrente?“Innanzitutto bisogna procurarsi gli ingredienti per l’impasto:1 Kg di farina, 6 uova, mezzo bicchiere di olio ex-travergine d’oliva, 1 bicchiere d’acqua circa”.

Qual è il primo passo?“Si dispone sulla spianatoia (preferibilmente in marmo o legno) la farina a fontana, se ne fa un im-pasto con le uova, l’acqua e l’olio, si amalgama il tutto e lo si lavora fino a renderlo omogeneo e poi lo si lascia riposare almeno per un’ora in una terri-na”. (Fig.1)-(Fig.2)-(Fig.3).

Come si fa a trasformare l’impasto in macchero-ni?“Una volta fatta riposare, si divide la massa in tanti pezzetti uguali che verranno allungati per circa 8 cm l’uno (Fig. 4). Poi si avvolge ognuno di questi maccheroni attorno ad un bastoncino di legno ben levigato, così da ottenerli col buco”. (Fig. 5).

ROBERTO DI NICOLA

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Fig. 2

Fig. 3

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Qual è lo strumento più adatto per realizzare le ceppe?“Personalmente Io utilizzo da tempo i lunghi ba-stoncini di legno che si usano anche per gli arro-sticini, ma può andar bene anche un ferro da calza senza cromatura o un sottile filo d’acciaio inox”. Ma non basta avere lo strumento adatto vero?“Purtroppo no. Se si hanno mani inesperte, può risultare davvero difficile far scivolare via dal ba-stoncino il maccherone, mantenendolo ben dritto ed integro. Direi che ci vogliono tanta pazienza e impegno”. (Fig. 6).Ora che la pasta è pronta, come si procede per la cottura?“Le ceppe cuociono in abbondante acqua salata per 10 minuti circa. E’ utile aggiungere un filo d’o-lio d’oliva per evitare che si attacchino. E’ indispen-sabile scolare la pasta ‘al dente’ per poi saltarla in padella col sugo conservandone la consistenza”.

A proposito di sugo, quale condimento può sug-gerire ai nostri lettori?“Sicuramente un bel ragù di carne con una bella spolverata di parmigiano o pecorino (Fig. 7); op-pure si può scegliere una variante bianca conden-dole con funghi e salsiccia”.

E con l’acquolina in bocca saluto la gentilissima signora Amelia, ringraziandola per la disponibilità. Sono davvero poche le massaie che ancora oggi realizzano questa pasta: è praticamente introvabi-le nei negozi, cosa che la rende a rischio di estin-zione. Se volete assaggiare questo gustoso piatto correte quindi nei ristoranti e nelle trattorie di Civitella del Tronto e comuni limitrofi, nella zona montana e pedemontana dei Monti della Laga, in provincia di Teramo. In alternativa, cimentatevi voi stessi nella preparazione dei maccheroni, ora sa-pete come fare!

Buon appetito.

Fig. 4

Fig. 5

Fig. 6

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C’erano una volta le fave tostate nella bra-ce o in padella con un filo d’olio e le “fave ‘ngrecce”, ammorbidite nell’acqua bollen-te. Chi ha superato i sessanta le ricorda

compagne insostituibili, insieme ai ceci, trattati alla stessa maniera, e ai semi di zucca, “li levine” dalle nostre parte e i “bruscolini” a Roma, durante le partite di calcio e la visione di un film, nel cam-po sportivo e nella sala cinematografica, si inten-de! Luogo, quest’ultimo, nel quale il consumatore si sentiva spesso richia-mare dal vicino, disturba-to nell’ascolto dal rumore del seme infranto da denti ben forti o, più verosimil-mente, perché gli veniva l’acquolina in bocca! All’u-scita della sala era tutto uno scricchiolio di bucce sotto le suole delle scarpe! Anche alle feste paesane, al circo, al luna park o per le vie di una città, non era raro scorgere persone che sgranocchiavano semi vari tostati, acquistati, al pari delle noccioline, presso i banchetti dei venditori ambulanti. Come “cibo di strada”, d’altronde, le fave vantavano una lunga sto-ria; già nel XIII secolo era-no molto gettonate anche in una grande città come Parigi, dove erano ven-dute intere con la buccia o in purè caldo per le vie e nelle piazze.Esisteva, come già detto, anche una versione lessa della fava secca. Guido, noto calzolaio di Nereto, la metteva a bollire, con una dose abbondante di sale, in un bricchetto, d’inverno sulla stufa che riscaldava il laboratorio e d’estate sul fornellino a spirito che utilizzava per ammorbidire la pece; la condivideva con i numerosi amici, i quali, durante il pomeriggio, si recavano da lui per fargli compa-gnia, sorseggiando insieme un, si fa per dire, buon bicchiere di vino locale. Classificato oggi con il nome di “Vicia faba”, il no-stro legume era già coltivato nell’età del bronzo e, secondo Isidoro di Siviglia (VI-VII sec. d.C.), fu il

primo a essere consumato dagli uomini. Nel mon-do greco e romano, le fave, per una lunga storia che è impossibile sintetizzare in questa sede, era-no considerate sacre ai morti e venivano servite come piatto principale nei banchetti funebri. Era-no, comunque, frequentemente presenti pure sul-le tavole dei vivi e Plinio il Vecchio, nella “Naturalis Historia”, le tiene in grande considerazione e ne segnala l’impiego pure nella confezione del pane,

abitudine quest’ultima se-gnalata anche nel Medio-evo; la loro farina, in caso di penuria, era mescolata a quella dei cereali più no-bili, soprattutto tra i ceti rurali. Bisogna ricordare che i legumi in generale e fave e piselli in particolare, fino all’introduzione della patata dal Nuovo Mondo, furono prodotti fonda-mentali per l’alimentazio-ne delle popolazioni eu-ropee. Le fave si mangiavano e si utilizzavano fresche, sia crude che cotte, oppure essiccate. Per inciso se-gnaliamo che, dal punto di vista nutrizionale, quel-le fresche contengono il 5% di proteine, percentua-le che sale al 21% in quelle secche.

Nel passato, il consumo delle fave nelle versioni sopra indicate era direttamente correlato allo sta-to sociale degli utilizzatori, come scriveva, all’inizio del 1800, l’economista teramano Berardo Quarta-pelle: «Le fave secche sono un’eccellente nutritura pel basso popolo, ma fresche sono in uso in tutte le tavole presso a poco come i piselli». Prevaleva, comunque, l’utilizzo delle fave secche, soprattut-to perché disponibili, in gran quantità, per tutto l’arco dell’anno; esse erano spesso cotte in abbi-namento a farine (vedi ricetta riportata nel riqua-dro) e verdure (un abbinamento classico è bietole e fave). Le zuppe di erbaggi e legumi, i “pulmen-taria”, erano il companatico che accompagnava le polente, le “puls”, e nel Medioevo costituivano il cibo canonico dei monaci durante il periodo qua-

LE “SIGNORE” IN VERDE

FRANCESCO GALIFFA

Vicia faba

Le fave sono sempre di moda

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Gusto o& oNaturaInoValoVibrata,otuttooiloGustooeolaoNaturaodellaoCucinaoTipicaoAbruzzese

oconoioProdottiogenuiniodellaonostraoTerra.

Contrada Riomoro, 132 - 64010 Colonnella, TE

[email protected]

Ristorante Zenobi

(+39) 0861 70581CHIUSO il Martedì

(+39) 0861 70581

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resimale.Le prime testimonianze scritte sul modo di prepa-rare le fave in cucina le leggiamo nel “De re coqui-naria” di Apicio, il quale offre una serie di ricette, che prevedono il loro uso assieme a uova, miele e pepe, prima di essere mescolate a erbe e salse. Un campionario vastissimo di ricette, che preve-dono anche l’utilizzo dei fiori delle fave, si trova pure nel “Liber de coquina”, il più importante testo di gastronomia del Medioevo, dal quale estrapo-liamo questa sintetica indicazione per cucinare “Fava novella”: «Affare fave novelle fa bullire le favi et giecta via l’acqua et mictale accociere con cipol-le fricte in olio con herbe oliose piste et giungili pepe saffarana e sale». Un soffritto di cipolle e fave è, ancora oggi, uno dei tanti condimenti delle “Sa-gne”, la pasta senz’uova ammassata a mano dalle donne abruzzesi. Qualche secolo dopo, Bartolomeo Scappi (1500-1577), nel cap. CCLII della sua “Opera”, fornisce dettagliate indicazioni “Per cuocere Fave grosse secche, e Cicerchie secche”: «Le fave e le cicerchie secche nettonosi, e faccianosi stare in molle nella lescia come nel capitolo sopradetto 250 (pongasi in mollo nella lescia chiara, non troppo forte, o in acqua tiepida con un poco si cenere in un drappo, ndr.). E lavinosi in più acque, e faccianosi cuocere con oglio, acque, e sale, e quanto saranno poco men che cotte, ponganovisi dentro cipolle sof-fritte, e herbuccie battute, e pepe, e zafferano. Et nel medesimo modo si cuoceno li piselli secchi, facendoli però stare in molle nell’acqua, non già in lescia».Una ricetta antica poco nota, appartenente alla cucina popolare napoletana, era “Il Macco”; si trat-tava di una vivanda di fave sgusciate e infrante, cotte in un tegame sul cui fondo «non sia posto altro che l’olio schietto, che vuol essere piuttosto assai, che poco e vuol essere perfetto perché non ha diletto fava senz’olio».Nel passato, come nei nostri giorni, le fave erano gustate e si gustano soprattutto fresche. Ne va pazzo chi le produce, che le può mangiare appe-na staccate dalla pianta, ma anche chi vive in città, soprattutto se ha la possibilità di acquistarle nei mercati rionali appena giunte dalla campagna. A questo proposito riportiamo una curiosità: nei primissimi anni del 1800 nelle piazze delle città si vendevano con i baccelli ancora attaccati ai propri steli; una moda fermamente condannata dal cita-to Berardo Quartapelle perché così s’impediva la maturazione dei baccelli più piccoli. La raccolta delle fave fresche è sempre stata occa-sione di rimpatriate tra parenti e amici e, trattan-dosi di una verdura primaverile, di scampagnate all’aria aperta; fave appena colte, fette di buon pane casereccio inzuppate d’olio di frantoio, sal-siccia sott’olio o un buon salame, formaggio peco-rino e un buon fiasco di vino restano ancora oggi voluttuose tentazioni per una merenda consuma-ta sull’erba fresca e profumata.

Procedimento

Versare circa 2 litri e mezzo d’acqua in una “callaretta” di rame o in una pentola di acciaio inox a doppio fondo; quando inizia a fare le prime bollicine, cominciare a versa-re un po’ per volta la farina, facendola scorrere lentamente tra le dita di una mano; con l’altra mescolare in continuazione con un cucchiaio di legno o con una frusta. Proseguire a girare per circa un’ora, fino a quando non si comincia a formare la cro-sta sul fondo del recipiente.Nel frattempo, preparare il soffrit-to versando in una padella l’olio e, appena caldo, la pancetta tagliata a cubetti; unire poi le fave, in precedenza sbucciate; farle cuocere, aggiungendo, se necessario, un po’ di vino bian-co. A cottura ultimata rovesciare il condimento nella polenta e amalgamare per 5 minuti.

*La ricetta è tratta dal libro “Acqua&Farina”, Istituto Comprensivo di Colonnel-la, Colonnella, 2004P.S. L’autore di questa nota testimonia che il matrimonio dei due ingredienti tipicamente invernali con la verdura più rappresentativa della Primavera partorisce un piatto assolutamente gustoso, che soddisfa a pieno il palato e ricrea lo spirito.

POLENTA CON LE FAVE*Ingredienti per sei persone

1 kg di farina di granturco200-300 g di fave freschePancetta a piacereOlio d’olivaSale q.b.

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