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20 1 1 - 20 1 2

Club Alpino Italiano

A L T A V A L L E B R E M B A N ASezione di Piazza Brembana

ANNUARIO

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In copertina:Monte AreraQuadro a olio di Eletta Bacuzzi

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Club Alpino Italiano

A L T A V A L L E B R E M B A N ASezione di Piazza Brembana

[email protected]

ANNUARIO 2011-2012

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Provincia di BergamoComunità MontanaVALLE BREMBANA

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ANNUARIO 2011-2012

PAG. 25

PAG. 14

PAG. 46

PAG. 74

PAG. 95

PAG. 136

VITA DI SEZIONE

ENZO

VITA DI MONTAGNA

RIFLESSIONI - CULTURA

ESCURSIONI - ALPINISMO

SPORT DI MONTAGNA

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Cari soci,

non mi è facile scrivere dopo la scomparsa dell’amico Enzo, più volte

presidente della nostra sezione, che ci ha lasciato nel pieno delle proprie

forze e della propria volontà di impegnarsi di nuovo e sempre più

all’interno del suo CAI, quella sezione che egli stesso ha contribuito a

creare, far crescere e diventare un punto di riferimento per il mondo

della montagna brembano e bergamasco.

Ripartire è difficile ma il nostro animo, l’animo dei gogìs, è forte, determinato, pieno di vitalità e di

voglia di fare… lo stesso sentire che spontaneamente ci impegna a proseguire sulla scia di Enzo.

Le parole chiave sono condivisione, passione, amicizia e comunione d’intenti, le diverse anime del

CAI devono viaggiare insieme e trovare sintesi nel nostro comune essere montanari, nel pensare alla

montagna come un universo da vivere a pieno: dall’alpinismo alle gite senior, dai nuovi sport che

stanno prendendo piede alle serate culturali e divulgative, dalle feste all’escursionismo giovanile,

senza dimenticare la Scuola Orobica e il Soccorso Alpino, fondamentali presìdi di competenza e

generosità.

Mille vie da scalare sono di fronte a noi, ognuna bella e complessa; per intraprenderle serve prima

di tutto un gran lavoro di cordata dove fiducia, convinzione e consapevolezza dei propri mezzi sono

fondamentali. Per questo il mio invito ai soci è di partecipare attivamente alla vita di sezione, il CAI

non è un’entità astratta, un’istituzione o un circolo, ma un insieme di persone che contribuiscono

attivamente allo sviluppo, promozione e salvaguardia del nostro territorio.

La nostra sezione può e deve contribuire, insieme alle altre realtà valligiane, allo scatto d’orgoglio di

un intero territorio, la nostra splendida Valle Brembana, che troppo spesso non crede fino in fondo

nelle proprie potenzialità e nel proprio valore.

Con l’orgoglio, la grinta e l’ottimismo della ragione, con la competenza del consiglio e con la generosità

dei soci possiamo far sì che Enzo, anche da lassù, sia orgoglioso della propria sezione.

Andrea Carminati

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ORGANIGRAMMA

Presidente: Carminati AndreaVice-Presidenti: Rossi Dino e Milesi DavideConsiglieri: Begnis Paolo, Busi Luciano, Cattaneo Stefano, Farese Mario,

Fois Gianmario, Galbiati Decio, Lego Lorenzo, Regazzoni Stefano, Rodeghiero Elisa, Rossi Dino, Rota Marilena, Speziali Ferdinando, Tarenghi Antonio

Revisori dei conti: Gasparini Luca, Gianati Ivan, Salvini GiuseppeSegreteria: Facchinetti GregorioTesoriere: Rota MarilenaTesseramento: Busi Luciano, Galbiati Decio, Farina HermesResponsabile sede e biblioteca: Busi LucianoResponsabile tecnologie informatiche: Fois GianmarioDirettore Scuola Orobica: Ghisalberti AlessandroResponsabile Squadra Soccorso Alpino: Patera FilippoDelegati Nazionali: Cattaneo Stefano e Salvini Giuseppe

COMMISSIONI

Rifugio Cesare Benigni: Regazzoni Stefano (responsabile), Cattaneo Stefano, Fois Gianmario, Papini Sergio, Pedretti Alberto, Pedretti Marco, Rodeghiero Elisa

Alpinismo-Scialpinismo: Begnis Paolo (responsabile), Caccia Marco, Giupponi Domenico, Milesi Fabrizio, Milesi Manuele, Piazzalunga Mattia

Alpinismo Giovanile: Cattaneo Stefano (responsabile), Rho DavideSentieri: Salvini Giuseppe (responsabile), Busi Luciano, Donati Ettore,

Galbiati Decio, Milesi Davide, Pedretti Luca, Pizzamiglio Angelo, Regazzoni Nazzareno, Rossi Dino, Rossi Primo

Escursionismo: Rossi Dino (responsabile), Busi Luciano, Cattaneo Stefano, Pizzamiglio Angelo

Seniores: Galbiati Decio (responsabile), Moscheni GiancarloCultura (TAM): Tarenghi Antonio (responsabile), Galizzi Flavio,Gervasoni Piero,

Torriani Stefano, Zani GianniAnnuario: Carminati Andrea (responsabile), Galizzi Flavio, Giupponi Alberto,

Lego Lorenzo, Tarenghi Antonio, Torriani StefanoCommissione Legale: Terzi Nicola (responsabile), Monni Sebastiana

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SOCI 2011

Soci VenticinquennaliSalvi AntonelloPaleni SilvioCattaneo Dario

Soci OrdinariAlgeri GiovanniAmbrosioni FrancoAmbrosioni AndreaAmbrosioni MatteoAmbrosioni Norma CaterinaAmbrosioni TizianoArioli PaoloArizzi DaniloArizzi EnricoArizzi ErnestoArizzi FrancescoArrigoni GrazianoAstori AlbertoAstori CesareAstori GiovanniAvogadro GianfrancoBadini Ivan TullioBaggi MarioBagini ClaudioBagini RobertoBagini ValentinoBalestra MassimoBalicco ClaudioBalicco Filippo

Bana AngeloBaroni GiovanniBaroni GiuseppeBaschenis ManuelBazzoni EnricoBeghini AlessandroBegnis AndreaBegnis EttoreBegnis IvanBegnis LorenzoBegnis PaoloBelotti Maria ClaudiaBelotti EmilioBelotti Paolo GiosueBeltramelli GiuseppeBenigni LucaBergamaschi MarioBerlendis StefanoBianchi AdrianaBianchi GianalbertoBianchi PrimoBianchini VittorioBonaccorsi GianfrancoBonaiti MariacristinaBonaldi GaetanoBonetti GianantonioBonetti LorenzoBonetti StefanoBonomo MicheleBonzi Daniele

Bonzi JolandaBonzi SergioBonzi VittorioBordogna GiuseppeBorsotti GianbattistaBosatelli PierangeloBosio PaoloBottani GiancarloBrevi LucianoBulanti StefanoBusi GiovanbattistaBusi LorenzoBusi Luciano(Piazza B.Na)Busi PietroBuzzoni IvanCadonati LucaCaiani DanieleCaimi DarioCaldarola MaurizioCalderone Zamboni GiannaCalegari AdrianoCalegari DomenicoCalegari GiuseppeCalegari MarcelloCalvi DiegoCalvi GiancarloCalvi AmbrogioCalvi MonicaCapelli FrancescoCapelli Roberto

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Capelli TarcisioCarletti AlessioCarletti AndreinaCarletti CarmenCarletti LivioCarletti OscarCarletti RomanoCarminati AndreaCarminati ClaudioCarminati GiovanniCarrara AngeloCasari ClaudioCattaneo ChiaraCattaneo DanieleCattaneo DaniloCattaneo DarioCattaneo StefanoCatullo StefanoCavadini MarcoCavagna CristianCavagna FiorenzoCavagna MauroCazzaniga MirellaColleoni WalterCornali GiuseppinaCornolti FrancescaCortinovis RoccoCortinovis SergioCrescini FerdinandoDaina PatrizioDalle Fabriche TarcisioDamiani LoredanaDanelli MarcoDentella ItaloDentella PaoloDonati GianbattistaDonati SergioEgman Alessandra

Egman MarioEgman MonicaEnea Spilimbergo LuigiFacchinetti GregorioFantini EmanueleFantini OsvaldoFarese MarioFarina ElenaFarina FaustoFarina HermesFiameni CarloFois GianmarioFracassetti GiovanniFurlani LucaFustinoni DarioGabanelli GiulioGalbiati DecioGalbiati FabrizioGalizzi BernardoGalizzi EliseoGalizzi EttoreGalizzi FlavioGalizzi GiacomoGalizzi Mose’ MauroGalizzi PieroGamba ClaudioGamba GiovanniGamba SergioGambardella DavideGambarelli MarinoGarcia LaiaGarzia BrunoGasparini GianlucaGavazzi PietroGeneletti MarcoGeneletti Maria ClaraGentili GiuseppeGervasoni Alberto

Gervasoni DuilioGervasoni ElioGervasoni ErnestoGervasoni MarioGervasoni PierantonioGherardi DomenicoGherardi ModestoGhidini FrancescaGhisalberti ElenafrancaGianati AndreaGianati GiordanoGianati IvanGianati PinuccioGiannatempo RobertoGiupponi AlbertoGiupponi CristianGiupponi DomenicoGiupponi Domenico CamerataGiupponi GiuseppeGiupponi PietroGiupponi TeresaGoglio EttoreGozzi GianbattistaGozzi GianluigiGrataroli ClaudioGrion LucaGritti GianfrancoGritti LauraGuidi ValerioGualteroni NicolaGusmini Don GiovanniLava MauroLazzarini MarcoLazzaroni LuigiLazzaroni MarcoLazzaroni StefanoLego LorenzoLocatelli Albino

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Locatelli ClaudioLocatelli EleonoraLocatelli EliseoLocatelli FrancescaLocatelli GuglielmoMagnati AndreaMagnati RenatoMagrini FabioMainetti LucianoMainetti PietroMalavasi AlessandroMamoli EnricoMancini Luca LivioMangini CaterinaManzoni LucianoManzoni SilvioManzoni UgoMarchesi TizianoMarchionna AttilioMarconi GianfrancoMarenzi ValentinaMaroni GianpieroMarsilli RobertoMartinelli GianfrancoMicheli PierfrancescoMidali BarbaraMidali FeliceMidali GinoMidali PaoloMiglio GiuseppeMigliorini AntonioMigliorini DanieleMigliorini EnzoMigliorini FulvioMigliorini OsvaldoMilesi AdrianoMilesi AldoMilesi Andrea Stefano

Milesi Anselmo(Olmo)Milesi CostantinoMilesi DanieleMilesi DaniloMilesi DarioMilesi DavideMilesi ErmannoMilesi FabrizioMilesi FrancescoMilesi GaldinoMilesi GeremiaMilesi GiacintoMilesi Giovanni (Ornica)

Milesi Giovanni (Botta di Sedrina)

Milesi Giovanni (S.G. Bianco)

Milesi Giuseppe (Fuipiano)

Milesi Giuseppe (Pontevecch)

Milesi LucaMilesi ManueleMilesi MarcoMilesi OmarMilesi OsvaldoMilesi PietroMilesi PlinioMilesi RaffaeleMilesi Remo AttilioMilesi SabrinaMilesi StefaniaMolinari FaustoMolinari GianniMolinari GiovanniMolinari ItaloMonaci AlessandroMonaci GiacomoMonaci MaraMonaci StefanoMonachello NicolaMongodi Raffaele

Monni SebastianaMorali ClaudioMorali GiovanniMoroni GiulianoMosca Pier LuigiMoscheni GiancarloMoser LuigiMostacchetti FabioMusati MarinoMusati RobertoNani GiuseppeNoe’ ClaudioNoris GianluigiOberti DiegoOberti GiuseppinaOberti PiergiacomoOberti RosannaOldrati MarcoOmacini MirkoOrlandini AmerigoOrlando StefanoPaganini GiorgioPaganoni GuglielmoPaganoni LucaPalazzi RobertaPaleni AndreaPaleni EmilioPaleni ErmannoPaleni GiovanniPaleni PaoloPaleni SilvioPandolfi RenatoPaninforni EnricoPaninforni GiovanniPaolini DavidePapetti ArmidaPapetti FlavioPapini Sergio

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Patera FilippoPatti AnnaPedretti AlbertoPedretti EnricoPedretti GiorgioPedretti LucaPedretti MarcoPedretti MauroPedretti VittorioPedrini GiovanniPedroni SantoPellegrinon LucianoPerico DavidePerico GiovanniPerico LuigiPesenti Compagnoni DomenicoPesenti GiancarloPessina DeboraPettazzi StefanoPiantoni TizianoPiccoli MichaelPirletti AngeloPrevitali ClaudioPizzamiglio AndreaPizzamiglio AngeloPlevani ClaudioPlevani RosyPonti BrunoPoli VittorioPreani MartinoPuppin LidiaQuarteroni AmbrogioQuarteroni FerdinandoQuarteroni LucianoQuarteroni RuggeroRaballo Filippo SilvanoRampinelli DaniloRaniolo Maurizio

Redondi PieroRegazzoni AntonioRegazzoni AthosRegazzoni BeniaminoRegazzoni FrancoRegazzoni GerolamoRegazzoni GiorgioRegazzoni GiuseppeRegazzoni MarcoRegazzoni MauroRegazzoni NadiaRegazzoni NazarenoRegazzoni PaoloRegazzoni PietroRegazzoni RenatoRegazzoni RobertoRegazzoni StefanoRegazzoni Stefano (Valtorta)

Regazzoni Stefano (St.Brigida)

Revera CristianRevera MiriamRho DavideRho GianluigiRinaldi GianfrancoRini OmarRivellini CorradoRivellini GiovanniRivellini MarcoRodeghiero ElisaRomano MarioRonzoni EmilioRonzoni EnzoRonzoni GiancarloRossi DinoRossi MauroRossi OrazioRossi PaoloRossi Manuele

Rossi PrimoRota GiorgioRota GiuseppeRota GuglielmoRota MarilenaRota StefanoRotasperti GianfrancoRovelli AldoRovelli BenitoRovelli Ezio (Cusio)

Rovelli GilbertoRovelli GiorgioRovelli PierluigiRubini DarioRubini OttavioRubini RomanoRuffinoni Giovanni (P.zza Bremb.)

Ruffinoni JessicaRuffinoni MarinoRuffinoni MicheleRuffinoni RobertoRuffoni GraziellaRuggeri Jean PierreRusconi GiovanbattistaSchmid MiriamSalvetti ItaloSalvetti LuciaSalvi AntonelloSalvi Giovanni PietroSalvi GiulioSalvini AntonellaSalvini CarloSalvini EnzoSalvini FerdinandoSalvini FulvioSalvini GiuseppeSalvini LucaSalvini Pietro Vincenzo

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Santangelo GiorgioSanti SergioScaglia MosecesareScanzi LucianoScanzi RiccardoScaricabarozzi ErmannoScuri EnricoScuri EttoreScuri FabrizioSerrati CorradoSester DarioSignorelli MarioSonzogni Amelio (S.G. Bianco)

Sonzogni ErmannoSonzogni PietroSoppelsa StefanoSormani LauraSpeziali GiovanniferdinaSpina VincenzoSpini AdrianoStracchi NicolaStefanoni GiovanniTancredi LucianoTarenghi AntonioTaschini PierangeloTassis EgidioTestori VincenzoTinaglia DiegoTiraboschi AngeloTiraboschi GianpietroTiranini CarloTironi ElioTironi GermanoTondi SilviaTorriani StefanoTraini GaetanoTurchetto StefanoTuveri Marco

Tuveri MaurizioUsubelli ClaudioValceschini ClaudioValceschini FaustoVanini GianfrancoVitali LucianoVogelaar StefanZampiero FrancoZanetti MaurizioZani Giovanni (P.zza Brembana)

Zani Giovanni (S.G. Bianco)

Zeloni NataleZorzi MassimoZulian Luca

Soci FamiliariArizzi LuigiArizzi VeronicaBagini AngelaBana AlessandroBarachetti SoniaBarbantani GabriellaBegnis RossellaBelotti ErsiliaBeltramelli AliceBenintendi DeliaBettinelli WilmaBianchi DariaBoezio AnnamariaBonaiti AnnaritaBonzi PaoloBosatelli DanielBosisio StefaniaBrambilla VincenzoBusi StefaniaCalegari DanieleCalegari IlariaCalegari Silvia

Calvi AnnaCalvi MarcoCalvi SaraCalvi MonicaCapitanio NadiaCapitoni EnricaCapurso NicolettaCarletti CarmenCarletti GiuseppeCarletti MatteoCarrara ClaudioCassani PatriziaCattaneo BiancaCereda Paola MariaConsonni LucaConsonni SaraDentella MartaDi Giacomo DaliaDi Pilla NadiaDonati GiuliaDonati MarinoDonati MichelaDossi MaddalenaDuzioni RaffaeleEgman AlessandraEssig AnnemarieFagioli OmbrettaFerrari PaolaFustinoni StefanoGalizzi AchilleGalluzzi EdiGarzia ChiaraGeneletti EvaGervasoni OrnellaGhilardini DonatellaGianati FedericoGiupponi NoemiGiupponi Teresa

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Gonella DavideGrataroli PieraGritti PaolaLazzaroni MarioLazzaroni RiccardoLegrenzi SilviaLicini GiovanniLicini MariaLocatelli FrancescaLocatelli MarcoLocatelli WalterLocatelli SaraMainetti MarioMainetti NicolaManzoni AlessandraMidali AlessioMidali ChiaraMigliorini LucaMilesi AlessandroMilesi BrunoMilesi CristianMilesi FiorellaMilesi MaraMilesi MariasperanzaMilesi MaximilianoMilesi SilviaMolinari SimonaMorali DonatellaMoser GiorgioMostacchetti DiegoOmacini DonatellaPagani DanielaPaganini FrancescoPaganini Giulia MariaPaleni AugustoPapetti GustavoPedretti DanielePesenti Compagnoni Annamaria

Piccamiglio NadiaPirletti KatiaQuarteroni RaffaellaRegazzoni DavideRegazzoni LauraRho StefanoRiceputi GiulianaRossi AngelaRossi PaoloRota LucianaRovelli LuisaRuffinoni Giovanni (Roncobello)

Ruffinoni MicheleRuffinoni RobertoRuffoni OdetteSalvetti ChiaraSanti FilippoSavio GisellaSeghezzi ChiaraSonzogni DavideSonzogni FabioSonzogni OrnellaSormani Spina MichelaSpina DomenicoSpina VincenzoTimpano AnnaTuveri Simone MattiaZanchi MilenaZanchi RosannaZani FrancescoZanolini Vittoria

Nuovi SociAmbrosioni AndreaAstori AlbertoAstori CesareBadini Ivan TullioBarbantani Gabriella

Begnis LorenzoBegnis RossellaBegnis AndreaBonzi PaoloBonzi DanieleBrambilla VincenzoBuzzoni IvanCaimi DarioCaldarola MaurizioCalvi MonicaCapitanio NadiaCarbonari CaterinaCasari ClaudioCasari WilliamCasari LucaCattaneo ChiaraCazzaniga MirellaCornali GiuseppinaGamba GiovanniGeneletti EvaGiupponi AlbertoGiupponi CristianGiupponi NoemiGrion LucaGuerrini GaiaGuidi ValerioGusmini Don GiovanniLocatelli ClaudioLocatelli AlbinoMamoli EnricoMidali PaoloMidali ChiaraMilesi LucaNoè ClaudioOmacini MirkoPalazzi RobertaPedretti LucaPedrini Giovanni

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Perico DavidePesenti GiancarloPiccoli MichaelPonti BrunoPrevitali ClaudioPuppin LidiaRampinelli DaniloRegazzoni PietroRegazzoni LauraRegazzoni NadiaRevera MiriamRinaldi GianfrancoRossi ManuelRota GuglielmoRota StefanoSchmid MiriamScuri EnricoSeghezzi ChiaraSonzogni FabioSozzoni ThomasStracchi NicolaTaschini PierangeloTimpano Anna

Elenco GiovaniAmbrosioni SimoneBalestra EliaBashenis MattiaBashenis GabrieleBossi GiulioCarbonari CaterinaCarbonari FedericoCarletti CristianCarletti MarcoCarminati DanieleCasari LucaCasari WilliamCavadini Michele

Daina AlbertoytzhakDuzioni GionataFiameni ElettraFois LucaFois StefaniaGeneletti NicolaGoglio RiccardoGritti SilviaGuerrini GaiaIdilli MartinLicini GabrieleLicini MicheleMainetti SimoneMidali Fatima

Milesi GiuliaPirinoli AndreaRegazzoni LucaRegazzoni StefanoRivellini GiadaRivellini GiovanniRivellini SaraRubini EricaRubini MariaRusconi NoraSonzogni MicheleSozzoni ThomasTurchetto SimoneWisniowicz Dawid

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Enzo

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Enzo

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Enzo

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ANNUARIO 2011-2012 ENZO

Per ENZO…..Quando ci hanno chiesto di dire qualcosa su ENZO abbiamo pensato subito a quello che rappresentava per noi della Scuola Orobica.Per ENZO ognuno di noi era speciale e si ricordava di tutti quelli che negli anni in qualche modo dalla Scuola sono passati.Ma sarebbe molto limitativo ricordarlo solo per questo, Lui era molto di più.Aveva un entusiasmo contagioso per tute le cose che gli passavano per testa e, credeteci, erano davvero tante. Era impossibile stargli dietro perché aveva sempre un nuovo progetto o una nuova idea.È vero, la montagna era la sua grande passione, ma lo era anche la cultura della sua valle, la fotografia, la natura e la musica. Ognuna di queste cose lo entusiasmava e quando ne parlava gli si illuminavano gli occhi.Amava stare con i giovani e non sfigurava di certo. Desiderava far conoscere l’arrampicata ai più piccoli, e molte volte ha organizzato nelle scuole o in estate giornate a tema. Inoltre aveva iniziato un progetto per far arrampicare i disabili.ENZO ci lascia una grande eredità di idee e di progetti, sarà nostra cura cercare di realizzarli. Lo sappiamo, è impossibile portarli avanti tutti perché nessuno riusciva a stare al suo passo ma cerchiamo di collaborare tutti insieme, perché è quello che ENZOha sempre cercato di fare. “L’unione fa la forza” e forse così riusciremo a realizzarei suoi sogni.ENZO, per noi sei stato un grande esempio di generosità, di lealtà, sensibilità e schiettezza. Vogliamo salutarti dicendoti solo: ci vediamo giovedì sera alla scuola!

I tuoi istruttori dell’Orobica

Caro ENZO,insostituibile Amico e Presidente, conosciuto e stimato per il tuo coinvolgente entusiasmoe passione per la montagna.Sempre solare, dalla forte personalità ed estremamente schietto nel dire le cose.Hai saputo, con il tuo esempio, trasmettere quei Valori di Leale e Autentica Amicizia, che mai scorderemo, e avvicinare, soprattutto i giovani, ad una competente conoscenza della montagna.Non ci sarà, per noi, modo migliore di ricordarti nel continuare a portare avanti questi Valori nei quali credevi e per i quali tanto ti sei dato da fare...

Ciao.... ENZO

Davide Milesi

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Olmo al Brembo, 8 febbraio 2012Caro ENZO,

noi Amici della Montagna sentiamo il triste e profondo bisogno di esprimerTi sincera gratitudine per la Tua intensa vita di uomo libero, giusto e leale, e convinta riconoscenza per il Tuo esempio di Maestro di Montagna infaticabile, audace e generoso con tutti.

Le Tue numerose attività di promozione della vita, scuola e gente di montagna sono sempre state evidenziate dalla Tua schietta sensibilità, coraggiosa gratuità e lungimirante volontà dedicate a ‘piene mani’ nel territorio della Tua Alta Valle Brembana e oltre, anche per diffondere valori e finalità di tutto il Club Alpino Italiano e per dare impulsi all’Unione Bergamasca del Tuo e nostro Sodalizio.

Nell’impegnativo ruolo di Presidente della Sezione CAI di Piazza Brembana, di fondatore, Istruttore nazionale e Direttore della Scuola ‘Orobica’, hai sempre dimostrato straordinaria dinamicità, consapevole responsabilità e trasparente onestà per promuovere l’alpinismo e la montagna in ogni dimensione, soprattutto nel regalare le tue migliori energie e qualità per educare i giovani a scalare il futuro.

Lo spirito di servizio, il rispetto per ogni persona e l’umiltà verso tutto sono la Tua ricchezza etica e umana seminata in ogni Tua attività sociale, sportiva e culturale, e Ti rendono uno dei ‘cristalli più limpidi’ della nostra famiglia bergamasca del Club Alpino Italiano.

Attraverso questo passaggio obbligato dell’ultimo arrivederci per lasciarti “andare avanti” oltre le montagne, vogliamo e dobbiamo raccogliere il testimone delle mille storie di vita che Tu ENZO ci affidi come prezioso patrimonio dell’animo, accese scintille di pensiero e incancellabili tracce di esperienze per portare avanti tutti insieme il Tuo progetto di praticare l’amore e la passione per la montagna, sentimenti puri che rafforzano, legano ed elevano ogni comunità.

Oggi, tutti uniti, mescoliamo il nostro piccolo dolore nell’infinito dolore dei tuoi cari che vogliamo stringere in un abbraccio silenzioso e solidale la moglie DELIA le figlie NATASHA e JENNIFER; i figli MICHELE e ALBERTO MASSIMO; i fratelli DINO, ADRIANO e PIERANGELO; gli Amici del CAI di Piazza Brembana e della Scuola ‘Orobica’.

Caro ENZO,ancora grazie perché dopo questo inesorabile e commosso arrivederci, siamo sicuri, ci guiderai per sempre con la Tua forte voce del cuore nel nostro cammino quotidiano come impareggiabile Compagno di cordata, saggio Ambasciatore della Montagna e splendido Amico per la vita.

Ciao ENZO !Paolo e i tuoi Amici

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ANNUARIO 2011-2012 ENZO

ENZO E L’ANNUARIO

L’Annuario del CAI Alta Valle ha appena compiuto 15 anni. Di questa esperienza editoriale sono stato testimone diretto e comparsa, avendo collaborato fin dal primo numero con la Redazione, in compagnia di Stefano Torriani, con cui ho condiviso l’impegno anche nella realizzazione di altri importanti progetti. L’Annuario è ormai adulto. Ricco di storia e di storie, di passioni e di entusiasmi, espressione vivace da parte di tutti i collaboratori e i Soci che lo sostengono, allora 500 e oggi più di 640, è diventato un punto di riferimento non solo per i valligiani, ma per il variegato mondo di appassionati della montagna che frequentano e amano la nostra Valle. Alla sua nascita ero compagno di lavoro di Enzo Ronzoni, che mi aveva coinvolto in questo suo progetto, ambizioso, ma necessario secondo lui per dare corpo ad un sodalizio, appunto quello del CAI, che aveva voluto costituirsi in una Sezione autonoma da Bergamo, e aveva quindi bisogno di linfa per crescere e darsi un’identità. Enzo era allora il giovane Presidente del CAI Alta Valle Brembana, e a dargli una mano erano in molti, chi con il semplice entusiasmo, chi fattivamente con l’impegno a scrivere nello spirito del CAI, tutti con il loro sostegno morale che Ronzoni, nell’editoriale del primo numero così sintetizzava: “Le alte montagne sono un sentimento”; un invito a viverle, farle conoscere, rispettarle, amarle e raccontarle. E lui queste nostre montagne le conosceva e le amava veramente, sopra ogni cosa.A dargli sostegno c’era un altro caro amico, coscritto e mio compagno fin dalle elementari, Giampietro Piazzalunga, responsabile del Comitato di Redazione. Entrambi ci hanno lasciato prematuramente, ma il loro entusiasmo continua a rivivere nei giovani che hanno saputo coinvolgere in questo importante progetto, che hanno avviato all’alpinismo e ai quali hanno trasmesso una passione responsabile nei confronti della montagna, concretizzatasi poi con la creazione della Scuola Orobica di Alpinismo e Scialpinismo, facendoli partecipi di quell’amore per i silenzi e le cime che ancora oggi sono forti e vivi in tutti i Soci della Sezione. Lasciano un’eredità importante, che richiede nuovo entusiasmo, e che continuerà a vivere finché ci sarà ad alimentarla il loro ricordo.

Caro Enzo,ho preso a prestito le parole più toccanti del tuo Editoriale del 2000, quando ricordavi con amicizia sincera e con grande affetto l’amico comune Giampietro Piazzalunga che ci aveva lasciato, e le ho utilizzate per fartene omaggio, e ricomporle, come un piccolo mazzo di fiori di campo, in un Tanka, un “componimento poetico breve” in stile giapponese, che ti dedico.

CIAO ENZO

Ci accompagna un velo di tristezza manca qualcuno. Una stella alpina nell’azzurro del cielo.

Flavio

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Caro Enzo,

hai trovato uno strano modo per riunirci sotto la “Corna del Det” che ti ha visto muovere i primi passi verticali. Il contrasto era forte, si riusciva a stento a contenere le lacrime; come in una sfilata carnevalesca c’erano diversi gruppi colorati che con tristezza e dolore ti hanno accompagnato da casa verso il cimitero. Il soccorso alpino, l’AIDO, la Scuola CAI Valseriana, il CAI di Piazza Brembana e la tua Scuola OROBICA, oltre ad amici e conoscenti a cui hai lasciato qualcosa, ti hanno voluto abbracciare per l’ultima volta.

Prima, durante e dopo la cerimonia ho osservato come nei momenti di dolore l’umano si avvicina all’altro in un modo che raramente si riscontra nella vita di tutti i giorni : carezze, mani sulle spalle, abbracci avvicinano le persone nella condizione emotiva del dolore. Sarebbe bello che ci sbilanciassimo di più verso il contatto nel piacere e nella gioia, piuttosto che nel dolore. Non è facile invertire una tendenza che dura centinaia d’anni, ma credo che anche dal tuo vissuto possiamo imparare qualcosa. Ho potuto osservare che anche tu, a tuo modo, esprimevi questa voglia di contatto con le tue mani che oltre a cucinare ed arrampicare, usavi sulle spalle di chi incontravi all’OROBICA, la tua seconda casa.E proprio nella tua fisicità, nelle tue espressioni verbali così come nel contatto che avevi nelle tue relazioni, lasciavi trasparire la passione e la voglia ti trasmetterla ad altri. Soprattutto quando si parlava di Montagna ti si accendevano gli occhi e si accendeva un fuoco che hai alimentato negli anni passando anche attraverso dolori e battute d’arresto.

Credo anche che fossi disposto a rimetterti in gioco, a provare nuove esperienze; ricordo quando sei venuto alla mie lezioni di Yoga e abbiamo sudato assieme in un ambiente sicuramente inusuale. Eri entusiasta della pratica e mi incoraggiasti a fare ciò che sentivo più giusto per me in quel momento. Mi piacerebbe pensare che il vuoto che hai lasciato nei nostri cuori lasciasse il posto ad una apertura delle persone; dovremmo non solo parlare di più, ma incontrarci, invece di scontrarci, nel rispetto della persona che abbiamo davanti, indipendentemente da ciò che dice.

Spesso si ricordano le persone che vengono a mancare con ciò che hanno fatto nella loro esistenza e, di solito, si tende a ricordare ciò che, nella società/cultura dove vivono, è visto come bene e positivo e a dimenticare ciò che è sentito come negativo. Io non voglio fare nulla di tutto ciò e dirò solo che Enzo era un uomo come tanti altri, con i suoi bisogni primari, con i suoi sogni e la sua tristezza, sua rabbia e la gioia di vivere.Enzo però ha reso possibile che tantissima gente si approcciasse alla Montagna, ha dato spazio a chi voleva respirare in un modo diverso e, soprattutto, ha fatto sognare persone di ogni età.

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ANNUARIO 2011-2012 ENZO

Non tutti quelli che ha incontrato hanno poi continuato per la strada che proponeva, ma tutti hanno avuto, grazie a lui, la possibilità di vedere una alternativa.

Queste poche righe non vogliono sostituire la chiacchierata che non abbiamo fatto, ma uno spunto di riflessione per tutti noi che ti abbiamo conosciuto e a cui hai lasciato qualcosa.Per me sei stato un uomo che mi ha accolto nella sua famiglia e mi hai lasciato libero di fare, dandomi indicazioni preziose che non sempre ho saputo apprezzare in quel momento,ma che mi sono servite in seguito per la mia formazione tecnica e umana.

Ci hai tenuto assieme con il tuo grande abbraccio per più di vent’anni, ci lasci con tanti progettie qualche domanda a cui non sappiamo rispondere. A me lasci l’amarezza di non aver conversato in modo sereno, non su progetti o cose da fare, ma sul come si sta e su ciò che ancora ci fa vivere e vibrare.Ti lascio con una canzone che penso tu conosca bene...

Angie - Rolling Stones

Angie, Angie, quando scompariranno queste nuvole scure?Angie, Angie, dove ci porterà il destino?senza un briciolo d’amore nelle nostre anime e senza un soldo nelle tasche dei nostri cappottitu non puoi dire che siamo soddisfattima Angie, Angie, non puoi dire che non abbiamo mai provato Angie, tu sei bella,ma non è il momento di dirsi addioAngie, io continuerò ad amarti, ricordando tutte quelle notti in cui abbiamo piantotutti i sogni che tenevamo stretti sembravano finire in fumolasciami sussurrare nelle tue orecchieAngie, Angie, dove ci condurrà il destinoAngie, non piangere, tutti i tuoi baci hanno ancora un sapore dolceodio vedere la tristezza nei tuoi occhiMa Angie, Angie, non è il momento di dirsi addio, senza un briciolo d’amore nelle nostre anime e senza un soldonelle tasche dei nostri cappottitu non puoi dire che siamo soddisfattiMa Angie, io ti amo ancora e dovunque io guardi vedo i tuoi occhinon c’è nessuna donna che si avvicini tanto a tee dai, asciugati gli occhi

Un grosso abbraccio

Ivano

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ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

C.A.I. Alta Valle Brembana - Sez. di Piazza BrembanaVERBALE DELL’ASSEMBLEA DEL 14 gennaio 2012

Oggi, sabato 14 gennaio 2012, alle ore 18, è convocata presso la sala polivalente della Bi-blioteca Comunale di Piazza Brembana, Via Roma, l’Assemblea Generale Ordinaria dei Soci del C.A.I., sez. di Piazza Brembana, con il seguente O.d.g.:

1) Nomina del Presidente e del Segretario dell’Assemblea 2) Relazione del Consiglio Direttivo in carica 3) Conto Consuntivo 2011 e Bilancio Preventivo 2012 4) Quote associative 2013 5) Varie ed eventuali

Sono presenti 64 Soci

1) Nomina del Presidente e del Segretario dell’Assemblea.Alle ore 18.10 si dà inizio ai lavori. Dopo il saluto ai presenti da parte del Presidente della Sezione sig. Ronzoni Enzo, su proposta dello stesso, per alzata di mano, vengono eletti Pre-sidente dell’Assemblea il sig. Gentili Giuseppe, e Segretario il sig. Giupponi Alberto. Prima di passare al secondo punto all’O.d.g., vengono consegnati gli attestati di Socio Onorario ai sig.ri Donati Giambattista e Farese Dario, per il lungo e profondo impegno dimostrato all’interno dell’Associazione fin dalla nascita. Vengono poi consegnati i diplomi agli iscritti con venticin-que anni di tesseramento:

BAGINI ROBERTO Foppolo MILESI BRUNO Olmo al Brembo CALEGARI DANIELE Piazza Brembana SANTI SERGIO Santa Brigida RUBINI ROMANO Piazza Brembana REGAZZONI ROBERTO Olmo al Brembo MILESI GIOVANNI San Giovanni Bianco LAZZARONI STEFANO Santa Brigida GOZZI GIANLUIGI Piazza Brembana CAPELLI TARCISIO San Giovanni Bianco BONZI VITTORIO San Pellegrino Terme BONZI JOLANDA San Pellegrino Terme BIANCHINI VITTORIO Pavia BASCHENIS MANUEL Santa Brigida MILESI ANSELMO Olmo al Brembo

Il Presidente dell’assemblea invita poi a parlare il sig. Paolo Valoti, già Presidente della Sez. CAI di Bergamo, il quale sottolinea la vicinanza dei Soci della Sez. di Bergamo agli amici dell’Alta Valle Brembana, la necessità di costruire una unione paritetica tra tutte le Sezioni CAI della provincia, nel rispetto delle rispettive autonomie, “facendo cordata”, l’importanza dei rapporti con le Istituzioni a tutti i livelli. Viene invitato poi a intervenire il sig. Carlo Saffioti, Consigliere Regionale, che evidenzia le iniziative svolte dal CAI in occasione del 150° dell’U-nità d’Italia, ricordando anche che nel 2013 ricorre il 150° della fondazione del CAI; accenna

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all’impegno della Regione Lombardia a sostegno del CAI, a cui vien sempre chiesto il parere sulle leggi riguardanti la Montagna e l’Ambiente (rifugi, uso delle motoslitte….).

2) Relazione del Consiglio Direttivo in caricaIl Presidente dell’Assemblea invita i responsabili delle singole Commissioni a relazionare sulle attività svolte nel 2011 e sui programmi per il 2013.

- Responsabile Sede, Tesseramento e Biblioteca: relatore Busi Luciano - Commissione Sentieri: relatore Milesi Davide - Salvini Giuseppe (Pepo) - Commissione Alpinismo e Scialpinismo: relatore Begnis Paolo della Scuola Oro-bica - Commissione Alpinismo Giovanile: relatore Cattaneo Stefano - Commissione Escursionismo-Attività Gite: relatore Rossi Dino - Commissione Seniores: relatore Galbiati Decio - Commissione Cultura-Tutela Ambiente Montano: relatore Tarenghi Antonio - Commissione Annuario: relatore Carminati Andrea - Commissione Legale: relatore Presidente Ronzoni Enzo - Commissione Rifugio Cesare Benigni: relatore Regazzoni Stefano - Attività Rifugio: relatore rifugista Rodeghiero Elisa - Bivacco Zamboni: relatore Cattaneo Stefano

Commissione Sede, Tesseramento e BibliotecaResponsabile: Busi Luciano Sede:è aperta ufficialmente il venerdì dalle ore 21. Quest’anno ci sono state parecchie

migliorie: nuovo fax, bacheca (offerta dalla falegnameria Bruno Milesi di Olmo), leggio (offerto dalla falegnameria F.lli Balestra di Lenna), deumidificatore.

Biblioteca: è in fase di catalogazione con l’aiuto di Chiara Delfanti, responsabile della

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Page 29: Annuario 2011 2012

Biblioteca Comunale di Piazza Brembana; i libri della nostra sede entreranno nel circu-ito del sistema Bibliotecario della Provincia di Bergamo.

Tesseramento: al 31 ottobre 2011, i Soci erano 640 (+26 rispetto al 2010). Ordinari: 468, familiari: 126, giovani sotto i 18 anni: 46.

Commissione SentieriResponsabili: Milesi Davide e Salvini Giuseppe (Pèpo) Milesi Davide fa notare come sia necessario intervenire non solo sui sentieri alti, ma

anche su quelli di collegamento al basso. Molto buona la collaborazione con le altre Associazioni della valle.

* Viene allegato l’elenco dettagliato degli interventi straordinari e ordinari effettuati nel corso dell’anno.

Commissione Alpinismo e Sci AlpinismoResponsabile: Begnis Paolo, della Scuola Orobica La Scuola Orobica sta crescendo. C’è l’impegno di preparare dei capogita validi per ele-

vare il livello di sicurezza; servirà uno sforzo particolare per l’assistenza ai vari gruppi e iniziative: CRE, disabili, feste, fungolandia... Occorre allargare il numero degli Istruttori della Scuola nei vari corsi già organizzati; c’è l’intenzione di dare il via anche al Corso di Arrampicata libera. Viene ringraziato il Comune di San Pellegrino Terme per la di-sponibilità della Sede. [Intervento del Vice Sindaco di san Pellegrino che, garantendo la continuità dell’impegno dell’Amm. Comunale, si congratula per l’attività svolta a difesa dei valori della Montagna].

Commissione Alpinismo GiovanileResponsabile: Cattaneo Stefano La nostra attività è all’inizio; si deve rimarcare che i giovani partecipanti non sono molto

numerosi. C’è speciale sollecitudine ad applicarsi per un più largo coinvolgimento attra-verso la Scuola, le gite e le escursioni accompagnate.

Commissione EscursionismoAttività gite: responsabile Rossi Dino Occorre insistere affinché sia garantita sempre maggiore sicurezza nelle gite ed escur-

sioni; si darà molto rilievo al Corso per Accompagnatori. Il maltempo ha annullato alcu-ne iniziative.

* Viene allegato l’elenco dettagliato delle Escursioni e Gite del 2011.

Commissione SenioresResponsabile: Galbiati Decio Esprime parecchie soddisfazioni che derivano da questa attività, e che coinvolgono sia

le persone di una certa età che le loro famiglie. Ringraziamenti profondi per gli accom-pagnatori della sezione.

* Viene allegata la relazione dettagliata con l’elenco delle gite effettuate.

Commissione Cultura - Tutela Ambiente MontanoResponsabile: Tarenghi Antonio Si è operato attivamente nella ricerca di testimonianze preistoriche nella zona Alpe

Azzaredo, in collaborazione con la Soprintendenza dei Beni Archeologici della Regione

ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

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Lombardia e con il CNR, ufficio di Dalmine. Si tratta di una Torbiera con reperti databili intorno a 6/7 mila anni fa. Saranno effettuati nuovi carotaggi il prossimo anno, presso la Baita Azzaredo - Casù. Verrà richiesto un modesto finanziamento a tale scopo (un migliaio di Euro) al Consiglio Direttivo della Sezione (il quale vaglierà la richiesta), ri-entrando questa iniziativa storico-naturalistica tra gli scopi della nostra Associazione. La costruzione nelle vicinanze di un nuovo rifugio non deve compromettere la peculia-rità della zona, in particolare riguardo alla torbiera.

Altro intervento è la rimozione di cumuli di pietre, sempre nell’Alpe Azzaredo - Casù, lungo uno storico “barec”, sotto il Bivacco Zamboni, considerati inopportuni dalla So-printendenza. Con l’aiuto di alcuni membri della Commissione si cercherà di realizzare una carta topografica che segnali Rifugi, Bivacchi, Alberghi… delle Prealpi Orobiche, specie a quote elevate in rapporto alla cosiddetta sostenibilità dell’ambiente montano. Durante il 2011 sono stati tenuti contatti continui con la commissione TAM della Sezione di Bergamo; così si farà nel 2012.

Commissione AnnuarioResponsabile Carminati Andrea Si è fatto uno sforzo speciale per migliorare anche graficamente la nostra pubblicazio-

ne annuale. L’opera deve mettere in risalto l’identità della Valle: Montagna, Ambiente, Storia, Tradizioni e Cultura. Si insisterà, come nel passato, sull’uso di tutte le tecnologie moderne per diffondere i valori e le iniziative della Sezione, in modo di attrarre l’interes-se di più persone possibile, in particolare del Giovani (Facebook, sito….)

Commissione LegaleResponsabile: Ronzoni Enzo Si sottolineano le gravi responsabilità di carattere giuridico del Presidente della Sezione

e di tutti i Collaboratori che operano in settori che presentano una certa dose di perico-losità.

Commissione Rifugio Cesare BenigniResponsabile: Regazzoni Stefano

Rifugio Benigni Da un primo incontro con la rifugista sono emerse due grosse difficoltà: approvvigio-

namento acqua e carenza elettricità. Subito si è provveduto con “by pass” volante della tubazione idrica, per cui, passando meno acqua nella pompa, si è risparmiata anche energia. Rimangono molti altri interventi per essere in regola con la normativa: acque-dotto, tetto nella parte vecchia, inceneritore, locale batterie, cantina, bagni, parafulmine, scala di emergenza, impianto riscaldamento acqua calda.

Il preventivo di spesa è di circa € 60.000. A questo punto interviene il sig. Facchinetti Gregorio, Segretario della Sezione, che

sottolinea come occorra adeguare la gestione del Rifugio Benigni alle nuove normati-ve, anche in funzione di una nuova classificazione. Ora servono le certificazioni per i lavori effettuati, e, pertanto, deriva la necessità di usare in modo corretto il volontaria-to.La rifugista, sig.ra Rodeghiero Elisa, illustra l’attività svolta dal Rifugio; soprattutto insiste nel rimarcare la necessità di interventi urgenti in vista della classificazione del Rifugio secondo le normative regionali. Fa anche alcune proposte di carattere ammini-strativo (assicurazione, contratto, telefono, inventario…)

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ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

Bivacco Zamboni Dalle diverse ispezioni è risultato tutto in regola, anche se occorre migliorare la vivibilità

interna: stufa, arredi. La famiglia Zamboni collabora e partecipa fattivamente.

3) Conto Consuntivo 2011 e Bilancio Preventivo 2012 Il Presidente invita il Tesoriere sig.ra Rota Marilena a presentare la Relazione sul Conto

Consuntivo 2011 e il Bilancio di Previsione 2012.

CONTO CONSUNTIVO 2011 Il tesoriere sig.ra Rota Marilena, elenca le varie voci, i costi e i ricavi, e le attività e pas-

sività totali. L’uscita complessiva è stata di € 55.027,71 [Lavori urgenti per il Rifugio, interventi sen-

tieri, corsi aggiornamento per Accompagnatori, serate con Alpinisti, quote al CAI cen-trale, tasse e imposte, spese gestione ordinaria…]

Le entrate complessive ammontano a € 44.437,74 [Quote Soci, affitto del rifugio, spon-sor dell’Annuario, contributi Enti pubblici e privati]

Si evince una perdita complessiva pari a € 10.589,97. Lo stato patrimoniale si conclude con un totale a pareggio tra attività e passività di

€ 294.757,15 (di cui € 28.445,75 in Banca, e € 336,93 in Cassa).

BILANCIO DI PREVISIONE 2012

Per la maggior parte è costituito dalle stesse voci indicate nel Consuntivo, sia in entrata che in uscita, e relative alla gestione della Sezione.

L’impegno nuovo più gravoso è di € 53.300,02 per i lavori di adeguamento al Rifugio Be-nigni. La spesa sarà coperta per € 26.650,01 dal contributo CAI centrale, per € 3.800,00 con rimanenza di Bilancio, e per € 22.850,01 con contributi da privati ed Enti pubblici, che il Consiglio in carica si impegnerà a reperire. A tale proposito, il sig. Gentili Giusep-pe propone di ricorrere ad un mutuo presso il Consorzio BIM, come già fatto in occa-sione dell’allargamento del Rifugio (mutuo anticipatamente restituito completamente); questo strumento permetterà di diluire lo sforzo in più annualità.

Dopo i chiarimenti a seguito di alcune precisazioni richieste dai soci, Il Presidente mette in votazione prima il Conto Consuntivo, che viene approvato all’unanimità, poi il Bilancio di Previsione, anch’esso approvato all’unanimità.

4) Quote associative 2013 Riguardo alle quote Associative, il Presidente della Sezione, in considerazione delle

spese da affrontare, come risulta dalle relazioni approvate, in particolare riguardo agli interventi per mettere a norma il Rifugio Benigni, propone di adeguare le Quote Asso-ciative per il 2013 nel modo seguente:

- Socio ordinario: € 45. - Familiare: € 27. - Giovani sotto i 18 anni: € 16 (invariata). La quota in aumento rimarrà interamente alla Sezione. La proposta, messa in votazione, viene approvata all’unanimità.

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5) Varie ed eventuali Il Presidente della Sezione Enzo Ronzoni ringrazia tutti i partecipanti. Sottolinea come il

2011 sia stato un anno di transizione, con le conseguenti maggiori difficoltà; si congra-tula per il lavoro dei responsabili delle singole Commissioni, e invita a continuare con impegno e partecipazione a favore della Montagna e dell’Ambiente, tenendo sempre conto dei problemi di chi in montagna vive.

L’incontro continuerà in un clima conviviale presso il Ristorante Coira di Santa Brigida.

Avendo esaurito gli argomenti all’Ordine del Giorno, l’Assemblea è sciolta alle ore 20.00.

Piazza Brembana, 14 gennaio 2012

IL SEGRETARIO Il PRESIDENTE Giupponi Alberto Gentili Giuseppe

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Relazione rifugio Cesare Benigni 2011Questa stagione è cominciata sabato 14 maggio, con un week end di ricognizione: la neve c’era bene o male solo dal canale in su, le batterie erano cariche e l’impianto è ripartito subito, il lago non era così gelato e siamo riusciti a riattaccare il tubo per il pescaggio dell’acqua.. quindi ho deciso di aprire e già dal fine settimana successivo sono arrivati i primi escursionisti, an-che per dormire. In maggio e giugno il tempo è stato buono e le temperature si sono alzate a dovere così l’acqua è arrivata velocemente e, nonostante la pompa non funzionasse, il rifugio ha cominciato ad essere utilizzabile in modo completo. Dopo il lungo week end del due giugno, il 16 abbiamo fatto i carichi con l’elicottero: viveri, bombole, legna e anche un nuovo tavolo per l’esterno; purtroppo, per vari malintesi, non sono riuscita ad accordarmi con i comuni di Cusio e Santa Brigida per il recupero dei rifiuti che giacevano su dall’autunno precedente e che dunque sono rimasti ammucchiati ordinatamente dietro il rifugio fino alla fine di luglio quando abbiamo fatto il secondo ed ultimo elicottero.Da qui fino all’11 di settembre il rifugio è rimasto aperto continuativamente. In seguito abbia-mo tenuto aperto nei fine settimana fino al 23 ottobre.L’affluenza è tornata nella norma rispetto all’anno scorso, infatti abbiamo avuto 604 pernotta-menti. Come al solito l’accesso privilegiato e quello dal 108 ma ormai anche dalla Val Gerola sale parecchia gente; il 101 è sempre ben frequentato.Quest’anno non si sono visti molti stranieri forse anche perché in luglio, che è il periodo in cui ne passavano di più, il tempo è stato proprio inclemente.Le iniziative e gli eventi di quest’anno sono stati molteplici: eccone una breve descrizione.Visto che i rapporti con il CAI Morbegno si erano molto affievoliti negli ultimi anni, le due sezioni hanno pensato di favorire un riavvicinamento organizzando due incontri: il primo

RifugioBenigni

ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

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si è svolto il 26 giugno mentre il secondo, programmato per

il 7 agosto come gemellaggio con anche il CAI di Introbio, è stato poi rimandato per maltempo al 25 settembre. C’è stata una buona partecipazione e la volontà di ripetere l’esperienza, magari anche con altre gite durante l’anno. Inoltre spero che il fatto che quest’anno sia io che Carlo Mazzoleni di Morbegno, che lavora con me al rifugio, siamo diventati consiglieri delle nostre rispettive sezioni CAI di appartenenza possa essere un’ulteriore facilitazione per future collabo-razioni ed attività comuni. Nell’ambito dell’iniziativa ”Sentieri creativi”, organizzata dal Comune di Bergamo e dalla sezione del CAI di Bergamo, all’inizio di luglio al rifugio sono stati installati tre pannelli della giovane aspirante artista Medea Zanoli: il tema proposto era la lentezza in montagna e il soggetto prescelto una simpatica lumachina che si arrampica proprio al Benigni.Il 10 di luglio alcune cime nelle vicinanze del rifugio (Cima Piazzoti, Pizzo Trona, Pizzo dei Tre Signori, Denti della Vecchia) sono state meta dell’iniziativa CAI “150 Vette d’Italia”: anche noi rifugisti abbiamo contribuito e dopo le fatiche della domenica, vestiti delle magliette di rito (ma purtroppo dimenticando il tricolore…) ci siamo arrampicati a conquistare il Dente di Mezzaluna!Sono continuate come di consueto le iniziative Girarifugi (quest’anno solo con tessere scari-cabili dal sito), Fungolandia, Mangiartipico (subentrato a Agripromo) e “Pizzo delle tre signore” (ad esaurimento delle tessere già in circolazione, dato che Serena ha cambiato rifugio ed ora non gestisce più il FALC ma il Griera, sopra Pagnona in Valsasssina, quindi un po’ fuori zona). Quest’anno il rifugio è stato iscritto nell’elenco regionale dei rifugi alpini ed escursionistici e, secondo la nuova legge regionale, abbiamo tempo cinque anni per mettere a norma la struttura.Qui di seguito riporto gli interventi che sarebbero necessari al rifugio e di cui si è diffusamente parlato nel consiglio di luglio.

Urgenze- parafulmine: è interrotto; verificare inoltre che non disperda nella stessa sede del passaggio

del gas- tecnici su cui poter fare affidamento soprattutto per cose urgenti (ad esempio quest’estate si è

rotto l’inverter dell’impianto luci e prese, sostituito in breve tempo da Eliano)- impianto idraulico: riattaccata la pompa ma non funziona; solare termico non sfruttato; trovare

una soluzione più funzionale di pescaggio e chiusura dell’acqua- impianto elettrico: surriscaldamento quadri elettrici- gas: attacco bombole troppo basso - rifiuti: accordi definitivi con i comuni e luogo coperto dedicato- stoccaggio freschi: rendere almeno una parte di cantina sanificabile ed attrezzata in modo

adeguato- sistemazione del retro Strutturale- miglioramenti funzionali: separazione impianto idraulico (fatto: ora i bagni esterni sono separati

dal resto), sistemazione del retro (alimentazione fontana vecchia tramite tubo fisso e allarga-mento scarichi, magazzino esterno)

- adeguamento entro cinque anni alla legge regionale: uscite di sicurezza, controllo volumetrie posti letto, alloggio lavoratori

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ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

- perdite dal tetto vecchio dove è stato bucato per far passare i cavi dei pannelli- dare l’impregnante all’interno dell’ invernale- tinteggiare ante e porte esterne della parte vecchia - risolvere il problema della muffa sui muri dell’ingresso e della scala (perline?)- posteggio: si era parlato di allargare un po’ la strada alla partenza del 108 ma poi non si è più

saputo niente

Escursionismo- pannelli con risposte alle domande ricorrenti (sentiero dei vitelli, val Pianella, cima Piazzotti,

giro dei laghi, “non esiste il sentiero diretto per il passo Salmurano”, ecc..)- cartello anche a Pescegallo- segnaletica coerente Amministrazione- assicurazione: rivedere i massimali- contratto: togliere la parte sulla responsabilità del rifugista per quello che succede sul sentiero;

prosecuzione del contratto dato che scade l’anno prossimo- telefono: Telecom chiede un traffico minimo annuo, ma è due anni che non viene raggiunto a

causa del miglioramento della copertura per i cellulari; intanto il costo l’ho coperto io ma dato che non è una cifra irrisoria volevo sapere se è giusto che spetti a me o se può occuparsene almeno in parte il CAI, dato che il telefono durante il periodo di chiusura del rifugio serve esclu-sivamente per il soccorso: si è stabilito di fare a metà tra me e la sezione

- aggiornamento inventario Durante l’estate gli ispettori, il presidente e alcuni membri della Commissione Rifugio hanno più volte visitato la struttura (e in una di queste visite abbiamo riscontrato che anche il tetto nuovo ha bisogno di un intervento, dato che la lamiera si è gonfiata) dunque confido che vengano prontamente attuate le scelte migliori.

Elisa Rodeghiero

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150 CIME PER L’UNITÀ D’ITALIA 11/7/2011“…e gli intrepidi rifugisti del Benigni, con italico fervore si accingevano, in missione necessaria alla sacra glorificazione della Patria, a scalare il vertiginoso spigolo sud del pizzo Mezzaluna”2011, 150esimo anniversario dell’unità d’Italia, varie manifestazioni e festeggiamenti fiorisco-no in tutto il Paese. Domenica 11 luglio tocca ai CAI bergamaschi celebrare un così importan-te anniversario, con un’iniziativa davvero degna di nota: soci e simpatizzanti sarebbero saliti in contemporanea su 150 vette orobiche sventolando il tricolore. Orde di montanari - patrioti aderiscono con entusiasmo all’evento, e ognuno prenota la sua cima preferita in base a po-sizione, difficoltà e storie personali. Soltanto il pizzo Mezzaluna, torre di 2370m con accesso alpinistico, non riscuote molto successo, malgrado sia una delle cime più belle nel gruppo del più glorioso pizzo dei Tre Signori e molto, ma molto vicino al rifugio Benigni; quindi perché non coinvolgere i suoi infaticabili gestori a partecipare anch’essi alla grande scalata collettiva per conquistare la povera e bistrattata montagna? Detto, fatto: l’Elisa, il Carlo e lo Stefano non possono essere che felici per avere un’occasione in più per lanciarsi come caprette tra le rocce. Non fosse che, partiti alle 5 del pomeriggio di una domenica di gran lavoro, giunti quasi all’attacco dell’aereo spigolo (30m, III°) la furia della natura si scatena improvvisamente, aprendo gli argini di un celeste torrente e im-pedendo ai patriottici, ma non certo fessi, scalatori - rifugisti di attaccare l’ultimo tratto di salita. Tornati alla capanna di gran corsa, vergognandosi per essere l’unica dele-gazione infruttuosa della giornata, accendono la stufa e meditano vendetta. Pur essendo luglio non ci sono da preparare colazioni. La mattina successiva, alzatisi di buonora, e accortisi che il pallido sole mattutino domi-na incontrastato da qualsivoglia nube, i tre intrepidi la-sciano un presidio al rifugio e si lanciano per l’ultimo, fruttuoso attacco alla cima. Ripercorso il faticoso tratto a piedi, superata la sottile cresta, giungono alla base dello spigolo; si legano e il Carlo, che potrebbe salire a occhi chiusi per le migliaia di volte che ci si è arrampicato sopra, giun-ge rapidamente in vetta; assicurati i due compagni alla provvidenzia-le clessidra li recupera, e, con un giorno di ritardo, anche l’ultima delle 150 vette designate viene conquistata. Non restano che le fotografie di rito: “Eli, tira fuori la bandiera!”, “la bandiera?? Ma non dovevi prenderla tu?”. Bè, morale, niente vessillo sven-

Mezzaluna

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ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

tolante sul Mezzaluna, ma rimane l’allegria dei tre alpinisti che felici festeggiano in modo inusuale l’importante compleanno dell’Italia, che potrà ave-re centinaia di problemi, migliaia di difetti, milio-ni di detrattori ma, finche avrà l’affetto della sua gente, e tra le sue genti, rimarrà sempre un posto meraviglioso; senza dimenticare il suo inestimabi-le valore paesaggistico, che questa iniziativa del CAI è riuscita con pieno merito, per una giornata, a valorizzare.

Carlo MazzoleniCAI Morbegno

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ScuolaOrobica

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ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

ESPERIENZA IN SCUOLA OROBICACapita, avendo un minimo di fortuna, di nascere in Val Brembana.

È allora naturale essere attirato dai boschi e dalle montagne che ti circondano, e cominciare ad esplorarli, in estate e in inverno, con i mezzi che hai a disposizione. Nel mio caso, ho ini-ziato a camminare (o a “fare trekking”, come si usa dire adesso con discutibile mescolanza linguistica) in tenera età, e quasi contemporaneamente mi sono dedicato allo sci di fondo, favorito dalla vicinanza di una pista divertente, seppur un poco artigianale - almeno per gli standard odierni.Sono quindi cresciuto allargando, con molta gradualità, il mio raggio d’azione, e diventando pian piano autonomo e piuttosto solitario nella frequentazione della montagna.

Ricordo perfettamente le vacanze estive trascorse al Calvi, il divertimento e lo stupore nel vedere quanto fossero impacciati gli adulti “cittadini” nella mia prima discesa dal canalino del Benigni, le prime salite al Corno Stella e all’Aga. Al Diavolo no, perché per anni gli accompa-gnatori adulti, considerandola una salita impegnativa, la posticipano in attesa che tu cresca; poi, quando tu sei cresciuto a sufficienza, loro non si sentono più abbastanza in forze per ac-compagnarti - capita... e quindi ti tocca aspettare l’occasione buona per un bel po’ di tempo.Nel frattempo apprezzi sempre più anche lo sci di fondo, un connubio perfetto di fatica, di-vertimento, silenzio e tranquillità, con cui riesci ogni tanto a contagiare qualcuno - una volta superato il classico preconcetto dell’ “è troppo faticoso”. E anche lì pian piano estendi il tuo raggio d’azione, uscendo dalle piste battute e scoprendo il piacere delle pelli e della discesa a “raspa”.

E così arrivi a sentirti, tutto sommato, soddisfatto ed appagato del tuo modo di vivere la montagna. Ti capita qualche volta di uscire dai confini brembani, ma molto raramente - so-prattutto per una certa ritrosia alle lunghe trasferte e alle levatacce, e anche perché quello che cerchi, tutto sommato, lo trovi vicino a casa.Poi, qualcuno ti convince ad iscriverti ad un corso di Alpinismo - e scegli, ovviamente, la Scuola Orobica, perché le origini non si rinnegano mai - e, non appena terminato quello, ti ritrovi iscritto pure al corso successivo, di Alpinismo Roccia, e in pochi mesi la tua pluride-cennale routine viene messa a dura prova.

Già, perché parti tranquillo, con nozioni di geologia, glaciologia, meteorologia, medicina, soccorso, topografia, orientamento, pianificazione delle uscite, storia dell’alpinismo; e, in men che non si dica, ti ritrovi sul Cabianca e sullo Zucco Pesciola, e lì, vabbè, già c’eri stato (senza corde, però...); poi in Val Ferret, all’Auguille du Midi, sul Gran Paradiso; e poi Zucco

Orobica

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Angelone, Arco, Falzarego, Val Masino, appeso in parete per ore. E comincia a sembrarti normale portarti appresso corde, cordini, imbrago, moschettoni, ca-sco, piastrina, discensori, piccozze, ramponi.E ripassare asola, controasola, “otto”, doppio inglese, barcaiolo, mezzo barcaiolo, Prusik, Machard, nodo galleggiante, nodo “a palla”, Edi o Lorenzi, paranchi, bilancino,doppie, so-ste- e magari portarti anche sul lavoro un cordino e un paio di moschettoni per un ripasso infrasettimanale, tra gli sguardi prima perplessi e poi rassegnati (“l’abbiamo perso, ormai”) dei colleghi.

E così, pian piano - ma neanche tanto - molte cose che conoscevi solo per sentito dire entra-no a far parte del tuo bagaglio di esperienze, e cominci a rivalutare tutto il tuo percorso, e a chiederti dove effettivamente vuoi andare.Perché capisci che le possibilità sono tante: puoi essere attratto dall’alta quota e dal misto, dalle lunghe vie su roccia più o meno attrezzate, dalle difficoltà da affrontare in una più tran-quilla falesia; puoi decidere di accantonare (parzialmente!) lo sci di fondo e iscriverti pure al corso di sci alpinismo (che tanto è da anni che ci pensi, e in cuor tuo sapevi che prima o poi ci saresti cascato).Puoi anche, ovviamente, considerare il tutto solo come un piacevole intermezzo, e tornare alle tue abitudini precedenti, ma è poco probabile che accada.

Insomma, come già subodoravi... la Scuola Orobica è peggio di un virus, e finito un corso cominci a pensare al successivo.Perché sono occasioni uniche per sperimentare, in pochissimo tempo, attività e situazioni che da solo ti richiederebbero anni, di stringere amicizie con persone che condividono il tuo amore per la montagna in molte delle sue forme, e di frequentare un gruppo al tempo stesso familiare e tecnicamente rigoroso e preparato.Ragion per cui mi ritengo decisamente debitore verso tutti gli istruttori e i compagni di corso, che probabilmente dovranno sopportarmi ancora a lungo, per quello che hanno condiviso con tanta passione; e devo certamente ringraziare la persona che mi ha convinto ad iscriver-mi, ed augurarle di poter presto ricominciare a condividere queste esperienze; e, soprattutto, consigliare a chiunque ami la montagna di concedersi la possibilità di frequentare almeno uno dei corsi: non c’è nulla da perdere e tanto da guadagnare - poi, ognuno sarà libero di valutare quale sarà la sua strada, ma avrà sicuramente orizzonti molto più ampi tra cui sce-gliere.

Paolo Midali

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ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

Page 42: Annuario 2011 2012

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Page 43: Annuario 2011 2012

L’ARRAMPICATAIl 30 novembre 2011 il CAI Alta Valle e la Scuola Orobica hanno permesso ad alcune persone che accedono ai Servizi della Cooperativa Sociale In Cammino di provare un’esperienza mai provata prima. I Servizi coinvolti sono legati all’ambito della salute mentale e della disabilità.Oltre a raccontare con questo articolo le nostre emozioni, vorremmo ringraziare Enzo, Ezio e Flaminio per la grande emotività e sensibilità manifestata che ha superato ancor più la grande forza fisica necessaria per sorreggerci nella scalata.

Ecco di seguito le nostre emozioni dopo questa fantastica esperienza.Renato: “Un’emozione che mi ha consentito di capire quale è il pericolo nello scalare le

montagne.”Martina: “Ho avuto paura ma si può imparare. L’ho fatto due volte e sono arrivata in

cima.”Michela: “Mi sento in colpa perché non ho provato. Mi hanno offerto aiuto per vincere la

mia paura ma non ho voluto. La mia preoccupazione era di far venire l’ernia a chi mi avrebbe aiutato.”

Sabrina: “Bello! Ho avuto un po’ paura, ma ho provato un’altra volta.”Diego: “È stato bello perché non avevo mai provato. È stata la prima volta. Quando ero

in cima alla parete si vedeva l’altezza.”Alessandra: “È andata bene. Ho avuto paura di cadere ma i signori mi hanno aiutata.

Ho fatto tante foto.”Isidoro: “Ho scalato con la corda e mi sono “attaccato su” con i piedi e con le mani.

1…2…3…4…5…6… è stato bello. Non ho avuto paura.”Davide: “Ho fatto fatica con il braccio. Qualche anno fa riuscivo meglio. L’anno prossimo

ci riprovo ed intanto mi alleno”

ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

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Osvaldo: “È stato bellissimo, la compagnia è stata bella e siamo stati in allegria perchè scalare è stato divertente!!!!!!!!!

Ivana: “Mi è piaciuto molto vedere quelli che salivano. Io non ho provato perché ho paura di cadere e non mi fido. La prossima volta non so se proverò”

Ornella: “Con il nostro gruppo siamo andati per la prima volta a Zogno a scalare la parete di roccia della palestra e questa esperienza per me è stata molto bella. Ringrazio tutti quelli che si sono impegnati nel realizzarla, i signori del CAI e i nostri collaboratori, che tanto disponibili si sono prestati per farmi divertire e soprattutto provare l’emozione di questo sport…..GRAZIE DI CUORE A TUTTI E SPERO CHE NON SIA L’ULTIMA VOLTA….ANCORA GRAZIE!!!!!!”

Nicola: ”Quando ho saputo che andavo a fare arrampicata in palestra rifiutavo anche solo l’idea…poi pungolato da Renato e dagli istruttori mi sono deciso…è stato molto faticoso, soprattutto il primo tentativo perché ero bloccato dalla paura, ma ce l’ho fatta anche se nello scendere avevo paura del vuoto e di staccare le mani dalla parete…ma mi è piaciuto e ho ritentato ed è andata molto meglio, avevo meno paura…e poi sono sceso con le braccia allargate quasi come uno scalatore vero. Questa esperienza mi ha dato molto coraggio anche per supe-rare le tante paure e insicurezze che ho….”

GRAZIE ENZO!!!PER AVERCI AIUTATO A SUPERARE ALTRI OSTACOLI

E PER AVER TRASMESSO AGLI ALTRI CHE “…NELLA VITA NON È IMPORTANTE SOLO

IL RAGGIUNGIMENTO DELLA VETTA!

I ragazzi e gli educatori della Coop. Sociale In Cammino

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Page 45: Annuario 2011 2012

ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

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ANNUARIO 2011-2012 VITA DI SEZIONE

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CHI È JJ5? STORIA E ATTUALITÀA cura di Chiara Crotti

Storicamente l’orso è uno degli animali che ha lasciato i segni più profondi nella cultura uma-na: i culti, su di esso incentrati, affondano le loro radici nella preistoria, attraversano il mondo classico con i miti greci dell’Arcadia e di Artemide, che nell’ambiente celto-romano diventa la dea Artio (la radice Art identifica ancora oggi l’orso in varie lingue celtiche e non dimentichia-mo che i nomi Arturo e Bernardo non sono altro che la variante del nome Orso, rispettivamen-te nelle lingue celtiche ed anglosassoni) e giungono fino ai giorni nostri con alcune “relitte”, feste dell’orso che si celebrano alla fine dell’inverno e che, cristianizzate, si stemperano nelle feste della Candelora e del Carnevale (Oriani, 1996).Veniamo alla presenza storica dell’orso in bergamasca dove la sua immagine è una costante nelle tradizioni (fig. 1), nella geografia (nella toponomastica) (fig. 2), nell’arte (fig. 3), nell’aral-dica e onomastica.

Fig. 1: la fonte dell’orso a Peghera

JJ5

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ANNUARIO 2011-2012 VITA DI MONTAGNA

L’alta Val Brembana è la zona dove la specie era più diffusa: 11 comuni erano interessati dalla sua presenza e si è reperita la documentazione di ben 69 orsi accertati, tra 1707 ed il 1914, sui 73 complessivamente rintracciati nel territorio della attuale Provincia di Bergamo. Per la prima metà dell’Ottocento sono stati reperiti pochissimi dati e nella seconda metà la specie non era ormai più comune come un secolo prima: sono stati accertati, infatti, solo una decina di individui. La piccola popolazione dell’alta Val Brembana era contigua alla vitale popolazione ancora ampiamente diffusa sul versante valtellinese delle Orobie e beneficiava di questa presenza (Oriani, 1991). In alta Val Brembana l’orso si riproduceva ed è da sottoli-neare che l’uccisione del cucciolo avvenuta il 15 marzo 1914 a Foppolo (Corriere della sera XXXIX n. 77, 18 marzo 1914; Corriere della Valtellina XIX n. 12, 20 marzo 1914; Il Prealpino [Lecco], 25 marzo 1914; Galli-Valerio, 1917) (fig. 4 e 5) testimonia l’ultima riproduzione sulle Orobie ed in tutta l’area alpina lombarda; negli anni successivi, in alta Valtellina ed in Val Camonica, si accerta la presenza di alcuni orsi, ma si trattava comunque sempre di individui adulti verosimilmente provenienti dal Trentino o dalla bassa Engadina (Oriani, 1996).

Fig. 2: esempi di toponomastica relativa all’orso Fig. 3: casa Milesi a Cassiglio

Fig. 4: Corriere della sera XXXIX n. 77, 18 marzo 1914 Fig. 5: Il Prealpino [Lecco], 25 marzo 1914

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Nel 2008 la provincia di Bergamo, dopo quasi cent’anni di assenza, vede l’arrivo di un orso (fig. 6); il finanziamento dato dal Parco delle Orobie Bergamasche all’Università di Pavia permette il monitoraggio fisico e genetico della specie per il periodo dal 2008 al 2010; le indagini genetiche rivelano l’esistenza di un solo individuo negli anni 2008 e 2009, l’orso JJ5, giovane maschio proveniente dal Trentino e di un secondo individuo non genotipizzato (cioè è stato possibile accertare l’appartenenza del campione biologico alla specie orso e non ad un individuo preciso) nell’anno 2010 (il documento “Monitoraggio dei grandi predatori nel Parco delle Orobie Bergamasche - rapporto di fine progetto” si può scaricare dal seguente link: www.parcorobie.it/progetti.asp).

Fig. 6: presenza dell’orso JJ5 in provincia di Bergamo

La ricolonizzazione è avvenuta proprio in quelle aree dove è testimoniata la presenza storica della specie. Questa coincidenza tra le località in cui un tempo erano presenti gli orsi e dove lo sono tuttora può essere dovuta a un’evoluzione recente che ha portato a una situazione ambientale più simile a quella storica, limitatamente al territorio alpino. Infatti, l’abbandono della montagna che si è verificato dagli anni ’50 ha portato a un’espansione delle foreste e a un recupero della naturalità dell’ambiente; inoltre vi è stato un recupero notevole delle comunità di ungulati selvatici sia come numero di specie, sia come densità delle popolazioni. Si può affermare che il territorio delle Orobie berga-masche possegga caratteristiche ambientali idonee all’orso; esso infatti può trovare un’elevata disponibilità di fonti alimentari diversificate che vanno dai frutti, pre-senti soprattutto nelle fasce ecotonali e nel sottobosco, agli insetti, alle carcasse di animali selvatici morti, alle prede di origine antropica. Questa situazione fa delle Orobie bergamasche un’importante area di ricoloniz-zazione spontanea da parte della specie che potrebbe permettere un ampliamento a ovest dell’attuale areale.Attualmente le segnalazioni di orso in Lombardia si

Fig. 7: orso M2 (novembre 2010)

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VITA DI MONTAGNAANNUARIO 2011-2012 VITA DI MONTAGNA

sono intensificate: nel 2010 sono stati accertati due orsi M2 (fig. 7) e M6 in Val Canonica, e un orso in Valtellina (orso KJ2G2), nel 2011 è stato accertato l’orso M12 in Val Canonica (fig. 8), gio-vane maschio figlio di KJ2 e Ga-sper e l’orso M7 in Valtellina, un giovane animale nato nel 2009.

L’orso JJ5, da giugno 2009 è tornato in Trentino, attualmente sappiamo che è vivo e in salute grazie al monitoraggio geneti-co attuato dal Parco Adamello Brenta e dalla Provincia auto-noma di Trento (per ulteriori in-formazioni www.orso.provincia.tn.it/rapporto_orso_trentino).

Opere citate: Oriani A, 1991 Indagine storica sulla distribuzione dell’orso bru-no (Ursus arctos L., 1758) nelle Alpi Lombarde e della Svizzera Italiana, Il Naturalista Valtelline-se, Morbegno, 2: 99-136.Oriani A, 1996 Atti del convegno “il territorio lombardo: prospetti-ve di ricerca storico-naturalisti-ca dal medioevo all’età contem-poranea”, Natura 87 (2): 91-96

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Page 52: Annuario 2011 2012

Sintesi di un incontro sulle scienze che studiano le variazioni climatiche nelle Alpi

In occasione della manifestazione di Bergamo Scienza, lo scorso 12 ottobre 2011, il Parco delle Orobie Bergamasche, in collaborazione con il CAI Alta Valle Brembana e CAI “A. Lo-catelli” di Bergamo, ha organizzato un incontro sul tema “I cambiamenti climatici nel sistema alpino”. Il tema, di grande attualità a livello mondiale, è particolarmente importante per le Alpi, dove negli ultimi decenni si sono avute temperature medie di ca 1,7 gradi centigradi più della me-dia mondiale. I drammatici fenomeni termici sono accompagnati da una accentuata estre-mizzazione dei fenomeni climatici, che causano eventi catastrofici, con perdite di vite umane e danni economici enormi. Quattro ricercatori hanno presentato alcuni lavori di sintesi degli studi effettuati recentemen-te su quanto è avvenuto nel tempo, dopo le glaciazioni terminate circa 10000 anni fa, e su quanto sta succedendo in tempo attuale, sui cambiamenti nelle componenti fisiche e biologi-che rilevati negli ultimi decenni nelle Alpi. Il dr. Paolo Cherubini, ricercatore presso il WSL Swiss Federal Research, a Birmersdorf, Svizzera, ha presentato un lavoro a carattere generale su “L’uso degli anelli degli alberi per capire la reazione degli ecosistemi forestali al Global Change” . La Storia del clima attraverso l’analisi statistica degli anelli degli alberi, la Dendrocronologia (scienza nata nei primi anni del secolo scorso in America ad opera di A. E.. Douglas), ha permesso di correlare le variazioni di incremento di spessore degli anelli di campioni di legno fossile e attuale con le variazioni climatiche degli ambienti dove gli alberi vivevano o vivono.

SCIE

NZA

BER

GA

MO

SCIE

NZA

12.1

0.20

11

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Nelle Alpi i dati ottenuti con l’analisi degli anelli hanno permesso di produrre una serie tem-porale, che risale nel tempo sino alle fasi tardoglaciali iniziate circa 20000 anni fa.

Il dr. Giovanni Leonelli, ricercatore presso l’Università di Milano, Dipartimento di Scienze della Terra, nel suo lavoro “Cambiamento climatico, fluttuazioni glaciali e dinamiche recenti della vegetazione arborea nel Sud delle Alpi”, ha evidenziato come il fenomeno dell’arretra-mento dei fronti glaciali presenti nelle Alpi, dovuto al riscaldamento globale, sia immediata-mente seguito dalla colonizzazione della vegetazione nelle aree liberate dai ghiacciai.

ANNUARIO 2011-2012 VITA DI MONTAGNA

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Altro fenomeno in ambiente alpino dovuto al riscaldamento climatico in corso, è la variazio-ne di densità della foresta ad alta quota e in alcuni casi lo spostamento del limite altitudinale degli alberi verso quote maggiori, una dinamica regolata comunque dai fenomeni geomor-fologici locali, ma che a livello generale nelle Alpi è un fenomeno evidente.

Il dr Cesare Ravazzi, del CNR Istituto della Dinamica dei Processi Ambientali, Dalmine, Milano, ha presentato “La storia del clima nel Sud delle Alpi dall’ultima glaciazione”.Attraverso lo studio dei pollini e di macroresti nei depositi lacustri e torbosi, si possono evi-denziare l’evoluzione storica dei cambiamenti della vegetazione nell’arco alpino durante gli ultimi 20.000 anni.

In particolare, dalle analisi polliniche e dalla datazione di macroresti con C 14 provenienti dalla torbiera di Cerete nei pressi del lago d’Iseo, si evidenziano i cambiamenti della vegetazione attraverso dei diagrammi pollinici, che indica-no indirettamente le variazioni climatiche nella storia della vegetazione locale. Polline di tiglio e di abete rosso

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Il dr. Juri Belotti ricercatore dell’Università di Pavia nel suo lavoro ha presentato il progetto GLORIA Orobie.

GLORIA è un progetto internazionale che a scala locale ha coinvolto il Parco delle Orobie Ber-gamasche, l’Università di Pavia, il WWf e il Centro Meteo Lombardo, per studiare e verificare quali impatto relativo ai cambiamenti climatici si ha nel tempo sulla flora delle Prealpi Orobie. Sono state individuate 4 cime: il Ferrantino a Vilminore di Scalve, Pizzo Arera e Monte Men-na a Oltre il Colle, Cimetto a Premolo, dove sono stati predisposti dei reticoli per campionare e monitorare la vegetazione nel tempo.

Nelle stesse aree sono stati posti dei sensori di rileva-mento delle temperature e piovosità. Il progetto è appena partito, ma a livello europeo è in fase di analisi un lavoro che mostra, come in Grecia e in Spagna, che dal 2001 al 2008 la risalita di alcune specie e la scomparsa di endemiti sono evidenti. La storia del clima alpino degli ultimi 20.000 anni circa mostra che le variazioni sono state drammatiche e, se nelle fasi più remote i fenomeni astronomici, come l’ec-centricità dell’orbita, la precessione degli equinozi e l’inclina-zione dell’asse polare, hanno influenzato sicuramente il clima sulla Terra, è altrettanto evidente che negli ultimi secoli l’effetto antropico sul clima si sovrappone ai fenomeni astronomici, accele-rando la drammaticità della sopravvivenza dei sistemi biololgici come li conosciamo oggi. Per le Alpi, che sono il cuore dell’Europa, la consistenza dei cambiamenti climatici attuali è oltre-modo evidente e più forte rispetto al resto del mondo, e ancora gli studi sono solo all’inizio. Le Alpi sono il centro dei più importanti sistemi idrografici, ambientali e culturali dell’Europa; quale sarà il futuro della vita anche umana nel sistema Alpi e in Europa se il trend climatico si confermerà?

Patrizio Daina

Per i contributi si ringraziano il Dr. Paolo Cherubini, Dr. Giovanni Leonelli,Dr. Cesare Ravazzi, Dr. Juri Belotti

ANNUARIO 2011-2012 VITA DI MONTAGNA

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LA CROCE DEL CORNO STELLAEra un desiderio di Enzo che qualcuno scrivesse nell’annuario sulle vicende della Croce del Corno Stella. 2620 m., monte al centro della catena orobica, panorama amplissimo e spetta-colare su tutte le Prealpi e le Alpi. Ne aveva parlato anche durante l’ultima assemblea del 14 gennaio scorso. Qualcuno aveva scritto dei fogli con informazioni preziose, ma incomplete, senza documentazione fotografica.Giunti alla riunione della Commissione Annuario, il responsabile Carminati Andrea, ora Pre-sidente della Sezione, dice: “C’è del materiale sulla Croce del Corno Stella, occorre metterlo insieme e completarlo”.Accetto l’incarico, anche per assecondare l’amico scomparso.Gli scritti pervenuti sono di Lorenzo Begnis, di Lenna, membro della sezione, Zucchi Anto-nietta, moglie di Mario Rubini (scomparso nell’agosto 2009), Attilio Marchionne, un villeg-giante di Monza socio della Sezione. Prendo informazioni, controllo e confronto le notizie, raccolgo materiale fotografico, parlo con alcune persone, che man mano risultano coinvolte nei fatti, in particolare Renzo Begnis, Michele e Luigi Pesenti (Gèti), del Gruppo Escursionisti di San Pellegrino Terme (GESP), Antonio Mascheroni, della sottosezione CAI di Zogno, e altri….L’argomento mi interessa anche personalmente perché, a un certo punto, involontariamente, risulto parte attiva. Pertanto, basandomi sugli scritti pervenuti, sulle testimonianze dirette e indirette, sul materiale fotografico pervenuto e in mio possesso, ho cercato di ricostruire i vari passaggi, naturalmente senza la pretesa di esaurire completamente l’argomento.

Agosto 1965 A piazza Brembana c’è il gruppo G.A.M., che riunisce appassionati della montagna,

guidato da Mario Rubini; gli amici provengono da Piazza, Lenna, Valnegra, Moio… Altri Soci sono Tino Bonetti, Luigi Regazzoni, Cesare Calvi, Renzo Begnis…, ci sono

anche giovani forestieri, come Attilio Marchionna, che è quasi sempre a Piazza nei fine settimana.

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Il G.A.M. organizza la partecipazione dei ragazzi e dei giovani della zona a gare ed escursioni, con coraggiose aperture verso le Alpi centrali e occidentali; fa anche attività di carattere sociale, porta a parlare Walter Bonatti a Piazza Brembana. La vita del so-dalizio è breve, per motivi di lavoro del pur dinamico Mario.

Per dirla con Lorenzo Begnis: “Il G.A.M. ha fatto da chioccia ad un gruppo di giovani che poi diverranno i fondatori del CAI Alta Valle, del Soccorso Alpino, dello Sci club”. Tor-nando a noi, al Rubini non quadra che il Corno Stella, la montagna più panoramica della Valle Brembana, non abbia la sua croce. La voce si diffonde in paese. Arriva l’occasio-ne. Un bravo fabbro di Averara, Riccardo Passerini, esperto anche in attrezzature di montagna, aveva fabbricato una croce per una tomba del cimitero di Piazza Brembana, opera che poi il committente non volle più. Lavoro pregevole ed elaborato, poi donato al nostro Rubini. La croce c’è.

Rubini e gli amici si ritrovano al Bar Posta, venerdì 13 agosto, verso sera. L’attivo capo del G.A.M. propone ai presenti di collaborare a portare e fissare la croce sul Corno Stella. Tempo brutto; alcuni accettano, anche se convinti che la mattina dopo sarebbe stato impossibile procedere all’operazione. Invece, al mattino, tempo bello.

Alle 7 i nostri partono, con tutti gli attrezzi necessari. Cesare Calvi, Lorenzo Begnis e altri avevano preparato il materiale occorrente nei pressi del lago Moro. Tutto procede regolarmente, grande fatica per tutti, scavo di un metro circa, acqua presa sotto il Passo di Publino e trasportata in contenitori del latte (brente)… Opera compiuta, pranzo meri-tato. Anche la targhetta - G.A.M. agosto 1965 - fa la sua bella figura!

Si narra, ma purtroppo è vero, che i nostri amici crociferi fossero andati a prendere in prestito dal fotografo Fontana Walter una cinepresa per immortalare l’evento. Cosa che fu fatta. Scesi a valle, rimasero “interdetti” nel constatare che nel marchingegno il rullo non c’era. Allora (qui è necessario l’anonimato), la domenica dopo qualcuno risalì la montagna con tutto l’occorrente per rifare la scena, riempiendo gli zaini con erba, zolle, sassi, per simulare la fatica. Ritornati a casa, gli attori mancati si accorsero subito quanto facessero ridere, coi loro movimenti goffi e artificiosi; la produzione artistica fu fatta sparire. In conclusione, di materiale fotografico della collocazione della croce non c’è traccia (pare)!

1975, Estate A questo punto devo narrare in prima persona singolare. Il 29 dicembre 1974, sul Corno

Stella, poche centinaia di metri sotto la vetta, cade e muore Angelo Gherardi, maestro di sci alpinismo di San Pellegrino Terme, sposato a Zogno, dove sta trascinando all’a-more verso la montagna molti adulti, giovani e soprat-tutto bambini.

Conoscevo Angelo come compagno anziano di escur-sioni, sia in montagna che nelle grotte dell’Arera; ami-co, era diventato anche mio parente. Passati alcuni mesi dalla disgrazia, nel luglio del 1975, decido di an-dare a vedere il punto preciso dove era caduto. Salgo e arrivo fino alla cima della montagna. Vedo che la croce

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è in terra, quasi sicuramente tranciata da un fulmi-ne. Ritorno a casa. La settimana seguente risalgo sulla cima portando con me un palo di ferro a T, di quelli che si usano per sostenere la rete metallica, alto circa 2 m: con me ho anche filo di ferro e tena-glia. A Foppolo, piazzale alberghi, sto per prendere la seggiovia funzionante, l’addetto alla biglietteria mi chiede cosa facessi di quel palo; spiego e non mi fanno pagare il biglietto. Sulla cima, con il filo di fer-ro, lego il palo al moncone di ferro rimasto fissato a terra, per circa 60 cm; con l’aiuto di 2 escursionisti lì presenti, alzo la croce da terra e la fermo, sempre col filo di ferro, ad un’altezza di 150 cm. L’altezza totale è

di circa 2 metri. Non sta bene, in alto si vede lo spuntone del palo non troppo perpendicolare, ma mi

dico: “Per qualche tempo durerà, e qualcuno poi interverrà!”. Dopo 2 settimane risalgo in vetta con i fratelli di Angelo e con alcuni suoi familiari; la croce per adesso regge (foto 1). Antonio Mascheroni, allora Presidente della sottosezione CAI di Zogno di cui era stato fondatore, conferma: “Nel giugno del 1975 celebrammo una Messa in vetta, con la presenza degli amici francesi, tra cui Jean Paul Zuanon, famoso scialpinista che aveva effettuato l’anno precedente il giro delle Orobie con Angelo dal Pizzo dei Tre Signori all’Aprica. Aggiungemmo una targhetta a ricordo. Vedemmo che la croce era spezza-ta e durante la Messa la appoggiammo al troncone rimasto. In quel periodo eravamo impegnati a ricordare Angelo attraverso attività sportive e iniziando la costruzione del rifugio ai Piani dell’Alben in Val Taleggio.”

Per alcuni anni la croce resistette, “col fil de fèr”. Non ricordo fino a quando.

1989 - Agosto - Ottobre Adesso la parola, con appunti scritti, passa a

Pesenti Michele, fino a pochi anni fa presidente del GESP (Gruppo Escursionisti San Pellegri-no Terme) . I ricordi scorrono come un fiume. “Domenica 13 agosto 1989, con alcuni soci del GESP, mia moglie e i due bambini, andammo sul Corno Stella. Giunti in vetta, con stupore notammo che la croce non c’era più; solo un palo si levava, con del filo di ferro attorcigliato intorno, legato al vecchio moncone. Pensam-mo di tutto. Cominciammo a cercare tutt’intor-no. La croce giaceva in un canalone, verso la Valtellina, alla sommità della Val Cervia. Con non poche difficoltà la riportammo in vetta per fissarla di nuovo al palo. Probabilmente, la grande quantità di neve accumulata aveva causato lo strappo del filo di ferro e, conse-guentemente, trascinato a valle la croce. De-cidemmo di portarla a valle, a San Pellegrino, per restaurarla a dovere (foto 2). Fu restaurata

Foto 1

Foto 2

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ANNUARIO 2011-2012 VITA DI MONTAGNA

nella officina dei miei fratelli “meneghì”, a Piazzo Basso di S. Pellegrino. A lavori ultima-ti, contattammo il gruppo Al-pini di Foppolo, chiedendo un aiuto per il trasporto della cro-ce e del materiale fino al Lago Moro. Accordato. Domenica 15 ottobre, una dozzina di soci del GESP salì sul Corno Stella con tutto l’occorrente: cemento, sabbia, acqua, at-trezzi… per fissare la croce al suo posto, anche con robusti tiranti. Così fu (foto 3).

Fatto curioso. Sabato 14 ottobre, vigilia della data stabilita per il lavoro, nella nostra officina, dove era custodita, non trovammo più la croce. Allarmati, dubbiosi, sospettosi,

ci mettemmo alla ricerca. Risultato. Mio fratello Luigi, Gèti, essendo impossibilitato a parte-cipare ai lavori il giorno seguente, senza avvertire nessuno, aveva trafugato la croce, caricata sul portapacchi della sua 500, portata a spalle dal piazzale degli alberghi fino alla vetta, infischiandosi della jeep che sarebbe stata a disposizione il giorno dopo”.Così termina la testimonianza di Michele Pesenti. Per curiosità parlo con Gèti, ancora oggi attivo socio del GESP e degli Alpini. Conferma tutto. Dice che c’erano state discussioni sul modo di portare la croce …., e pertanto: “Io ho tagliato corto”. Anzi, attesta che prima di partire l’aveva pesata: 33 Kg esatti.A dimostrazione, una foto scattata quel sa-bato appena arriva-to sulla vetta da altri Sanpellegrinesi che si trovavano lì per caso (foto 4).

22 Luglio 1990 Salgo, come altre volte, sul Corno Stella. Giorna-ta splendida, panorama incantevole. Scatto alcune foto che ancora conservo (foto 5). La croce sta lì, ben affrancata con i tiranti, lucida; guarda il Cielo, le Alpi, le Orobie, gli Uomini verso il basso. Sembra voglia dirmi: “Io sto qui a guardare tutti, indistintamente, di qui non mi muovo, se non per volontà di Chi sta sopra”.

Alberto GiupponiFoto 5

Foto 3

Foto 4

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COLORI E STAGIONI DELLE OROBIE BREMBANE • (Marco Caccia)

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Il CavalloL’estate è terminata da qualche settimana, ma i suoi riflessi caldi si sono protratti per quasi tutto Ottobre. Importanti novità familiari mi hanno tenuto lontano dalla baita per diversi mesi; i lavori, abbandonati lo scorso inverno, devono essere ripresi prima dell’arrivo del nuovo gelo.Il legno di castagno tagliato, dopo una lunga maturazione, è pronto a lasciarsi lavorare; con un amico, Matteo, tenace agricoltore di Dossena, decidiamo di portarlo a valle e ci organizziamo per il trasporto. Saura, una dolcissima cavalla avelignese, si presta paziente a trasportare i grossi tronchi lungo l’erto sentiero fino alla strada. La giornata non è delle migliori: piove e ciò rende il tutto più impegnativo. Dopo aver preparato Saura con i finimenti da lavoro, partiamo con il primo carico, ma dopo pochi metri ci troviamo in difficoltà: inesperienza!La tenacia ci aiuta e, dopo diversi tentativi, riusciamo a trovare il modo corretto di agganciare i tronchi e trascinarli.Carico dopo carico si fa sera; l’acqua non accenna a diminuire, la luce cala e il bosco silen-zioso preannuncia la notte. Saura ha ormai memorizzato il tragitto; ogni passo nella terra bagnata si fa più leggero; il suo respiro accompagna il fumo di calore che sale dalla schiena. Il silenzio, rotto solo dai pochi ordini per Saura, mi avvolge; un ritmo lento, una cantilena.. quasi una preghiera che mi fa sentire parte di qualcosa di più grande, di magnifico.Ultimo viaggio e ultimi tronchi.. Felici, avvolti ormai dalla penombra, torniamo alla baita, dove un caldo risotto alla zucca e una succulenta gallina bollita ci aspettano per confortare il corpo infreddolito.

Lorenzo Lego

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ANNUARIO 2011-2012 VITA DI MONTAGNA

Flora: azioni di conservazione della biodiversitàvegetale nel parco delle orobie bergamascheIl Parco delle Orobie Bergamasche è un hot spot a livello nazionale ed europeo per quanto concerne il numero e l’importanza delle specie vegetali presenti sul territorio. Tra le più rare ed importanti si possono elencare alcuni endemiti esclusivi delle Orobie come Linaria ton-zigii, Saxifraga presolanensis, Gallium montis-arerae, Sanguisorba dodecandra e Primula albenensis; sono inoltre presenti specie esclusive della fascia insubrica e altre piante poco diffuse a livello nazionale. Questo patrimonio, giunto fino a noi attraverso i secoli deve essere tutelato e conservato, e per fare ciò il Parco delle Orobie Bergamasche ha avviato una serie di progetti volti a valutare i fattori di minaccia per le specie botaniche di grande interesse e nel contempo pianificare azioni di tutela, conservazione e rafforzamento.Una delle principali minacce per le specie di alta quota è l’innalzamento medio delle tempe-rature che potrebbe portare nel lungo periodo all’estinzione di diverse piante. Secondo alcuni studiosi la flora delle Orobie sarebbe soggetta ad un fortissimo rischio di scomparsa nei prossimi decenni. Per monitorare l’effetto dei cambiamenti climatici, Parco delle Orobie, Uni-versità di Pavia, WWF Italia e Centro Meteo Lombardo, nel 2009, hanno avviato una nuova stazione sulle Orobie nell’ambito della rete Gloria, progetto di monitoraggio dei cambiamenti climatici, che coinvolge più di 80 target regions in diverse zone montuose del pianeta, basato sull’osservazione degli effetti a carico della vegetazione, sia per quanto riguarda la struttura sia per quanto riguarda la composizione specifica. Lo studio viene fatto collocando, su vette poco frequentate e a quote diverse (Menna, Arera, Cimetto e Ferrantino), alcune griglie che permettono di valutare lo spostamento verso l’alto delle specie alpine a causa dell’innalza-mento delle temperature. Oltre a ciò son state interrate 4 sonde su ogni vetta con lo scopo di misurare la temperatura a livello del suolo e vicino a ciascuna cima è stata posizionata una centralina meteo che registra diversi parametri climatici utili per avere un quadro dettagliato

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del microclima dell’area. Considerata la seria mi-naccia di estinzione di di-verse specie, il Parco delle Orobie Bergamasche ha de-ciso di mettere in banca le più importanti. Sembra una battuta ma è la realtà; infatti, insieme al Dipartimento di Ecologia del Territorio dell’Università di Pavia ha avviato un progetto di conservazione ex situ delle venti specie più rare (ampliato anche ad altre piante). Le fasi principali del lavoro sono la raccolta dei semi delle specie target al momento della naturale maturazione e il loro trattamento presso la Lombardy Seed Bank di Pavia dove vengono puliti, disidratatati e congelati, processo che garantisce di conservarli vitali per centinaia di anni. In caso di necessità future (scomparsa di specie o addirittura di interi habitat), sarebbe sufficiente scongelare il materiale conservato e farlo germinare per ottenere le piante da reintrodurre. Il Parco ha anche istituito una serie di corsi atti a formare operatori che, dopo aver superato un esame di idoneità, hanno conseguito il permesso di raccolta del germoplasma. In totale presso la Lombardy Seed Bank di Pavia, grazie alle raccolte avviate dal 2004, sono conservate 131 specie della flora bergamasca, alcune delle quali rappresentate da diversi campioni. Oltre a piante endemiche o stenoendemiche, e quindi molto rare, son conservate anche alcune specie “comuni” ma altrettanto importanti per eventuali ripristini ambientali.I semi conservati vengono testati periodicamente per veri-ficarne la vitalità e i risultati ottenuti fino ad oggi sono ampiamente positivi.Alcuni duplicati di semi delle specie più importanti sono stati inviati alla Millenium Seed Bank di Londra, la più importante banca del germoplasma a livello mondiale.Oltre alla conservazione ex situ il Parco si è dedicato anche al rafforzamento delle popolazioni naturali di al-cune specie rare. In particolare son stati condotti due progetti con risultati differenti: il primo con lo scopo di riprodurre 4 specie rare (Linaria tonzigii, Saxifraga ho-stii, Galium montis-arerae e Saxifraga presolanensis); il secondo, denominato progetto Orchis, volto a produrre 10.000 orchidee autoctone da utilizzare per il rafforza-mento delle popolazioni delle Orobie Bergamasche mi-nacciate dalla graduale scomparsa degli habitat di vita di queste piante, costituiti in gran parte da prati e pascoli, che man mano vengono soppiantati dall’avanzata del bo-

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sco. Il primo progetto, condotto in collaborazione con il Centro Flora Autocona, ha presenta-to diverse difficoltà poiché le piante scelte son difficili da riprodurre e la reintroduzione non è semplice a causa dello stress che le piante subiscono passando dalle serre alle difficili condizioni di vita presenti in alta quota. Sono comunque stati riprodotti e trapiantati con successo diversi esemplari di Saxifraga hostii e alcune piante di Galium montis-arerae. Mag-gior successo ha avuto il progetto Orchis che, sempre in collaborazione con il Centro Flora Autoctona, ha permesso di reintrodurre circa 9.000 piante appartenenti a 14 diverse specie di orchidee: Anacamptis morio, Anacamptis pyramidalis, Coeloglossum viride, Dactylorhiza traunsteineri, Goodyera repens, Gymnadenia conopsea, Gymnadenia odoratissima, Nigri-tella nigra ssp. rhellicani, Orchis provincialis, Ophrys apifera, Ophrys benacensis, Ophrys sphegodes, Pseudorchis albida (mai riprodotta prima) e Serapias vomeracea. Per la preci-sione le specie Ophrys apifera, Ophrys benacensis, Ophrys sphegodes, Orchis provincialis, Anacamptis morio e Ophrys fuciflora son state piantate presso il Parco del Monte Barro, partner del progetto, per esigenze ecologiche. I siti di reintroduzione degli individui prodotti son stati scelti in base alla provenienza del germoplasma d’origine, agli habitat di crescita e alle esigenze ecologiche delle diverse specie. In particolare sono stati individuati 6 luoghi adatti: una radura nei pressi del Rifugio Alpe Corte (Ardesio), un pascolo vicino al Rifugio Gherardi (Taleggio), un pascolo lungo il sentiero che conduce al Rifugio Longo (Carona), la torbiera dei Piani di Rava (Valtorta), una piccola superficie boscata in comune di Schilpario e un tratto di pascolo adiacente alla Baita Golla (Gorno). Parte integrante del progetto è stata la realizzazione di aiuole didattiche presso 12 rifugi del CAI di Bergamo. In questi spazi son state piantate, oltre ad alcune orchidee, diverse piante compagne, cioè piante che in natura crescono negli stessi ambienti.I progetti di conservazione nell’ultimo anno si sono focalizzati anche sulle piante di interesse culinario, molto utilizzate nella cucina tradizionale bergamasca, e sulle antiche varietà di mais locali coltivate nei comuni del Parco o in paesi limitrofi. Per quanto riguarda le piante cosiddette “mangerecce” è stato avviato un progetto finalizzato alla conservazione in banca del germoplasma di Polygonum bistor-ta, Chenopodium bonus-henricus, Silene vulgaris, Aruncus dioicus, Taraxacum officinale, Humulus lupulus e Campanula ra-punculus di cui son state anche r e a l i z z a t e

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brevi schede descrittive utilizzabili a fini divulgativi da utilizzare nelle aziende agrituristiche del Parco. Per quanto concerne le antiche varietà di mais locali, il Parco, facendo da capofila ad un progetto che coinvolge diversi enti ed istituzioni (Lombardy Seed Bank, Istituto di ricerca per la maiscultura, Coldiretti Bergamo, ERSAF Lombardia Ufficio Fitosanitario, comuni di Gan-dino e Rovetta, comitato Era del 900 e commissione DECO Spinato di Gandino), si è posto l’obiettivo di recuperarle, salvaguardarle e valorizzarle.Il lavoro ha permesso di individuare due varietà, il mais Rostrato rosso di Rovetta di Giovanni Marinoni e lo Spinato di Gandino conservato dal signor Savoldelli, i cui semi sono stati portati in banca del germoplasma a Pavia e sono stati sottoposti a disidratazione e congelamento. Il personale dell’Università ha inoltre effettuato test di germinazione con una percentuale di successo vicina al 100% a testimonianza dell’ottima salute dei campioni raccolti. A settem-bre 2011, inoltre, il progetto “antiche varietà agronomiche” ha visto realizzato l’obbiettivo più ambizioso che il Parco e l’Università di Pavia si erano posti, cioè l’invio dei due mais bergamaschi alla Global Seed Vault, la banca mondiale delle piante agronomiche situata alle isole Svalbard in Norvegia, dove verranno conservati per molto tempo.Tutti questi progetti rappresentano un tentativo di salvaguardia della biodiversità e nel contempo mirano a sensibilizzare la popolazione cosicché ogni singolo individuo possa diventare custo-de di un patrimonio inestimabile che ci è stato lasciato in eredità e che abbiamo il dovere di mantenere intatto per le generazioni future.

Juri Belotti

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La passione e l’impegno dei giovaniNella nostra piccola Alta Valle Brembana, ci sono molte realtà di volontariato giovanile. Ognuno di noi tiene in modo particolare al proprio paese e in base ai valori con cui siamo cresciuti e a seconda delle persone che abbiamo incontrato lungo il nostro cammino, ci sia-mo appassionati al nostro territorio.Noi giovani ci impegniamo in modi diversi, in base a ciò che amiamo fare, pensare e creare.Ad esempio, a Piazza Brembana, i giovani che si dedicano alla Pro loco si occupano di va-lorizzare e promuovere il territorio, non solo del proprio paese ma anche quello dei comuni circostanti. Benché la gestione di una Pro Loco possa sembrare impegnativa per un gruppo di dodici giovani, sono riusciti a trasformarla a loro immagine e a renderla quasi una forma di divertimento.A seconda dei diversi interessi e delle differenti formazioni, in questo gruppo c’è chi organiz-za ciaspolate in montagna, chi programma eventi d’intrattenimento, oppure chi si occupa di gestire l’ufficio d’informazione per i turisti e per gli stessi abitanti della valle. Si pensa, infatti, che sia importante coinvolgere i cittadini che vivono sul nostro territorio e quindi ci si impe-gna per tutto l’anno ad organizzare manifestazioni e corsi di vario tipo, allo scopo di creare un gruppo coeso tra gli abitanti del nostro comune ma anche dei paesi limitrofi. In estate la Pro Loco propone varie iniziative che vanno dall’animazione per bambini ai mercatini serali, dalle tombole alle serate danzanti. All’interno del direttivo vengono discusse e votate le varie proposte, dopodiché non resta che rimboccarsi le maniche. Non è facile risolvere tutti i pro-blemi organizzativi e burocratici ma la buona volontà, l’entusiasmo di noi giovani (e anche un pizzico d’incoscienza), hanno fino ad ora permesso di realizzare piccoli grandi progetti di cui siamo molto orgogliosi.Non dimentichiamo che a Piazza Brembana c’è anche chi fa parte del “Gruppo Giovani”, il quale coinvolge ragazzi e ragazze anche di età differenti, con in comune la passione per la musica e per il loro territorio. Questi giovani invitano nella nostra piccola realtà dei cantanti spesso di notevole successo, che fanno conoscere il nome di Piazza Brembana un po’ in

Volontariatoin alta valle

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tutta la provincia. Come esempio bastino i nomi del rapper romano Piotta o dello spagnolo Tonino Carotone, famosi in tutta Italia. Questo gruppo nasce dalla voglia di creare una nuova aggregazione tra i ragazzi anche dei paesi vicini, come Lenna e Valnegra; in pochi anni al progetto hanno aderito circa quaranta ragazzi! Si è ripulito un parco prima inutilizzato e lo si è reso luogo di ritrovo e concerti dal vivo con tanto di palco, tendoni e cucina. Infatti oltre all’a-scolto di buona musica, le feste estive del Gruppo Giovani offrono tipici piatti bergamaschi e pizze cotte in forno a legna, grazie all’importantissimo aiuto di qualche simpatico pensionato che dà una mano con la carne e la polenta. Mettendosi in gioco ci si può improvvisare pizza-ioli, baristi, speaker … la fantasia non manca!La cosa bella è che ogni giovane che fa parte di un gruppo si crea un ruolo e sviluppa la propria passione. Ovviamente non va sempre tutto bene, infatti può capitare di discutere; alla fine però, l’amicizia resta, perché l’impegno e la voglia di stare insieme e di essere uniti in un unico obiettivo, ci lega e ci fa crescere. Dopo diversi anni di volontariato abbiamo ini-ziato ad allargare il nostro orizzonte e a vedere così che non esistono solo giovani del nostro paese ma ci sono molti ragazzi che fanno volontariato impegnando il loro tempo in diverse realtà. Grazie ad alcune manifestazioni itineranti nell’Alta Valle Brembana, come la Festa del Volontariato, Fungolandia e Erbe del Casaro, con cautela e curiosità abbiamo iniziato a col-laborare. Questi incontri sono stati occasione di conoscenza e di crescita, grazie al confronto con pensieri, opinioni e tipologie di organizzazione differenti. Infatti è presto nato un gruppo creativo di giovani che fa riferimento a tutta l’Alta Valle Brembana. Quest’anno, per i 150 anni dell’Unità d’Italia si è organizzata, per esempio, una manifestazione vallare: abbiamo contat-tato alcune persone di ciascun paese del territorio e in molti hanno partecipato nonostante il tempo non fosse dalla nostra parte. Il risultato è stato che L’Eco di Bergamo ha regalato la prima pagina alla fotografia di quella bellissima iniziativa. Sono piccoli esempi che hanno legato sempre più i giovani della Valle, facendo sembrare ormai fuori moda e soprattutto stupidi i campanilismi che purtroppo dividono ancora i paesi della nostra valle.Noi siamo molto felici dei gruppi che abbiamo realizzato ed entusiasti del lavoro comunitario che è stato svolto ma soprattutto siamo orgogliosi dei nuovi rapporti umani che si sono ve-nuti a creare. Abbiamo capito che non importa se apparteniamo a diversi paesi, l’importante è darsi una mano, perché l’incontro con idee e pensieri diversi è un modo per crescere ed arricchirsi umanamente, conoscendo realtà vicine ma di cui ignoravamo l’esistenza o l’im-portanza. Proprio perché siamo giovani, è per noi possibile condividere gli stessi problemi, le stesse paure ma anche mettere a disposizioni gli uni degli altri una fonte inesauribile di nuove idee e di entusiasmo. Noi ce la stiamo mettendo tutta; siamo certi che il sostegno e la volontà dei cittadini della nostra valle ci farà proseguire nel migliore dei modi.

Riccardo Lazzaroni

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PIAZZATORRE (Bg)Via Centro, 19Tel. 0345.85027

di Bonetti Gianantonio

Progetto9_Layout 1 24/05/11 08:47 Pagina 1

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Il mio fedele compagno di montagnaSe vi fosse chiesto con quale amico vi siete trovati meglio in montagna, cosa rispondereste?E quando dico “trovati meglio”, intendo in ogni situazione. Sia che si tratti della passeggiata per cercare funghi, come la salita di una cima dove si devono usare anche le mani per tenerti in equilibrio, oppure una escursione con gli ski di fondo o di alpinismo.Ho da sempre frequentato le nostre Orobie sin da bambino quando i miei mi portavano a Lenna dalla nonna materna a passare le vacanze e devo dire che in più di un’occasione mi dovevano venire a cercare, tanto incosciente che ero. Vacanze scolastiche sino a che ci sono andato, alternando Lenna con Piazzolo, dove la nonna paterna si dannava di me come per l’altra. E io mi divertivo a passare da una all’altra attraversando il monte Sole e i castighi non mancavano mai. A 14 anni decisi che la scuola non era fatta per me, o meglio, che io non ero fatto per la scuola, e così mio padre mi mandò a lavorare da apprendista; “basta che impari un mestiere” diceva. Me ne pentii amaramente pochi mesi dopo. Ma ciò che persi non furono soltanto i vantaggi che fare lo studente ha indubbiamente sul fare il lavoratore, ma anche le vacanze si restrinsero a solo una ventina di giorni all’anno. Così, tra ferie e fine set-timana, ho cominciato ad andare “su e giù per monti e valli” con vari compagni di avventura, ma soprattutto da solo. Poi un giorno mia figlia mi chiede il classico cagnolino; acconten-tata. E in breve tempo diventerà di mia intera competenza. Così, appena Doc, il nome che abbiamo dato al cane, è cresciuto qualche mese, ho cominciato a portarlo con me in qualche breve passeggiata in zona Lenna. Non aveva ancora un anno alla sua prima sci alpinistica sul pizzo Tambò, e a differenza dei miei amici scoppiati sotto la cima, mi ha seguito sino alla croce per poi correre in discesa nella neve ancora dura. Da allora mi ha sempre accompa-gnato in ogni mia escursione.

Doc sul Becco

Doc sul Malgina

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Anche quando andavo ad arrampicare sulle pareti classiche delle Orobie, alcune volte Doc veniva con me e mi attendeva pazientemente alla base delle pareti. Nelle numerose e fre-quenti gite con Laura, Doc non mancava mai e se c’era un passaggio complicato o un po’ esposto dove Laura non sapeva bene dove passare, gli dicevo “manda avanti Doc che stai sicura che dove passa lui è il percorso più facile”. E poi quando tornavo dalle gite in orari quando la luce del sole era scomparsa o la nebbia mi avvolgeva facendomi perdere l’orien-tamento, mandavo avanti Doc e lui capiva e mi guidava col suo fiuto eccezionale sulla strada del ritorno. E come dimenticare la volta che in val d’Ambra ci hanno sorpresi un forte temporale e il buio improvviso della notte. Doc è stato per noi un valido aiuto per ritrovare il sentiero per poi rifugiarsi in una baita e dormire tra noi scaldandoci a uso di coperta.Io e il mio fedele amico abbiamo salito tutte le vette Orobiche, dal Venturosa al Gleno, e a volte in inverno o con brutto tempo o col buio. Ricordo la volta che con Doc sono salito con la tenda sul Diavolo alla sera e dormito lassù, con le cime più alte che sbucavano dalle nebbie che coprivano le valli.Dopo 18 anni in mia compagnia, Doc se n’è andato. Non troverò mai più un compagno d’av-ventura così e, ancora oggi, quando vado in montagna, mi manca e lo immagino vicino.

Giorgio Bianchini

Doc sul Gleno

Doc sul Coca

Io e Doc sul Cengalo

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EDILPICCHIOdi Rivellini Corrado

Via Bindo, 33 • 24010 S. Brigida (Bg)

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Boschi, Picchi &...Non esiste ambiente le cui caratteristiche siano immutabili, nemmeno nelle condizioni estre-me. Gli stessi deserti non sono stati sempre tali, né così inospitali.Questo accade anche al bosco, in particolare ai nostri boschi, nei confronti dei quali l’uomo è sempre intervenuto. In una prima fase esso ha costituito una sorta di riserva alimentare, offrendo cibo di ogni sorta, basti pensare all’uomo cacciatore dell’antichità, oppure all’im-portanza della caccia nel medioevo, la cui pratica, per le specie più importanti, era riservata esclusivamente alla nobiltà, mentre la povera gente si dedicava alla cattura di specie minori.In termini ecologici possiamo dire che l’uomo ha sempre esercitato, anche se inconsciamen-te, una pressione, a volte esagerata, nei confronti di alcune specie che lo interessavano, sia nei confronti delle specie che rappresentavano importanti risorse alimentari, in questo caso senza prendere coscienza dell’importanza della rinnovabilità delle risorse e della sostenibilità del suo intervento, sia nei confronti delle specie che rappresentavano seri pericoli per i suoi beni e la stessa sua incolumità, come nel caso di orsi e lupi, finendo con il modificare anche in maniera sostanziale gli equilibri naturali. Ciò ha modificato gli equilibri intraspecifici, sia in termini orizzontali tra specie dai costumi simili, favorendo alcune specie meno importanti per l’economia umana e determinando la quasi estinzione di altre, sia in termini verticali ai vari livelli della piramide alimentare, mettendo addirittura in crisi, a volte, l’articolato sistema.Abbiamo così visto, con il graduale aumento dell’antropizzazione, scomparire prima i grandi mammiferi, e quasi contestualmente i grandi predatori.

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In una seconda fase, pian piano ma in maniera sempre più massiccia, la pressione dell’uomo nei confronti di questo ambiente complesso si è rivolta al bosco stesso, interessandosi a quanto poteva offrire, in termini di utilizzo diretto e commerciale, la massa arborea, una fonte ritenuta quasi inesauribile. Se per la gestione diretta dell’utilizzo delle risorse arboree per la popolazione si è intervenuti con regolamentazioni “sostenibili”, la forte pressione del periodo industriale, con richieste di carbone sempre più pressanti, ha in parte intaccato questo equi-librio in nome del progresso. Il paesaggio montano, attorno ai paesi e ai borghi delle vallate, aveva così gradualmente assunto un aspetto nuovo, ricercato, che per secoli e fino a qualche decennio fa, dal punto di vista estetico, potevamo definire quasi poetico, bucolico, con le sue terrazze verdi, i pendii erbosi lavorati, in cui l’allevamento e la cura del verde avevano assun-to un valore quasi assoluto, e un equilibrio tutto sommato sostenibile tra necessità obiettive della popolazione e risorse disponibili. Oggi viviamo una fase delicatissima di passaggio da una condizione di massimo utilizzo e sfruttamento equilibrato ad una condizione di abbandono quasi totale, una sorta di ritorno alle “origini”, disordinata, casuale, dove le specie animali più intraprendenti, come è suc-cesso a fine anni novanta per il capriolo, ma anche per il camoscio e oggi per il cervo, per limitarci alle specie più visibili, hanno avuto un’espansione molto significativa.Esistono, per cogliere gli aspetti delle mutazioni in questa fase di transizione, alcune chiavi di lettura, dentro le maglie più fitte e intrecciate di un sistema assai complesso qual è il bosco, che si possono mettere a fuoco.Tra queste, assai interessante è quella del piccolo popolo degli uccelli che il bosco gelosamen-te nutre e protegge, in particolare di alcuni ospiti con i quali vive un’intensa e profonda intimità. Sono pagine semplici di ecologia del bosco, sembrano piccole tessere del gioco della vita, che soddisfano e stimolano la nostra voglia di scoprire altri segreti e che accendono e tengono viva la nostra curiosità. Picchi, cince e civette ci guidano a scoprirne gli intrecci, una maglia i cui tempi di tessitura ricordano la tela di Penelope, e ci lasciano il tempo di osservarne, qua e là, il magico ordito. Da alcuni anni i Picchi sono tornati ad essere ospiti speciali; essi lasciano ovunque tracce inconfondibili della loro presenza, e lanciano in ogni stagione, in particolare in primavera, segnali sonori tambureggianti, quasi frenetici quando il tempo degli amori incalza. Dal grande Picchio nero, da una ventina d’anni ospite fisso anche nelle Orobie bergamasche, al piccolo Picchio rosso maggiore, che non manca di catturare il nostro sguardo con il suo volo sfarfallante. Basterebbe fare qualche passeggiata sulle nostre montagne all’inizio della primavera, quando ancora la neve copre a chiazze il sottobosco, per sentirne il sommesso e frenetico tambureggiare. Un richiamo interspecifico che sembra voler dire “questo è il mio territorio”, e allo stesso tempo intraspecifico, rivolto alla compagna per invogliarla a decidersi a “mettere su casa”. Il bosco, un tempo serbatoio di combustibile e di legname da opera per la gente del posto, anni addietro assai numerosa e meno oppressa da vincoli troppo restrittivi, torna ad essere lasciato a sé stesso. Può finalmente invecchiare in pace!Le condizioni non sono più, naturalmente, quelle antiche, prima delle “cure” a cui per secoli è stato sottoposto, ma la direzione è quella, anche se per ristabilire un equilibrio “naturale”, sempre se sarà possibile e comunque diverso per specie arboree e caratteristiche distributive, quindi nuovo, di anni ne dovranno trascorrere ancora chissà quanti. Troppi fattori sono definiti-vamente cambiati; non esiste nemmeno il ricordo di come poteva essere l’equilibrio “naturale” prima della colonizzazione umana. La grande quantità di massa legnosa, che un tempo era sistematicamente prelevata e sfruttata prima che si estinguesse da sola, torna ad essere ele-mento vitale per lo sviluppo di larve di ogni specie, e il mondo degli insetti, i primi veri abitatori di questo mondo verde, torna a farla da padrone, mente gli alberi si arricchiscono di nuovi spazi da occupare: una marcia che sembra inarrestabile.

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Di questa nuova situazione ne traggono beneficio ovviamente molte specie, tra le quali proprio i picchi, per i quali è indi-spensabile che il bosco sia un bosco “maturo”, con molti alberi vecchi e secchi, dove trovare casa e cibo. Nessuna specie sembra es-sere così strettamente legata agli alberi come loro. L’evoluzione li ha dotati di stru-menti eccezionali per aggredire anche i tronchi più coriacei. Un bec-co che perfora come uno scalpello, difeso, per il duro lavoro che deve com-piere, da una struttura ossea del capo spu-gnosa, per meglio attutire i colpi, sostenuto da una muscolatura forte e armato di una lingua lun-ghissima. Con questa riesce ad entrare fino nelle gallerie più profonde, e le larve del legno hanno diffi-coltà a sfuggire alla sua minuziosa ricerca. Per la sua casa vengono sistematicamente scavati, con arte e maestria, vecchi tronchi maturi, per ricavarne un rifugio sicuro e quasi inaccessibile dove i loro piccoli possano crescere e raggiungere l’età dell’involo.Ma non basta. L’intreccio delle vite degli abitatori del bosco non ha confini. Esso è fatto di rapporti diversi e spesso contra-stanti. Dal mutualismo, dove una specie è di aiuto ad un’altra, alla competizione, in cui i rapporti sono conflittuali, fino alla predazione, dove qualcuno ne fa sempre le spese a beneficio di altri. Questi intrecci rispecchiano un po’ i rapporti che legano i picchi alle cin-ce, e le cince alle civette. I vecchi nidi dei picchi non restano abbandonati a lungo. Le cince sono solitamente le prime a beneficiarne, ma ben presto la nuova nicchia si arricchisce, diventando terreno di caccia per altri predatori, e lo stesso nido dei picchi viene ad essere utilizzato dalle civette capogrosso, che da questa mutata realtà trovano di che vivere più comodamente.Quanti misteri ancora aspettano di essere scoperti! Ogni ambiente che si modifica di-venta teatro di nuove compagnie, in un vortice di rapporti sempre nuovi, in una continua alter-nanza di equilibri, spesso delicati e talmente complessi da sembrare inventati da una fantasia che non ha confini.

La fantasia della vita e dei suoi eterni cicli.

Flavio GalizziDisegni di Stefano Torriani

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Felice Riceputi, storico della gente brembana Il giovane Alessandro conquistò l’India. Da solo? Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco?

Questi versi tratti dalla poesia Domande di un lettore operaio di Bertolt Brecht potrebbero sintetiz-zare efficacemente il pensiero di Felice Riceputi in merito alla storiografia. Chi fa la storia? I grandi uomini o le masse? Fino a qualche decennio fa, leggendo i manuali scolastici, si aveva l’impres-sione che la storia fosse un susseguirsi di date e di eventi scanditi da uomini più o meno famosi e potenti che si ponevano, nel bene e nel male, come elemento discriminante del procedere del tempo. Le masse erano considerate solo un indistinto contorno delle imprese di pochi, nonché le destinatarie passive delle conseguenze delle azioni di questi. E anche quando si verificavano delle imprese collettive, si consideravano solo come eventi accidentalmente sfuggiti al controllo dei potenti, oppure organizzati dagli stessi. Ben diverso in proposito era il pensiero di Riceputi: egli aveva ben presente la lezione degli storici contemporanei, tra cui i redattori della rivista francese Les Annales, che attorno alla metà del Novecento hanno sancito il passaggio da una storiografia tradizionale intesa come succedersi di individui ed eventi ad una basata sull’uomo, la società e il suo divenire. Ne consegue che la storia è fatta da una pluralità dei soggetti e non solo dai grandi personaggi, e che l’azione delle persone è intrecciata con le condizioni sociali, antropologiche e fisico-ambientali in cui esse operano. Chi legge le opere storiche sulla Valle Brembana di Riceputi vi trova passo dopo passo la concretizzazione di questi concetti, la rivalutazione del ruolo della gente brembana, rappresentata nella sua quotidiana lotta per la sopravvivenza, alle prese con le dinamiche economiche e tesa a ritagliarsi uno spazio nel proprio tempo. Un’altra caratteristica dello storiografo è l’interpretazione dei documenti e l’uso di quanto in essi contenuto per ricostruire il più verosimilmente possibile la realtà di un momento e di un fenomeno storico. Solitamente, però, i documenti giunti fino a noi hanno un carattere di ufficialità che può anche essere ben diverso dalla realtà storica del contesto in cui furono prodotti. Prendiamo ad esempio gli atti notarili, di cui abbiamo ampia disponibilità e che costituiscono una delle fonti d’informazione più diffuse e dettagliate: il contenuto di questi atti rispecchia veramente quanto accadeva nella realtà o più probabilmente si limita a fornire una interpretazione ufficiale della stessa? Riceputi ripeteva spesso che la storia non è necessariamente quella che troviamo registrata nei documenti d’archivio e in particolare negli atti notarili: “Se dovessimo scrivere la storia dei nostri giorni sulla scorta degli atti notarili e dei documenti ufficiali che vengono prodotti ogni giorno ne uscirebbe un’immagine credibile o distorta del mondo attuale?”. Con ciò intendeva affermare la necessità di andare al di là della fredda ufficialità dei testi, per scoprire, mediante la riflessione e il confronto con altri contesti, il vero volto dei protagonisti del passato.Qualcuno, in questi anni, non si è fatto scrupolo di critica-re e stigmatizzare in modo saccente il metodo storico di Riceputi (ma anche di altri), sostenendo che le sue opere non sarebbero adeguatamente documentate e cavillando sulla trascrizione non sempre perfettamente letterale di qualche atto notarile. Mi chiedo se quanti hanno letto i libri di Riceputi e in particolare i due volumi sulla Sto-ria della Valle Brembana (rieditati l’anno scorso a cura dell’Ecomuseo di Valtorta e del Centro Storico Cultura-

Il prof. Felice Riceputi con una pergamena del Seicento donata al Centro Storico Culturale da

Gianni Donati

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ANNUARIO 2011-2012 RIFLESSIONI - CULTURA

le Valle Brembana) non vi abbiano tro-vato la limpida e partecipata rappresen-tazione della vera essenza della nostra gente più di certi volumi stracolmi di note che si riducono a un’accozzaglia di date, a un mero elenco di fatti, di personaggi, di luoghi, messi lì solo perché rinvenuti in do-cumenti, ma tra loro scollegati, senza una rielaborazione critica: una pedante compi-lazione, insomma.E dopo questa doverosa premessa metodo-logica, mi sembra opportuno fornire qualche dato bio-bibliografico di Riceputi, evidenziando il ruolo da lui svolto nella diffusione della cultura brembana. Nato a Carona nel 1949, laureato in Lettere all’Università Cattolica di Milano, per anni si dedicò all’insegnamento presso le Scuole Medie di Brembilla e di Zogno e poi all’Istituto Turoldo di Zogno, svolgendo contemporaneamente un’intensa attività di giornalista con la quale seguiva con passione e con onestà le vicende della Valle Brembana. Dedicò molto del suo tempo all’atti-vità politico-amministrativa, come consigliere comunale di Brembilla, e a quella sindacale, prima nella CGIL Scuola e poi come responsabile dello SPI della Media Valle Brembana. Nel 1994 iniziò il suo impegno come ricercatore di storia locale collaborando con Tarcisio Bottani e Giuseppe Giupponi al libro La Resistenza in Valle Brembana a cui seguirono anni di ricerche culminate con la pubblicazione di vari libri, alcuni dei quali scritti con amici, animati come lui dal desiderio di col-mare il vuoto di storiografia sulla Valle Brembana. Nel 1997 pubblicò Storia della Valle Brembana, libro che suscitò l’interesse di un vasto pubblico di lettori e costituisce ormai il necessario punto di partenza per ogni ricerca dedicata alla Valle; a completamento dell’opera seguì nel 1999 la pubblicazione di Storia della Valle Brembana. Il Novecento. Scrisse inoltre, con altri autori, alcune storie di paesi dell’alta Valle Brembana: Valtorta, Olmo al Brembo, Piazzatorre, Moio de’ Calvi e, da solo, Per una storia della Val Fondra (2004), La valanga di Trabuchello (2007), Manifattura di Valle Brembana. 1907-2007 (pubblicato postumo nel 2010), oltre a varie monografie di storia e cultura locale. Chiudo questo breve ricordo del Rice, come lo chiamavano gli amici, accennando a due importanti contributi forniti da lui alla cultura della Valle Brembana. Nel 2001, assieme ad un gruppo di amici, fondò il Centro Storico Culturale Valle Brembana allo scopo di incentivare la ricerca storica, rendendola accessibile all’intera popolazione. Ne è stato presidente fino alla morte (avvenuta a Zogno nel 2009), curando in particolare l’edizione dell’Annuario Quaderni Brembani, e sostenendo con entusiasmo tutte le altre iniziative culturali ed editoriali, a cominciare dal fortu-nato volume Il Sogno brembano, per il quale aveva personalmente redatto la parte dedicata alla ferrovia della Valle Brembana. Il Centro, che dopo la sua morte è stato intitolato a lui, in dieci anni di attività ha raggiunto la quota di circa trecento soci ed è diventato il punto di riferimento naturale da parte dei cittadini e delle Istituzioni per le quali svolge un ruolo di sussidiarietà organizzativa e propositiva. L’altro grande merito di Riceputi è la scoperta, assieme a Francesco Dordoni, e l’avvio della valorizzazione delle incisioni rupestri della Val Camisana di Carona. Queste antiche incisioni sono adesso in fase di studio da parte di esperti archeologi coordinati dal Civico Museo Archeologico di Bergamo e si stanno rivelando una fonte preziosa per la conoscenza della storia, non solo per la ricca iconografia di epoca storica che le costituisce, ma soprattutto per le incisioni protostoriche e le iscrizioni leponzie. Si tratta delle prime iscrizioni celtiche di alta quota scoperte in prossimità di passi fra la Val Brembana, la Val Seriana e la Valtellina, risalgono al III secolo a.C. e sono la più antica fonte scritta che mai sia stata reperita sul nostro territorio.

Tarcisio Bottani

Iscrizioni leponzie del III sec. a. C. evidenziatesu uno dei massi della Val Camisana

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L’uomo della montagna L’uomo della montagna è sempre stato in colloquio con la natura: col cielo, con le rocce, con gli alberi, con gli animali, dimostrando così di riconoscere che in ogni essere del creato esiste una sua anima, e quindi una sua dignità da rispettare.Quel comportamento ci porta assai lontano, all’origine della religione medesima, che pos-siamo definire” animismo”, da non confondere col “panteismo”, cioè, Dio è l’universo, mentre ne è il Creatore che ha impresso la sua forma divina in ogni cosa creata che, nel cammino dell’evoluzione, va via via sempre più manifestandosi, come il Mosè di Michelangelo che l’artista ha saputo liberare dalla pietra che ha scolpito, in cui è rimasto prigioniero sino a quel momento.“Noi sappiamo, infatti, che fino ad ora tutta quanta la natura sospira e soffre le doglie del parto...” come afferma S. Paolo nella sua lettera ai Romani (8,22). Tutto il creato è pertanto in attesa della liberazione perché si sente come imprigionato. In ogni cosa c’è un impulso divino che deve essere manifestato, intanto che l’uomo è chiamato a essere il testimone di questo mirabile avvenimento. È quanto ha sempre fatto e continua a fare l’uomo della montagna con l’entusiasmo di chi si sente coinvolto quale primo protagonista nell’immensa scena dell’universo, ponendosi in colloquio con la natura stessa, sospinto dal richiamo del Creatore medesimo.“I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento...” canta il Salmo 19, per cui, non soltanto i cieli, ma ogni creatura si esprime col proprio linguaggio universale che l’uomo, attento alla natura, sa ben cogliere nel suo più profondo significato.Quante volte, nei momenti di riposo, vediamo l’uomo della montagna adagiarsi sull’erba per gustare il linguaggio del vento che confabula con le foglie degli alberi. Al mattino e di sera segue attentamente la levata e il tramonto del sole, che disegna, con il pennello d’oro della sua luce, l’avvicendarsi delle stagioni. Non c’è fiore o animale che sfugga al suo controllo da montanaro, e ne decanta l’elogio da innamorato. Contempla la luna di notte, cogliendone i messaggi che illumina poi i suoi rapporti con la natura, come nell’allevamento della sua mandria, nel taglio del legname, nella semina dei suoi campicelli e nei raccolti. Tutto è vita per il montanaro, che non disdegna nulla di quanto la natura gli possa offrire con cui si sente sempre in comunione.

Avvertiamo, nel “Cantico di frate sole” di S. Francesco, che si ricupera la piena armonia tra l’uomo e la natura, entrambi creature di Dio, al quale appartiene la lode, la gloria e l’onore con ogni benedizione. A fianco di S. Francesco, il vero poeta della natura è il montanaro che sa dialogare con tutte le opere del creato, ponendosi in contemplazione col cielo e con la terra, ciò che è avvenuto anche nei tempi primitivi, quando l’uomo esprimeva la sua religio-sità da tramandare scolpendone i segni sulla pietra. Fin che l’uomo rimane alla montagna e la montagna all’uomo, tutta la natura fa il suo libero percorso, senza correre il rischio d’in-frangerne le leggi, dovendone poi pagare le gravi conseguenze, come purtroppo rivelano nei disastri ecologici dei nostri tempi, ai monti e a valle, intanto che farisaicamente addebitiamo il tutto al caso.Il ritorno alla montagna si rende pertanto indispensabile, ma non per un ulteriore sfrutta-mento selvaggio, bensì per farla rivivere a vantaggio di che ne rispetta lo scopo.

Nella letteratura latina troviamo due grandi poemi dedicati alla natura, scritti a poca d’istanza l’uno dall’altro.Il primo è il “De rerum natura” di Lucrezio Caro Tito, vissuto tra il 96 e il 53 avanti Cristo.

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L’altro poema sono le ”Georgiche” di Publio Virgilio Marone, vissuto tra il 70 e il 19 avanti Cristo. Mentre Lucrezio tende a ricondurre tutte le realtà delle cose, compresa la cultura umana, alla natura, Virgilio asseconda la tra-sformazione della natura nella cultura degli uomini. Sono due poemi che rivelano comun-que l’armonia tra l’uomo e la natura.Ancora: mentre Lucrezio attinge all’opera “De Natura” di Epicuro senza discutere, Virgilio, pur avendo frequentato la scuola di Epicuro, non ne segue la dottrina che negava l’eternità e la divinità, ma considera la natura con senso religioso, invitando a pregare e a lavorare in un vasto contesto spirituale che coinvolge tutte le cose, dal filo d’erba alle stelle. Deturpare, come si sta facendo, la bellezza della nostra terra, proprietà comune per noi al presente e per quanti verranno dopo di noi, è un vergo-gnoso crimine nei confronti di tutta l’umanità.

Lo stesso Friedrich Nietzsche afferma: “Noi apparteniamo a un’epoca la cui civiltà corre il

rischio di essere distrutta dai mezzi della civiltà medesima!”Romano Guardini, nelle sue lettere dal lago di Como, pubblicate tra il 1923 e il 1925, raccolte poi nel 1926 in un unico volume, rarissimo capolavoro della letteratura mondiale, afferma: “Il millenario rapporto tra l’uomo e la natura è sul punto di tramontare per lo scempio del mondo!” L’ecologia, che significa discorso sull’ambiente, ha trovato il suo riscontro anche nell’ambito della Chiesa, che si è resa conto di un grave peccato che forse non aveva mai considerato. Il Papa Giovanni Paolo II, il 29 novembre 1979, ha proclamato S. Francesco d’Assisi “Celeste patrono di tutti i cultori dell’ecologia”.

Se torniamo al discorso dell’uomo della montagna, non abbiamo forse da imparare un’impor-tante lezione nell’ambito della natura che, come opera del Creatore, coinvolge la ragione e la fede di ciascuno di noi? S. Francesco davanti a un sasso cadeva in venerazione come se si fosse trovato davanti a un angelo!L’animismo, da non confondere col panteismo, ci ha preceduto di vari millenni con l’uomo primitivo, che è stato l’uomo della montagna. Per gli Sciamani, che ora la Chiesa riscopre e riconosce come maestri di fede, tutto il mondo è divino, e l’uomo è chiamato a celebrarne l’infinita potenza. Non è forse questa la missione che ha svolto e che deve svolgere l’uomo della montagna?

Cabianca 1998Don Giulio Gabanelli

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Carlo Graffigna Venerdì 17 febbraio 2012, presso l’ospedale di S. Giovanni Bianco, è morto Carlo Graffigna, giornalista, scrittore e col-laboratore dell’Annuario del CAI. È stato giornalista all’Avanti e al Corriere della Sera, dive-nendo vice-direttore dell’edizione pomeridiana, Il Cor-riere d’Informazione. Il libro più famoso di Carlo, tradotto in molte lingue tra cui il giapponese, è stato Yeti, storia e mito dell’uomo delle nevi ed. Feltrinelli; recentemente è stato aggiornato e ripubblicato dalla CDA.Italia XX Secolo di Selezione del Readers Digest è stato uno dei suoi libri più importanti tra quelli legati alla sua attività di giornalista. Nell’ultimo periodo della sua vita ha scritto tre libri di racconti e tre romanzi, tutti pubblicati dalla Corponove di Bergamo. Uno di questi, Il mon-tanaro di pianura, ha quasi protagonista assoluto Piazzolo, questo nostro gradevole paesino in Val Brembana, che per Carlo Graffigna è stato l’amore di tutta una vita. È lui stesso a rac-contarci come all’età di due anni da Sesto San Giovanni arrivò in Valle, percorrendo l’ultimo tratto di strada da Olmo a Piazzolo in una gerla. Dopo di allora, per ben 88 anni, quasi fedele innamorato, non ha mai tradito l’appuntamento annuale con Piazzolo: un amore, possiamo ben dirlo, dal sapore antico, che non avrà fine perché egli ora riposa proprio nel piccolo cimitero di questo paese. È a Piazzolo che ha incominciato ad amare la montagna, ad affrontare le prime scalate diventando col tempo un esperto alpinista e amico di tanti grandi dell’alpinismo, alcuni ormai leggendari, tra cui Walter Bonatti, Cassin, Mauri, Oggioni. Le sue frequentazioni della Grigna e dei Resinelli con Mirella e Luciano Tenderini sono diventate amicizie di una vita.Una vicenda che mi piace ricordare di Carlo Graffigna giornalista, è quella legata all’elezione di Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica.I meno giovani ricorderanno come le elezioni dei nostri presidenti della Repubblica, tra defa-ticanti e improduttive votazioni, andavano avanti per giorni. Carlo, come detto, era il respon-sabile dell’edizione pomeridiana del Corriere. Tra informazioni e contatti con i giornalisti che a Roma seguivano le votazioni, prima di quella che sarebbe stata l’ultima, dedusse, ovvia-mente senza nessuna certezza, che Pertini sarebbe stato eletto Presidente.Mentre faceva partire le rotative del giornale con il titolo a caratteri cubitali a tutta pagina Pertini Presidente, in Parlamento prendeva avvio la votazione. Carlo e tutta la redazione erano incollati al televisore. Quante palpitazioni, quante unghie rosicchiate e quante impre-cazioni lungo tutto lo spoglio delle schede! Alla fine un urlo liberatorio: Pertini era il nuovo Presidente! E Il Corriere d’Informazione fu il primo giornale sulle piazze a darne la notizia.E se Pertini non fosse stato eletto? “Sulla scrivania era pronta la lettera delle mie dimissioni” era stata la sua risposta. Che straordinaria pagina di giornalismo di altri tempi!

Carlo ne era orgoglioso, anche se, per una certa modestia che lo caratterizzava, non ne ha voluto mai scrivere.

È con questi ricordi che salutiamo Carlo,con cui è stato bello fare un tratto di strada assieme.

Michele Jagulli

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C O L O R I F I C I O

S T U F E A L E G N A E P E L L E T

C A M I N I

P O RT E E C O N T R O T E L A I

C A S A L I N G H I

I D R A U L I C A

G I A R D I N A G G I O

M AT E R I A L E E L E T T R I C O

S C A L E E T R A B AT E L L I

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Grand

Le mie e le altre montagneL’aggettivo “mie” non ha quel significato che di solito comunemente si attribuisce a mio, tuo.... Tuttavia, mi pare lecito parlare di “mie” perchè sono le montagne che mi hanno silenziosa-mente educato plasmando la mia consapevolezza nella quotidiana contemplazione delle molteplici variazioni che subiscono con il passare del tempo, delle stagioni e, anche, durante le ore del giorno, a causa delle mutazioni che avvengono sui loro “vestiti” (boschi, rocce…). Qualcuno dirà che questo è un modo particolare di vivere la montagna. Molto probabilmente lo è. Il Tesoro della montagna non si riduce ad una entità geografica, territoriale, amorfa ma ad una realtà visibile, condivisibile e vissuta con cui mi sono confrontato in momenti diversi della mia fanciullezza ed adolescenza. Da questo coinvolgimento sono scaturiti sentimenti di stupore e di meraviglia, ma anche di ansia e preoccupazione per la forza immane e, a volte, rovinosa che la montagna esercita con la sua maestosità e potenza. È stato sull’onda di questo dialogo, nei primi anni della mia vita e perlopiù silenzioso, che il mio animo è stato (inconsapevolmente allora!) caricato di certe sensazioni che ancora adesso mi porto dentro come un bagaglio invisibile. È anche servito, come in qualsiasi altra situazione umana, a for-mare dei parametri di valutazione per esprimere un “ giudizio” su altre montagne, a fornirmi degli occhiali invisibili con cui ho ammirato e soppesato le montagne di altri luoghi. Le “mie” montagne mi hanno accompagnato nel mio viaggio, come se avessi accanto un compagno, in molte zone del nostro pianeta dove la mia esperienza di missionario per gli emigranti mi ha provvidenzialmente portato. Ho anche scoperto che oltre alla nostra tradi-zione giudeo-cristiana, dove la montagna assume valori e connotati quasi divini (pensiamo al monte Sinai e ai salmi della Bibbia dove la montagna viene citata!), altre tradizioni letterarie e religiose, nei loro scritti e nelle loro riflessioni, svelano un’attenzione e una passione parti-colare per i luoghi sopraelevati. Il mondo pagano era solito costruire i propri templi su alture perchè, visti dalla pianura sottostante, obbligavano ad alzare gli occhi verso i cieli residenza abituale delle loro divinità, anche se l’ascesa ripida poteva diventare un’evidente sfida per i meno giovani. Tutte queste sensazioni ed emozioni mi hanno colpito e travolto ogni volta che mi son trovato di fronte a valli e cime fino allora sconosciute. Quante volte sono rimasto let-teralmente sbigottito per la loro ampiezza: come di fronte al Grand Canyon sulle montagne rocciose degli Stati Uniti!

Canyon80

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Il costante lavorio di erosione, durato millenni, ha scavato profondi tunnel e ogni superficie è così priva di vegetazione da lasciare nel mio animo un sentimento contrastante tra paura e meraviglia davanti al cambiamento costante e continuo del territorio. Come una ferita che non si rimargina. Anzi, essa viene lentamente lacerata in uno sforzo titanico dagli elementi di madre natura. Anche nella nostra valle è avvenuto qualcosa di simile quando, recentemente, l’alluvione ha lasciato i suoi segni.Diverse sensazioni suscitarono le montagne della Scozia, tutte ricoperte di verde ma non sempre di vegetazione d’altofusto. Le piogge abbondanti e i venti gelidi e freddi, che rischiano di portarti via le orecchie, fischiano a non finire e accompagnano i giorni e le stagioni del popolo scozzese che ha trovato il modo di difendersi dal freddo, dalla pioggia e dalla neve sorseggiando dell’ottimo whisky. Diverse le zone pianeggianti della Gran Bretagna dove, per diversi mesi all’anno, il carattere flemmatico inglese non perde la pazienza nonostante sia immerso in una nebbia che non ti permette quasi di sognare. Quella stessa bruma o fitta nebbia che mi ha avvolto, alcune mattine della scorsa estate del 2011, a Lenna: minacciosa e scura come una strega che voglia accaparrarsi una valle che non è mai stata sua. E non lo sarà mai.

Altra cosa è la Cordillera delle Andeche serve da confine tra Argen-tina e Cile. Nel 1974 ebbi la for-tuna di approdare, direi clande-stinamente, a Santiago del Cile. Sull’aereo proveniente dall’isola di Pasqua avevo incontrato il capitano che molto gentilmente mi aveva invitato a visitare San-tiago (poco dopo il golpe di Allende).All’aeroporto una limousine ci aveva accolto ai piedi della scaletta dell’aereo e, per tutto il giorno, il capitano si prodigò

Grand

Scozia

Ande

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per illustrarmi la città, adagiata ai piedi delle Ande, con i suoi palazzi crivellati da colpi di can-none. La sera mi accompagnò alla sede della missione scalabriniana nel centro della città. I Padri mi attendevano preoccupati per il mio ritardo. Dopo aver spiegato loro quello che era successo all’aeroporto di Santiago, il Padre Superiore non nascose la sua evidente sorpresa perchè ero entrato in Cile senza passare i dovuti controlli e senza nessun “entrada” sul passaporto. Due giorni dopo, prima di riprendere il volo per Buenos Aires, trascorsi diverse ore in questura cercando di spiegare come mai sul mio passaporto non esistesse alcuna attestazione di arrivo nella capitale cilena. Una volta salito sull’aereo, quale non fu la mia sorpresa nel vedere lo stesso capitano sul volo diretto a Buenos Aires! Cordiale e sorridente mi comunicò che, date le ottime condizioni meteo, avrebbe tentato di individuare dall’alto il luogo, sulle Ande, dove era precipitato un areo: si racconta che alcuni superstiti per soprav-vivere avessero fatto ricorso, per sfamarsi, a pratiche di cannibalismo (ne è stato tratto anche un film)! I vari passaggi e le evoluzioni per la ricerca del famoso sito non approdarono a nulla. Nel frattempo, pero’, ebbi la fortuna di poter ammirare la maestosa vastità delle Ande. Altra cosa le Alpi...! Mentre sorvolavamo, non senza qualche brivido e sudori freddi, queste enormi distese di cime innevate, di ghiacciai eterni così immacolati, mi sono venuti in mente i canaloni del Menna ancora innevati nella tarda stagione primaverile. La montagna è molto bella vista dal basso, ma vista dall’alto fa venire i brividi.

Negli anni settanta mi trovavo nella città di Melbourne, la seconda metropoli australiana. L’Australia è il continente più arido e anche più piatto. Le due cose vanno a braccetto. Gli unici rilievi montuosi, di una certa importanza, si trovano al confine dello stato del Victoria, dove si trova la capitale Melbourne, con l’ACT (Australian Capital territory) dove è situata la capitale Canberra. Non ricordo per quale ragione, ma alcuni amici italiani mi invitarono a fare un giretto in auto per ammirare la cima piu’ alta delle montagne australiane. Dopo quasi otto ore di auto raggiungemmo la capitale Canberra, da qui inizia, sempre in auto, l’ascesa verso Mt. Kosciuszko, la cima più alta in Australia circa 2228 m Dal villaggio di Thredbo, località sciistica invernale, si può godere la vista di questo monte. Non ho potuto celare la mia mera-viglia. Rimasi attonito constatando che la cima più alta dell’ Australia consisteva in pendii erbosi, incoronati da sparuti speroni di roccia, il piu’ alto dei quali raggiunge l’altezza sopra indicata. I miei due compagni, meravigliati per il mio malcelato disinteresse, mi chiesero il motivo della mia indifferenza, al che risposi (forse in modo molto ironico): “abbiamo fatto così tanta strada per ammirare un ciuffetto di roccia!” Una regola d’oro nella vita è sapersi accontentare.

Attualmente vivo nella città di Adelaide. Alle sue spalle si innalza la collina più alta di tutto lo stato del Sud Australia, quattro volte più grande dell’Italia, che raggiunge l’altezza di m 727. La cima di questa “collinotta”, sede di un ristorante e un souvenir shop, è corredata da una torre di guardia che scruta, 24 ore su 24, la zona sottostante per possibili incendi boschivi.

Kosciuszko82

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I pendii delle colline sono ricoperti da una vegetazione quasi sempre omogenea: si tratta dei famosi eucalyptus australiani con poche foglie e molta resina, potente miccia per incendi devastanti anche a causa della forza del vento di tarda estate ed in autunno. Mt. Lofty signi-fica “la montagna bella” (Mount Lofty), ma messa a confronto con i calunghei, che non sono quel gran che, sfigurerebbe. Ma chi si accontenta gode!

La mia esperienza missionaria, per grazia del Signore, mi ha fatto trascorrere un periodo nelle isole Filippine, dove ho trovato la montagna più bella che abbia mai visto: è il Mayon vulcano, a circa 300 km a sud di Manila, che si innalza gradatamente e simmetricamente su una vasta zona, padrone incontrastato come un gran signore. La circonferenza della base misura circa 20 km ed ha la forma di un triangolo perfetto, e raggiunge in altezza i 2460 m. Di solito fuma pacificamente quasi a tranquillizzare i numerosi contadini che dalle sue falde fertilissime ricavano molti prodotti tipici della zona tropicale: frutta e verdure di ogni specie. Ma all’improvviso... ecco.... si arrabbia e allora..... si salvi chi puo’. Anche gli abitanti della vicina città di Legaspi, a 20 km circa, hanno sperimentato cosa significhi la furia del “gigante buono”, così lo chiamano i contadini. La prima volta che lo ammirai la vetta, da circa 200 m fino a 50 m dal cratere, era coperta di neve. Immaginate il sole del tramonto, sempre così breve nella zona tropicale, che illumina le pendici del vulcano: piuttosto scure alla base mentre in alto svetta l’anello bianco della neve, ed un piccolo pennacchio di fumo che esce stanco dalle narici del vulcano!

Ringrazio il CAI di Piazza Brembana per questa opportunità: raccontare le meraviglie di altre montagne per poterle confrontare con le “mie”. Grazie perchè si fanno promotori delle bel-lezze naturalistiche e panoramiche della montagna, diamante vivo su cui viene incastonata la storia quotidiana di tutti noi. Strano!.... come in questo viaggio nel mondo delle montagne, le “nostre” siano state presenti nella mia consapevolezza più di quanto avessi immaginato nei miei anni verdi. La speranza è che la mia esperienza possa essere un invito a coltivare con passione e vivacità il Tesoro della montagna…La cosa di cui sono certo è che per me è avvenuto così.

Nino PaganoniMissionario in Australia

Mayon

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Un ricordo di Nino RonzoniIl 6 luglio del 2011, in una splendida giornata di sole invernale, a Buenos Aires moriva Nino Ronzoni, esattamente 64 anni dopo quel lontano aprile del 1947 in cui si imbarcò al porto di Genova su una nave della Costa per la lontana Argentina. Non un emigrante costretto dalla miseria, ma un uomo libero spinto dal desiderio quasi irrefrenabile di spazi e orizzonti più vasti. Parte con una valigia piena di sogni, la mente aperta alle novità di una vita solo immaginata, il cuore pronto a nuove emozioni.La sua fortuna si incarna in una tavolozza di colori che, attraverso varie fasi della vita, si concretizza in gallerie d’arte (Rincon Artistico, Galeria America) in pieno centro di Buenos Aires, frequentate dalla buona borghesia della capitale. Sarà la sua fonte di notorietà e di benessere. Non so se Nino sia stato un grande pittore. Egli, con l’ironia acuta delle persone intelligenti, amava ripetere: “Sono un buon mestierante. Riesco con una certa facilità a riempire una tela che alla fine risulta sempre gradevole e cromaticamente armonica”.Certamente è stato un grande artista nel senso d’annunziano del termine: una vita dedita al bello e vissuta tra cose e persone piacevoli: bel mondo, artisti di fama (grandi pittori argentini come Raul Soldi, Vito Campanella, R. Forte, A. Ciochini l’hanno onorato della loro amicizia), grandi nomi dello sport (basti ricordare il suo rapporto con il mitico Fangio), il golf (si è classificato secondo nel torneo nazionale argentino la “Cancha Municipal” del Golf di Buenos Aires). La sua affabilità unita a una evidente bellezza è stata una componente importante della sua fortuna americana.Solo per questo si può dire che Nino sia stato un grande uomo? No, certamente.Sono altre le qualità che lo hanno reso tale.Bastava bussare alla sua porta per accorgersi della delicatezza del suo animo. Una testa bianca, occhi vivaci, dolci e affettuosi ti accoglievano con una franchezza e una dolcezza che mai ti saresti potuto immaginare ad un primo incontro. Questa sua naturale disponi-bilità diventava gioia manifesta, premura particolare, accoglienza calorosa se eri italiano e venivi dalla sua terra d’origine: la Valle Brembana. Molto probabilmente qualcuno ha mangiato alla sua tavola senza ricordarsi nemmeno di dire grazie. Lui non se la prendeva per questo: un sorriso indulgente era il segno evidente che aveva capito e che scusava questa indelicatezza. Nessuno è uscito da casa sua senza avere in mano uno dei suoi quadri, che ultimamente, pur valendo una discreta fortuna, aveva quasi accatastato alla buona in un deposito. Nino, che si dichiarava non credente, era un cristiano di fatto: tanti hanno potuto usufruire della sua magnanimità, non ultimo anche il nostro vescovo Carmelo Ruffinoni che dal Bra-sile è andato a trovarlo più di una volta e non credo sia tornato tra i suoi poveri fedeli a mani vuote. Il suo benessere lo portava addosso come un abito di qualità, di buon gusto, mai appariscente: non era un parvenu; la sua generosità prendeva le fattezze della normalità.Ripeteva spesso di aver avuto una vita bella, piena, felice; una famiglia di cui andava orgoglioso e da cui era amato; e concludeva che morire era un evento da accettare senza grandi drammi. E così è morto, quasi un antico epicureo, nella sua decorosa casa tra quadri e musica, l’altra passione della sua vita. L’unico suo dispiacere era la perdita della vista che non gli permetteva di leggere e di sfogliare gli album delle sue fotografie. Un filmato sui suoi innumerevoli viaggi si chiude con una scena di un gabbiano che, ad ali spiegate, è sospeso tra cielo, mare e terra. Secondo me è l’immagine che meglio rappre-senta Nino: una vita quasi sospesa tra realtà e immaginazione, tra sogni e inconvenienti, comunque accettati, del vivere.

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La sua terra può, con un certo orgoglio, dire di aver avuto in lui un buon ambasciatore nel mondo: chiunque lo ha conosciuto ha potuto sicuramente credere che la Valle Brembana sia culla di disponibilità, di accoglienza, di onestà accompagnate ad una fantasia che ha la potenza di attraversare e penetrare mondi e realtà sconosciuti. Una volta ha chiesto di poter avere due stelle alpine quale ricordo delle proprie Alpi. Richie-sta carica di una tenerezza quasi commovente: lui che poteva permettersi di avere quasi tutto ciò che desiderava, sentiva il bisogno di toccare qualcosa che gli ricordasse un mondo ormai perduto ma mai dimenticato.È questa l’immagine con cui lo vogliamo ricordare.

Adios, Nino! Michele Jagulli

ANNUARIO 2011-2012 RIFLESSIONI - CULTURA

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1926“Giallo” in grigioverde su sfondo biancoLa storia è di quelle che “addoloran la vita militar”, come dice la vecchia “canta” della naja. Senz’altro, ai tempi, essa suscitò commozione, non solo a San Giovanni Bianco, ma oggi chi la ricorda? Giusto i parenti dello sventurato protagonista. La ricavo da un ingiallito ritaglio de “L’Eco di Bergamo”, ripescato per caso tra i fogli di un mio taccuino dimenticato in un cassetto. Passo la parola al giornalista d’antan (27 gennaio 1926): “La 46° compagnia alpini che è di stanza a Tirano uscì venerdì mattina per una delle sue escursioni e da Lovero in Valtellina si era diretta a Martirolo contando di poter raggiungere in serata la Val Camonica e quindi per il passo dell’Aprica fare ritorno a Tirano. L’escursione, data l’altezza della neve che in alcuni punti della montagna superava il metro, sino a toccare gli zaini dei soldati (che dovevano sgobbarsi anche fucile e munizioni -n.d.r.), procedeva lenta ma regolare. Sennon-ché al passo di Guspessa presso l’alta Foppa, la compagnia, che faceva ogni sforzo per non perdere i contatti con tutti i suoi elementi, fu presa in pieno nella tormenta che in quel punto imperversava maledettamente. Pure resisteva allo schianto - a narrare è sempre il cronista del quotidiano bergamasco - e proseguiva nella discesa verso la Val Camonica toccando le falde del monte Padrio e poteva verso sera giungere a Cortenedolo, cioè un paesetto fra Val Canonica e Valtellina. Ma un gruppo di tre alpini, perso il collegamento, era rimasto molto indietro dal grosso delle compagnia verso l’alta Foppa. Fra essi vi era l’alpino Giuseppe Gavazzi di anni 25 da San Giovanni Bianco, che accusava stanchezza e mal di montagna. Il piccolo drappello ha passato davvero un brutto quarto d’ora nella solitudine desolata della montagna e mentre la notte cadeva.A un certo punto il Gavazzi è caduto ed ogni sforzo per risollevarlo è stato inutile.Egli era morto assiderato. Quando fu possibile, giunsero gli aiuti dei compagni e il povero Gavazzi fu portato cadavere a San Pietro d’Aprica e deposto nella chiesa”.Da alcune mie ricerche: l’alpino, vittima della “morte bianca”, apparteneva a una famiglia d’emigranti, boscaioli e carbonai in Francia, sorte comune allora a tanti altri valligiani del Brembo. Consigliato dal padre, era rimpatriato per adempiere il servizio militare e mettersi cosi in regola con la legge. Infatti, al momento della chiamata alle armi della sua classe (il ‘900, i primi “scaglioni”, diciottenni, avevano, partecipato alle ultime fasi della Grande Guerra), trovandosi all’estero, non s’era presentato, buscandosi automaticamente sul foglio matricolare l’annotazione di “renitente alla leva”. Ecco il motivo per cui, in tempo di pace, que-sto venticinquenne si trovava in grigioverde, quando i suoi coscritti erano da anni in congedo. Debbo queste notizie alla cortesia della signora Locatelli Begnis, nipote del povero Gavazzi. “Perché lo zio fu abbandonato lassù al gelo? Almeno uno dei compagni non poteva fermarsi

Valle Camonica

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ad assisterlo nella baita sperduta dove l’avevano ricoverato? “si chiede la mia informatrice che, all’epoca della tragedia, non era ancora nata. Conobbe la luttuosa vicenda dalla voce della sua mamma, sorella della vittima (Caduto, forse, va meglio). Magari - azzarderei lì lì risponderle - perché i commilitoni temevano, non rientrando per tempo al reparto, di passare guai con il codice militare. Il padre della “penna nera” morì, di crepacuore, pochi anni dopo: si rimproverava di essere stato la causa, sia pure involontaria, della immatura scomparsa del figlio. Dall’atto di morte, trasmesso per la trascrizione dal comune di Corteno a quello di San Giovanni Bianco, si apprende quest’altro particolare: il soldato Giuseppe Gavazzi morì “all’aperto, in località Monte Padrio, alle ore 11,30’’. Il soldato fu sepolto nel cimitero dell’Aprica. Mi domando se il suo nome non potrebbe degnamente figurare sulla lapide dei Caduti sangiovannesi. Con le precisazioni del caso, va da sè.

Bernardino Luiselli

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Fotografie itineranti ai confini del mondoQuella per la macchina fotografica è sempre stata per Luciano Lavadini una passione. Per tanto tempo sopita e lasciata nel cassetto, è tornata prepotentemente nell’ultima decina di anni. Una passione fatta di fotografie di casa sua: uccelli e tanti altri animali della nostra Valle. Ma i boschi di Mezzoldo, dove vive con la famiglia, a Luciano già an-davano stretti. E nel 2009 un incontro gli ha cambiato la vita. A Milano Luciano incontra Edoardo Agresti di Firenze (www.edoardoagresti.it), professione fotografo, quello che in gergo tecnico viene chiamato un NPS (un membro del Nikon Professional Service). Per quell’autunno l’Agresti organizzava un viaggio in Mongolia e Cina, un’occasione a cui Luciano, insieme a un piccolo gruppo di amatori, non può mancare. Ciò che emerge dal racconto di Luciano, però, non è il solito viaggio turistico organizzato in modo efficiente e ricco di comforts: per fare foto, foto che colgono l’anima delle persone, ci vuole pa-zienza, dedizione e sacrificio. Ci si dimentichi quindi di pose e cavalletti: lo spirito della popolazione va colto negli sguardi dei bambini, nelle mani dei lavoratori, nei mercati, nelle cucine fumose dei villaggi più sperduti, nei giacigli improvvisati dei nomadi mon-goli. La meta principale del primo viaggio in Mongolia, infatti, è proprio il “Festival delle aquile”, una manifestazione tipica fra i nomadi in cui emerge tutta l’arte della caccia con questi animali. La presenza del gruppo di fotografi italiani è un evento per quella povera gente tanto da far ripetere il festival, con ancora più entusiasmo, il giorno in cui arrivano i nostri viaggiatori. Luciano per la prima volta vive sulla sua pelle le emozioni di un viag-gio fotografico: si raggiunge una stazione e poi subito un’altra, un porto e poi un altro, si improvvisano orari e spostamenti; soprattutto, però, si vivono momenti particolari e suggestivi come intere nottate passate a discutere di fotografia o coricati con i nomadi mongoli. Dal Kazakistan (http://www.aysenurum.com/it/state.php?iso=KAZ), il gruppo di

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foto-amatori, guidato da due professionisti, raggiunge la capitale mongola Ulan Bator per poi partire a bordo della Transiberiana verso Pechino, in Cina. Per scoprire, anche qui, nuovi volti, nuove storie. Dopo un anno Luciano, sempre con il piccolo gruppo di appas-sionati fotografi, è diretto in Tanzania. L’obiettivo, anche in questo caso, non è puntato verso soggetti classici e anche un po’ scontati del turista, come gli animali dei parchi na-zionali, ma piuttosto verso la vita vera e pura della popolazione. Nel nord della Tanzania Luciano segue con passione il processo produttivo del sisal, una fibra vegetale che viene coltivata in piantagioni e ricavata dall’agave, per poi essere fatta seccare e lavorata dalle mani esperte africane. Dall’unione sapiente di queste fibre, che sembrano fragili come capelli, si possono costruire stuoie, cappelli o tappeti. Anche il sud della Tanzania riserva ai fotografi delle sorprese. Qui si decide di seguire la coltivazione del Syrium, un fiore che poi raggiunge i mercati fioriti dell’Olanda. Il viaggio nel novembre del 2011 ha per meta il Bangladesh. In particolare, si sceglie come evento cardine il Festival Raash Mela che si tiene nel Parco Nazionale di Sundarbans, sull’immenso delta del fiume Gange. Si tratta di una festa religiosa induista che si svolge all’alba e che richiama centinaia e centinaia di piccole imbarcazioni di pescatori per compiere un rito purificatorio di immersione. Da qui il piccolo gruppo raggiunge di nuovo la capitale Dhaka per poi partire per Chittogong, al confine con la Birmania. È durante quest’ultimo viaggio che Luciano e il resto del grup-po scoprono quanto può essere calorosa e accogliente la povera gente. Sotto il profilo umano sicuramente risulta il reportage più emozionante e arricchente. I musulmani che vivono in Bangladesh, lontani dall’essere intolleranti e fondamentalisti, accolgono con curiosità e disponibilità il gruppo di italiani, aprendo le loro vite agli scatti delle macchine fotografiche. Con orgoglio e pazienza. E quando uno del gruppo si smarrisce tra la folla, non c’è bisogno di chiedere aiuto: qualcuno del posto, pur non conoscendoti, è già pronto a darti una mano o un’indicazione. Gesti che dovrebbero fare riflettere noi italiani. Lucia-no pensa già al nuovo viaggio che a febbraio 2012 lo porterà ancora in Asia, questa volta in India. A partire con lui un gruppo ristretto di fotografi da cui tutto è iniziato, compresa una bella amicizia.

Michela Lazzarini

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Bàresi - Il parco delle libertàRisalendo la Valsecca di Roncobello, a monte di Bordogna e aggirato il cimitero di Bàresi, lo sguardo è sorpreso da una improvvisa luminosità. Verdi prati vestono le morbide on-dulazioni di antiche morene glaciali e danno risalto alle costruzioni del borgo che fanno da fondale. Dal mezzo meccanico che ci trasporta troppo velocemente l’occhio afferra forme sfuggenti; ci si deve fermare per definire immagini di strutture inusuali e un alto Albero imbandierato; serve qualche istante per capire: sono grandi massi rocciosi, sculture e installazioni in legno e in pietra, aiuole fiorite. Nell’occasione di alcune festività risaltano sul prato i colori di cento bandiere. Aggirato il prato, una grande bacheca sintetizza con tre date - 1794, 1945, 2008 - due secoli abbondanti di storia; storia di Bàresi, d’Italia, d’Europa.Nel 1794 il vento della Rivoluzione francese raggiunge Bàresi tramite due emigranti che in-nalzano - primato nei territori della Repubblica di Venezia - l’Albero della Libertà. Saranno subito arrestati, deportati a Venezia e condannati (1). Ma il dominio di Venezia cesserà dopo solo tre anni. Nel 1945, il 25 aprile giornata della Liberazione, la popolazione di Bàresi, memore dell’antico fatto, rinnova l’avvenimento ed erige l’Albero della Libertà te-stimoniando la fine di un periodo di oppressione e atrocità. Nel 2008, il 18 maggio, nel 60° anniversario della Carta Costituzionale d’Italia, “La Compagnia dei Libertari”, associazione di promozione sociale nata a Bàresi nel giugno del 2007, inaugura il parco di cui stiamo parlando, riproponendo per la terza volta nella storia il simbolico Albero della Libertà.

Fin dagli anni precedenti la Rivoluzione Francese gli Inquisitori della Repubblica Veneta avevano imposto la censura, che era divenuta man mano sempre più pesante negli anni successivi, su “i perniciosi libri e fogli…aspersi del veleno delle moderne massime della Francia” e una ossessiva sorveglianza sui teatri, sulle conversazione nei caffè, sui fore-stieri, nel tentativo di “allontanare ogni mezzo che insinuar possa ne’ sudditi l’adesione alle perverse dottrine…”. Quei sudditi, nostri avi, che gli Inquisitori veneti, censurando un parroco “uomo di talento, ma infetto delle moderne massime” definivano “idioti suoi parrocchiani”. Le risposte che sono venute dalla storia hanno rimesso le cose al loro posto e oggi possiamo considerare il Parco delle Libertà come la più recente di queste risposte. Qui possiamo trovare le memorie storiche: nella pietra e nel legno gli elementi del territorio, nei manufatti le capacità degli uomini che li hanno trasformati; nelle bandiere lo spirito universale che unisce i popoli.

Il visitatore, nel percorso che lo guida tra le diverse installazioni, potrà raccogliere impres-sioni ed elaborare riflessioni, guidato dalla sua sensibilità e dalle sue esperienze. Il sentiero lo accompagna attraverso due temi: la geologia della Valsecca, raccontata dalle rocce che caratterizzano il luogo e l’arte che, tramite la mente e le mani dell’artigiano/artista, trasforma la materia grezza in oggetti esteticamente validi che rivelano i suoi senti-menti… “l’arte che supplisce ai difetti della natura”. Nel primo tema i prodotti preparati dalla natura, nel secondo quelli elaborati dall’intelligenza umana: due eventi straordinari.Nel primo tema una storia lunga milioni di anni che racconta la formazione di queste rocce. A dire il vero, la storia è di miliardi di anni e racconta la vita di quelle particelle di materia - atomi - che si organizzano a formare minerali, i quali si aggregano a formare le rocce, che sprofondano e poi magari si sollevano a formare le montagne, che poi si disgregano e i cui detriti sono trasportati dalle acque e… poi tutto ricomincia da capo, non proprio come prima magari, ma sempre in modo naturale. E così capita che quell’atomo primigenio che era finito in una conchiglia marina, dopo un viaggio iniziato duecento milioni di anni fa, lo

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Bàresi - Parco delle Libertà - Scorcio

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ritroviamo in una roccia del Menna che si erge lì di fronte, a 2000 metri sul livello del mare. Già, perché le montagne a sud di Bàresi sono calcari di origine marina che contengono, in forma di fossili, molte di quelle conchiglie, e nel Parco ne troviamo una campionatura. Ma nello stesso Parco c’è anche il Verrucano, roccia molto differente sia per l’aspetto che per la composizione chimica ed è quella su cui poggiano le case di Bàresi e formano i monti a nord: Cima Bàresi, Pietra Quadra, Passo di Mezzeno, ecc. Un atomo di queste rocce non è mai stato al mare, almeno negli ultimi trecento milioni di anni, è stato al lago… ma la storia diventa lunga. Meglio visitare il Parco di Bàresi e leggerla nelle targhe esplica-tive o farsela raccontare da un esperto, avendo sotto gli occhi i massi di rosso e variegato Verrucano, di grigio calcare con e senza lumachelle e dei recenti conglomerati.

Nel secondo tema un’altra storia altrettanto lunga, un po’ più complicata; la continuazione della prima. Perché l’organizzazione delle particelle di cui sopra - che non sono poi tante:

Particolari di alcune opere installate

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una novantina, ma le fondamentali molto meno - porta alla formazione delle molecole e quindi delle cellule, che sono i mattoni di tutti gli organismi viventi. Quanto tempo per passare dalle più semplici forme di vita - gli organismi monocellulari - alle complesse forme di vita vegetali e animali; e quanto ancora per arrivare al genere umano con le sue meravi-gliose capacità di pensiero e azione! E sempre utilizzando alcune di quelle particelle, che sono comuni alla materia inanimata, a tutte le forme di vita, al cervello umano; che sia di un Indigeno dell’Amazzonia, di un artigiano/artista delle Alpi, di un genio della scienza: tutti in grado di pensare, di elaborare strategie per risolvere i problemi della vita, di manipolare la materia per realizzare oggetti utili al corpo e allo spirito. Ognuno a suo modo e con abilità differenti ma tutti adeguati alle necessità. Anche nelle opere che il parco propone si pos-sono identificare modalità individuali differenziate nel dar forma all’oggetto artistico: nella raffinatezza dei dettagli, nell’essenzialità delle forme, nel mantenimento di figure abboz-zate dalla natura. Le installazioni, lignee o in pietra, testimoniano i differenti orientamenti e stili. Qualche autore proviene da altre valli ma tutti appartengono a quella civiltà che la vita di montagna ha generato nei secoli e nel mondo e che sopravvive, nonostante tutto. Per il visitatore il percorso per esplorare il Parco è breve ma denso di spunti; le panchine dislocate sul sentiero invitano alla sosta, all’osservazione e alla riflessione. Comodamente seduti, questo raccolto spazio può essere confrontato con l’ampio e affascinante panorama della Valle a cui appartiene e dalla quale provengono i materiali utilizzati per le installazioni.

Note(1) B.Belotti - “Storia di Bergamo e dei bergamaschi”

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14 Luglio 1977

Quello che conta è sognare. E quella volta il sogno mi era venuto sfogliando la rivista mensile del Club Alpino Italiano. Non ricordo esattamente dove mi trovassi in quel momento ma ero certo che quelle due pagine, quattro facciate con foto che descrivevano la normale italiana al Monte Bianco, erano entrate dentro di me, le strappai dalla rivista e le misi nel cassetto delle cose importanti. In quel cassetto dove si conservano gli oggetti materiali o in quel cassetto della nostre mente dove si cullano i sogni. Non so esattamente perché fui folgorato da quella via di salita al Monte Bianco ma la sensazione di grande avventura che ne ricavavo sembra-va la logica conseguenza delle tante giornate trascorse sulle Orobie di casa.Bisogna necessariamente aggiungere che il boom economico italiano era già esploso da tempo ma non per tutti. Il pile e i gore-tex erano di là da venire per non parlare dei cellulari, di google e gps. La Valle d’Aosta era nota per essere una regione a statuto autonomo e la regione dove era situato il Monte Bianco, la cima più alta d’Europa.Questo appreso dai libri di scuola, in realtà poi nessuno aveva capito in cosa si traducesse questo essere autonomi, ma in molti appassionati di montagna avevamo ben chiaro dove era situata la cima più alta delle Alpi. La geografia godeva ancora di una sua dignità ed era ancora una materia degna di essere insegnata, il ghiacciaio del Miage rientrava tra le mie antiche rimembranze scolastiche. Erano anni di un certo fervore giovanile e di grande inno-vazioni. Io mi dibattevo tra i Decreti Delegati il mattino, una officina meccanica il pomeriggio e un sano alpinismo nel tempo libero. L’importante era esserci; che poi si trattasse di una manifestazione studentesca o di una montagna poco contava ma il desiderio di partecipa-re era sempre presente. L’apparire di cui si nutre il presente non era del tutto assente ma sicuramente era un dilettante al confronto della realtà attuale. E anche l’alpinismo non ne era immune, ognuno viveva arroccato sui propri successi e guardava con supponenza tutto quello che si affacciava al mondo.

Bianco

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Sbatto la portiera della mia 126 Fiat e ci chiudo dentro tutte le mie incertezze, giro la chiave con una certa lentezza, controllo che i miei fogli guida siano in tasca e mi avvio verso il lago del Combal, risalgo il ripido sentiero che mi porta sul ghiacciaio del Miage. Faccio fatica a mettere in ordi-ne tutto quello che mi passa per la testa, essere qui è già un successo. Il ghiac-ciaio del Miage sembra infinito, l’Aiguilles de Trelatête e l’Aiguilles Grises fanno da cornice, molte altre cime mi sono del tut-to sconosciute. So per quello che ho letto che questo ghiacciaio lo devo percorrere in tutta la sua lunghezza, i rumori che pro-vengono dalle pareti circostanti mi provo-cano una certa apprensione solo in parte sopita dal fatto che nessuna frana può rag-giungere il percorso che si snoda al centro del ghiacciaio molto distante dai pendii. Il tratto di percorso sul ghiacciaio è lungo forse più di cinque chilometri, si cammi-na su morena detritica che ricopre in ogni

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dove il ghiaccio. Il ghiaccio quando si ma-nifesta lo fa con fenditure dall’aspetto non proprio tranquillizzante. Essere qui solo mette una certa tensione ma è una scelta e questo la rende tollerabile. I contrasti che vivo intensamente mentre avanzo mi fanno un po’ barcollare le certezze, a casa non sanno neanche dove sono ma non posso legare la mia sete agli affetti. Per rimettere in equilibrio i pensieri che mi tormentano mi riprometto di riportare a casa la pelle integra per non seminare dolore, come se dipendesse solo da me. Pensarlo mi fa stare meglio. Sono inebriato dagli elemen-ti naturali che mi circondano; trovarmi a così diretto contatto mi provoca una spinta emotiva unica.Sono a metà ghiacciaio, ho letto che in alto dovrei vedere il puntino giallo del rifugio Gonnella, il ghiacciaio del Dome alla mia destra confluisce nel Miage. Non avevo mai visto seraccate di queste dimensioni. Qualche blocco di ghiaccio cade fragoro-samente dai molti ghiacciai pensili sospinti a valle dalla gravità. Il rifugio non lo vedo semplicemente perché lo cerco molto più in basso di dove è situato. Quando alzo gli occhi e vedo il puntino giallo appeso sul costone roccioso che argina il ghiacciaio del Dome sono percorso da un brivido di

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sconforto. Il sole è già da un pezzo che non entra più nella valle.Oltrepasso di un bel pezzo la confluenza tra il Dome e il Miage e cerco come da descrizio-ne l’uscita dal ghiacciaio posta sulla mia destra nei pressi di un magro pascolo definito “La Chaux de Pesse”, un francesismo dialettale che indica i pascoli alti, probabilmente le ultime tracce di erba per i camosci. Anni dopo, in quella zona, per una ripetizione con amici, saremo vittime di una scarica di sassi che solo per fortuna e per la perizia del pilota dell’elicottero del soccorso alpino non si risolse in tragedia. Abbandonato il ghiacciaio, il sentiero sale prima in modo tranquillo ma poi in modo deciso sino a costringere ad alcuni passaggi di facile ar-rampicata. Mentre faccio una breve pausa vengo raggiunto da uno dei rifugisti sceso a valle a fare provviste, e mi conforta sulla vicinanza del rifugio; se ne va con passo molto spedito. Questo incontro mi dà una buona dose di tranquillità e in breve raggiungo il rifugio Gonnella che si manifesta quando ormai si è a pochissimi metri. Il tempo di ambientarsi e la cena è in tavola, sono solo questa sera al rifugio. Dopo cena una lunga chiacchierata con il rifugista dissolve gran parte dei miei dubbi. Scopro che alcuni ponti sul ghiacciaio hanno ceduto e quindi non va seguita la traccia più evidente ma una linea poco tracciata che passa più in basso e aggira due grossi crepacci. Come da previsione, il giorno successivo lo passo nei pressi del rifugio e in avanscoperta verso la cresta di Bionnassay per studiare un po’ il per-corso di salita; scoprirò solo il giorno successivo di aver gettato l’unica chance di un giornata spettacolare per raggiungere la vetta.

Dopo aver memorizzato e percorso in parte la via di salita attraverso il ghiacciaio, torno al rifugio. Giunge al rifugio un gruppetto di spagnoli che saliranno anche loro l’indomani. Un po’ di sole pomeridiano, la cena è servita molto presto e alle 20.00 c’è il coprifuoco in rifugio.La sveglia è prevista per mezzanotte e mezza, i pensieri mi tengono compagnia; chiudo oc-chio forse un paio d’ore e sento il richiamo del rifugista come una liberazione. All’una esatta sono fuori dal rifugio con i ramponi calzati, il rifugista mi butta li un in “bocca al lupo”. Gli spagnoli sono molto lenti e io mi avvio sul ghiacciaio con la luce della mia tor-cia. Il buio è totale e stelle non se ne vedono proprio. Il buio forse è anche un ottimo alleato nell’attraversamento di alcuni ponti e nella risalita di alcuni crepacci perché impedisce di percepire esattamente cosa mi aspetti in caso di errore. Quando sono quasi al termine del

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ripido pendio che porta sulla sulla affilata cresta di Bionnassay la torcia mi abbandona e non senza imprecazioni uso l’ultimo respiro della torcia per ricavare uno spazio per una sosta improvvisata su un pendio a 45°, un cordino passato in vita e legato alla piccozza conficcata nella neve mi dà tranquillità. Ho un paio di opzioni a disposizione e nessuna allettante. At-tendere gli spagnoli con le loro torce che però sono molto in basso e li vedo come dei puntini lontani o attendere le prime luci dell’alba. In meno di un’ora gli spagnoli arrivano sul ripido pendio e la luce dell’alba è sufficiente per ripartire. Ma è un’alba malata di nuvole e nebbie, mi avvio lungo l’affilata cresta incorniciata di neve verso nord. Una scivolata qui mi porterebbe direttamente in Francia circa 1600 m più in basso. Il Dome de Gouter dovrebbe essere alla mia sinistra ma non lo vedo.Ormai sono immerso nella nebbia, la traccia è evidente ma poi il vento deve averla cancel-lata, non riesco a intravedere la via da seguire, mi fermo aspetto gli spagnoli che mi hanno seguito sino qui. Realizzo che una decisione debba essere presa in fretta anche perché comincia a manifestarsi il rischio che la nebbia chiuda anche la via di ritorno rendendo i passaggi aerei ancora più insidiosi.Provo per la prima volta su di me il peso della rinuncia; sulle montagne di casa è tutto più facile puoi tornarci quando vuoi ma questo è il mio Himalaya. Tanto agognato e desiderato con la parte più difficile alle spalle, ormai sarebbe solo una lunga e faticosa camminata verso la cima del Monte Bianco. Sono sereno quando decido di rinunciare, le condizioni sono tali che non mi permettono di continuare in sicurezza. Il mio non è uno scontro o un confronto con la natura; non c’è competizione tra di noi, siamo alleati sia con il sole che con la nebbia. La mia sete è comunque appagata. Se fossi stato respinto dalla difficoltà tecnica avrei avuto lo stimolo a migliorarmi per poter andare oltre per superare l’ostacolo. Mentre scendo penso ad una scusa valida per giustificare la mia assenza da casa in questi giorni. Questa volta è andata così ma non mi sono scoraggiato, per calpestare la neve della vetta dovrò tornarci altre due volte.

Nota:Le foto sono scansioni di diapositive che hanno più di trent’anni e la qualità natural-mente ne risente, sono state scattate in tre occasioni diverse che mi hanno visto in azione su questo versante del Monte Bianco.

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(dal rif. Gonella 3.071 mt al Monte Bianco 4.810 mt)

Dal rifugio si percorre un facile e breve sentiero che può essere pericoloso per scariche di pietre, poco dopo si arriva a calpestare il ghiacciaio del Dôme che di per sé non dovrebbe presentare grosse difficoltà, se non fosse che l’estate così calda (2003) lo ha flagellato apren-do parecchi crepacci, questo ci obbliga a seguire con molta attenzione la traccia, dovendo così fare parecchi zig zag. Dopo circa cinque ore ci troviamo di fronte alla parte terminale del ghiacciaio del Dôme che sempre a causa delle elevate temperature si presenta ghiacciata con una pendenza di 45° e un’estensione di 30 mt prima dell’uscita su roccia tra il col des Aiguilles Grises e il col de Bionnassay, la quale potrebbe anche essere ricoperta da neve se l’estate fosse stata meno torrida; dalla cresta procedendo verso destra si arriva in breve tempo in prossimità dell’affilata cresta di Bionassay, la quale è molto suggestiva e richiede sicurezza di piede e fiducia nei ramponi. Poco dopo il percorso risulta più agevole, puntando in direzione nord est si passa nei pressi del Piton des Italiens (4.002 mt) da qui voltandosi indietro si può vedere l’ Aiguilles de Bionnassay. Procedendo in direzione nord est, superato il Dôme du Goûter s’incrocia la via normale francese che parte dal rifugio Gouter. Da questa via, che è assolutamente la più frequentata, arrivano decine di alpinisti che fanno rientrare un po’ nella civiltà dopo essere stati immersi in un ambiente assolutamente selvaggio. Dall’incro-cio in poi si segue la via francese che punta in direzione sud est. Dopo una leggera discesa si risale un tratto più ripido fino al Bivacco Vallot (4.362 mt), posto d’emergenza molto utile in caso di mal tempo. Da qui, spostandosi decisamente verso destra in direzione sud con una pendenza prossima ai 40°, si arriva in poco tempo sulla cresta de Bosses (4.500 mt circa), che seguita per tutta la sua estensione ci fa arrivare in un’ora in cima al Tetto d’Europa.

Claudio Locatellicllocate

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Ricordo di Walter Bonatti

In una tranquilla serata milanese di fine estate, un fattorino venne in redazione a dirmi che in anticamera c’erano due personaggi che cercavano di me. Erano due alpinisti, soggiunse il ragazzo, ed erano lì per una faccenda che ritenevano molto importante.D’accordo che conoscevo molta gente di montagna - e ai miei livelli, diciamo discreti, arram-picavo anch’io - ma, come cosa più importante, il giovane custode degli uffici del giornale disse che quei due lo avevano pregato di farmi sapere che erano due monzesi e facevano parte di un gruppo che era qualcosa di simile ai “Ragni” di Lecco, agli “Scoiattoli” di Cortina e ai “Bruti di Val Rosandra” di Trieste. Io, che per il giornale, come tutti i redattori mi dedicavo a molte cose, mi ero ritagliato un angolo di specializzazione che riguardava la montagna e l’alpinismo, quindi passai in rassegna, nella memoria, i principali rocciatori monzesi e chissà perché puntai su due giovani: Andrea Oggioni e Josve Aiazzi, forse non ancora famosi, ma sicuramente già molto noti. Puntai su di loro perché insieme formavano una cordata fortis-sima e soprattutto molto unita. Tanto che quando uno dei due dovette essere ricoverato per un attacco di ernia, l’altro decise di farsi ospitalizzare nel letto vicino, lamentando fantomatici dolori addominali. Così potevano chiacchierare di montagna e preparare programmi per le imprese future. C’é da dire che nel dopoguerra era esplosa una nuova, fresca generazione di alpinisti che, fermo restando il capoclasse Riccardo Cassin, stava proiettando alla ribalta gente come Bonatti, Mauri, Oggioni, Aste e se non se ne citano altri è soltanto per questioni di spazio. Non esitai più e dissi di fare entrare i due visitatori, visto che sapevo benissimo chi fossero, anche se non li conoscevo personalmente. Ero veramente contento, per non dire felice, di stringere la mano a due “mostri” delle pareti. I due ragazzi- venticinque anni Andrea e trenta Josve - avevano tracciato un po’ dovunque vie che figuravano tra le più belle nel nostro arco alpino.

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

Morale: avevo davanti a me due alpinisti che avevano sfiorato e artigliato appigli quasi invisibili e, benché non sapessi che faccia avessero, ammiravo da tempo le loro imprese. Era gente che andava in montagna con attrezzature vetuste, usatissime e giacche a vento e abiti a metà tra lo zingaro e i ragazzi abituati a portare sulle spalle o a recuperare dal vuoto, appesi alle corde, tutti i bagagli e gli zaini che avevano normalmente le dimensioni di un armoir.Quando finalmente li fecero entrare nel mio ufficio, pensai subito che qualcuno doveva avere sbagliato o avevano confuso due persone e capii che era venuto fuori un gran pasticcio.Uno di loro, Oggioni, non suscitava alcun stupore: era un robusto atleta, non molto alto, mas-siccio e solido come se fosse una statua di bronzo. In realtà era un operaio di una fabbrica monzese. L’altro, Aiazzi, non c’entrava per niente, almeno a prima vista: era agile anche lui ab-bastanza abbronzato, con un viso inconfondibile, lineamenti delicati, capelli biondi e ondulati. Insomma sembrava di tutto, ma non un sestogradista. Io pensai subito a lui come a un suona-tore di violino. Li invitai a sedersi di fronte a me e chiesi loro cosa li avesse condotti lì a quell’o-ra. Naturalmente dissi che li conoscevo di fama e li ritenevo tra i più forti degli arrampicatori europei, anche se la guerra, evidentemente, aveva fatto perdere loro molto tempo prezioso. Certo avremmo fatto di più - disse Aiazzi - e quando non arrampicava si occupava di tessuti e, più tardi, di plastica. Arrossendo un poco malgrado l’abbronzatura che non era di quelle tipo cioccolato, ma del tutto naturale e sana, cominciarono a parlare contemporaneamente, poi uno smise e la parola rimase a Oggioni che riassunse - ricorrendo spesso al dialetto brianzolo - una storia un po’ complicata.Tutto nasceva dal fatto che il recentissimo dopoguerra aveva richiamato l’attenzione su pareti vergini e ancora da conquistare e tutti ritenevano che la parete regina, la parete nobile fosse il pilastro Sud-Ovest del Dru, una guglia del Monte Bianco che raggiunge i 3733 metri. Era l’unica delle pareti del Dru a non essere stata vinta. Dopo una serie di tentativi falliti per le condizioni meteorologiche e altri contrattempi, ecco che ad affrontare il colosso si presenta una cordata veramente incredibile: c’erano Walter Bonatti, Carlo Mauri, Andrea Oggioni e Josve Aiazzi. Eppure anche questo tentativo fallisce facendo diventare quello spigolo del Dru una parete assolutamente impossibile. Per arrivarci occorreva superare tetti, che vuole dire sporgenze, di cinque metri che in un’occasione richiesero otto ore di lotta ininterrotta per guadagnare meno di centocinquanta metri. Una via così, sosteneva Oggioni, era più adatta a quattro arrampica-tori in due cordate piuttosto che due soli uniti in un unico legame. Leggere nel diario di Walter Bonatti quello che si deve affrontare sul Dru è veramente un’incredibile avventura tanto da richiedere complessivamente da quindici a venti ore giornaliere di lavoro in parete. A questo tempo si deve aggiungere un’altra ora e mezza per andare dalla seraccata finale all’attacco della parete vera e propria. Qui Bonatti, tenuto conto che si trattava della prima salita e quindi disseminata di incognite, impiegò sei notti, appeso alle corde, per altrettanti bivacchi, dal 17 al 22 agosto del 1955.L’uscita sulla cima fu qualcosa di simile all’arrivo su una piramide impastata di incubi e felicità in uguale misura. Ad attenderlo lassù c’erano anche grossi personaggi dell’alpinismo mondiale giunti, ovviamente, dalla via normale. Alle prime felici-

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tazioni via radio, che gli arri-vavano dal fondovalle, Walter si scusava ma rispondeva che era occupato: stava sbranan-do un pollo. Ecco di che cosa erano venuti a lamentarsi al giornale i due amici rivali. A loro sembrava che dopo alcuni tentativi falliti, condotti insieme, questa volta Walter aveva vinto da solo superando l’impossi-bile dell’ultima parete vergine del Dru. Forse a questo punto è meglio far parlare lo stesso Bonatti, che finisce per rispondere sia pure indirettamente a Oggioni e Aiazzi. Dopo l’impresa Walter disse: “La Ovest del Dru fa parte di quella categoria di pareti che pongono il problema della scalata a chiunque vi posi sopra lo sguardo”. Con altre parole, più modeste, ma forse più profonde, un anno dopo, mentre passeggiavamo in Val Veny, lui mi disse: “Una volta passavo di qui, ho visto il Dru e mi ha preso un senso di smania, una passione, un bisogno invincibile di provare ancora, e questa volta da solo”. L’errore professio-nale più grave fu soltanto mio: avevo preso tutto quello che mi avevano detto Oggioni e Aiazzi e lo avevo pubblicato pari pari, senza cambiare neppure una virgola. E Walter? Sembrava l’avessi dimenticato. Per oltre un anno Walter ed io non ci vedemmo più, non ci chiamammo mai al telefono, insomma ci ignorammo completamente. Eppure io ero suo amico e ho sempre condiviso il suo atteggiamento di fronte a questa impresa solitaria. Dopo tre tentativi - dal 1953 al 1955 - ho sempre ritenuto che lui avesse ancora tutto il diritto di affrontare di nuovo quella prova. Si trattava di rispettare anche soltanto quella decisioni: attaccare quella parete in soli-tudine doveva essere come perdersi nel nulla. Poi, come era giusto che fosse, gli scrissi una lettera. Conoscendolo non cercavo scuse: sapevo che lui non cercava rivincite. Con gli amici veri voleva soltanto chiarezza. Mi rispose e io andai a trovarlo a Courmayeur, dove allora vive-va e dove scriveva i suoi libri in un box sul retro della casa per non essere disturbato e lavorare tranquillo, come tranquillo era sempre in montagna. La sera andammo a cena alla “Maison de Filippo” e quando rientrammo lui viaggiò appollaiato, come in un bivacco, sulla coda della mia MG, veramente sereno e felice. Per chi ama le conclusioni logiche, direi che il Dru ha perso la lotta con l’uomo perdendo la sua verginità. Andrea e Josve non avevano né vinto né perso per-ché non avevano partecipato all’ultima fase della vicenda. Oggioni non c’era perché era andato nelle Ande per una spedizione dalla quale sarebbe tornato in tempo per trovare la morte - con altri tre compagni - nella notte tra il 15 e 16 luglio 1961 sul pilastro del Freney, al Monte Bianco. Lo avevo perso e straperso: avevo tradito il più elementare dei doveri di cronaca. Walter aveva vinto tutto: la scelta di andare da solo, la conquista della vetta per la parete “impossibile”; aveva avuto le mie scuse. Eppure sapevo benissimo che andare da solo all’attacco del Dru, per la parete Sud Ovest e riuscire ad arrivare in cima, richiedeva una somma di condizioni particolari, dall’abilità tecnica alla perfetta preparazione psicofisica, e tanto, tanto coraggio. Ma soprattut-to quel qualcosa di misterioso che è l’ispirazione. Quella che spiega la frase di Walter: “Quel giorno passavo di lì, ho visto il Dru e ho deciso”.Ecco che cosa é l’ispirazione: quella che ha accompagnato Walter in tutta la sua incredibile carriera. E nella vita.

Carlo Graffigna

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

Siamo a fine maggio e la voglia di alta montagna mi perseguita, accentuata dal fatto che l’inverno appena passato mi ha regalato diverse soddisfazioni in quota “scialpinisticamente parlando”; mi frulla allora in mente di fare qualche escursione per superare la mitica quota 4.000. Visto che da soli quattro anni frequento la mon-tagna, il mio curriculum alpinistico è misero e di vette

salite con il numero 4 iniziale proprio non ce ne sono. Incoraggiato dal fatto che, con i soci d’escursione Andrea e Ugo, nel periodo estivo

siamo a caccia di nuove emozioni e avventure, lancio loro l’idea di fare un bel 4.000 in Svizzera ed esattamente il Bishorn, una montagna magari non molto rinomata, nemmeno tanto tecnica o complicata (questa vetta è soprannominata il “4000 delle signore”), ma che comunque merita per lo stupendo scenario in cui è immersa e soprattutto per iniziare a tastare l’alta quota. Il bello di questa montagna è poi l’avvicinamento: avviene esclusivamente a piedi senza nessun aiuto dato dagli impianti di risalita, cosa che invece capita a volte su altri 4.000; insomma un’ascesa vecchio stile, come facevano i pionieri che scalavano queste cime a fine ‘800. Cerco di trasmettere le mie sensazioni ai soci che subito accettano la mia idea, supportati anche loro dal fatto che non hanno mai messo piede a quelle quote e manca pure a loro, come a me, di respirare l’aria sottile. Accettata la proposta ci troviamo alla riunione pregita obbligatoria e sabato due luglio partiamo alla volta di Zinal, grazioso paesino a 1.600 metri nel Vallese, che raggiungiamo dopo ben quattro ore di auto da Bergamo. Arriviamo alle dieci del mattino, troviamo un bel sole e una temperatura sopra la media stagionale, quindi ci incamminiamo con meta il rifugio Caban de Tracuit a 3.270 metri, dove passeremo la notte, per poi svegliarci la mattina seguente con meta la vetta. Il rifugio è vecchio stile ma carino, insomma un vero rifugio alpino come piace a me; lasciamo gli zaini in camera e scendiamo per la cena che oltretutto non è niente male, visto che, a detta di molti, nei rifugi svizzeri si fa la fame. Dopo cena la serata passa tra il ripasso delle manovre su ghiac-ciaio e l’analisi dell’itinerario di salita, inoltre troviamo anche il tempo, prima di coricarci, di fare

Bishorn

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una partita a briscola contornati dal vociare di gente che parla lingue miste… francese, tedesco, inglese e pure vari dialetti del nord Italia. La mattina seguente ci svegliamo alle cinque, facciamo colazione e ci prepariamo in cordate differenti per affrontare il ghiacciaio; alle cinque e mezza siamo già in cammino. Si va subito sul ghiacciaio, la prima parte avviene su facile pianoro che porta alla prima rampa, poi la salita prosegue con pendenze costanti e non dando mai tregua. La cima è sempre sotto i nostri occhi, ma a queste quote le distanze traggono in inganno e sembra non arrivare mai. Dopo più di due ore arriviamo al colletto fra le due cime, a est infatti si trova la vetta orientale, detta Punta Burnaby (4.134 metri), mentre a ovest la vetta più alta che stiamo per salire; qui si apre un panorama mozzafiato sui quattromila a contorno delle valli di Zermatt e Saas Fee: tra i tanti Dom de Mischabel, Alphubel, Lenzpitze e le cime del Monte Rosa che sembrano a portata di mano. L’ultimo tratto della salita avviene su una facile, breve, ma a tratti esposta cresta. Alla fine eccoci in vetta ad assaporare la magia di queste quote! Da poco sotto parte la vicina pare-te ghiacciata del Weisshorn (4.506 metri), precisamente la cresta nord, ed è uno spettacolo della natura, anche solamente questa visione compensa le fatiche della salita. Lo sguardo poi spazia su altri maestosi 4.000 della zona: Zinalrothorn, Obergabelhorn, Dent Blanche…Fatte le consuete foto di rito, iniziamo la lunga ed estenuante discesa dai 4.153 metri della vetta ai 1.600 di Zinal. L’ultima fatica resta la stancante guida di quattro ore che ci separano da Bergamo, insomma aggiungiamo fatica su fatica, ma almeno dopo tutto ne è valsa la pena, abbiamo portato a casa il nostro primo 4.000… un 4000 des dames come viene soprannominato, e così pure lui come la prima donna non lo scorderemo mai.

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Il primo bergamasco sull’EverestEpis Virginio, Maresciallo Alpino di Oltre il Colle, nel 1973

Mentre sono in auto per gli orridi della Val Serina, il propo-nimento non è di parlare con un alpinista famoso del secolo scorso, ma di raccontare la vicenda particolare di uno dei tanti giovani che hanno lasciato le nostre valli in cerca di la-voro dopo la seconda guerra mondiale. Sto parlando di Epis Virginio, nato il 18 agosto 1931 a Oltre il Colle, contrada Grimoldo, lo scalatore dell’Everest nella prima spedizione italiana del 1973, capitanata da Guido Monzino. Mi riceve nella sua antica casa paterna; sulla pietra è chiaramente scolpito un numero, 1596. Nella facciata accanto è appiccicato un grosso pero secolare; si intravedono appena, come due piccoli occhi, le finestre del primo piano. Meravigliandomi per l’insolito quadretto, subito l’ospite precisa: “Questa è la più antica contrada del paese, il nucleo originario; era chiamata “la contrada delle pere”, perché, una volta, tutte le case avevano una pianta di pero incollata sul fronte”. La giornata è limpida; intorno fanno da corona le cime dell’Alben, del Grem, dell’Arera, del Menna. L’interno della casa è rimasto intatto: semplice, dignitosa, antica, tipica costruzione delle nostre valli. Ma il Nostro non abita qui; da queste parti passa sempre, con la famiglia, i mesi di luglio e agosto. Si sente ancora cittadino di Oltre il Colle.È residente ad Aosta, dove vive con la moglie Maria Pia, due figlie e tre nipoti. Da montanaro misura le parole, che però scorrono sicure. “Mi raccomando, pochi incensamenti…, padre contadino, secondo di sei fratelli, quattro maschi e due femmine, boscaiolo, mandriano, ma-novale, a seconda della necessità e occasioni, fino a vent’anni: per tirare avanti bisognava aiutare la famiglia. Ho imparato a sciare qui al mio paese: fondo. A Oltre il Colle viveva un membro della squadra nazionale di questa specialità, Maurizio Celesto, che insegnava a sciare a noi giovani del paese. Io ero abbastanza portato e partecipavo a varie gare, con risultati lusinghieri. Nel 1951 vinsi il campionato bergamasco qui a Oltre il Colle. In questa occasione conobbi Tino Mismetti, che era già un nome nel settore; infatti nel 1956 parteci-

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perà alle Olimpiadi invernali di Cortina. Mismetti era militare di carriera, presso la Scuola Militare Alpina di Aosta, che stava cercando di ricostituire il suo Centro sportivo, che aveva ne-cessariamente interrotto l’attività a causa della guerra. A questo scopo, il Mismetti era incaricato di reclutare giovani promet-tenti. Proprio in quell’anno fui chiamato alle armi, mi-litare di leva; destinazione Scuola Militare Alpina di

Aosta (Centro Sportivo a Courmayeur).Terminata la leva, dopo breve corso, non essendo provvisto di titoli scolastici, passai in servizio permanente come sottufficiale.Fu una scelta convinta: potevo lavorare applicandomi alla mia passione. Lo rifarei.Praticavo attività sportiva agonistica per la SMALP; i piazzamenti erano soddisfacenti, quasi sempre nei primi dieci. Entrai nella squadra nazionale di Biathlon, e arrivai secondo ad un campionato italiano. Nel 1959 partecipai al campionato del mondo di Biathlon: su quattro componenti la squadra, tre eravamo bergamaschi: Mismetti, Carrara Gianni e Io. Furono anni di soddisfazioni sportive; nel frattempo ero andato ad abitare ad Aosta. Frequentando corsi regolari organizzati dalla SMALP, nel 1958 ero diventato istruttore di Sci e di Alpinismo. Nel 1967 mi sposai…” Butto lì alcune domande sulla professione di Istruttore, col grado di Maresciallo; la risposta arriva con una premessa puntuale: “La cosa più bella che ho avuto dalla vita è l’aver lavorato dedicandomi alla mia grande passione: la montagna. Io ero Istruttore di Sci e di Alpinismo, e i miei allievi erano tutti militari di carriera Ufficiali e Sottufficiali di tutte le forze NATO, italiani e stranieri. I corsi si tenevano in caserme, rifugi, alberghi, nella varie località alpine italiane: Grigna, Sassolungo, Gruppo Sella, Gruppo Pordoi, Monte Bianco, Gran Paradiso, Cervino, Ortles, Cevedale… dura-vano un mese e più”.Si interrompe un attimo e sottolinea: ”Da notare che allora era tutto diverso. I corsi erano stanziali, si viveva con gli allievi da mattina a sera, si conoscevano le persone, caratteri, i pregi e i difetti, si stringevano amicizie… e questo in montagna vale moltissimo”.“Come si sentiva un semplice maresciallo di fronte ad allievi molto più elevati in grado, provenienti da tutto il mondo?” “Mai avuto problemi, o pochissimi. La montagna rende tutti uguali, in certe situazioni poi! Tanti ex allievi hanno raggiunto i più alti gradi militari.Insisto: “I nomi?”“Sono tanti; con alcuni i rapporti si sono completamente interrotti, con altri sono rimasti anche vincoli di amicizia. È normale. Per stare ai giorni nostri: Graziano, Baccino, Iob, Novelli… e anche l’Attuale Capo di Stato Maggiore della Difesa, Abrate…Si vede che sta correndo il rischio di dimenticarne troppi, e chiude il discorso.“Sig. Maresciallo, vogliamo parlare a anche della spedizione del 1973 sull’Everest? Lei allora aveva 41 anni.” Con una certa riluttanza all’inizio, e poi sempre con maggior slancio, cercando di rientrare negli argini appena si accorge di avere un po’ straripato, si sottomette

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alla risposta, misurando le parole. Si vede che non vuole rinfocolare polemiche su questa straordinaria avventura Himalaiana.“La spedizione tutta italiana, capitanata da Guido Monzino, industriale alpinista, fu molto pesante, nel senso che vi parteciparono 64 membri effettivi, e circa 100 Sherpa. Non si risparmiarono né uomini né mezzi (anche se questi ultimi non furono sempre i più adatti allo scopo). Gli alpinisti veri erano una trentina, gli altri erano scienziati, medici, fisiologi… nel gruppo alpinisti erano rappresentate tutte le componenti delle Forze Armate italiane: Aeronautica, Marina, Carabinieri, Polizia, Finanza, e naturalmente gli Alpini. Si volevano dimostrare il grado di preparazione e le capacità organizzative delle FFAA. Sede della preparazione: la SMALP di Aosta. Alla fine, sulla vetta, arrivammo in otto, 5 alpinisti e 3 sherpa, ovviamente con le bombole per l’ossigeno. Il 5 maggio Minuzzo e Carrel arrivarono sulla cima con 2 sherpa. Il 7 maggio, alle ore 13, anch’io giunsi in vetta con il mio com-pagno di cordata Innamorati, e Benedetti ci raggiunse con uno sherpa. Tempo bellissimo. Da notare che, con Innamorati, ero stato fermo 6 giorni per il maltempo, a quota 7500.Nel ritorno, improvvisamente, il tempo si guastò, e avemmo molti problemi; fummo costretti a bivaccare la notte a quota 8500. Il giorno dopo il bel tempo ci permise di scendere.Per errori nell’uso delle bombole, restammo senza ossigeno per tutta la discesa da quota 8500. Si dimostrò così, per la prima volta, contro le certezze di medici e fisiologi, che si poteva resistere senza l’uso delle bombole anche oltre gli 8000. Sarà Messner poi, nel 1978, a confermarlo”.“Sig. Epis, è noto che ci furono all’interno della spedizione incomprensioni, gelosie, scor-rettezze, egoismi, di cui tanto si è parlato e scritto; basta andare su Internet e si possono leggere pagine intere. Lei, protagonista, Alpino militare, cosa afferma?”A questo punto le parole vengono ponderate una per una.“A proposito delle polemiche, sottolineo fermamente che tra i componenti alpinisti della spedizione ci sono sempre state, e ci sono ancora oggi, profondissime correttezza e ami-cizia, sia durante che dopo la nostra avventura. Tutte le polemiche sono nate in ambienti esterni. I risultati furono buoni, tenendo conto che nessuno aveva esperienze himalaiane. Se non ci fossero state palesi carenze di direzione, questi potevano essere senz’altro migliori. I meriti non sono stati attribuiti con giustizia, e pubblicamente non lo sono ancora oggi; comunque, lasciamo perdere.Da parte mia vado fiero di essere arrivato sulla cima, ma, soprattutto, di aver fatto il mio dovere, soccorrendo e aiutando compagni in difficoltà anche estreme. E qui mi fermo”.Siamo alla fine dell’incontro. Scorriamo un album di foto che le figlie e i nipoti gli hanno regalato settimana scorsa, quando hanno festeggiato l’ottantesimo compleanno di nonno Virginio. Da parte sua, questo arzillo ottuagenario, durante la permanenza nel suo paese natale, quasi tutti i giorni sale sulle sue montagne, in tempi senz’altro inferiori a quelli segnati sui cartelli indicatori del CAI; sarebbe a dire “di corsa”.L’anno prossimo conta ancora di tornare, come sempre, in Val Serina; nel frattempo mi conferma che anche quest’anno farà, forse per l’ultima volta, il maestro di sci a Pila, e che in primavera effettuerà 25/30 uscite di sci alpinismo sulle montagne valdostane. Si intende che il “Vecio” Virginio Epis non perde l’occasione per portare ancora il suo cappello alpino durante le adunate, i raduni, e le feste dell’Associazione Nazionale Alpini, cui è fiero di appartenere.A dire il vero, dopo questo incontro, sento che anch’io lo sono un po’ di più. Ho parlato con un semplice Maresciallo, dalla fiera modestia.

Alberto Giupponi

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BREITHORNAvvenne... non si è mai grandi abbastanza…Cronaca di una escursione un po’ particolare

Presentazione: io, Fausto, voce narrante, con Dino, Giuseppe, Pepo e Italo. Quanto espongo lo faccio in modo semiserio ma garantisco che la sostanza del fatto è vera e realmente avvenuta. Dunque, noi quattro dell’“Ave maria “ ci aggreghiamo ai soci CAI di Ponte S. Pietro che effettuano la consueta gita a Cervinia. Sempre il 1° maggio e sempre a Cervinia. Quella volta il pullman è completo e il capogita è anche stavolta il sig. Burini.Correva l’anno 1991….Stavolta noi abbiamo deciso di portare attrezzatura idonea per salita e discesa. Poi come spesso dice il Dino, dopo “en vèt“ vediamo il da farsi. Quando arriviamo a Cervinia, verso le 9, la giornata non è male. Il Burini ci raccomanda la puntualità della partenza di ritorno: ore 17. OK. Scarponi ai piedi, zaino, due pani, pelli di foca, due maglie; andando verso la biglietteria decidiamo di non stare in pista ma di puntare verso cima Breithorn (4.165 m). Per inciso, abbiamo terminato da poco il corso base di scialpinismo, perciò siamo allenati; abbiamo pratica di nodi, sappiamo individuare il nord in vari modi, con la bussola poi, per noi, è gioco da ragazzi. Nella fattispecie, la nostra ha anche l’alzo, l’ago e quattro punti cardinali. Posizionare la cartina è cosa banale.Al corso poi, il Regazzoni, grande esperto meteo, ci ha spiegato tutto: versanti esposti, venti di tramontana, alta - bassa pressione. Ha ignorato di dare spiegazioni sulle statuette che cambiano colore in base al tempo, ma non fa nulla. Noi ne siamo sprovvisti.Siamo pronti. Per scaldare i muscoli, la prima fase prevede tratto di funivia. Arriviamo al Plateau rosa; un cartello informa che sei in quota: devi proteggere occhi e pelle. Sole e riverbero giocano brutti inconvenienti. Calzati gli sci, facciamo una discesina voltando verso sinistra per puntare la nostra vetta. Adesso mettiamo le pelli, assestiamo lo zaino sulle spalle e via…. Dimenticavo, il Dino sa che in salita siamo tosti; decide di lasciare il suo zaino rosso appeso al palo di un impianto dismesso. Ora si fa sul serio, inizia la salita, il tempo tiene anche se qualche nuvoletta compare in cielo.Testa bassa, saliamo con buona andatura. Se poi sono io l’apripista l’andatura cambia. Faccio una “tirata” e mi fermo per prender fiato e via di nuovo. Ce lo fa notare una cop-pia giovane che sale, anche loro con noi. Questi sono attrezzati: lo presuppongo dallo zaino e quanto sporge da questo. Noi saliamo, nel mentre altri alpinisti scendono. Non scambiamo parola tanto siamo entrambi impegnati. Il cielo si sta coprendo, nell’aria cristallini di neve. Quando siamo quasi in vetta inizia a nevicare. Facciamo le ultime tirate; decidiamo di fermarci. Italo e i due “di Varese” proseguono ancora un po’ ma ritornano subito. Adesso nevica bene e arriva la nebbia. Abbiamo tolto le pelli, ci siamo preparati per la discesa. La nebbia ora ci ha avvolti e la neve ha cancel-lato la traccia, la nostra traccia di ritorno. Scendiamo un pochino, non si vede nulla, nulla nulla!!! Siamo quattro più due nel panico. Non

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ci si può allontanare l’uno dall’altro cinque sei metri: oltre non scorgi neppure la sagoma. Raccomando a tutti di stare a portata di voce. I due “forestieri” ci chiedono come siamo attrezzati, se abbiamo bussola, cartina, pala, ARTVA… diciamo la verità: nello zaino ab-biamo viveri, l’ARTVA… l’ABBIAMO ORDINATO. Non so cosa abbiano pensato, so che dopo un attimo ci hanno salutato puntando verso destra. Destra, sinistra, ma di ché se non hai un riferimento e non vedi nulla? Pepo dice che dovremmo andare dalla parte del rumore che sente, solo lui, dice che forse sono gli impianti di Zermatt. Italo per due volte si sente scivolare, esclama “ndo ndo”, cade a terra ma è fermo davanti a noi. Nebbia fitta, zero riferimenti e l’alta quota provoca anche questo. Io non voglio spostarmi molto in quelle condizioni, ci sono i seracchi, sapete cosa sono i seracchi. Ebbene, nel mio immaginario li paragono alle fiamme dell’inferno dantesco: se entri dentro è la fine. Fine calda o fredda che sia, ma fine è. Il tempo passa, la nebbia no. Io comincio a pregare la Madonna, il Padre Eterno… nel mentre faccio mente locale sul farsi… il pernottamento non era previsto…. alla pala lasciata a casa… penso alla stupidità di non aver detto a nessuno la nostra meta… I miei soci non li sento imprecare…..Prego sottovoce i miei cari in cielo e mi ritrovo un po’ codardo farlo a 3.700 metri!!!! Ma, potenza dello Spirito o magia del Roberto Regazzoni, il cielo si squarcia e arriva un bel sereno. Quattro siluri partono, puntano gli impianti e la discesa a Cervinia.Lo zaino rosso è il primo punto di riferimento. La salitella che immette sulla pista la fac-ciamo alla velocità del suono. Siamo al pulman alle 17.30. Il Burini ci dà una bella lavata di capo. Dice che la prossima volta ci lascia a Cervinia. In cuor mio penso che è meglio Cervinia che in vetta al fresco. I viveri sono rimasti nello zaino fino casa. Fame sparita. Forse abbiamo scoperto che per perdere peso serve strizza e nebbia quanto basta.Nei pressi di Novara chiamo casa; mia moglie dice che ho la voce strana. La rassicuro che è tutto ok.Conclusioni: informiamo sempre dove siamo diretti. Teniamo presente che il tempo in mon-tagna cambia rapidamente. Talvolta è più saggio rinunciare. Chiedere alle persone che si incontrano informazioni e/o aggiornamenti. Per pregare non c’è sempre bisogno di nebbia.

Fausto e soci

PS: la mattina seguente accendo il TG per le ultime notizie. Tutto nella norma. Anche ai due ”di Varese” è andata bene…..

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

L’alpinismo del XXI secolo: Evoluzione etica o evoluzione tecnica?

Senza rifarsi alla storia dell’alpinismo, basterà ricordare che negli anni ’60 costituiva un punto fermo il binomio conquista e vetta: l’impresa alpinistica non era considerata valida senza il raggiungimento della cima, e nessuno dubitava che fosse lecito utilizzare un numero illimi-tato di chiodi per superare una parete senza obbligo morale di toglierli (anche se spesso si toglievano per rendere difficile la vita ad eventuali ripetitori); si discuteva soltanto circa la li-ceità o meno di chiodare a espansione, presto rendendosi conto che, chiodando senza limiti, sarebbe stato possibile qualsiasi risultato (è del 1968 il celebre saggio di Reinhold Messner, L’assassinio dell’impossibile).1A questo atteggiamento degli alpinisti che operavano sulle Alpi si contrapponeva la filosofia degli americani, in particolare dei californiani, che, al contrario, ritenevano che non fosse lecito lasciare in parete un solo chiodo. Avvenne allora che alcuni alpinisti cominciarono a schiodare le vie (fece scalpore, per la notorietà del personaggio, l’opera di pulizia di Gary Hamming sulla Est del Grand Capucin) con conseguenti immancabili polemiche sulla liceità di tali comportamenti.2

Ben presto però gli alpinisti californiani constatarono che, a furia di chiodare e schiodare, le fessure si deterioravano;3 e allora, fedeli alla loro etica, inventarono diversi aggeggi (inizial-mente dei semplici bulloni, poi perfezionati nei vari nut, bicoin, stopper, excentric, ecc.) da incastrare nelle fessure: il loro utilizzo era piuttosto delicato e la sicurezza, in linea generale, assai minore rispetto al chiodo tradizionale. Finché, verso la metà degli anni ’70, venne bre-vettato4 il friend (due semiruote dentate che in virtù di una molla si incastrano nelle fessure); per la verità non so se così sia stato definito perché amico degli alpinisti oppure della roccia, in quanto la conserva intatta; certo si è che, con costi direttamente proporzionali all’elevato grado di sicurezza (mai proverbio fu più azzeccato, chi trova un amico [friend] trova un teso-ro), assicura una protezione addirittura superiore a quella dei chiodi tradizionali, sempre che sia usato con la dovuta attenzione (ma anche i chiodi devono essere piantati con la dovuta attenzione). Fin qui dunque la tecnica al servizio di una precisa etica: lasciare la parete in-contaminata, cioè libera da qualsiasi attrezzatura.Nel contempo è intervenuta, sempre in tema di scalata in roccia, una vera e propria rivolu-zione: quella delle così dette scarpe da arrampicata, manco a dirlo inventate dagli alpinisti americani; sono comparse in Italia nel 1976, hanno cominciato ad essere reclamizzate sulle riviste specializzate nel 19815 e hanno soppiantato gli scarponi con suola Vibram, fino ad allora utilizzati anche sulle massime difficoltà. E qui sta la svolta: grazie a queste innovazioni la scala delle difficoltà si apre verso gradi sempre più alti, riservati comunque ai pochi forniti di un grande equilibrio psicofisico nel quale confluiscono capacità tecniche, doti atletiche e intensità di allenamenti; tuttavia le sen-sazionali realizzazioni di qualche anno fa, così sul Grand Capucin come sulla Marmolada, sarebbero impensabili senza i nuovi mezzi tecnici. L’invenzione del friend e delle scarpe da arrampicata ha aperto la strada verso i gradi supe-riori di difficoltà, in precedenza fermi, fin dagli anni trenta, al VI. Grazie a queste attrezzature

1 Rivista Mensile C.A.I. 1968, pag. 427

2 La Montagne et Alpinisme 1974, pag. 296

3 Tom Frost, American Alpine Journal 1972, pag. 1

4 Alp 1988, n. 35, pag. 118

5 La Rivista del Club Alpino Italiano 1981, n.2, retro della prima copertina; Rivista della Montagna 1981, n. 45, pag. 289

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e a particolari ed esasperati allenamenti (essendo richiesta una prestazione atletica di gran-de rilievo) si è raggiunto il VII, poi l’VIII e così via verso il X, con una progressione non diversa da qualsiasi altra disciplina sportiva. A questo punto, parallelamente al concetto di montagna «pulita» si è fatto strada, sempre ad iniziativa degli alpinisti americani, il concetto di arrampicata pulita (free climbing) intesa all’impiego dei chiodi soltanto come protezione e non come appoggio o appiglio. Natural-mente, con questo tipo di arrampicata e affrontando difficoltà sempre maggiori, aumentava il rischio di cadere con corrispondente necessità di sempre maggiore protezione. Si è nel contempo scoperto che la maggiore garanzia era data dagli spit6 (sputo in inglese) costituiti da piccole placchette infisse nella viva roccia (anche in prossimità di eventuali fes-sure che appunto non si devono rovinare...). É così accaduto che i più o meno famigerati chiodi ad espansione adesso si chiamano spit: cambia la forma, ma nella sostanza sono la stessa cosa! Non ci si attacca più (in nome del Dio Free Climbing); ma ormai, anche su difficoltà non estreme, ci si protegge con questi spit, infilati nella viva roccia, per lo più a brevissima distanza (3/5 metri) l’uno dall’altro. Allora il gesto dell’arrampicata è diventato un po’ fine a se stesso, è diventato un gioco, è scomparsa quell’aureola di eroismo che a torto o a ragione aleggiava sulle imprese alpinistiche fino agli anni ‘60. Accanto all’evoluzione dell’arrampicata su roccia, a partire dal 19717 vi è stata un’altrettan-to importante evoluzione nella progressione su ghiaccio grazie alla tecnica piolet-traction (inventata questa volta dagli alpinisti francesi) per cui si tiene in ciascuna mano un attrezzo (all’inizio una piccozza e un martello da ghiaccio, ora due sofisticate piccozze) così facilitan-do il superamento di scivoli assai ripidi dove prima, a meno di trovare eccezionali condizioni di innevamento, era necessario tagliare centinaia di gradini. Itinerari per i quali occorreva attendere magari anni per trovare condizioni ragionevoli (tipico esempio la Nord del Triolet, 800 metri di dislivello) vengono ora percorsi in assoluta sicurezza anche se in ghiaccio vivo: non per niente il Linceul delle Grandes Jorasses, che oggi si supera al massimo in otto ore, richiedeva, con la tecnica tradizionale, non meno di tre giorni.Attrezzature così raffinate, tipi di allenamento tanto specifici determinano, accanto alle forme di alpinismo e di scialpinismo di stampo classico che, grazie a Dio, continuano ad esistere, tutta una serie di specializzazioni: - l’arrampicata al coperto, in palestre dove sono state attrezzate pareti ovviamente artificiali,

con due tipologie di frequentatori: alpinisti che intendono allenarsi (oltre che divertirsi) e atleti che non praticano l’alpinismo e considerano l’arrampicata come una qualsiasi altra attività sportiva;

- il buildering, cioè la scalata all’aperto di strutture in pietra o in cemento (ponti, dighe, mu-raglioni, edifici);

- l’arrampicata in falesia, cioè sulle scogliere erose dal mare e, con impropria estensione del significato di falesia, sulle pareti laterali delle valli alpine o prealpine che non conducono ad alcuna vetta, ma che presentano discreti dislivelli (300/400 metri) e spesso terminano in un bel bosco dove si può talvolta trovare un’accogliente osteria;

- le cascate di ghiaccio, assai alla moda in questi ultimi anni, costruzioni effimere tanto quan-to dura il gelo (vere e proprie palestre glaciali) oppure certi stretti canali (goulottes in fran-cese) friabili in estate, ma compattati d’inverno dal ghiaccio, che, spesso a quote elevate, costituiscono ascensioni di notevole impegno;

6 Alp 1985, n. 6, pag. 114

7 Rivista della Montagna 1978, n. 31, pag. 33

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- il canioning, cioè la discesa dei torrenti di montagna utilizzando mezzi alpinistici; - lo sci estremo, che oggi non si pratica quasi più con l’elicottero, ma salendo la parete che

si vuole discendere, così da poterne studiare morfologia e, soprattutto, qualità della neve; - da ultimo il dry-tooling (lavorare con gli attrezzi sull’asciutto) cioè risalire quella sorta di fes-

sura che separa una cascata di ghiaccio dalla parete rocciosa che ne costituisce l’appog-gio, utilizzando i più sofisticati tipi di piccozza anche per progredire lungo i tratti rocciosi.

E queste specializzazioni ormai si vanno affermando anche in tema di alpinismo extraeuro-peo, addirittura in Himalaya. È dunque soprattutto il perfezionamento dei mezzi tecnici che in questi ultimi anni ha con-sentito a schiere sempre più nutrite di alpinisti di affrontare ascensioni una volta riservate a pochi. Occorre però avere l’onestà di riconoscere che, quando si percorrono itinerari pur lunghi e di difficoltà superiore, ma sotto la protezione di spit piantati ogni 3/5 metri, i principi etici inizialmente mutuati dall’alpinismo californiano risultano annullati. A questo tipo di evoluzione (stavo per dire di involuzione...) sono legate le nuove etiche, da qualcuno predicate, dell’alpinismo, quali la progressione senza toccare gli spit (in nome del free climbing, ma con protezioni, appunto, ogni 3/5 metri) e l’inutilità della vetta.A tale ultimo riguardo alcuni8, da molti seguiti per evidenti ragioni di comodità, hanno gabel-lato questo principio come una nuova filosofia dell’alpinismo secondo la quale «la vetta non conta più»: ciò che conta è la via o la parete, raggiungere la cima non avrebbe più scopo né significato. Se però si cercano i fondamenti di tale orientamento, ci si accorge che non sono di ordine etico e filosofico, bensì tecnico e pratico. La verità è che non è comodo uscire da una grande parete di ghiaccio e percorrere una cresta di misto con scarponi di plastica, ram-poni rigidi e due cortissime piccozze (improvvisamente divenute ingombranti): molto meglio non andare in vetta. È molto più comodo invece, tanto per fare un esempio, arrivare alla base della Ovest del Drus, abbandonare zaino, scarponi, ramponi, piccozza e quant’altro, indos-sare le scarpette, salire la così detta Americana, scendere in doppia, senza essere arrivati nemmeno a metà parete... In Patagonia, al termine di una via difficile e complicata, è spesso impossibile, a causa del vento sulla cresta terminale, raggiungere la cima; ma la spedizione «deve» ugualmente avere esito positivo. In conclusione pare indubitabile che, negli ultimi vent’anni, l’evoluzione dell’alpinismo sia stata determinata più dal progresso dei mezzi tecnici che da concezioni filosofiche, culturali o etiche gabellate come nuove da falsi profeti. Attualmente si affrontano difficoltà sempre maggiori con rischi sempre minori, non solo per le superprotezioni, ma perché si conta molto sugli elicotteri, sui cellulari e anche su previsioni meteorologiche vieppiù attendibili. E questo vale per tutti: alpinisti grandi, medi, modesti; e il soccorso alpino lo dimostra, perché le statistiche degli ultimi anni informano che è minima la percentuale degli incidenti che accadono lungo itinerari impegnativi. Un ulteriore problema che oggi si prospetta in campo alpinistico è quello dell’impatto am-bientale: arrampicate difficili ma ben protette con spit anche a quote elevate comportano ormai vere e proprie folle sia sulle vie sia nei rifugi che di queste vie stanno alla base (e i rifugisti sono particolarmente furbi, e attrezzano itinerari, magari anche tipo palestra, proprio in prossimità delle loro strutture). Al contrario l’alpinismo tradizionale, anche su difficoltà modeste, salvo che si tratti di vie o cime famose, è quasi dimenticato. Si assiste perciò ad uno squilibrio per cui sulle Alpi (ma anche fuori Europa) ci sono aree che

8 Sono gli stessi che vorrebbero eliminare dalla terminologia alpinistica verbi quali vincere, conquistare e derivati, in quanto di carattere bellico, senza rendersi conto che, in senso figurato, sono entrati nell’uso corrente (vincere una borsa di studio, conquistare una ragazza, ecc.).

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tutto sommato conservano il loro wilderness; ma ci sono aree iperfrequentate che presen-tano seri problemi di inquinamento: certi rifugi che non servono più come base di partenza per le ascensioni perché, al contrario, costituiscono fonte di aggregazione di escursionisti che li frequentano come meta; vie ferrate anche di vetta; campi base di celebrate montagne extraeuropee (Everest, Torre, Fitz Roy, Aconcagua) dove, nelle stagioni giuste, si affollano centinaia di persone. Fin dagli anni ’50 mi sono battuto contro la proliferazione dei rifugi, contro le vie ferrate, a favore di spedizioni extraeuropee leggere e agili (all’epoca Messner frequentava le scuole elementari): ero considerato, nella migliore delle ipotesi, come uno stravagante personaggio; a distanza di trent’anni ho avuto la soddisfazione di vedere questi principi recepiti dal Club Alpino Italiano e dall’U.I.A.A. (Unione Internazionale delle Associazioni Alpinistiche). Ma forse il maggiore problema dell’alpinismo di oggi è la tendenza a privilegiare difficoltà elevate possibilmente da superare in assoluta sicurezza e con una certa facilità di approccio e rapidità di esecuzione; così banalizzando l’incognita, il gusto della scoperta e l’incertezza tipica dell’avventura. Al riguardo c’è un esempio emblematico. Il Pilastro Rosso del Brouillard, il magnifico obelisco sperduto nella parete sud del Monte Bianco. Nel 1959 Bonatti e Oggioni hanno attaccato questo pilastro, allora vergine, 400 metri di puro granito fra 3800 e 4200 metri; hanno bivac-cato sulla sommità e poi hanno superato ancora 600 metri di misto impiegando più di otto ore per raggiungere la vetta del Monte Bianco; e il pilastro lo hanno scalato con gli scarponi, tirandosi dietro ramponi, piccozza, pesanti zaini con l’equipaggiamento da bivacco. Oggi cosa succede? Oggi, per fare questo pilastro, il maggiore impegno sta nel raggiungere il Bivacco Eccles, a quota 3900 circa: perché poi si scende alla base del pilastro, interamente attrezzato, si indossano le scarpette e, una volta raggiunta la cima (del pilastro ovviamente, non del Monte Bianco) si scende con 8/10 doppie, si riprendono scarponi, zaino, ramponi e piccozza e si torna a valle. Questa storia è lo specchio di quello che vuole oggi la gente, cioè un risultato appagante, ma senza eccessivi sacrifici: dai sentieri ipersegnalati ai rifugi dotati di ogni comfort, alle pareti superattrezzate da salire possibilmente senza zaino e senza scarponi. Ho cercato di essere obiettivo nel fare il punto sull’alpinismo all’inizio del terzo millennio; non voglio giudicare, rimane più di un dubbio, ma devo confessare, non senza qualche imbaraz-zo, che a molte di queste innovazioni mi sono adeguato e che, a dispetto dell’età, mi diverto moltissimo ad arrampicare in palestra.9

Piero Nava

9 Piero Nava, Dalla Nord delle Jorasses alle… falesie, Nordpress, 2009, pag. 239.

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

Nel centenario della morte della guida Antonio Baroni

Quando ero un ragazzino ricordo che tante persone anziane mi parlavano con entusiasmo dell’alpinista Antonio Baroni. In seguito, frequentando molto Sussia e la casa dei Nicolecc, ho avuto modo di incontrare giornalisti di alpinismo alla ricerca, forse, di ricordi della famosa guida alpina. Più tardi, consultando i documenti del CAI, ho avuto la conferma di quanto fosse grande questo nostro montanaro boscaiolo. Nel 2002 (anno della montagna) il nostro Comune dava alla stampa un bellissimo opuscolo pubblicando gli scritti del giornalista Angelo Gamba a cura anche del nostro cultore di storia Adriano Epis. L’Ing. Antonio Curò, ai suoi tempi esponente del CAI di Bergamo, raccomandava “senza riserve” agli alpinisti la bontà e la perizia della guida Antonio Baroni di Sus-sia, fedele interprete delle esigenze e dei desideri dei primi fra i pionieri delle montagne bergamasche, uomo sagace, pieno di intuizioni, di prudenza e di passione o per la montagna, formatesi indubbiamente per istinto personale e per naturali doti di coraggio e intelligenza. Era un uomo schivo, modesto, alieno dalla pubbli-cità e dai trionfi e si faceva pagare poco. Carlo Restelli diceva: «Antonio Baroni possedeva, delle grandi guide, le doti morali e quelle fisiche; alto, ben pro-porzionato, alquanto asciutto, fortissimo, di aspetto simpatico con sguardo dolce, collegava, alla sua rara valentia, nobiltà semplice di modi, per cui fu amico di quanti lo conobbero e lo poterono apprezzare. Saldo sulla roccia e sul ghiaccio, ardito e prudente, sapeva dar cuore agli inesperti come sapeva dare una paternale agli sventati o ai presuntuosi. Ispirava fiducia illimitata e infondeva in chi lo seguiva la passione sua vivissima per i monti, e gli alpinisti si reputavano fortunati se una guida come il Baroni, dopo averli sbirciati, accettava di accom-pagnarli in montagna. Baroni salì tutte le cime più importanti delle Orobie per vie conosciute

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e sconosciute, conobbe valloni e vette inesplorate, salì creste e canali di ghiacci, fece ten-tativi di salita notevoli a quei tempi e forse prematuri, scoprì i problemi alpinistici di grande interesse per l’attività futura, avviandoli, con tenacia e salda capacità a soluzione. Baroni non fece uso di strane tecniche, non impiegò arpioni di ferro come già altrove si stavano usando, non inventò nulla di artificiale e per l’arrampicata si servì soltanto ed esclusivamente dei suoi arti, della sua tecnica, del suo stile; e quando gli scarponi chiodati non gli permettevano una sufficiente presa sulla roccia liscia li spogliava ed arrampicava a piedi nudi. «In una posizione difficilissima Baroni trovò il mezzo di levarsi le scarpe e di deporle in una spac-catura raccomandando però di non toccarle al nostro passaggio che sarebbero precipitate sul ghiacciaio, poi con uno sforzo supremo si portò al di sopra di quella sporgenza. In quel momento ci parve trasfigurato in un dio della montagna; noi e le altre guide lo ammirammo estatici». “Ecco lo stile di Baroni”. Bertani scriveva: «Antonio Baroni, alla vigilia di condurci su per una scabrosa e faticosissima parete di roccia, ormai settantenne, era ancora forte e ben portante nella persona, allegro e severo ad un tempo come lo fu sempre e come se gli anni fossero passati soltanto per i suoi antichi discepoli e ammiratori e quando, a quasi ottant’anni si chiuse per lui l’ultima giornata terrena, spentosi nella sua Sussia serenamente, furono in molti a rimpiangerlo. Sentirono che se ne andava un grande maestro, un gentiluomo della montagna, un amico sincero». Angelo Gamba nel suo opuscolo scrisse: «Vorremmo che tan-ti si ricordassero di lui e che i giovani sapessero di quale tempra era forgiato Antonio Baroni, che valutassero le eccezionali qualità di guida e di uomo che possedette».

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Carattere della gita - Percorso faticoso se si proviene da Carona direttamente. Al contrario percorso breve se si pernotta al Rifugio F.lli Calvi. Gita non difficile e di abbastanza facile orientamento, ri-servata però a buoni sciatori alpinisti, conoscitori della montagna invernale. Pericoli: di valanga dalle pendici O di M. Grabiasca. Equipaggiamento: di alta montagna, rampanti.

Itinerario - Dal Rifugio scendere verso N sul Lago rotondo.Attraversatolo, proseguire, sempre verso N su terreno mosso e per bosco rado. Dopo 300 metri scendere verso il fondo della val-le. Volgendo ora verso E con regolare salita, tenendosi sulla destra del fiume, sinistra orografica si perviene a una baita posta su uno sperone alla confluenza del fiume con il vallone di M. Grabiasca 1958 m: ore 0.30 dal Rifugio F.lli Calvi.

La valle volge ora verso N E. Tenersi sempre sulle comode pendici della sinistra orografica. A q. 2100 c. una barriera rocciosa chiude la valle. Salire per terreno molto ripido lungo un canale nevoso che scende da N E.

Superato il salto, volgere a N e per terreno abbastanza facile con un susseguirsi di brevi salti, si perviene a una vasta conca, 2300 m ore 2, che si allunga da O a E in direzione del Passo di Valsecca.

… Attraversarla verso N e proseguire su un pendio un poco ripido e accidentato. Guadagnati 100 metri di quota, il terreno si fa via via più agevole, fino a che si sbocca sui comodi pendii a E di q. 2504, dove si incontra l’itinerario del Rifugio F.lli Longo che porta sopra alla Bocchetta di Podavit, 2730 m ore 1,30. Ai piedi delle rocce lasciati sci, con breve arrampicata si raggiunge la cresta che si segue sino in vetta; Pizzo del Diavolo di Tenda 2914 m: ore 1. La discesa agli sci sul percorso di salita: ore 0,30. Il ritorno si svolge sullo stesso percorso di andata e richiede: ore 2 c.

Guida Sciistica delle Orobie (L. B. Sugliani)

m 2914Pizzo del

Diavolo

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Il Diavolo ai tempi nostri ….Aprile 1976

Questo è solo uno degli itinerari che il Sugliani ha descritto nella sua guida, lo prendo ad esempio e ricordo per le mie molteplici uscite sci-alpinistiche. La prima edizione è stata pubblicata nel 1939 ed era subito diventata la bibbia dello scialpinismo sulle Orobie. Dopo trent’anni vede la luce la sua ristampa che avviene nel 1971. Nel frattempo ho il tempo anche io di nascere e crescere sino a scoprire la passione per lo sci-alpinismo e di riuscire persino a mettere le mani su una riedizione della guida prima che scompaia di nuovo. Il volume, ovviamente aggiornato, è completato con nuove carte topografiche al 50.000 delle Orobie con tracciati gli itinerari sci-alpinistici.

L’allora presidente del CAI, Avv. Alberto Corti, fa una presentazione della guida che mostra una grande visione prospettica dello scialpinismo e che personalmente mi piacerebbe fare mia senza voler apparire irriverente per adattarla alla guida di mountain-bike che ho curato con Mau, Marzia e Fiore.Questo perché l’auspicio dell’Avv. Corti che “ lo scialpinismo non rimanga privilegio di pochi eletti, ma divenga dote e patrimonio di sempre più larga schiera di giovani” può essere benissimo esteso anche alla mountain bike, e che anche essa trovi una sua collocazione fra i tanti appassionati di montagna senza chiusure o integralismi.

Come diceva bene il Sugliani, il percorso rischia di essere faticoso se si parte da Carona e soprat-tutto senza neve nella prima parte. Riusciamo a trovare una traccia di neve continua dal Prato del Lago e da lì non ci saranno interruzioni nella neve che ci lega sino al Pizzo del Diavolo, potremo avvolgere la nostra linea sino alla vetta.Con Fabio ormai siamo abituati a fatiche e levatacce ma non ne soffriamo perché sono una linea guida nelle nostre passioni.

Forse un pò più di apprensione del solito perché questa è la prima vera salita che ha una sua difficoltà nella parte alta e, comunque, l’incognita sulla tenuta della neve ci accompagna sino che non la tocchiamo con mano soprattutto in cresta. I nostri diciotto anni uniti a una frequentazio-ne maniacale in totale autonomia della montagna ci portano in breve al Rifugio Calvi dove una marmellatina di mele cotogne, molto in voga in quel periodo, ci rifocilla prima di avviarci al Lago Rotondo e riprendere la salita.

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La descrizione del Sugliani dice di stare a de-stra sotto i pendii del Grabiasca ma noi non so esattamente perché preferiamo salire a sinistra, forse per una certa irriverenza giovanile ma non la vedo come una colpa grave.Il meteo non è di quelli che si faranno ricordare, il cielo è grigio di nuvole alte che almeno all’ap-parenza non dovrebbero rovinare i nostri pro-getti e le motivazioni non mancano.Alla Bocchetta di Podavit ci alleggeriamo di sci e tutto quello che non ci serve per essere più leggeri in salita, calziamo i ramponi cercando di adattarli al meglio sugli scarponi da pista che non hanno suola.Saliamo legati ma spesso di conserva, ci conosciamo alla perfezione, non servo-no molte parole nella progressione, il mondo attorno a noi sembra ai nostri piedi e probabilmente non mi riferisco solo alle montagne.Raramente ho legato la mia corda con qualcuno, preferendo un alpinismo solitario e spesso in autoassicurazione, Fabio era un amico, alla nostra intesa servivano poche parole, il destino se l’è portato via troppo presto.Quante speranze e quanti sogni hanno accompagnato le nostre salite.

Le immense cornici che ci separano dal tripode ci fanno pensare che il Diavolo ha messo il vestito buono per la nostra irriverenza giovanile, non gli attribuiamo nessuna difficoltà tecnica ma la sintesi della bellezza della montagna che ci por-tiamo dentro.Ci avviciniamo alla vetta con lentezza e circospezione con la paura che il sogno avverandosi possa svanire nel nulla.

Claudio Locatelli

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RICORDO DI SANTINO CALEGARIRicordi racchiusi nel cuore

Il “volere perentorio” dell’amico Enzo mi ha “costretto”, per non deluderlo, ad un impegno difficile quanto una scalata, a vincere la mia riluttanza ad apparire e ripercorrere brevemente il cammino che ha condizionato la mia vita e quella di mio fratello Santino, cioè la montagna, dalla bellissima Val Brembana, che ci ha visto nascere e crescere, alle Alpi ed al mondo intero. Già da bambini (Santino 7 anni, io 5) il papà incominciò a farci girovagare per le mon-tagne della nostra valle, dal Pizzo dei Tre Signori al pizzo del Diavolo, che le racchiudono, per farci partecipi delle bellezze che ci attorniavano.Giorno dopo giorno, gita dopo gita, la naturale “fatica del salire” (che si manifestava in noi con la solita domanda “quanto manca?”, a cui faceva seguito la scontata e più volte ripetuta risposta “ancora cinque minuti”) lasciava il posto ad un sempre crescente desiderio di salire in alto, colpiti da un inarrestabile tumore benigno, che contagiava tutto in noi come una droga. A diciotto anni la nonna ci regalò la fatidica tessera del CAI, che ci introdusse “ufficial-mente” nel mondo magico dell’alpinismo. Il nostro entusiasmo giovanile, una volta superate le immancabili stupidaggini dell’acerba età, si arricchì presto delle conoscenze e delle com-petenze necessarie per vivere seriamente in simbiosi con un mondo tanto difficile e rigoroso quanto affascinante. E così la corda, il chiodo ed il moschettone entrarono prepotentemente nella nostra vita, coinvolgendo, purtroppo, l’ansia di papà e mamma, che a sera attendevano il nostro ritorno dai monti.Gli anni crescevano, di pari passo con la passione, gli orizzonti si allargavano e, oltre ad una sempre più intensa attività sulle Alpi, avemmo la fortuna di conoscere montagne e genti di mezzo mondo, incamerando grandissime soddisfazioni e, naturalmente, anche inevitabili, ma costruttive delusioni.Il nostro alpinismo veniva costantemente alimentato dal desiderio non tanto di salire la montagna più difficile, ma la montagna più bella, accettando comunque qualsiasi difficoltà che si prospettava. Così nacque in noi la voglia di scoprire a fondo le montagne di casa nostra, delle Alpi Orobie e delle Prealpi Bergamasche, su cui fummo fortunati ad aprire, grazie soprattutto all’abilità ed all’intuito di Santino, molte vie nuove, più o meno belle e più o meno difficili, ma accattivanti, ed a ripeterne tante altre.Come scordare il fascino del versante valtellinese delle Orobie, dove l’alpinista si muove isolato, (ben lontano dalla ressa alla base delle vie “qualificate”), dove la difficoltà si abbina all’ignoto, dove la montagna ti entra pian piano dentro nel lungo cammino per raggiungerne l’attacco. Oggi l’alpinista è tecnicamente ben più forte e preparato, utilizza attrezzature ed equipaggiamento di prim’ordine, ma forse non ha la fortuna, che avevamo noi, di poter vivere un ambiente ancora da scoprire. È l’augurio più spontaneo e sincero che, alla grande bravura e preparazione, si affianchi sempre, in ogni alpinista, il desiderio primordiale di conoscere scoprendo, trascurando, ogni tanto, l’attrazione della sola, pura difficoltà.Ora per noi la montagna e l’alpinismo sono, purtroppo, un dolce ricordo, che ci accompagna e ci aiuta nella corsa verso l’ignoto, che ci è sempre piaciuto e ci ha sempre appassionato

Nino Calegari18 novembre 2011

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

Settembre 1954 Nino e Santino Calegari sul Pizzo Del Diavolo Di TendaSaliti per la parete sud-est.Foto di Gianni Donati

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L’attività extraeuropea del Club Alpino Italiano1

L’attività extraeuropea del Club Alpino Italiano ha avuto inizio, se mi è consentito il para-dosso, ancor prima del sorgere dell’associazione: e difatti quel professor Federico Craveri, che nel 1855 aveva dato vita, con l’ascensione al Popocatepetl2, al primo vero episodio di alpinismo italiano extraeuropeo, sarà uno dei fondatori dell’associazione. Successivamente le guide, non ancora costituite in consorzio ma prossime ad esserlo, collaborano a spedizio-ni private, specialmente straniere: Jean Antoine Carrel nel 1880 è in Ecuador con Edward Whymper; a cavallo del secolo Ciprien Savoye partecipa a sette spedizioni e Jean Antoine Maquignaz a quattro. In quegli anni (cioè tra il 1897 e il 1909) Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, realizza le prime poderose spedizioni private dell’alpinismo italiano. Il nome del Club Alpino Italiano viene impegnato per la prima volta, salvo errore, nel 1934, quando la Sezione di Torino e il Club Alpino Accademico patrocinano una spedizione alle Ande Cileno-Argentine. Negli anni ‘50 il C.A.I. entra nella competizione per la conquista degli 8000 e coglie uno splendido successo nel 1954 con l’ascensione del K2. Multiformi sono gli aspetti del nostro alpinismo extraeuropeo sia in ordine alla posizione geo-grafica delle vette e alla loro struttura e difficoltà, sia in ordine alla tipologia delle spedizioni: gli italiani hanno operato veramente su tutte le montagne del mondo (perfino nelle Isole Hawai, nel 1939, il solito Piero Ghiglione); su montagne facili e su montagne estremamente difficili (Filippo de Filippi, nel 1897, dichiarava il S. Elia facile; due anni dopo Cesare Ollier e Giuseppe Brocherel con Halford John Mackinder vincevano il Monte Kenia superando diffi-coltà praticamente al limite del possibile per l’epoca); in zone esplorate e inesplorate (si pensi ad una spedizione moderna alle Ande Peruviane ed alla spedizione polare del Duca degli Abruzzi); con organizzazioni pesanti (K2 o Kanjut Sar) e con spedizioni leggere. Ma quali sono le prospettive future dell’alpinismo italiano extraeuropeo? Chiusa la corsa agli 8000, l’evoluzione presenta diverse possibilità3:- percorso di vie nuove sugli 8000 (cresta ovest e traversata dell’Everest, parete sud del

Nanga Parbat);- vette minori ma pur sempre superiori agli 8000 metri (si tratterebbe insomma di… aumen-

tare il numero degli 8000); - montagne vergini di oltre 7000 metri; - cime inviolate di quota inferiore, ma eleganti e difficili (Torre Mustagh);- vie nuove di grande interesse alpinistico sulle vette più alte o comunque più importanti dei

vari massicci (Sud dell’Aconcagua, Nord dello Huascaran). Naturalmente l’elencazione che precede non esaurisce le possibilità dell’alpinismo extraeu-ropeo: ma ne esaurisce, a mio giudizio, le possibilità di un’evoluzione qualificata, la sola che possa interessare al Club Alpino Italiano. É opinione del tutto pacifica che l’alpinismo è anzitutto libertà: libertà di scegliere le mon-tagne e gli itinerari preferiti, di scegliere i mezzi tecnici ritenuti più idonei per compiere una determinata ascensione. Il criterio, ovviamente, è valido anche per l’alpinismo extraeuro-peo, con il vantaggio di una possibilità di scelta ancora più vasta. Ma il discorso cambia radicalmente allorché viene impegnato il nome del Club Alpino Italiano: quando difatti pro-cede all’organizzazione di una spedizione oppure concede il finanziamento o il patrocinio

1 Memoria presentata all’80° Congresso Nazionale (Agordo, 8 settembre 1968).2 Vulcano del Messico, facile ma alto 5452 metri.3 Imprese attualmente (2009) in gran parte realizzate!

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

(quest’ultimo, nonostante l’alto significato morale, non lo si nega mai a nessuno) l’associa-zione dovrà rispondere sia di fronte ai soci sia di fronte all’opinione alpinistica internazionale (non dico di fronte all’opinione pubblica, perché un buon battage pubblicitario potrà rendere estremamente difficile un panettone nevoso sperduto in qualche angolo del mondo); e tanto i soci quanto l’opinione alpinistica internazionale sono particolarmente, e direi giustamente, severi nel giudicare la serietà di un’impresa extraeuropea. È pertanto evidente che il nome del Club Alpino Italiano può essere impegnato soltanto in valide iniziative anzitutto sul piano alpinistico. La Sede Centrale si è resa conto della rilevanza di tale concetto ed ha organizza-to due spedizioni (K2 e Gasherbrun IV) di interesse assoluto. Non altrettanto può dirsi delle Sezioni, i cui sforzi sono a volte indirizzati verso mete di valore alpinistico modesto: un orientamento del genere è essenzialmente determinato dal timore che la spedizione possa sortire esito sfavorevole, per tale considerando la mancata conqui-sta della vetta (ed è un errore, perché è certamente più serio non raggiungere una cima dif-ficile piuttosto che salirne una facile; e perché nel valutare il successo o l’insuccesso di una spedizione concorrono con l’elemento «conquista» anche altri, come «perfezione dell’orga-nizzazione», «armonia degli uomini», ecc.): ed allora ecco che si è visto preferire la quantità alla qualità (credo ci siano spedizioni che hanno conquistato venti cime vergini) e maschera-re di interesse esplorativo o scientifico (in realtà modestissimo se non addirittura inesistente) iniziative di limitato interesse alpinistico. Qualcuno dirà che è questa un’impostazione troppo rigida: ma io sono convinto che, se qualche indulgenza poteva essere ammessa qualche anno fa, quando l’attività extraeuropea delle Sezioni era appena agli inizi, quando mancava l’esperienza, quando si era davvero convinti di recarsi in regioni inesplorate (e magari ne esi-stevano le carte topografiche), quando l’avvicinamento presentava maggiori difficoltà, oggi occorre essere ben più severi nel valutare l’opportunità di una spedizione in relazione al suo obiettivo, se non vorremo vedere l’attività extraeuropea ridotta a livello di picnic. Conseguentemente sono convinto che l’attività extraeuropea del Club Alpino Italiano, tan-to a carattere nazionale quanto a carattere sezionale, deve muoversi nelle direzioni sopra prospettate: cime di 8000 metri (vie nuove, prime ascensioni delle «vette minori»); cime di 7000 metri inviolate; cime vergini di quota inferiore, ma di notevole interesse alpinistico, e percorsi inediti sulle più importanti cime extraeuropee, anche se non ubicate in Himalaya o in Karakorum. La scelta degli obiettivi è condizionata da diversi fattori: principalmente uomini, costi, situazioni politiche locali: ma è certo che, in qualsiasi momento, è possibile trovare, nell’ambito delle predette categorie, una meta, gli alpinisti adatti e il finanziamento. La prospettata evoluzione della attività extraeuropea del Club Alpino Italiano, quand’anche teoricamente esatta, sarebbe destinata a rimanere improduttiva qualora fosse possibile di-mostrare che non esistono né gli uomini né i mezzi per realizzarla. Fortunatamente è pos-sibile dimostrare il contrario: ed è a tale limitato effetto che accenno, per concludere, alla questione. Che l’alpinismo italiano abbia uomini idonei a qualsiasi impresa extraeuropea, è fuori di discussione: sono anzi talmente numerosi che, a livello nazionale, si pone il problema della scelta. Alla selezione non deve presiedere il criterio dell’abilità: non occorre insomma il fuoriclasse, anche se è indispensabile che l’alpinista possieda capacità tecniche elevate. Nella scelta sono invece determinanti le qualità che consentono di costituire un gruppo omo-geneo, come l’età, l’esperienza, il grado di disponibilità alla vita in comune e in condizioni

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disagevoli; non si raccomanderà mai abbastanza di sottoporre i candidati a seri test psicolo-gici, importanti, in qualsiasi genere di spedizione, almeno quanto il controllo dell’adattabilità alle alte quote; ma soprattutto occorre che gli alpinisti siano tra loro amici prima di partire: è evidente che un’amicizia o anche un semplice affiatamento non possono essere improvvi-sati, nemmeno in vista di una spedizione. Anche a livello sezionale gli uomini non mancano: al riguardo non va dimenticato che «meta di notevole interesse alpinistico» non significa necessariamente «vetta di eccezionale difficoltà»; senza dire che non costituirebbe certo una diminutio capitis, ma al contrario un’auspicabile forma di collaborazione, l’inserimento nei quadri di una spedizione sezionale di uno o due alpinisti appartenenti ad altra sezione, ma particolarmente dotati e amici dei componenti il nucleo base. Dulcis in fundo, il problema finanziario, che va impostato tenendo ben presente che quella extraeuropea costituisce la più valida e costruttiva alternativa all’evoluzione del moderno alpinismo: è chiaro quindi che, a tal fine, sia la Sede Centrale sia le Sezioni devono stanziare una parte considerevole dei fondi disponibili4.

Piero Nava4 Rielaborazione dello scritto in Rivista Mensile C.A.I. 1968, pag. 512.

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

Il Menna (m 2.200) - una montagna con tanti amiciUn piccolo rifugio - grande festa la l° domenica di agosto, ricordo di tanti amici appassionati di montagna

Ogni anno, alla l° domenica di Agosto, i soci ed amici del Gruppo MAGA di Zorzone e Oltre il Colle fanno festa sul Menna. Una cima amica, a 2.200 m, che fa da contorno assieme all’Alben, Al Grem e all’Arera alla splendida conca del Comune di Oltre il Colle.Non è una salita difficile, ma abbastanza impegnativa. A quota 2.000 c’è un rifugio costruito e gestito dagli amici di Zorzone. La cima della montagna è a quota 2.200. Il panorama è interessante, lo sguardo va oltre il passo S. Marco e sui monti della Valtellina. La partenza tradizionale è dal centro di Zorzone. 2 ore di buon cammino. Altri amici salgono da Roncobello, altri da Camerata Cornello, altri ancora dal Passo Branchino e dal Sentiero dei Fiori. Qui però necessita essere più attrezzati e sicuri; vi sono alcuni passaggi sullo spartiacque verso Lenna che richiedono attenzione e piedi sicuri.L’amico Stefano Torriani ha infatti preparato la sua precisa ed interessante cartina con gli itinerari. Io, da amico affezionato e meno giovane, seguo il classico, la salita da Zorzone, partendo alle ore 8 circa. Il primo tratto, sino alla cascina “Matuida”, sia che si segua il sen-tiero più breve o la strada Carrozzabile recentemente realizzata, è tutto tra i boschi di faggio.Lasciata però la cascina, si deve uscire allo scoperto e al sole. Il sentiero si inerpica, e per un’ora e mezzo ci si deve impegnare. I più giovani e veloci sorpassano, ti salutano cordial-mente e vanno. Per un poco li segui con lo sguardo, ma poi devi mollare e guardare i tuoi passi e non cedere. Dopo un un’ora intravedi il rifugio; che sospiro profondo...Al rifugio ti accolgono gli Amici, i bravi custodi del Rifugio, il Presidente Epis per primo.Un bel tè caldo rifocilla tutti. Fuori dal rifugio gli Amici del Gruppo Maga e tanti di Zorzone sono tutti presi ad accendere i fuochi, a piazzare le pentole per le polente, a predisporre le griglie per le costine e i cotechini. Il Corrado, vecchio cacciatore, ogni tanto abbandona gli

Menna

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amici preparatori e si porta in un posto stra-tegico per osservare quanti stanno salendo a Zorzone. Dalla base dei suoi calcoli e pre-visioni bisogna preparare le polente e tutto il resto per il rancio di mezzogiorno, non sba-glia mai i calcoli. In attesa della Santa Messa, alcuni si dirigono sulla cima, altri fanno uno spuntino, altri aspettano l’arrivo dell’elicottero

che porterà lassù altri amici e parenti. Alle 11,15 la Santa Messa sotto la vicina prima croce. Momento toccante la riflessione la

preghiera per gli Amici defunti e il canto” Signore delle cime...”.A mezzogiorno il rancio. Gli amici di Zorzone, in questi ultimi anni, al menù classico hanno aggiunto anche la specialità della “Polenta cunsada”, con panna e salame, roba leggera....Poi canti e musica. Il complesso tradizionale delle 3 Fisarmoniche Carrara (Padre e 2 figli); ll più simpatico e geniale è il figlio sacerdote, nativo di Zorzone. A questi si aggiunge un amico di Roncobello col banjo, un amico fabbro e voce solista di Zorzone con la chitarra classica, un bravo giovane di Oltre il Colle con il sassofono. A tutti questi si aggiungono e associano voci in coro, più o meno intonate, e qualche originale solista. Tutto, comunque, ben si disperde tra queste amiche cime. Ogni tanto qualche amico vicino ti sgomita e ti passa la bottiglia di vino rosso, altri insistono per riempirti il bicchiere, comunque tutto in armonia e con tanta allegria. L’amico abituale, Guido Coppetti, scatta foto in quantità e cerca di cogliere le figure e le pose più originali e simpatiche; “Al prossimo incontro ti mostrerà la tua simpatica foto”.Quando il sole comincia a calare, o qualche cumolo di nebbia si avvicina, è l’ora di raccogliere lo zaino e prepararsi per la discesa. I più verso Zorzone, altri su Camerata e Roncobello. È stato bello. Ne è valsa la pena di salire sul Menna. Agli amici di Zorzone un sincero grazie.

Giuseppe Gentili

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

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80 CANDELINE SUL “TRE SIGNORI”Martinelli Gianfranco è un caro amico, che abita a Monza; da più di 50 anni viene con la famiglia in villeggiatura a Valtorta. Per la sua grande passione per la montagna ha raggiunto varie vette nella nostra zona. Da tanti anni è anche socio della nostra sezione CAI - AVB.All’inizio dell’estate disse a Stefano e Nazzareno che il 16 luglio avrebbe compiuto 80 anni e gli sarebbe tanto piaciuto festeggiare questo giorno salendo ancora una volta sul Pizzo Tre Signori; avrebbe voluto essere accompagnato da noi due. Molto contenti di questa proposta abbiamo accettato subito con entusiasmo. Così, il giorno 16, di buon’ora, abbiamo cominciato la salita; il cielo era nuvoloso e minacciava pioggia. Arrivati alla bocchetta della Valle Inferno, cominciò a cadere una pioggerella fine e sferzante ma con le nostre giacche a vento e man-telle ci riparammo e continuammo la salita. L’ultimo pezzo fu abbastanza impegnativo, anche perchè la roccia era bagnata e scivolosa. Alle ore 10.30 raggiungemmo felicemente la vetta e, come per incanto, smise di piovere e un raggio di sole illuminò la grande croce.Franco era un po’ stanco ma più che altro era molto emozionato; non c’erano altre persone. Dopo un tè caldo, Stefano tolse dallo zaino una bella torta; il taglio naturalmente fu effettuato dal festeggiato e noi applaudimmo. Nazareno per dare solennità a tutto questo recitò una sorta di poesia dedicata non solo a Franco ma anche a sua moglie Anna, al figlio, alla nuora e alla cara nipotina Giada. Fu ringraziata anche la piccola statua della Madonna che si trova vi-cino alla croce, perchè ha permesso a Franco di festeggiare i suoi 80 anni ai suoi piedi. Franco, molto commosso, abbracciò tutti e due e con gli occhi lucidi e la voce rotta dall’emozione ci disse: “grazie!”.Per noi due fu la ricompensa più gradita che poteva farci. Il nostro amico, per ricordare anche ad altri la sua piccola impresa, scrisse sul registro belle e significative parole. Non rimanemmo molto in vetta ma fu un momento molto sentito e intenso che Franco ricorderà per tutta la vita; anche a noi che l’abbiamo accompa-gnato resterà tra i ricordi più belli.

Nazzareno e Stefano

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

ALPE CIMA (o SCIMA)Eccoci di nuovo anche oggi a fare un’escursione nell’affascinante Valtellina. Prima di Chia-venna giriamo per Gordona, da cui parte una larga mulattiera, con gradini regolari, interrotta in gran parte dalla strada asfaltata, che sale fino al borgo di Cermine. Noi saliamo in mac-china fino a Donadivo, qui in un bar prendiamo il permesso per poter salire ancora un po’ per la strada agro-silvo-pastorale della Val Pilotera, la strada sale ripida e stretta; arrivati a una Cappelletta finisce sia la strada ben asfaltata, sia la mulattiera molto bella.Iniziamo così la nostra escursione; il primo gruppo di casette che incontriamo è Cermine, un bel nucleo di case ristrutturate secondo le caratteristiche di un tempo, alcune hanno le “lobbie” artigianali, vi sono anche case nuove in costruzione, sempre secondo il vecchio stile.Lasciamo alle spalle Cermine, che potremo ammirare ancora al ritorno, prendiamo il sentiero che sale ripido tra prati prima, e poi nel pascolo al centro di un costone, passiamo accanto a una fontana in pietra; il prato lascia il posto al pascolo dove vi sono radi e secolari larici, alcuni sono secchi, per essere stati colpiti da fulmini, sconsigliano di salire quando ci sono i temporali, perché è una zona soggetta a fulmini.Il sottobosco è ricoperto di fiori di rododendri e mirtilli, ma non vedo dei frutti, si sale sul filo del dosso del costone, la cresta sembra assottigliarsi sempre di più e anche il sentiero si fa sempre più stretto, più ripido e tra roccette, guardando alla nostra sinistra, ci sono profondi canaloni, non raggiungiamo la cima, ma pieghiamo verso destra; prima però uno sguardo su ciò che abbiamo lasciato alle spalle, una incantevole panoramica sulla Valtellina e Val Chiavenna, un tratto di costiera delle Alpi dove spiccano il Pizzo Prata, Badile, Cengalo, ecc.

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Girando a destra il sentiero si fa più pianeggiante, raggiungiamo in breve i prati dell’Alpe Cima, o Scima, come vien chiamata nel loro dialetto, poco dopo una bella visione si presenta davanti a noi, un minuscolo campanile bianco e, sotto, le rustiche baite e una chiesetta di forma circolare anch’essa bianca, Qualcuno ieri è venuto a tagliare l’erba nei sentieri, così seguiamo il percorso ben pulito.Arriviamo all’Alpe Cima, un angolo suggestivo dove il tempo sembra proprio che qui si sia fermato, una decina di basse casette interamente costruite con pietra del luogo, due o tre si stanno piegando sotto il peso degli anni, le altre sistemate secondo la vecchia costruzione. Ciò che colpisce di più, in questo luogo isolato, sono il campanile e la chiesetta, osservan-doli, a me sembra che il piccolo campanile, là più in alto, visto anche da lontano, con orgoglio chiami a sé i fedeli, e più in basso la chiesetta che con tanta umiltà li attenda; chissà se chi li ha ideati e costruiti un tempo passato la pensavano anche loro così.Non possiamo visitare la chiesetta, naturalmente è chiusa, non essendoci nessuno.Giriamo un po’ tra il nucleo di baite osservando come un tempo l’uomo, non avendo nulla, solo sassi del luogo, si ingegnava a costruire, e la cosa che più fa riflettere sono le costru-zioni che resistono ad ogni intemperie anche per secoli.Alle costruzioni di oggi basta un alito di vento che crollano, ci sediamo su una panca accanto ad un massiccio tavolo di legno.In silenzio, come il religioso silenzio che ci circonda, apriamo lo zaino, mangiamo qualche cosa, ma lo sguardo non perde tempo, scorre sulle montagne verso la Val Bregaglia e la Val Chiavenna.A malavoglia lasciamo questo incantevole luogo, da qui si può proseguire verso il Passo Forcola e il Rifugio omonimo.Noi facciamo il giro ad anello, scendiamo un po’ finché raggiungiamo il sentiero che da Cermine arriva al Rifugio Forcola; dopo il tratto in discesa, raggiunto il sentiero che porta al Rifugio Forcola, attraversiamo il bosco quasi tutto in piano. L’ultimo tratto è in salita, e arriviamo nei pascoli sopra Cermine, prendiamo il sentiero fatto in mattinata, lasciamo alle spalle la fontana, il costone, ed eccoci di nuovo al caratteristico nucleo di case di Cermine; più sotto si vede un altro gruppo di baite, è Orlo, adagiato su una costa boschiva, giù sotto l’ampia vallata.Facciamo un giro tra il Borgo antico scattando alcune foto, arriviamo alla macchina e scen-diamo verso Donadivo dove, alla Trattoria Bar, passiamo a ritirare il documento lasciato in mattinata per avere il permesso.Davanti alla trattoria vi è uno strapiombo, sembra di essere su un terrazzo di un grattacielo, e sotto una vasta panoramica sulla Val Chiavenna.Quando io salgo in questi piccoli paradisi, con poche cose nello zaino, solo l’indispensabile per poche ore, mi viene da riflettere, e penso a chi parecchi anni fa saliva per necessità con gli animali, portando sulle spalle zaini pesanti, poiché qui rimanevano per mesi, isolati da tutto, con qualsiasi intemperie; forse loro, questi luoghi, per me magici, non li sentivano come piccoli e rilassanti paradisi, perché per parecchi mesi vivevano isolati da tutto e da tutti, vedevano solo qualche viandante che raggiungeva la Svizzera attraverso il Passo Forcella.La necessità li costringeva a vivere così isolati, però era una vita a misura d’uomo e non stressante come la vita odierna, a loro bastava poco; noi più abbiamo, più vogliamo e siamo insoddisfatti.

Maria Licini

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

Ho un’abitudine quando mi sveglio al rifugio: appena alzata, ancora in pigiama, se non piove, esco, vado sul sasso vicino ai tavoli e do’ uno sguardo al panorama: prima verso sud, poi il Valletto, il Ponteranica, poi cambio quinta e incontro lo Scalino, percorro veloce-mente tutte le Retiche passando per i ghiacciai del gruppo del Bernina, saluto il Disgrazia, val di Mello, val Masino, val Codera, fine; ecco, a questo punto, da sei anni, il mio sguardo torna sempre indietro un pochino e si sofferma pensieroso e desideroso su quel trapezio tanto perfetto che è il Badile.. Ma non ci ho mai sperato troppo: ogni anno c’erano o la pancia o i bambini troppo piccoli, bisogna azzeccare la giornata col tempo adatto, essere un minimo in forma, trovare qualcuno che possa venire con me in settimana e soprattutto avere qualcuno di affidabile che stia al rifugio al posto mio.. molto difficile.. Quest’anno però le condizioni minime erano verificate e ho cominciato a pensarci sempre più inten-samente! Così verso fine luglio, in occasione del mio compleanno (35: età simbolica, “il mezzo del cammin di nostra vita”..) ho chiesto al mio amico Carlo, che da sei anni mi aiuta al rifugio, un regalo un po’ particolare: aiutarmi a trovare il tempo di andare sul Badile e andarci insieme! (e, dato che anche lui non ci era ancora salito, intendevo proprio questo, non “portarmi”, è un po’ diverso, soprattutto per una ormai signora che ha antiche velleità alpinistiche e ci tiene alla sua autonomia in montagna). Ma intanto l’estate passava e il tempo non era ancora saltato fuori.. finchè, miracolosamente, individuiamo il giorno giu-sto: il venerdì prima dell’utimo weekend di apertura. Rifugio presidiato affidabilmente da Sara e Stefano, bimbi dai nonni, una stagione di salite e discese dal Benigni nelle gambe, qualche arrampicata nelle mani, Giannetti ancora aperta, tempo spettacolare.. si parte!!Arriviamo in Giannetti dopo le sette, preoccupati di fare quelli che arrivano tardi per la cena, ma non veniamo sgridati, anzi accolti senza fretta; e per una volta dopo tanto tempo mi godo una sera in rifugio dall’altra parte della barricata.. avrei fatto tutta quella salita anche solo per questo! La mattina dopo sveglia presto, un’occhiata verso la lontana Valgerola

BadilePizzo

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(da cui di solito guardavo qui) e partenza su per la pietraia verso l’attacco della tanto agognata meta. Non c’è una nuvola in cielo, ma la brezza è gelida nell’ombra del granito; le ermetiche indicazioni del rifugista e i vari cordini abbandonati non ci fanno procedere proprio velocemente, ma saliamo senza troppi problemi; verso metà incontriamo altri due, una guida col suo cliente, che è una vita che voleva salire e per celebrare ha portato anche il prosecco da bere in cima.. Proseguiamo insieme sull’ultima parte, dove ormai si procede in conserva, e raggiunta la vetta festeggiamo degnamente davanti al bivacco giallo! Purtroppo non ci possiamo intrattenere a lungo, dato che per sera dobbiamo essere di nuovo al Benigni.. e fortunatamente possiamo unire le corde per le doppie di discesa, così avanza tempo per una sosta dissetante in Giannetti! E mentre scendiamo a rotoloni verso i Bagni, mi volto ogni tanto ad assaporare la vista della benevola parete sud di questa magnifica montagna, ora un po’ più familiare e che, per me, non è più un lontano trapezio di granito, ma ha finalmente ottenuto spessore.

Elisa Rodeghiero

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ANNUARIO 2011-2012 ESCURSIONI - ALPINISMO

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È ricorrente durante la stagione estiva la domanda: “Fino a quale altitudine posso andare?” rivoltami da appassionati di mon-tagna con problemi di salute cardiaca.Qualcuno, sapendomi esperto di Medicina di Montagna (diploma di Perfezionamento all’Università di Padova), viene da me per sottoporsi ad accertamenti clinici per avere l’idoneità a raggiungere quote elevate.La Società Italiana di Medicina di Montagna considera bassa quota l’ambiente fino a 1800 m, media quota la fascia compresa fra 1800 e 3000 m, alta quota fra 3000 e 5500 m e altissima quota oltre 5500 m. Con l’aumentare dell’altitudine la pressione parziale di ossigeno (O2) dell’aria si riduce, quindi diminuisce il numero di molecole di questo gas vitale introdotte con ogni atto respiratorio. In soggetti sani la concentra-zione di O2 nel sangue inizia a ridursi da 3000 m e oltre i 3500 m la desaturazione dell’emoglobina (molecola dei globuli rossi che lega l’ossigeno a livello polmonare e lo trasporta in tutti i tessuti) interessa tutti i soggetti non acclimatati. Pertanto la quota che interessa il cardiopatico è la media, da 1800 a 3000 m. Oltre i 3000 m, nei soggetti sani esposti acutamente la concentrazione di ossigeno nel sangue è mantenuta entro limiti di normalità mediante aumento della ventilazione polmonare, della frequenza cardiaca e quindi della portata cardiaca. In questo modo i tessuti dell’individuo sono sufficientemente ossigenati. È presente, inoltre, aumento della pressione arteriosa sistemica, della pressione polmonare, sep-pure con invariabilità interindividuale. Anche

altri fattori vanno considerati nell’esposi-zione acuta all’alta quota, quali il freddo e la fatica in ambiente montano. Tutte queste condizioni controindicano in maniera asso-luta l’esposizione oltre i 3000 m di individui affetti da qualsiasi tipo di cardiopatia a causa dell’incapacità del cuore malato a migliorare la propria prestazione in risposta agli stimoli sia esterni (ridotta pressione parziale di ossigeno nell’aria, freddo, fatica), sia interni (aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa sistemica, della pres-sione polmonare). Ciò premesso, non tutti i cardiopatici possono raggiungere quote fino a 3000 m. La Società Italiana di Medicina di Montagna, di cui sono socio fondatore, ha pubblicato le raccomandazioni compor-tamentali per il cardiopatico in montagna: sono a disposizione presso gli Ordini dei Medici provinciali. In esse sono codificate le controindicazioni cardiovascolari assolute al soggiorno a medie quote (1800-3000 m):

•Infartomiocardiorecente (< 4 settimane)

•Anginapectorisinstabile •Scompensocardiacodi

grado avanzato •Formegravidimalattiedelle

valvole cardiache •Aritmieventricolaridigradoelevato •Cardiopatiecongenitecianogene

o con ipertensione polmonare •Arteriopatiaperifericasintomatica •Ipertensionearteriosagrave

o mal controllata

Dott. Marino Gambarelli

Il cardiopaticoe l’altitudine

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ANNUARIO 2011-2012 SPORT DI MONTAGNA

In sella… a grandi emozioni!!!Quando nell’estate del 2008 decisi di creare il sito www.percorsimtbvalbrembana.it, nel mio archivio avevo una ventina di percorsi e sembrava quasi impossibile riuscire in valle tracciarne di nuovi. Nel periodo successivo, l’impegno nella ricerca è stato notevole, ma facilitato dalla profonda conoscenza del territorio, maturata in tanti anni di escursioni: in bicicletta fin dalla comparsa dei primi rampichini, a piedi e con gli scialpinismo, lungo tutte le Prealpi Orobie. La collaborazione con gli amici del gruppo è importante ed essenziale; con loro prima pianifico quale potrebbe essere l’itinerario e successivamente in sella lo testiamo per capire se può essere un giro logico e proponibile ai bikers. Parecchie volte, a causa della relativa ciclabilità, oppure perché ritenuto estremamente impegnativo, viene scartato. Non avrei mai pensato che alla fine del 2011 nel sito si potessero contare ben 50 percorsi, per una lunghezza totale di 1317 km, con parecchi di nuovi in cantiere. La tipologia del terreno che caratterizza la valle, purtroppo, non offre la possibilità di creare itinerari facili: nella maggior parte dei casi i sentieri, impegnativi e tecnici, necessitano di buon allenamento e padronanza nella conduzione della bici. Per affrontare itinerari di questo tipo, la MTB riveste un ruolo molto importante e deve rispondere a caratteristiche di sicurezza e di facilità, nella pedalata e conducibilità: forcelle con una lunga escursione, ammortizzatore posteriore, freni a disco, telaio robusto e copertoni con una buona grip. L’importante è che ci sia un buon compromesso fra il peso complessivo del mezzo e le prestazioni offerte: relativamente leggera quando siamo impegnati sulle lunghe e faticose salite, ma che faccia divertire in sicurezza nelle discese mozzafiato. Quando decido di proporre un percorso inedito, solitamente lo devo ripetere per tre volte perché è necessario acquisire molti dati e rilevamenti. La prima uscita la dedico alla verifica della percorribilità e alla tracciatura con il GPS andando ad inserire, nello strumento, i vari waypoint di riferimento. Durante il

CARATTERISTICHEMTB

Nella foto: Baite Zuccone

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Vista sul Pizzo Arera138

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ANNUARIO 2011-2012 SPORT DI MONTAGNA

secondo giro, tramite il ciclo computer fissato al manubrio, con frequenti fermate registro: tempi intermedi, passaggi in punti noti e cambi del tipo di fondo (sentiero - sterrato - asfalto). Nel frattempo, attraverso un piccolo registratore vocale, prendo numerosi appunti che mi consentono in seguito di stendere una relazione che sia la più attendibile e precisa possibile. Approfittando di una giornata serena, durante l’ultima ripetizione, documento con una serie di fotografie l’intero tragitto e segno, attraverso bolli di colore arancione, la direzione negli incroci in cui potrebbero esserci problemi di orientamento. Dopo aver memorizzato tutti que-sti dati e informazioni, mi aspetta un gran lavoro al computer e procedo con la stesura della descrizione, la sistemazione e modifica di tutto il materiale acquisito.Il grande impegno, nel tenere sempre aggiornato il sito, è ampiamente ripagato dalla consa-pevolezza che tanti amanti di questo sport possano correre su innumerevoli percorsi nella splendida Val Brembana. Molti sono i riconoscimenti ricevuti che mi spronano nel continuare su questa strada, tra cui il numero sempre crescente di bikers che, anche da fuori provincia, pedalando lungo i sentieri delle nostre montagne rimangono conquistati dalle bellezze natu-rali che le Orobie sanno offrire.La sera che precede la gita è caratterizzata dalla meticolosa preparazione dello zaino, in cui metto tutto il materiale necessario: abbigliamento di ricambio, mantellina antivento, alimenti energetici, confezione di pronto soccorso, attrezzi per interventi meccanici e camere d’aria, tutti articoli che non possono mancare. Alla fine continuo, in una scaletta mentale: GPS, ciclo computer, macchina fotografica, registratore audio, casco, sacca idrica e sali minerali per terminare la lista. Per completare il tutto, faccio un controllo alla mtb e la carico in macchina.Solitamente, di buon’ora iniziamo a pedalare, ritrovandoci ben presto nel silenzio assoluto, rotto solamente dai nostri respiri affannati e dal rumore delle ruote artigliate che solcano i sentieri. La sensazione di libertà che proviamo, quando in sella attraversiamo ombrosi boschi e pinete, oppure sui versanti dei monti che portano ai passi in alta quota, ci regala forti emozioni. Simpatici sono gli incontri con gli escursionisti che, a volte, incrociamo in luoghi particolari, oppure su sentieri estremamente impegnativi: le domande e le battute sono le più disparate. L’intensa fatica che affrontiamo durante le salite viene ripagata ampiamente dalle entusiasmanti discese, cariche di adrenalina. È curioso pensare che montagne, vallate, vette, pendii, sentieri, frequentati da anni, siano teatro in stagioni diverse di passioni svariate: lunghe camminate, impegnative scialpinistiche e appassionanti pedalate.Intendo ringraziare ancora una volta il gruppo molto affiatato e ben collaudato di “percor-simtbvalbrembana”: Maurizio, Alberto, Vittorio e Corrado che mi hanno supportato e… sopportato con pazienza, permettendomi l’ampia raccolta di materiale, finalizzato alla rea-lizzazione del sito.Sull’Annuario di quest’anno ho pensato di pubblicare la descrizione del percorso “Rifugio Capanna 2000 - Sentiero dei fiori - Val Vedra”. Questo spettacolare e panoramico percorso ad anello si sviluppa sui versanti del Monte Arera: una fra le vette più famose e frequen-tate dagli escursionisti nelle Prealpi Orobie. Dopo avere guadagnato faticosamente quota, raggiungendo il Rifugio Capanna 2000, pedaleremo sul famoso “Sentiero dei fiori”, in un coloratissimo giardino botanico di alta montagna, per poi scendere lungo la solitaria Val Vedra, incontrando solamente mandrie e greggi al pascolo.

Se vuoi salire in sella a grandi emozioni che corrono sui sentieri della Val Brembana, visita il sito: www.percorsimtbvalbrembana.it

Gianpietro Giupponi

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Sentiero dei fiori - Val Vedra

In auto seguendo la S.P. nr. 27 risaliamo la bella e lunga Valle Serina, fino ad arrivare al pa-ese di Oltre il Colle (m 1030); alle prime case, poco prima della chiesa scendiamo a sinistra e parcheggiamo nel grande piazzale, dove è possibile fare scorte d’acqua alla fontana. Risa-liamo sulla provinciale e giriamo a sinistra verso Passo di Zambla; mentre attraveriamo Oltre il Colle, se guardiamo a sinistra vediamo i monti Menna, Arera e Grem posti a semicerchio. Guardando attentamente il Pizzo Arera è possibile individuare praticamente tutto il tragitto che andremo a percorrere:il Rif. S.A.B.A. colorato di rosso; più sopra, il Rif. Capanna 2000; a sinistra, la larga sella del Passo Branchino e, quasi per intero, la Val Vedra. Scaldiamo le gambe nel facile tratto fino a Zambla Bassa poi, in salita, arriviamo all’inizio di Zambla Alta a m 1197 (km 4,4 - ore 0,20 - disl. m 167) dove giriamo a sinistra, in direzione Arera. La strada, con pezzi in discesa e falsopiano, compie un lungo diagonale tagliando la base del Monte Grem, arrivando in Località Plassa, dove teniamo la destra. Un cartello poco incoraggiante indica che la salita è al 12% ma, in realtà, rileviamo una pendenza media del 13,6%. Effetti-vamente ora ci aspetta un’ ascesa veramente impegnativa, lungo tornanti che, nonostante la strada asfaltata, obbligano ad inserire il rapporto più agile. Al quarto curvone merita sicura-mente di essere visitata la particolare “Cattedrale vegetale dell’Arera”, un’imponente opera, completamente costruita con materiale vegetale. Ad un tornante passiamo vicino al Rifugio S.A.B.A. (privato) e, velocemente, siamo al termine dell’asfalto (km 13,3 - ore 1,10 - disl. m 646); poco prima del parcheggio, imbocchiamo a sinistra un ripido tratturo seguendo le

CapannaRifugio

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segnalazioni per Rif. Capanna 2000, a fianco della vecchia partenza degli impianti di sci. La salita si sviluppa su pendenze molto ripide, con il fondo sassoso e in alcuni tratti parecchio rovinato che, con tornanti scavati sulle pendici del Pizzo Arera, porta rapidamente in quota; con un buon allenamento, ad esclusione di tre o quattro tratti veramente impossibili, si riesce a pedalare per buona parte. Mentre si spinge la bici, lo sguardo spazia sulla Val Seriana, sul maestoso Monte Alben, ai cui piedi i paesi di Zambla Alta e Oltre il Colle; sul fondo la pianura e, sopra le nostre teste, l’imponente massiccio del Pizzo Arera (vetta, m 2512). Dopo un lungo traversone e un pezzo a spinta, infiliamo il sentiero a destra che in breve conduce, finalmente, al Rifugio Capanna 2000 m 1954 (km 14,5 - ore 1,50 - disl. m 1007). Ci concediamo una sosta per recuperare le energie e per ammirare il grandioso scenario offerto. Ripercorriamo le nostre tracce fino alla stradina, curviamo a destra per una cinquantina di metri verso un pannello di legno; da questo punto inizia il famoso “Sentiero dei fiori” che corre in quota, in un habitat superbo, arricchito da un arcobaleno fiorito. Visto il delicato equilibrio naturale della zona, si raccomandano massimo rispetto e conseguente comportamento civile, verso le spettacolari fioriture, di grande valore botanico. Il tracciato è indicato dal segnavia CAI nr. 222 ed è caratterizzato da continui cambi di pendenza: frequenti pezzi da percorrere a piedi, a causa della presenza di grossi sassi e con parti ciclabili tecniche, che vanno affrontate con molta attenzione. Mentre sotto di noi vediamo la Val Vedra e parte del tracciato di discesa, at-traversiamo il Mandrone che è dominato dalla cima della Corna Piana (m 2302); tre strappetti consecutivi, con la MTB a spinta, permettono di arrivare ad un passo posizionato a m 1854 di quota, sopra ad una baita (km 17,8 - ore 2,25 - disl. m 1122). Al palo metallico abbandoniamo il sentiero e a piedi pieghiamo decisamente a sinistra seguendo la costa erbosa, fino alla parte sommitale; sul versante opposto, in una conca nascosta, si trova il Lago Branchino e, sullo sfondo, si vedono i monti che sovrastano la zona dei Laghi Gemelli. Cercando di individuare fra l’erba la traccia, scendiamo a destra in direzione di una pozza, dove troviamo

Sentiero dei fiori

Val Vedra

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il sentiero CAI nr. 231, che seguiamo piegando a sinistra, in discesa. Dalla testata della Val Vedra inizia la lunga e divertente discesa che necessita però di notevoli capacità, tecniche e di sicurezza, nella conduzione della MTB; dopo il ripido pendio, andiamo in direzione della pozza sottostante e poi verso la Casera di Vedro, m 1674, posta sopra un piccolo pianoro. Scendiamo di poco a piedi, nel pascolo, puntando verso la traccia che passa sulle pendici del Monte Vindiolo e che si dirige sulla dorsale, passando sopra una grande recinzione di sassi (10 minuti a spinta). Dopo uno sguardo alle spalle, per ripercorrere visivamente la parte alta del percorso, sfioriamo le Baite Zuccone m 1686 e, scesi di poco, andiamo a destra verso la valletta. Alla vasca per la presa dell’acqua ci abbassiamo di qualche metro, a piedi, raggiungendo il sentiero che porta alla costa successiva, dove troviamo un omino di sassi; al termine di una serie di tornatini nel prato, ci indirizziamo verso l’angolo sinistro del bosco. Percorso il tecnico tragitto, usciamo nel pascolo e passiamo davanti ad una piccola baita diroccata coperta da lamiere; successivamente, attraversiamo due vallette. Scendiamo, tagliando l’alpeggio sotto un baitone, in direzione dell’angolo destro della pineta; dopo un torrente, ci troviamo ad un bivio che seguiamo a sinistra in discesa (vedi la nota nei “Percorsi alternativi”). Un impegnativo e stretto sentiero passa vicino ad una casa isolata e porta ad incrociare una sterrata in prossimità Fraz. Pian Bracca (km 24,1 - ore 3,25). Giriamo a destra per pochi metri e, in concomitanza di un palo metallico con alcune indicazioni, prestiamo attenzione nell’infilare un sentiero che scende a sinistra. Correndo sulla sponda destra del torrentello, più sotto, scavalchiamo due ponticelli e usciamo nel prato, fiancheggiando un muro di sassi a secco e una santella. Dopo un piccolo ponte, pedaliamo in leggera salita su un liscio tracciato che arriva alla Cappelletta della Forcella (km 26,1 - ore 3,40); tenendo la destra, andiamo a percorrere l’ultimo tratto di sentiero, in parte molto sassoso, che porta ad una sterrata. Piegando a destra, rapidamente, siamo sull’asfalto dove ci aspetta l’ultima fatica della giornata; risaliamo lungo alcuni tornanti che, in 2 km e con 130 m di dislivello, ci riportano ad Oltre il Colle, chiudendo questo grandioso e fiorito percorso.Buona pedalata e buon divertimento.

Gianpietro Giupponi

Cima del Monte Menna

Val Vedra

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MTB MINCUCCOL’esplorazione è curiosità

Quel sentiero che si snodava in una sinuosa serpentina sul versante opposto della montagna aveva da tempo catturato la mia curiosità, lasciava intravedere linee ideali da percorrere non senza impegno da una mountain bike, e così dopo secoli di totale tranquillità il Mincucco cominciava ad entrare nei progetti di noi bikers.Troppo spesso ci si fossilizza sui soliti percorsi e questo è un difetto trasversale a molte categorie senza mettere in campo quella necessaria sete di esplorazione che dovrebbe sempre animarci durante le nostre uscite; pur parlando in questo momento di mountain bike, credo che questo pensiero sia applicabile a tutte le discipline praticate in montagna.Quello che stava al di sotto della seducente serpentina era avvolto dal mistero più profondo e a poco servivano in chiave bikeristica le informazioni raccolte dai numerosi fungaioli fre-quentatori della zona, probabilmente più indaffarati a cercar prede sotto i rami e le foglie che a controllare pendenza e gradini dei sentieri.L’evoluzione della tecnica di guida e dei componenti ha reso la mountain bike un mezzo ideale per scoprire ed esplorare la montagna; i miei compagni di gita condividono con me il pensiero che la moutain bike sia il mezzo e non il fine delle nostre uscite in montagna.Nelle nostre uscite portiamo a casa molto in termini di emozioni e condivisione cercando di non lasciare nessuna traccia del nostro passaggio.Una fine anno 2011 insolitamente mite e con carenza di precipitazione nevose lascia il campo alla nostra campagna di peregrinaggi sul Monte Mincucco. Cinque uscite di rara

MincuccoMonte

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bellezzanelmesedidicembreinluoghichenormalmenterestanoinaccessibilisinoallaprimaverasuccessivacipermettonodiapprezzareunmontespessosnobbato.Prova ne sia che gli unici incontri sono quelli con i camosci, indiscussi padroni dei pascoliinquestoperiodo.DopounaesplorazioneinstiletrekkingdalbassosinoallaBaitaSeradaconsalitadallaValCaprileediscesadallaValSerradadecidocheèoradi inforcare ifididestrierieprogrammol’escursionepassandodaiPianidell’Avaroin direzione sentiero 101. Ma il peggior nemico di tutti gli escursionisti quel giorno era in agguato eunanebbia che riduce la visibilità a pochedecinedimetrimi fasbagliareclamorosamentel’itinerarioedopooretrascorseacercareunvarcodirettosulfondoghiacciatodellaValSerrada,senzariuscirearaggiungerel’omonimabaita,mi rassegno ad una dignitosa ma quanto mai opportuna ritirata ai Piani dell’Avaro.L’approcciosuccessivoavvieneinunagiornatadisoleeconilbludelcielochesolole giornate invernali sanno offrire. “Del senno del poi sono piene le fosse” e ai miei occhisidischiudonocomebanaliedevidentiquellicheeranostatiglierroridelprimoapproccio.Finalmenteilpensierociclocentricotraccialineearmoniosesuimagripa-scolidelmonte,andandoasfiorarelesuegraziosebaiteecaserecomesidovesserounire dei punti di una ragnatela immaginaria con l’unico vincolo della forza gravità.Sottodinoiunbrancodicamoscipascolasenzaesseretroppodisturbatodallano-strapresenza;neipressidellabaitaMincuccoabbandonanoilsentierocomeavolercedereilpassomanessunbikerpotràmaiimitarliinagilitàerestiamoadosservarliincantatisinochescompaionoallanostravista.Siamoacontattoconilsentierocheavevamo osservato a suo tempo, il fondo è sconnesso e i tornanti sono molto stretti, laconduzionedellabikediventamoltofisicaefaticosa.

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È spesso sconosciuto ai non addetti ma in queste condizioni si riesce a faticare e sudare anche in discesa, nonostante la stagione. La ruota posteriore si alza e si spo-sta a formare un semicerchio che permetta all’anteriore di trovare la linea migliore di discesa.Lecomponentidellabikesonosollecitatealmassimo, forsestannocom-piendo esattamente quello per cui sono state progettate.Dipaniamo con agilità e con qualche tratto a spinta i 1500 m. di dislivello. Dai 2000 metri del Monte Mincucco ai 500metri di Olmo al Brembo la discesa è infinita edimostra ancora una volta come non sia necessario andare in capo al mondo per trovare dislivelli da favola e sentieri divertenti. Nei giorni successivi ripeteremo sia laValCaprilechelaValSerrada,preferendol’accessodallaCaserad’AncognoelaValMora;lacomparsadellaprimanevenonserviràafermarcimacontribuiscearen-derepiùintrigantequestapassionechedefinireisenzaindugibike-alpinismovistelemolteaffinitàcon losci-alpinismo.Questo raccontononvuole indurrenessunoa facili ripetizioni di questi itinerari che vanno comunque approcciati come escur-sioni di montagna, con la dovuta preparazione e conoscenza del territorio, ma vuole esserelariprovacheancheinquestosettoreèincampounainarrestabilemodificadel pensiero ciclocentrico e sono proprio le diversità a fare grandi il nostro sport e le nostre passioni. L’inversione termica la fa da padrona e il freddo del fondovalle viene mitigatodifrontealseicentescocamminodell’AlbergodellaSalutedovepossiamorilassarciedapprezzarelabuonacucina.Lariunioneconvivialedifinegitaèunmo-mento a cui nessuno vuol rinunciare, forse è anche il modo più indolore e allegro per riemergere dall’immersione nelle nostre montagne, anche quelle più recondite e meno conosciute.

cllocate

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La raffigurazione proposta nell’opera a fronte, che ho intitolato: “Non dimentico degli avi il faticato passo”, solo apparentemente frutto di nostalgia per un passato che non potrà tornare, assurge invece a simbolo d’un maturo e profondo sentimento del faticoso ed eroico cammino dell’umanità intera sin dalle sue più lontane origini.Difficoltà: di ogni genere, fatiche fisiche sopportate dall’uomo e in buona parte poi superate grazie all’esperienza accumulata di generazione in generazione e alfine chiamata scienza.Scienza della quale oggi beneficiamo in ogni ambito del nostro vivere e della quale troppo spesso abusiamo.Doni, quindi, scienza tecnica e sapere di immani sacrifici degli avi i quali, certo non insensibili al fascino suggestivo della natura e forse già consci del suo delicato equilibrio, con grande saggezza già in tempi assai remoti maturarono verso di essa rispetto, cautela nel cogliere quanto necessario alla loro sopravvivenza e amore: valori questi che lo spirito speculativo e l’antropocentrismo esasperato ed esasperante dei giorni nostri stanno ottusamente cancellando dalle nostre menti e dalle nostre quotidiane abitudini.Oggi a tanto può arrivare il potere dell’’uomo sulla natura e sul suo modo di vederla perché non più fedele in semplicità al visibile armonico aspetto esteriore delle cose e non sapendo più con innamorati occhi contemplarla.Eccessivamente affascinato e spesso travolto da una visione scientifica che lo conduce spesso verso elucubrazioni ontologiche di dubbia bontà, cade vittima di un nichilismo distruttivo perché freno di ogni percezione spontanea e fresca di alcunché; da qui una sorta di iperestesia e conseguente edonismo utili solo a chi sa di poter trarre profitto da consimili situazioni.Solo conoscendo profondamente il passato dell’umanità e tutto il suo tormentato percorso si potrà recuperare al nostro animo un costruttivo sentimento scevro da ogni inutile se non dannosa debolezza.E solo con un siffatto sentimento sarà possibile risolvere i gravi problemi, anche economici, che ci assillano, partendo cioè dal nostro interno e conseguentemente verso il mondo esterno, anche se tale distinzione in realtà per me non esiste sentendomi parte infinitesimale e non inutile del cosmo. Il tono forse un po’ perentorio di talune mie asserzioni spero si smorzi attraverso la pittura, linguaggio a me più consono.

Antonio Tarenghi

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Il saluto del Presidente Andrea Carminati 5Organigramma 6Elenco Soci 7

VITA DI SEZIONERicordo di Enzo 14Assemblea del 14 Gennaio 2012 25Relazione del Consiglio direttivo in carica 26Conto Consuntivo 2011 e Bilancio Preventivo 2012 29Quote associative 2013 30Relazione rifugio Cesare Benigni 2011Elisa Rodighero 31Mezzaluna - 150 cime per l’unità d’italia 11/7/2011Carlo Mazzoleni 34Esperienza in scuola orobicaPaolo Midali 37L’arrampicata con i disabiliCooperativa in Cammino 41Giornate UNICEF 44

VITA DI MONTAGNAChi è JJ5? Storia e attualitàChiara Crotti 46Bergamo Scienza - Sintesi di un incontro sulle scienze che studiano levariazioni climatiche nelle AlpiPatrizio Daina 50La croce del Corno StellaAlberto Giupponi 54Ciolori e stagioni dell Orobie BrembaneMarco Caccia 58Il cavalloLorenzo Lego 60Flora azioni di conservazione della biodiversità vegetale nel parco delleOrobie bergamascheJuri Belotti 61Volontariato in alta valle - La passione e l’impegno dei giovaniRiccardo Lazzaroni 65Il mio fedele compagno di montagnaGiorgio Bianchini 68Boschi, Picchi &...Flavio Galizzi 71

RIFLESSIONI - CULTURAFelice Riceputi, storico della gente brembanaTarcisio Bottani 74L’uomo della MontagnaDon Giulio Gabanelli 76Carlo GraffignaMichele Iagulli 78Le mie e le altre montagne

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Nino Paganoni 80Un ricordo di Nino RonzoniMichele Iagulli 84“Giallo” in grigioverde su sfondo biancoBernardino Luiselli 86Fotografie itineranti ai confini del mondoMichela Lazzarini 88Bàresi - Il parco delle libertàErcole Gervasoni 90

ESCURSIONI - ALPINISMOMonte BiancoClaudio Locatelli 95Ricordo di Walter BonattiCarlo Graffigna 102Bishorn (m 4153 )Davide Rho 105Il primo bergamasco sull’EverestAlberto Giupponi 107BREITHORN - Avvenne... non si è mai grandi abbastanza…Fausto e coci 110L’alpinismo del xxi secolo: Evoluzione etica o evoluzione tecnica?Piero Nava 113Nel centenario della morte della guida Antonio BaroniPietro Tocio Pesenti 117Pizzo del Diavolo (m 2914 )Claudio Locatelli 119Ricordo di Santino CalegariNino Calegari 122L’attività extraeuropea del Club Alpino ItalianoPiero Nava 124Il Menna (m 2.200) - una montagna con tanti amiciGiuseppe Gentili 12780 candeline sul “Tre Signori”Nazzareno e Stefano 130Alpe Cima (o Scima)Maria Licini 131Pizzo Badile (m 3308)Elisa Rodeghiero 133

SPORT DI MONTAGNAIl cardiopatico e l’altitudineDott. Marino Gambarelli 136In sella… a grandi emozioni!!!Gianpietro Giupponi 137Rifugio Capanna (m 2000) - Sentieri dei fiori - Val VedraGianpietro Giupponi 141Monte MincuccoCllocate 145

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Fotografie:Archivio fotografico e Soci CAI

Finito di stampare nel giugno 2012Tipografia Diliddo, San Pellegrino Terme (BG)