ASPETTI GENERALI
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1. Aspetti generali.
1.1. introduzione.
Il “Disegno di legge recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” (di seguito anche Riforma del mercato del lavoro) che porta la firma del premier Mario Monti e del Ministro del lavoro Elsa Fornero, e che ha incontrato il via libera del Presidente della Repubblica, è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 23 marzo 2012 e presentato in Parlamento il 5 aprile 2012, concludendo il suo iter parlamentare in data 27 giugno 2012, pubblicato sul suppl. ord. alla G.U. 3 luglio 2012, n. 153 e rubricato: L. 28 giugno 2012, n. 92 - disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita.
Già al momento della sua approvazione, le forze politiche avevano chiesto e ottenuto – in cambio del consenso necessario all’emanazione della legge – di rivedere nel mese successivo alcuni punti della riforma. È stato, perciò, approvato l’art. 46bis, rubricato modifiche alla legge 28 giugno 2012, n. 92, e misure in materia di accordi di lavoro, del d.L. 22 giugno 2012 n. 83 contenente misure urgenti per la crescita del Paese, inserito dalla legge di conversione 7 agosto 2012, n. 134, pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 11 agosto 2012.
Come noto, l’iter parlamentare del disegno di legge è stato piuttosto breve non per carenza di dibattito o di emendamenti presentati alla Riforma, ma perché è stata scelta la strada della questione di fiducia alle Camere. Pertanto, nelle sedute del 31 maggio e del 1º giugno 2012 sono stati approvati i quattro maxiemendamenti al disegno di legge al Senato e il disegno di legge è passato in questa forma al Parlamento.
Nonostante la sua celere approvazione, si tratta di una riforma piuttosto ampia e articolata che ha sollevato un acceso dibattito nel panorama politico e sindacale sin dal momento della sua presentazione, soprattutto con riferimento alle modifiche previste in tema di licenziamento, punto sul quale si è focalizzata l’attenzione dei media e delle contestazioni delle parti sociali. E, infatti, le manifestazioni sull’art. 18 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, legge meglio nota come Statuto dei lavoratori, hanno dominato la scena politica e sindacale della prima metà del 2012. Il motivo è ben ovvio: se si esclude la legge n. 108 del 1990 che è intervenuta, invero, nel senso di allargare il campo di applicazione dell’art. 18 dello Statuto non è la prima volta che si tenta di introdurre modifiche all’articolo in questione al fine di restringerne o limitarne la portata, ma è la prima volta che queste modifiche sono state realmente realizzate.
Come avviene, ormai, dal 2001 (anno della presentazione del Libro Bianco sul lavoro), il fronte sindacale si è mostrato diviso. Le maggiori confederazioni sindacali hanno, infatti, adottato un diverso atteggiamento nei
Iter legislativo
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confronti del progetto di riforma, più collaborative CISL e UIL, con atteggiamento di rottura la CGIL che ha sempre fatto presente il suo dissenso sulle modifiche all’art. 18 dello Statuto.
Tuttavia la Riforma del mercato del lavoro (L. 92/2012) è stata adottata e riguarda aspetti della disciplina giuslavoristica che vanno oltre il solo art. 18 dello Statuto e che riguardano tutto il percorso lavorativo del soggetto, dalla formazione professionale, all’accesso al mercato del lavoro, all’uscita dal medesimo sino agli strumenti di ammortizzatori sociali, solo per citare i profili più toccati dalla Riforma.
Il progetto portato a termine è ambizioso e forse avrebbe meritato una più ampia e attenta riflessione visto che ha inciso su aspetti fondamentali della disciplina del lavoro. Ma i motivi che hanno portato il Governo a porre la questione di fiducia per approvare il progetto di riforma del mercato del lavoro sono stati condizionati da molteplici fattori, non ultimi la forte crisi economica che sta attraversando il nostro Paese e l’incalzare delle istituzioni europee.
Sia consentito in questa sede affermare che la scelta di procedere con la questione di fiducia al fine di approvare in tempi brevissimi la Riforma, ha il sapore dell’aut aut, del prendere o lasciare, che certo non giova a un sereno dibattito sulla Riforma così come approvata.
Peraltro, solo a onor di cronaca, vi è da segnalare che i temi della Riforma non sono stati improvvisamente calati sul tavolo del Governo Monti, a seguito dell’agenda politica dettata dalle istituzioni europee o dalla crisi economica. C’è un nutrito gruppo di giuslavoristi che, da almeno un decennio, nelle proprie analisi mette in luce i temi affrontati dalla Riforma del mercato del lavoro, a partire dalla necessità di riforma della disciplina del licenziamento nella prospettiva della flexicurity. Ma su questo torneremo nel prosieguo.
Inoltre, la crisi economica iniziata nel 2008 è stata di certo rilevante ma non decisiva nel peggioramento dello stato del mercato del lavoro. Già nel 2001, infatti, i tassi di occupazione e disoccupazione italiani nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni ammontavano rispettivamente al 54,5% e al 9,6% contro una media dell’Unione europea a 15 Paesi del 63,9% e del 7,4% (fonte Istat, 2003, p. 181). Così, già dal 2004 una percentuale crescente della forza lavoro veniva impiegata tramite contratti non standard, quali il lavoro subordinato a termine e le collaborazioni a termine (rispettivamente pari al 10,7% nel 2004; 11,9% nel 2007 e nel 2008 sul totale degli occupati, fonte Istat, 2009, p. 176), il lavoro autonomo part time e il lavoro subordinato part time (rispettivamente pari al 9,9% nel 2004; 10,5% nel 2007 e 11,1% nel 2008, fonte Istat, 2009, p. 176), a scapito del lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato (rispettivamente pari al 79,4% nel 2004; 77,6% nel 2007 e 77% nel 2008, fonte Istat, 2009, p. 176). Perciò la crisi
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ha rivelato la situazione particolarmente vulnerabile delle fasce più giovani della forza lavoro, esasperando i dualismi già in atto. Sono stati soprattutto i giovani a subire gli effetti della caduta occupazionale, stretti tra il non impiego o la disoccupazione e l’uso di forme contrattuali non standard. Nel 2008, pertanto, il tasso di disoccupazione giovanile (inteso come rapporto percentuale fra persone in cerca di occupazione in età giovane e le forze lavoro – occupati e persone in cerca di occupazione – della corrispondente classe di età), ha iniziato una vorticosa ascesa: il tasso di disoccupazione giovanile nella fascia di età tra i 15 e 24 anni è passato dal 21,3% del 2008 al 25,4% del 2009 al 27,8% del 2010, al 29,1% nel 2011, al 35,9% del marzo 2012 (cfr. Istat flash occupati e disoccupati, rispettivamente anni 2009, 2010, 2011 e marzo 2012). Il dato non stupisce se si considera che i giovani sono i lavoratori maggiormente occupati con tipologie contrattuali a termine. E queste, essendo il canale di accesso preferito dalle imprese, finiscono per interessare prevalentemente chi entra per la prima volta nel mercato del lavoro e, inevitabilmente, sono le prime tipologie contrattuali destinate a contrarsi in caso di calo dell’occupazione.
A tale situazione si aggiunge la segmentazione strutturale del mercato del lavoro che, in maniera del tutto fisiologica come spiegato da alcuna dottrina [M. g. garofalo, Postmoderno e diritto del lavoro. Osservazioni sul libro verde “Modernizzare il diritto del lavoro”, in Rivista giuridica del lavo-ro e della previdenza sociale, 2007, n. 1, p. 135 e ss., spec. p. 141], finisce per dare rilevanza a taluni fattori sociali. Le imprese, infatti, tendono ad assumere e a promuovere gli uomini e non le donne, i nativi e non gli immigrati, i normodotati e non i diversamente abili, gli eterosessuali e non gli omosessuali, l’appartenente alla religione maggioritaria (cristiano cattolico) e non gli appartenenti a gruppi religiosi minoritari, perché li ritengono più produttivi. La situazione attuale è, quindi, anche il frutto di scelte di poli-tica del diritto in materia di regolamentazione dei rapporti di lavoro che, evidentemente, non hanno premiato.
L’aver introdotto massicce dosi di flessibilità in entrata non ha inciso sul lavoro subordinato standard – che è rimasto sostanzialmente sempre uguale fatta salva la modifica all’orario di lavoro – ma ha comportato l’introduzione di una molteplicità di figure di lavoro flessibile come canali di accesso alternativi al lavoro subordinato standard e, per questo, più convenienti per le imprese. La convenienza appena accennata si è misurata non solo in termini di costi contributivi e retributivi, ma, soprattutto, dal punto di vista funzionale giacché le normative di riferimento non hanno specificato le cause e i fini per i quali è legittimo stipulare i contratti flessibili. Sicché, per valutare l’idoneità professionale del lavoratore, le imprese hanno potuto fare ricorso indistintamente al contratto a termine, al patto di prova ovvero al contratto di lavoro somministrato. In altre parole, la strategia del
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precedente Governo si è risolta, purtroppo, in un vero e proprio shopping contrattuale da parte delle imprese alla ricerca del modello contrattuale più conveniente per soddisfare le esigenze produttive e per calmierare i limiti fissati dalla legge. Così il lavoro non standard ha costituito nell’ultimo decennio lo strumento privilegiato di acquisizione della forza lavoro, soprattutto dei giovani.
La Riforma approvata con L. 92/2012 in commento impone un cambiamento di rotta nei limiti che analizzeremo.
Perciò, in attesa del pronunciamento della giurisprudenza e in questa fase transitoria che accompagnerà il rodaggio della disciplina così come licenziata dalle Camere, analizzeremo “a caldo” le novità della legge.
Al lettore non sfuggirà l’attenzione sulle tipologie contrattuali e sulle norme in materia di flessibilità in uscita e tutela del lavoratore per la loro idoneità a rivelare se la riforma di “rilievo storico” di cui il Presidente Monti ha parlato, veramente favorisce la crescita ed è capace di attrarre il famoso investitore straniero. Certo, nessuna riforma dei rapporti di lavoro, e più in generale del mercato del lavoro, può da sola risolvere i problemi appena tratteggiati soprattutto con riferimento all’incremento dell’occupazione.
Come è noto, l’occupazione dipende dalle decisioni di politica economica adottate più che dai tipi contrattuali disponibili. L’aumento della domanda di lavoro dipende, infatti, dalle politiche economiche adottate e in grado di stimolare la crescita. Né si può pensare che alle imprese, esposte come sono alla concorrenza anche sovranazionale, basti la possibilità di utilizzare forme non standard di lavoro per essere (o tornare a essere) competitive sul mercato giacché questa equazione si è dimostrata non corretta. L’aumento, infatti, delle tipologie flessibili di lavoro introdotta dal D.Lgs. 276/2003 non si è di certo tradotto in un aumento di competitività delle imprese. Piuttosto ha comportato la decisione di investire sempre meno sul capitale umano con conseguente impoverimento della professionalità dei lavoratori.
Su questo terreno si misura la Riforma del mercato del lavoro oggetto di trattazione.
Dal punto di vista strutturale, il disegno di legge si presentava nella sua prima versione suddiviso in otto Capi, rispettivamente rubricati:
Disposizioni generali; Tipologie contrattuali; Disciplina in materia di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore; Ammortizzatori sociali, tutele in costanza di rapporto di lavoro e pro
tezione deilavoratori anziani; Ulteriori disposizioni in materia di mercato del lavoro; Politiche attive e servizi per l’impiego;
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Apprendimento permanente; Copertura finanziaria.Nella seduta del 31 maggio 2012, la versione approvata dal Senato e
inviata alla Camera del Parlamento risulta composta di quattro articoli: art. 1 (Disposizioni generali, tipologie contrattuali e disciplina in tema
di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore); art. 2 (Ammortizzatori sociali); art. 3 (Tutele in costanza di rapporto di lavoro); art. 4 (Ulteriori disposizioni in materia di mercato del lavoro).Pertanto, per maggiore chiarezza espositiva, in questa sede di prima
analisi seguiremo la suddivisione logica della sequenza degli argomenti propria della Riforma.
1.2. Le finalità della Riforma: maggiore rigidità in entrata ver-sus maggiore flessibilità in uscita.
Già nella scelta dell’apertura della legge è possibile rintracciare lo spirito che ha mosso il Presidente del Consiglio Monti e il Ministro del lavoro Fornero nella stesura del provvedimento in commento. Precisare che “La presente legge dispone misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione”, non è un incipit tecnicogiuridico, ma è una dichiarazione di intenti ovvero la specificazione dei risultati che con questa Riforma si spera di raggiungere.
È sufficiente precisare che questa apertura è quanto meno opportuna al fine di mitigare l’impatto delle previsioni in materia di flessibilità in uscita, giacché questo risulta essere, come si è avuto modo di precisare e su cui torneremo oltre, il punto “dolente” della Riforma.
L’art. 1 della legge prosegue specificando le finalità dell’intervento, ossia: ribadire e valorizzare il contratto di lavoro a tempo indeterminato co
me “contratto dominante” ovvero forma comune del rapporto di lavoro; intervenire sulle tutele dell’impiego, riconducendo nell’alveo di usi
propri i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni (si pensi al c.d. Pacchetto Treu del 1997 e alla c.d. Legge Biagi del 2003);
intervenire sulla disciplina del licenziamento individuale inserendo una graduazione di tutele a seconda del motivo (riconosciuto dal giudice) a fondamento del licenziamento;
rendere più efficiente l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive;
contrastare usi elusivi di obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali esistenti;
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promuovere una maggiore inclusione delle donne nella vita econo-mica;
favorire nuove opportunità di impiego ovvero di tutela del reddito per i lavoratori ultracinquantenni in caso di perdita del posto di lavoro;
promuovere modalità partecipative di relazioni industriali in conformità agli indirizzi assunti in sede europea, al fine di migliorare il processo competitivo delle imprese.
Quest’ultima finalità è realizzata, come vedremo, con l’istituto della delega al Governo giacché, in un’ottica di riflessione complessiva della Riforma, tale ultima previsione costituisce un importante tassello nel raggiungimento dell’obiettivo del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa.
La ricetta elaborata dal Presidente Monti e dal Ministro Fornero consiste, quindi, nel conciliare la flessibilità nel rapporto di lavoro (mediante la graduazione delle tutele del lavoratore in uscita dal rapporto di lavoro) con la sicurezza nel mercato (mediante la previsione di forme di assistenza al reddito e di misure attive di sostegno durante i periodi di disoccupazione. Si tratta di comprendere come verrà realizzato il citato modello e quale tipo di impatto avrà nell’ordinamento italiano. In via di estrema sintesi e anticipazione, possiamo affermare che le finalità percorse riguardano la razionalizzazione (più che la riduzione) della flessibilità in entrata e un indebolimento della rigidità in uscita. Si tratta, perciò, sicuramente di flexibility ma non ancora di security giacché anche la nuova Aspi (su cui torneremo infra) si struttura sul sistema mutualistico e, nonostante quanto affermato dalla stessa Riforma, non è universalistico bensì, più modestamente, e fatta salva la previsione della c.d. mini ASpi, solo esteso ad alcune categorie di lavoratori prima escluse, come gli apprendisti e i soci lavoratori di cooperativa.
1.2.1. il primato del contratto a tempo indeterminato.La lettera a) del comma 1 dell’art. 1 della legge in commento esplicita
il favor verso il contratto a tempo indeterminato, tentando di contrastare la flessibilità in entrata mediante l’inasprimento delle sanzioni in caso di violazione degli stretti e rigorosi requisiti di legge per poter stipulare le c.d. forme flessibili di contratti di lavoro. Alla stretta normativa va aggiunta quella economica costituita, come vedremo, da un’aliquota dell’1,4% a favore dell’ASpI per i lavoratori non a tempo indeterminato.
Ribadire il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro (c.d. “contratto dominan-te”), porta a sostenere che la misura guida è quella di favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili: concetto, questo, ripreso e ribadito, al comma 9, lett. a), della legge in commento laddove sostituisce il comma 1 dell’art. 1, l. n. 368/2001 sulla disciplina del contratto a termine con un
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pregnante nuovo testo ai sensi del quale “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.
Questo ribadire enfaticamente un dato peraltro già acquisito al nostro diritto del lavoro costituisce certo un’eco di tutto quel parlare che si è fatto fin dall’inizio del negoziato intorno al “contratto unico”, non senza un grande risalto datogli dai massmedia e un iniziale favore goduto agli occhi del Ministro del lavoro. Come ricordato dalla dottrina, ne sono stati instancabili propagandisti Sen. Pietro Ichino (giuslavorista) e il duo di economisti Tito Boeri/Pietro Garibaldi (uniti nel sostenere un contratto a tempo indeterminato che preveda un licenziamento economico, con un periodo “iniziale” coperto dalla sola corresponsione di un’indennità. Solo quando si sia esaurito questo periodo, scatta la protezione costituita dalla reintegra (cioè, per il primo, dopo ben venti anni e per i secondi, dopo tre anni) [f. carinci, Complimenti dottor Frankenstein: Il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, Il lavoro nella giurisprudenza, 2012, n. 5].
Ma ciò che viene realizzato nella legge in commento non è il “contratto unico” di cui si è detto brevemente sopra, tant’è che vi manca del tutto quel che secondo il più rigido modello di Ichino ne dovrebbe costituire l’inevitabile effetto, cioè l’azzeramento di quasi ogni altro tipo contrattuale. A ben guardare, non c’è neanche una riduzione di quel fantomatico elenco dei “47 contratti”, perché a essere cassato è il solo contratto di inserimento, peraltro per aver a che fare con il rilancio a tutto campo dell’apprendistato (ma su questi punti torneremo oltre).
A quanto emerge dalla legge, il campionario tipologico atipico viene conservato quasi integralmente, ma, come anticipato, ne viene reso più se-lettivo e costoso il ricorso. Costoso perché viene accresciuto il rischio per il datore di ritrovarsi convertito non solo e non tanto il contratto a termine in uno a tempo indeterminato, ma anche un lavoro a progetto, una partita Iva, un’associazione in partecipazione.
È, inoltre, costoso pure per l’aumento delle aliquote contributive a favore dell’ASpI. Selettivo perché ne viene reso più difficile l’uso mediante l’allungamento dei tempi di intervallo tra la fine di un contratto e la stipulazione di altro contratto (si pensi alla successione di più contratti a termine). La legge di riforma (L. 92/2012), perciò, si limita a un intervento di manutenzione di figure contrattuali già esistenti con la precipua finalità di renderne più stringente utilizzo al fine di favorire il contratto a tempo indeterminato.
La tecnica delle presunzioni relative e assolute seguite dalle conversioni iussu iudicis, prescelta dalla Riforma, è già collaudata per il contratto a termine, pertanto affatto nuova nel panorama giuridico giurisprudenziale, ma
Contratto unico
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stride con riferimento ai contratti sorti e praticati come contratti di lavoro autonomo.
Il confine fra stabile e precario continua ad essere, perciò, costituito dal contratto a tempo indeterminato; ed è questo contratto a restare quello “dominante” rispetto all’intero universo atipico, se pur reso più flessibile nel suo momento risolutivo.
1.2.2. La flessibilità in uscita.Come avremo modo di osservare in prosieguo, la legge di riforma speci
fica una graduazione di tutele nell’uscita dal mercato dal lavoro attraverso la previsione di effetti diversi all’accertamento giudiziale di legittimità o di illegittimità del licenziamento.
Diversamente da come è sino ad oggi stato, pertanto, la pronuncia giudiziale sulla efficacia e legittimità di un licenziamento comporta conseguenze diverse a seconda non solo delle dimensioni dell’impresa ma, soprattutto, a seconda delle motivazioni accertate dal giudice che hanno motivato il licenziamento.
La versione originaria del sistema di tutele del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi prevedeva, infatti, l’applicabilità della tutela reale o della tutela obbligatoria (fatti salvi i casi di applicabilità del recesso ad nutum) a seconda delle dimensioni dell’azienda. L’art. 18 dello Statuto specificava, cioè, la soglia numerica oltre la quale trovava applicazione la tutela reale consistente nell’ordine giudiziale della reintegra che si aggiungeva al risarcimento dei danni subiti nella misura delle retribuzioni perdute a causa dell’illegittimo licenziamento e delle relative prestazioni contributive e assistenziali dovute dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegra. Al di sotto della soglia numerica ivi specificata trovava applicazione la tutela obbligatoria consistente nell’ordine del giudice al datore di lavoro di optare per la riassunzione del lavoratore ovvero, in alternativa, per il pagamento di una penale nella misura specificata in sentenza. In altre parole, la formulazione originaria dell’art. 18 dello Statuto garantiva una certezza nell’individuazione delle tutele e delle conseguenze da esse derivanti, giacché alla prova (negativa per il datore di lavoro) delle dimensioni aziendali conseguiva l’immediata e diretta applicazione della tutela reale ivi specificata.
La Riforma non tocca la soglia numerica specificata nell’art. 18 dello Statuto che rimane quella originariamente prevista, ma, attraverso la previsione di una graduazione delle tutele legata al motivo (accertato dal giudice) addotto a giustificazione del licenziamento, fa sì che la citata soglia non garantisca più l’applicazione della tutela reale con la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato.
Come vedremo, a seguito della riforma, la tutela reale tout court – cioè, per intenderci, quella che garantisce la reintegra più il risarcimento del danno – è riconosciuta solo al licenziamento nullo, sicché avrà diritto ad essere
Disciplina del licenziamento
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reintegrato solo quel lavoratore che il giudice accerta essere stato licenziato per ragioni discriminatorie o per motivo illecito determinante. In tutti gli altri casi, la tutela riconosciuta è solo risarcitoria con misura variabile a seconda delle motivazioni accertate dal giudice a fondamento del licenziamento. Almeno a prima vista sembra, perciò, essersi realizzata quella flessibilità in uscita richiesta.
Tuttavia, sembra potersi affermare che il futuro designato dal nostro riformatore è nel segno di accrescere il potere del giudice, con un potente mix costituito da un diritto sostanziale che gli concede, come abbiamo brevemente visto, esplicitamente un amplissimo ambito discrezionale ed un diritto processuale, come vedremo in seguito, che gli riconosce apertamente un illimitato spazio manipolativo del rito speciale, che, è bene precisare, si applica non solo alle “ipotesti regolate dall’art. 18”, ma “anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto”. Ipotesi di ricorso al giudice, tale ultima, piuttosto frequente.
Sicché, dovremo attendere il tempo necessario per raggiungere un apprezzabile assestamento giurisprudenziale e dottrinale e dotarci di posizioni interpretative definite nel nuovo regime sostanziale/processuale delineato nella Riforma.
1.3. il sistema di monitoraggio e di valutazione.
Al fine di monitorare lo stato di attuazione degli interventi e delle misure previste nella Riforma e di valutarne gli effetti sull’efficienza del mercato del lavoro, la legge 92/2012 istituisce un Sistema permanente di monitoraggio e valutazione presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in collaborazione con le altre istituzioni competenti.
In particolare, il Sistema di monitoraggio e di valutazione si basa sui dati forniti dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) e da altri soggetti del sistema statistico nazionale (SISTAN). La legge prevede, senza però specificarne le modalità, che a tale Sistema partecipino anche le parti sociali mediante le organizzazioni sindacali e le associazioni datoriali maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
L’attuazione di tale Sistema di monitoraggio e di valutazione comporta non solo l’elaborazione, con cadenza annuale, di rapporti sull’attuazione delle singole misure, sulle conseguenze in termini microeconomici e macroeconomici nonché sul conseguimento delle finalità specificate nel primo comma dell’art. 1 della L. 92/2012, ma anche la predisposizione di statistiche su materie specifiche e particolarmente importanti.
In primo luogo, il Sistema assicura elementi conoscitivi sull’andamento dell’occupazione femminile rilevando, in particolare, la corrispondenza dei livelli retributivi al principio di parità di trattamento.
Tutela dell’occupazione femminile
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Come noto, il principio della parità retributiva è un principio cardine espresso dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Una specifica articolazione del più generale «principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego» [art. 141 (157) Tratt. CE] è, infatti, costituito dal divieto di discrimina-zione retributiva tra uomini e donne, che, nell’interpretazione della Corte di Giustizia, ha efficacia diretta, verticale e orizzontale, in quanto espressione di una norma self executing non solo nei confronti degli Stati ma anche dei datori di lavoro privati e pubblici (cfr. Corte Giust. 8.4.1976, causa C43/75, Defrenne; Corte Giust. 27.3.1980, causa C129/70, Macarthys; Corte Giust. 27.6.1990, causa C33/1989, Kowalska).
In origine, l’art. 119 del Trattato di Roma (ispirato alla Convenzione O.i.l. n. 51/100) prevedeva un divieto di discriminazione retributiva come regola della competizione intracomunitaria. In altre parole, lo scopo dell’art. 119 consisteva nell’evitare che nel mercato europeo, le aziende degli Stati che avevano dato pratica attuazione al principio sancito nell’art. 119 fossero svantaggiate, dal punto di vista della concorrenza, rispetto alle aziende degli Stati che non avevano ancora eliminato la discriminazione retributiva nei confronti della manodopera femminile. Come noto, infatti, il Trattato (soprattutto nella sua impostazione originaria), affronta le questioni sociali in funzione di quelle economiche, in un’ottica di garanzia di buon funzionamento del mercato unificato e fondato sulla concorrenza [g. f. Mancini, L’incorporazione del diritto comunitario nel diritto interno degli Stati membri delle comunità europee, in Rivista di diritto europeo, 1988, n. 24, p. 87]. Il divieto di discriminazioni retributive, tuttavia, è col tempo diventato espressione di un principio generale dell’ordinamento comunitario, quello della parità di trattamento fra uomini e donne, compiutamente espresso nel Trattato di Amsterdam del 1997 che incarica espressamente la Comunità di «promuovere la parità tra uomini e donne» (art. 2), incorporando tra i suoi obiettivi quello di eliminare le ineguaglianze nonché quello di promuovere tale parità (art. 3).
La nuova formulazione dell’articolo in esame precisa il divieto in oggetto individuando il parametro della «parità» retributiva nel «lavoro di pari valore» e non solo nel lavoro uguale, così adeguandosi alla direttiva 75/117/CEE. Pertanto, l’applicabilità del principio di parità retributiva non può essere subordinata all’esistenza di sistemi di classificazione del lavoro (Corte Giust. 6.7.1982, causa C61/81, CommissioneRegno Unito e Irlanda del Nord; Corte Giust. 17.10.1989, causa C109/88, Danfoss), giacché l’unico presupposto necessario e sufficiente consiste nell’equivalenza delle mansioni diverse. La Corte ritiene illegittime anche tutte le forme di di-scriminazioni indirette per ragioni legate al sesso nel conferimento di trattamenti economici (sulla parità di retribuzione oraria tra lavoro a tempo
Normativa comunitaria
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ridotto e lavoro a tempo pieno cfr. Corte Giust. 31.3.1981, causa C96/80, Jenkins; sull’inammissibilità dell’esclusione dei lavoratori a orario ridotto da un regime pensionistico d’impresa cfr. Corte Giust. 13.5.1986, causa C170/84, Bilka; sull’inammissibilità della previsione di un’anzianità doppia per i lavoratori a tempo ridotto rispetto a quella richiesta per i lavoratori a tempo pieno per determinare l’accesso al livello retributivo più elevato cfr. Corte Giust. 7.2.1991, causa C184/89, Nimz). In proposito è interessante notare come il principio di parità retributiva riguarda sia il caso di lavori svolti simultaneamente da lavoratori e lavoratrici, sia il caso di lavoro svolto precedentemente da un uomo (Corte Giust. 27.3.1980, causa C129/79, Macarthys).
Il principio di non discriminazione retributiva per ragioni di genere così sancito dal trattato e dalla direttiva 75/117/CEE è ribadito dalla direttiva 2006/54/CE, la quale nell’apposito capo I rubricato «Parità retributiva» del titolo II, sancisce all’art. 4 lo specifico «divieto di discriminazione» diretta e indiretta basata sul sesso per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, e concernente un qualunque aspetto o condizione retributiva. Ai sensi di quanto stabilito in questo divieto, pertanto, l’eventuale sistema di classificazione professionale impiegato per determinare le retribuzioni, deve basarsi su principi comuni per i lavoratori di sesso maschile e per quelli di sesso femminile «ed essere elaborato in modo da eliminare le discriminazioni fondate sul sesso».
L’art. 141 (154) Tratt. CE definisce, inoltre, il concetto di retribuzione come «il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura (attuali o futuri, ndr; cfr. Corte Giust. 17.5.1990, causa C262/88, Barber), dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo», e prevede che quando la retribuzione è stabilita a tempo essa deve essere eguale a parità di posto di lavoro, mentre quando è commisurata a cottimo deve fissarsi in base a una stessa unità di misura [per approfondimenti sull’evoluzione storica e normativa della parità retributiva cfr. M. barbera, L’evoluzione sto-rica e normativa del problema della parità retributiva fra uomo e donna, in Lavoro e diritto, 1989, p. 593].
L’interpretazione del concetto di retribuzione ha impegnato intensamente la Corte di Giustizia la quale ha finito per precisare la nozione comu-nitaria di retribuzione facendovi rientrare anche le prestazioni di enti previdenziali connesse a regimi non obbligatori, sia sostitutivi della previdenza pubblica obbligatoria (cfr. Corte Giust. 11.3.1981, causa C69/80, Worringham; sul divieto di non discriminazione nella previdenza obbligatoria infra, Cap. XV), sia complementari e integrativi (Corte Giust. 18.9.1984, causa C23/83, Liefting; Corte Giust. 13.5.1986, causa C170/84, Bilka). Rientrano, inoltre, nel concetto di retribuzione alcuni benefici attribuiti al lavo-
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ratore anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro tra cui, ad esempio, l’indennità di fine rapporto (Corte Giust. 27.6.1990, causa C33/89, Kowalska; per approfondimenti Roccella, Treu 2007, 254), la pensione superstiti (Corte Giust. 6.10.1993, causa C109/91, Ten Oever; Corte Giust. 28.9.1994, causa C7/93, Beune; Corte Giust. 1.4.2008, causa C267/06, Maruko), le agevolazioni di trasporto attribuite ad ex impiegati dipendenti (Corte Giust. 9.2.1982, causa C12/81, Garland), e le compensazioni per la partecipazione a corsi di formazione che impartiscono ai membri delle commissioni interne le cognizione necessarie per l’esercizio delle loro funzioni (Corte Giust. 6.2.1996, causa C457/93, Lewark).
Il Trattato di Amsterdam, inoltre, aggiunge due nuovi paragrafi all’art. 141 (157) Tratt. CE che prevedono, da un lato, che il Consiglio assicuri l’applicazione del principio delle «pari opportunità e della parità di trattamento» in materia di occupazione e di impiego, ivi compreso l’aspetto retributivo, e, dall’altro, che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare e compensare svantaggi nelle carriere professionali.
Il divieto di discriminazione retributiva così circoscritto è previsto anche nel nostro ordinamento dall’art. 28, D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 – «Codice delle pari opportunità tra uomo e donna» – che, riportando quanto in precedenza stabilito dall’art. 2, L. 9 dicembre 1977, n. 903 stabilisce che la lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore, nonché che i sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni devono adottare criteri comuni per uomini e donne.
Al momento attuale mancano, però, studi con carattere continuativo sull’argomento, ed è perciò apprezzabile il tentativo del Riformatore di isti-tuzionalizzare lo studio dei dati sull’occupazione femminile e sulla retribuzione femminile sebbene, come appare dalla Riforma, sotto forma di banche dati informatizzate anonime.
Più in generale, le banche dati realizzate dal Sistema di valutazione e monitoraggio sono rese disponibili, a scopo di ricerca scientifica, a gruppi di ricerca collegati a università, enti di ricerca o enti con finalità di ricerca italiani ed esteri. Le informazioni contenute nelle banche dati sono, infatti, preziose, giacché contengono i dati individuali anonimi relativi ad età, genere, area di residenza, periodi di fruizione degli ammortizzatori sociali, con relativa durata e importi corrisposti, periodi lavorativi e retribuzione spettante, stato di disoccupazione, politiche attive e di attivazione ricevute ed eventuali altre informazioni utili ai fini dell’analisi di impatto e di monitoraggio.
Codice delle pari opportunità tra uomo e donna
Banche dati informatizzate
anonime
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ASPETTI GENERALI
I risultati delle ricerche condotte mediante l’uso delle banche dati anonime sono, comunque, resi pubblici e comunicati al Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
1.4. La Riforma e i rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.
La legge di riforma (L. 92/2012) non si applica direttamente ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, ma è ovvio che, trattandosi di istituti che per la maggior parte trovano applicazione anche al settore pubblico (si pensi all’art. 18 dello Statuto), è stato necessario individuare un coordinamento.
In particolare, il comma 7 dell’art. 1 della L. 92/2012 prevede che le disposizioni ivi contenute costituiscono principi e criteri direttivi per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche ammini-strazioni, in coerenza con quanto disposto dall’art. 2 comma 2 del D.Lgs. n. 165 del 30 marzo 2001 (T.U. impiego pubblico) che dispone che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 165/2001, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo. Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili, solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge.
Restano ferme le previsioni di cui all’art. 3 del medesimo decreto legislativo, ai sensi del quale, in deroga all’articolo 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall’articolo 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287.
La legge di riforma (L. 92/2012) si limita a rinviare a successivi prov-vedimenti (di natura amministrativa o anche legislativa) del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione da attuare sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Competerà, quindi, al Ministro per la pubblica
Applicabilità della Riforma ai dipendenti P.A.
Esclusioni
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amministrazione e la semplificazione stabilire gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
In data 3 maggio 2012, il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, le Regioni, le Province e i Comuni, e le Organizzazioni sindacali hanno firmato un Protocollo sugli interventi preannunciati in tema di spending review, in cui è stata colta l’occasione per specificare che il miglioramento delle funzioni pubbliche comporta, tra le altre cose, anche l’adozione di nuove regole sul mercato del lavoro nel pubblico impiego e un nuovo modello di relazioni sindacali. A tale ultimo riguardo, viene specificato che devono essere predisposti vincoli e procedure per garantire trasparenza totale sugli andamenti gestionali e finanziari degli enti per valutarne le ricadute in termini occupazionali e retributivi. Viene, inoltre, prevista la definizione di criteri trasparenti e il coinvolgimento delle or-ganizzazioni sindacali in tutte le fasi dei processi di mobilità collettiva, e l’individuazione, nell’ambito delle materie di informazione sindacale (con una sorta di passo indietro rispetto alle previsioni di cui alla legge n. 15 del 2009 e al d.lgs. 150 del 2009, la c.d. Riforma Brunetta), anche di ipotesi di esame congiunto tra pubbliche amministrazioni e organizzazioni sindaca-li. Tutto ciò pare in linea e conforme a quanto delineato dalla L. 92/2012 nella delega sull’informazione e consultazione dei lavoratori, realizzandosi così una comunione di intenti tra pubblico e privato. Resta da capire come tale coordinamento verrà realizzato. Pertanto occorre attendere la promulgazione dei decreti delegati.
Per quanto riguarda le nuove regole riguardanti il mercato del lavoro, visti gli ultimi interventi nell’ambito del mercato del lavoro privato, le parti concordano di intervenire al fine di riordinare e razionalizzare le tipologie di lavoro flessibile utilizzabili dalle amministrazioni pubbliche, anche mediante modifiche al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, con riguardo ai profili di convergenza con il mercato del lavoro privato, di costituzione del rapporto di lavoro, della responsabilità disciplinare, delle forme di mobilità, volontaria ed obbligatoria, del personale.
Il Protocollo si occupa anche della flessibilità in uscita, stabilendo la necessità di un intervento normativo che, mediante la salvaguardia e il rafforzamento nel mercato del lavoro pubblico dei principi previsti dall’articolo 97 della Costituzione, dovrà confermare il principio dell’articolo 36 del decreto legislativo 165 del 2001, secondo cui il lavoro subordinato a tempo indeterminato è la forma ordinaria per far fronte ai fabbisogni ordinari delle pubbliche amministrazioni, e individuare e disciplinare le tipologie di lavoro flessibile utilizzabili nel settore pubblico per esigenze temporanee o eccezionali, in relazione alle diverse causali, con riferimento
Realizzazione del miglioramento delle funzioni
pubbliche
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ASPETTI GENERALI
anche alle procedure di reclutamento e ai limiti di durata, nonché contra-stare l’uso improprio e strumentale delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile con disciplina della responsabilità dirigenziale e delle sanzioni da applicare per il caso di abuso. Si tratta, in altre parole, dello stesso schema di intervento privilegiato dalla Riforma in commento: più rigidità in entrata per bilanciare la richiesta di più flessibilità in uscita.
Appare, inoltre, interessante segnalare che il citato Protocollo chiede di intervenire normativamente anche sulla disciplina, per specifici settori, di percorsi di accesso mediante un reclutamento ispirato alla “tenure-track”, sempre nel rispetto dell’articolo 97 della Costituzione e dei limiti alle assunzioni, definendo presupposti e condizioni del suo utilizzo. Si tratta, cioè, della possibilità di impiegare soggetti che con un percorso flessibile (rispetto all’ingresso nel pubblico impiego con il contratto a tempo indeterminato) permettono di fare un ricambio più veloce della classe degli impiegati pubblici.
Più specificamente, con riguardo alla flessibilità in uscita, il Protocollo chiede che si intervenga con provvedimenti normativi al fine di riordinare la disciplina dei licenziamenti per motivi disciplinari fermo restando le competenze attribuite alla contrattazione collettiva nazionale e di rafforzare i doveri disciplinari dei dipendenti prevedendo al contempo garanzie di stabilità in caso di licenziamento illegittimo.
Particolarmente rilevante sembra anche la volontà di individuare misure volte a favorire il più ampio accesso ai pubblici uffici da parte dei cittadi-ni degli stati membri dell’Unione europea, senza limitazioni derivanti dal luogo di residenza dei candidati. Come noto, le selezioni pubbliche richiedono oggi tra i requisiti necessari per la partecipazione, il possesso della cittadinanza italiana.
Flessibilità nel reclutamento