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SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO ED EFFETTI DELL’INDULTO Un altro punto di vista

(DATI: Carcere Aperto, Ristretti Orizzonti, DAP, ISTAT, Ministero della Giustizia, Viminale, Ministero dell’Interno, Repubblica, Il Corriere). Se si utilizzano parti della ricerca si prega di citare la fonte.

PREMESSA

Questa ricerca va a integrare quelle che sono state fatte fino ad ora sugli effetti dell’indulto del 2006. Ricerche effettuate da chi è a favore delle misure di clemenza e che non tengono conto né delle vittime dei reati né dei cittadini liberi, che vittime non lo devono diventare. Una seria riforma della Giustizia deve avere come obiettivo principale la sicurezza dei consociati, la tutela dei cittadini e un modello rieducativo dei rei non utopistico, buono solo sulla carta ma smentito ogni giorno dalla realtà. Perché ciò sia possibile occorre lavorare su dati corretti, raccolti con lo stesso metodo statistico, non alterati dall’uso parziale (a volte fazioso) degli stessi, che devono essere continuamente aggiornati. Affermare che gli indultati del 2006 sono meno recidivi di chi non ha beneficiato dell’indulto, basandosi su ricerche fatte a pochi mesi dal provvedimento o dopo alcuni anni, comparando percentuali incomparabili per elogiare un sistema premiale fallimentare, non serve a nessuno. Se vogliamo davvero cambiare le cose e risolvere un problema in modo strutturale - come chiede la Corte di Strasburgo con la sentenza pilota Torreggiani (pilota, dunque guida) - dobbiamo rivedere anche il metodo di analisi degli effetti delle pene, con obiettività, coerenza, imparzialità. E dobbiamo tenere conto che il modo migliore di evitare il sovraffollamento è quello di agire su un modello rieducativo realistico, e di migliorare le politiche di prevenzione del crimine. E’ giusta e sacrosanta la battaglia per rendere le carceri luoghi vivibili. Una battaglia che si deve fare senza se e senza ma, in modo strutturale, riformando l’intero sistema penale e penitenziario, e in particolare il sistema rieducativo. Riforma che non può prescindere però dallo studio degli effetti di ogni misura sull’intera popolazione e che non può trascurare chi del reato è vittima. Uno Stato è un apparato di leggi che regolano la convivenza civile in virtù delle pene e sanzioni che le rendono tali e non è tollerabile che lo stesso decida di risolvere un problema che riguarda non solo la minoranza carceraria, ma l’intera popolazione, con provvedimenti d’impunità parziale o totale. Le pene sono, come diceva Beccaria, “quel sensibile motivo che induce gli uomini a non commettere illeciti, e devono essere certe per essere efficaci. Non devono cioè lasciare spazio alla possibilità di sfuggirvi”. Non devono essere degradanti o disumane, nel pieno significato del termine e nella piena corrispondenza con i fatti, perché devono migliorare gli uomini e non abbruttirli ulteriormente, ma da esse non possiamo prescindere se non vogliamo ritornare a quello stato di natura che vede gli uomini lupi per loro stessi, come affermava Hobbes. Riteniamo che indulto e amnistia espongano i cittadini al concreto e provato pericolo - come dimostriamo con questa rielaborazione statistica - per la loro incolumità, e che ledano il diritto alla sicurezza sancito all’art.3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, e il diritto alla vita, proclamato dalla stessa e dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo. Diritti che appartengono “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”

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come afferma la sentenza della Corte Costituzionale n-35 del 1997. Diritti violati dallo Stato ai liberi cittadini ogni volta che un provvedimento d’impunità o di premialità scisso dalla pericolosità sociale e dalla certezza che l’individuo sia davvero rieducato “oltre ogni ragionevole dubbio”, li colpisce. Diritti negati invece ai detenuti, quando lo Stato si dimostra incapace di operare con rigore e in maniera organica e strutturale, attento ai mutamenti sociali e con una costante verifica dei risultati, per rimodulare nel tempo le azioni intraprese. Una società civile non può permettere che anche un solo libero cittadino debba pagare con la vita il fallimento di un sistema inadeguato che si vuole difendere a tutti i costi. Né può tollerare che uno Stato di Diritto neghi giustizia, riparazione e tutela alle Vittime dei reati, calpestando la loro dignità per tutelare esclusivamente la dignità di chi le ha rese tali. La dignità deve essere concessa a ogni persona, colpevole o innocente, come afferma l’art. 3 della Costituzione che chiede “pari dignità sociale per tutti i cittadini” e perché ciò avvenga, in questo settore che sta alla base della civiltà, si devono trovare soluzioni che non ledano i diritti dell’uno o dell’altro, per tutelarne solo alcuni. La giustizia per essere giusta a 360 gradi non può guardare da una parte soltanto. Uno Stato che ha avuto ben sette anni dall’ultimo indulto per modificare un sistema che non funziona, non può lanciare nuovamente una sorta di roulette russa che colpirà a caso i cittadini, com’è già accaduto dopo l’indulto del 2006. Dobbiamo ristabilire un principio giuridico che risponde alla cultura della vita e della sola libertà che conta davvero, quella di esistere nel rispetto dell’Altro, è con questa convinzione che le persone devono uscire dalla prigione. Le Vittime dei reati e i familiari di chi è stato ucciso dedicano il resto dei loro giorni a far sì che quanto è accaduto a loro non accada ad altri. Quando dal carcere usciranno persone con lo stesso scopo, allora vorrà dire che il sistema funziona. Siamo lontani da questo risultato, che non si ottiene certo attraverso provvedimenti d’impunità sempre più estesi che bruciano, in una società in cui l’economia domina sulla morale, il principio di legalità, l’ideale di giustizia, la base stessa della civiltà, del vivere insieme. E’ profondamente ingiusto pensare che alcuni di noi, come dimostra questo documento, debbano subire le peggiori violenze a causa del fallimento di uno Stato che permette anche una sola morte causata da una mano da lui stesso armata con un pugnale, un piccone, due mani, una macchina, una corda, una pistola. E' profondamente avvilente pensare che chi ha subito un reato non otterrà mai giustizia. Ecco cosa significano le parole indulto e amnistia per quel popolo al quale non si dà mai ascolto e che invece per provvedimenti di questo tipo dovrebbe poter decidere. Dovrebbe poter votare. Le soluzioni per risolvere definitivamente il problema carceri ci sono, e da qui a maggio, quando scade il tempo che ci ha dato l’UE, si possono attivare. Perché non lo fanno? La verità, dicano la verità.

COSA CHIEDE EFFETTIVAMENTE ALL’ITALIA

LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI La Corte di Strasburgo ha rilevato il carattere strutturale e sistemico del sovraffollamento carcerario in Italia e la procedura della sentenza pilota ha lo scopo di facilitare la risoluzione più rapida ed effettiva di un malfunzionamento, che colpisce la tutela del diritto convenzionale in questione nell’ordinamento giuridico interno. Per la Corte l’azione dello Stato deve tendere principalmente alla risoluzione di tali malfunzionamenti, “preferendo le misure individuali, quali la liberazione condizionale, alle misure collettive per la gestione del sovraffollamento carcerario (indulti collettivi, amnistie)”, come si legge nella sentenza Torreggiani. Devono essere inoltre messe a punto e applicate “tecniche affidabili di previsione e di valutazione dei rischi nonché strategie di supervisione, al fine di identificare il rischio di recidiva del delinquente e garantire la protezione e la sicurezza del pubblico”, anche laddove si procede a modificare il sistema penale per comminare pene alternative, ridotte o annullate dalla condizionale per reati di non particolare gravità.

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La sentenza pilota riguarda sette detenuti ricorsi alla Corte in virtù dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. In particolare i ricorrenti lamentavano le condizioni nelle quali erano stati detenuti negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza, dove erano costretti a dividere con altre due persone celle di 9m quadri, disponendo di uno spazio di 3m anziché di 4m come previsto dalle norme del CPT per quanto riguarda le celle collettive. Nei loro ricorsi i ricorrenti sostenevano inoltre che mancavano l’acqua calda, che non vi era luce sufficiente e che la richiesta posta alla magistratura di sorveglianza di migliorare tali condizioni non è diventata immediatamente esecutiva dopo la sentenza. La Corte ha ritenuto che i ricorrenti abbiano subito un danno morale certo e ha fissato gli importi dei risarcimenti come segue: Torreggiani 10.600 EUR , Biondi 15.000 EUR, El Haili 15.000 EUR + 1.500 di rimborso spese, Bamba 23.500 EUR, Sela 11.000 EUR + 1.500 di rimborso spese, Hajjoubi 12.000 EUR + 1.500 di rimborso spese, Ghisoni 12.500 EUR + 1.500. Totale 105,600 Euro. Sono centinaia i ricorsi pendenti contro l’Italia che sollevano un problema di compatibilità con l’articolo 3 della Convenzione a causa delle condizioni detentive legate al sovraffollamento. L’Italia ha un anno di tempo per indicare e attivare le misure da adottare per porre rimedio su scala nazionale a quello che dai giudici di Strasburgo viene definito un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano. Se entro il 28 maggio 2014 l’Italia non avrà ottemperato ai suoi obblighi ripartirà l’esame dei ricorsi sospesi fino a tale data, tra quelli non ancora comunicati aventi come unico oggetto il sovraffollamento carcerario (quelli di cui l’Italia ha già avuto notizia procederanno normalmente). Il 29 maggio 2014 i ricorsi riprenderanno l’iter normale, indipendentemente da quello che il nostro paese avrà fatto di quanto suggerito nella sentenza “guida”, ma potrebbero risolversi in sentenze di assoluzione, se nel frattempo il nostro paese ha avviato concretamente le procedure legislative e strutturali suggerite. Il primo intervento richiesto è quello di creare un organo interno, al quale i detenuti possano rivolgersi per il ricorso, che sia in grado di rendere effettive e immediate le sentenze che obbligano una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario. Altra richiesta alla quale dobbiamo far fronte in tempi brevi è quella di risolvere il problema del sovraffollamento anche attraverso un minor uso della custodia cautelare e un maggiore utilizzo delle misure alternative al carcere o di sanzioni non privative della libertà per delitti di non particolare gravità. L’Europa dunque non chiede provvedimenti di clemenza generali che invece sconsiglia, ma chiede l’avvio immediato di un piano di riforma strutturale e concreto.

RIUNIAMO I DATI E DIAMOGLI UNA LETTURA A 360° NUMERO COMPLESSIVO DETENUTI IN ISTITUTI DI PENA Anno  2000  -­‐  53.165                                                                                                                                                                                                                                                      Cap.  reg.    43.117  Anno  2006  -­‐  60.710(prima  ind.),  38.326  (dopo  ind.),  39.005  (31/12)                                                          Cap.  reg.    43.213  Anno  2010  -­‐  67.961(picco  massimo)                                                                                                                                                                                      Cap.  reg.    45.022  Anno  2013  -­‐  64.564  (al  17  ottobre)                                                                                                                                                                                            Cap.  reg.    47.615    (Capienza massima tollerabile: il limite invalicabile del sistema penitenziario è fissata a 69.126 detenuti (DAP). Attualmente le carceri italiane ospitano in media 140 detenuti per 100 posti disponibili)  Il problema del sovraffollamento è grave e reale, e va risolto per il bene dei detenuti e dei liberi cittadini che hanno il diritto di ricevere nella società persone davvero rieducate e migliori di prima. Cosa impossibile laddove il trattamento riservato ai reclusi non rispetta le minime regole di civiltà e dove il sistema rieducativo non si rimodula in base ai risultati effettivi.

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TASSO DI DETENZIONE | 2000 |2001 |2002 | 2003| 2004 |2005 |2006 |2007| 2008 |2009| 2010 |2011 |2012| 2013| | 125 | 129 | 135 | 134 | 132 | 139 | 89 | 105 | 130 | 148 | 153 | 147 | 146 | 140 |

Il Tasso di Detenzione mostra un numero relativo alla quantità di detenuti per ogni tot abitanti. E’ un importante indicatore da analizzare, per valutare i risultati delle azioni messe in atto in campo penale. Nel nostro paese per 100.000 abitanti il Tasso di Detenzione è pari a 112,6 detenuti ed è inferiore rispetto alla media in Europa (127,7) e mondiale (156). Per esempio in Francia, Spagna e nel Regno Unito, i Tassi di Detenzione sono superiori a quelli italiani, ma in nessuno di questi paesi c’è lo stesso problema di sovraffollamento che abbiamo noi. Perché? Da noi mancano le carceri? SI. Le nostre leggi sono più restrittive? NO. In quei paesi si usufruisce di più misure alternative? SI. In quei paesi c’è più attenzione alle vittime dei reati e alla prevenzione del crimine? SI. Da noi manca il personale preposto alla rieducazione? SI. I gradi di giudizio negli altri paesi sono 3? NO. Nella risposta a queste domande c’è una via per migliorare la situazione, ma davvero la vogliamo migliorare? E’ davvero possibile un cambiamento positivo in un paese che si trova al 72° posto per quanto riguarda la percezione della trasparenza, la moralità e l’etica della classe politica, e dove la corruzione è capillare? Proseguiamo. Osservando il Tasso di Detenzione si noti l’impennata verso l’alto a un anno dai provvedimento di clemenza (in rosso). Nel 2003, con la L. n. 207, è stato approvato un provvedimento di clemenza (indultino) per effetto del quale il condannato che aveva già scontato almeno metà della pena detentiva, e che era stato condannato fino al 22 agosto del 2003, poteva usufruire della sospensione condizionata dell'esecuzione della parte residua di due anni. Di questo provvedimento ne hanno dunque beneficiato in molti per diversi anni. Nel 2003 sono uscite circa 9000 persone, nell’anno successivo circa 6000 e così via. Nonostante ciò, solo tre anni dopo si è messo in essere un altro provvedimento allargato. Anche allora, come nel 2006, e come oggi, si sosteneva che bisognava ovviare al problema svuotando le carceri velocemente, per poter meglio lavorare alla riforma, un film già visto e rivisto senza lieto fine. La popolazione carceraria prima dell’indultino (1 agosto 2003) era di 55.219 detenuti, a marzo del 2004 si contavano già 57.000 presenze, l’unica nota positiva è che allora venne almeno escluso l’omicidio, nel 2006 no. Non abbiamo trovato ricerche effettuate sulla recidiva di chi ha usufruito della legge 207/2003, in compenso però (come si approfondisce più avanti in questo documento) il dato sulla recidiva di chi non ha mai usufruito di provvedimenti di clemenza, utilizzato attualmente per sostenere che gli indultati del 2006 sono meno recidivi - e che dunque l’indulto avrebbe un effetto “rieducativo” e positivo - non ne tiene conto. Possiamo dedurre che il primo recidivo è lo Stato, che persiste in azioni deleterie per tutti: carcerati, vittime e cittadini. Per quanto riguarda l’indiscriminato indulto del 2006, l’aumento delle presenze in carcere è rilevante e costante per i quattro anni successivi, tanto che il Tasso di Detenzione si alza ogni anno a livelli da capogiro: +16 nel 2007, + 25 nel 2008, + 18 nel 2009, per cominciare a rientrare nella norma solo nel 2010, con un + 5 quasi “fisiologico”. Solo a partire dal 2011 si nota un sensibile calo (-6), dovuto probabilmente a politiche che tendono a utilizzare maggiormente le misure alternative grazie ai D.L. 2010 Alfano, 2012 Severino, 2013 Cancellieri, che mostrano un’azione sul Tasso di Detenzione (dunque sul sovraffollamento). Ma ci chiediamo cosa produrrebbe nel breve, medio e lungo periodo un nuovo provvedimento di clemenza, se facciamo tesoro dei dati illustrati.

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I MAGGIORI REATI PER I QUALI I DETENUTI SONO IN CELLA (Dati Min.Gius. al 17 ottobre 2013)

Produzione e spaccio di stupefacenti 23.094 (detenuti di cui 8.657 in custodia cautelare, 59 internati ) Rapina 9.473 (di cui 3.564 giudicabili, 5.801 definitivi, 108 internati) Omicidio volontario 9.077 (di cui 2.792 giudicabili, 236 internati) Estorsione 4.328 (di cui 1.982 giudicabili, 76 internati) Furto 3.853 (di cui 1.824 giudicabili, 77 internati) Violenza sessuale 2.755 ( di cui 709 giudicabili , 45 internati) Ricettazione 2.732 (di cui 809 i giudicabili, 26 internati). Associazione di stampo mafioso 1.424 detenuti. Il numero è basso perché gli indicatori relativi a chi ha commesso più reati (media 3 reati per detenuto), tengono in considerazione per un detenuto il reato più grave che ha commesso, e l’associazione di stampo mafioso spesso è legata a reati di maggiore gravità come omicidio ed estorsione. In questo numero sono dunque compresi coloro che non hanno commesso anche reati più gravi. Sequestro di persona, associazione per delinquere, violenza privata, maltrattamenti in famiglia, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, atti sessuali con minori, (500)

Immigrazione clandestina 1.238

Il 13,2% del totale dei detenuti fa parte della criminalità organizzata, sono terroristi e più in generale individui pericolosi.

CUSTODIA CAUTELARE: IL 40% DEI DETENUTI SONO IN ATTESA DI GIUDIZIO. DAVVERO POTREBBERO RISULTARE TUTTI INNOCENTI?

Dei 64.564  detenuti presenti nelle carceri italiane a ottobre del 2013, 24.744 sono in attesa di giudizio (o custodia cautelare). Ma quando si dice che il 40% di chi si trova a questa misura potrebbe essere innocente, bisogna tenere presenti diverse varianti. Innanzitutto va specificato che chi si trova a scontare il carcere in attesa di giudizio è socialmente pericoloso; potrebbero fuggire, reiterare o inquinare le prove a suo carico; è stato colto in flagranza di reato; ha un apparato probatorio notevole con evidenza della prova; è già stato condannato in via definitiva per altri reati (il 6,9% del totale dei detenuti ha più procedimenti a proprio carico). Ciò non toglie che in Italia, a partire dall’epoca di “mani pulite”, si sia abusato di questa misura - come dimostrano molti casi balzati alla cronaca - e che tutt’oggi sia applicata per reati i cui accusati potrebbero essere controllati elettronicamente ai domiciliari e verso i quali non ci sono prove sufficienti a trattenerli in carcere. Un male che deve essere curato, come suggerisce anche la stessa sentenza Torreggiani, dove si legge, con riferimento alla Raccomandazione R(80)11, che “è opportuno fare un uso più ampio possibile delle alternative alla custodia preventiva quali ad esempio l'obbligo, per l'indagato, di risiedere ad un indirizzo specificato, il divieto di lasciare o di raggiungere un luogo senza autorizzazione, la scarcerazione su cauzione, o il

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controllo e il sostegno di un organismo specificato dall'autorità giudiziaria. A tale proposito è opportuno valutare attentamente la possibilità di controllare, tramite sistemi di sorveglianza elettronici, l'obbligo di dimorare nel luogo precisato”. Secondo i dati a nostra disposizione - ricavatati valutando le richieste di risarcimento per ingiusta detenzione avanzate ogni anno allo Stato (2.500 in media) e rilevate dall’ Eurispes e dall’Unione delle camere penali italiane - a dimostrarsi innocente sarà il 3,87% sul 100% dei detenuti. Una percentuale comunque elevata, se si considera che a queste persone non solo è negata la libertà personale, ma viene anche assegnata un’etichetta difficile da cancellare. Si potrebbe pensare, per esempio, di usare lo strumento del D.L. d’urgenza, facendo scontare la custodia cautelare in altre misure a coloro verso i quali l’apparato probatorio è debole. Tornando all’analisi di quel 40% di detenuti di cui sopra va distinta la loro posizione in riferimento al grado di giudizio. Ad essere in attesa del primo processo sono 12.348 persone di cui una larga parte viene trattenuta per periodi inferiori all’anno in quanto la custodia cautelare è a termine. Dei 24.744 detenuti in custodia cautelare in carcere, 6.355 sono appellanti, significa che sono stati già condannati in primo grado per uno o più delitti. E qui apriamo una parentesi che riguarda il ricorso in appello.

Solo raramente in appello la condanna si risolverà con un verdetto d’innocenza eppure, in Italia, vi ricorre 70% degli imputati condannati in primo. Quando a ricorrere è solo l’imputato (e non il pm) la legge vieta la cosiddetta reformatio in peius, che è il divieto di comminare una pena o una misura peggiore della precedente. Dal momento che solo raramente si arriva a un ribaltamento della sentenza di primo grado che decreta l’innocenza dell’imputato, nella stragrande maggioranza dei casi si arriva a una sentenza “attenuata”, motivo principe per cui si ricorre. L’altro motivo è dovuto alla lentezza del sistema giudiziario, che lascia aperta la possibilità concreta di arrivare alla prescrizione (e sia chiaro, prescrizione non è sinonimo di innocenza). Per evitare che ciò accada, occorre eliminare o rendere più difficile il ricorso in appello, come avviene in altri paesi non solo europei. I tre gradi di giudizio sono infatti una prerogativa del nostro paese, l’appello altrove è assente o diversamente regolato. Di certo è molto più difficile accedervi in Francia e Spagna mentre in Inghilterra se a ricorrere è solo l’imputato (lo fa solo il 10%), c’è la concreta possibilità di un aggravio di pena anche notevole. Dunque, quando si dice che la media europea di custodia cautelare o di chi è in attesa di giudizio in carcere, è più bassa rispetto all’Italia, bisogna tenere conto anche dei gradi di giudizio che, allungando i procedimenti, allungano anche la permanenza in carcere di chi ancora non è giudicato in via definitiva.

Per finire, di questo 40% di persone, 4387 sono ricorrenti ovvero attendono il terzo grado di giudizio (Cassazione) che valuta i vizi di forma e che, nel migliore dei mali, obbliga a rifare il secondo grado con ulteriori costi, tra l’altro. E qui riportiamo un esempio che dimostra come, quando persone che hanno commesso reati gravissimi e sono state definite socialmente pericolose, non sono trattenute in carcere, a rimetterci sono gli innocenti certi, come il piccolo Tommaso Onofri, che probabilmente sarebbe ancora vivo se Mario Alessi fosse stato trattenuto in carcere fino a sentenza definitiva. Storia che si può leggere nella sua interezza nel libro scritto dall’avvocato della famiglia Pellinghelli, Carlo Castellani (Il Piccolo Tommy).

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Mario Alessi era stato condannato in primo e secondo grado per violenza sessuale, sequestro di persona e rapina a mano armata. La sera del 29 luglio 2000, due giovani, intrattenutisi in una casa rurale di loro proprietà, a un certo punto vengono bloccati da due sconosciuti, di cui uno armato di pistola e l’altro di coltello del tipo a serramanico. Il giovane denunciante veniva legato con delle funi a un albero di ulivo e, impossibilitato a reagire sotto la minaccia di una pistola da parte di uno dei due sconosciuti, che anche lo rapinava di una collana e di un bracciale in oro, veniva costretto ad assistere alla violenza carnale della ragazza da parte di entrambi. Al termine della violenza i malfattori hanno chiesto, sempre sotto minaccia, il numero di cellulare della giovane. La sera dopo il cellulare ha squillato. Era Alessi. «Si scusava per quanto era accaduto la sera prima e nella circostanza le chiedeva di fissare un appuntamento per poterle restituire gli oggetti d’oro. La ragazza ha informato tempestivamente la Stazione dei carabinieri e si è dichiarata disponibile a collaborare nelle indagini». L’uomo viene immediatamente arrestato. Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice per le indagini preliminari Walter Carlisi scrive: «Lo svolgimento dei fatti, per modalità e gravità, denota una personalità violenta tale da far presumere il concretissimo pericolo di reiterazione». Dopo nove mesi però il termine di custodia cautelare scade, la legge impedisce di trattenere un uomo nonostante i gravissimi indizi di colpevolezza e la pericolosità sociale, e per questo, in attesa dei processi, Alessi viene sottoposto alla misura restrittiva dell’obbligo di dimora nella provincia di Parma. Il 26 marzo 2002 viene emesso il verdetto di primo grado: una condanna a sei anni di reclusione per stupro, sequestro di persona e rapina. L’11 febbraio 2004 la Corte di Appello di Parma conferma. Ma l’uomo, in attesa della convalida da parte della Cassazione (che si è pronunciata solo nel giugno del 2006), nonostante “la personalità violenta” rimane, nella sostanza, “libero”. La misura cautelare era infatti stata mutata in «obbligo di dimora» in Emilia Romagna, che gli impediva di stare fuori dalla sua abitazione dalle 22 alle 5 e vigeva nonostante due processi anche quando è stato rapito Tommaso. Rapimento avvenuto poco dopo le 19. Chi è allora il responsabile di quell’omicidio tremendo? Ci sentiamo di dire lo Stato, attraverso un’ eccessiva tutela di un abuso di libertà provato da due procedimenti penali, che è costata l’ergastolo perpetuo del dolore a un’intera famiglia e la morte di un bambino che non aveva neanche due anni. (Tratto da Vittime per Sempre)

Se dunque da una parte va valutata attentamente la custodia cautelare in carcere laddove ancora non c’è una condanna neanche in primo grado, tale custodia dovrebbe invece essere estesa nel tempo per motivi di sicurezza - come previsto dall’art 16 della Costituzione: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza -, dove una condanna per un reato gravissimo già c’è. In particolar modo ciò deve avvenire quando ci troviamo di fronte ai reati contro la persona, in quanto il bene da tutelare - la vita umana - è di rango superiore rispetto a qualsiasi altro bene, compreso il bene libertà.

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GLI STRANIERI. QUANTI, QUALI NAZIONALITA’ E QUALI REATI.

AL 30 giugno 2013 fonte ministero giustizia (in rosso i reati più comuni tra gli stranieri)

Detenuti presenti per tipologia di reato (*) Situazione al 30 Giugno 2013

Tipologia di reato Donne Uomini Totale

Detenuti Stranieri

Associazione di stampo mafioso (416bis) 8 67 75

Legge droga 457 10.176 10.633

Legge armi 16 967 983

Ordine pubblico 69 840 909

Contro il patrimonio (furto, rapina, borseggiamento) 478 9.574 10.052

Prostituzione (comparando il dato con il totale dei detenuti (italiani + stranieri 985), si evince che tale reato vede come protagonisti un numero elevatissimo di stranieri)

106 666 772

Contro la pubblica amministrazione 43 3.132 3.175

Incolumità pubblica 4 209 213

Fede pubblica 77 1.752 1.829

Moralità pubblica - 61 61

Contro la famiglia 22 465 487

Contro la persona 310 7.270 7.580

Contro la personalità dello stato 1 34 35

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Contro l'amministrazione della giustizia 90 992 1.082

Economia pubblica 1 16 17

Contravvenzioni 23 697 720

Legge stranieri (il dato è riferito a coloro che hanno commesso solo questo reato non in concorso con altri reati più gravi) 64 1.018 1.082

Contro il sent.to e la pietà dei defunti 14 101 115

Altri reati 5 198 203

La componente straniera all’interno delle carceri è aumentata nel tempo anche in relazione alla percentuale di stranieri presenti in Italia che, per quanto riguarda i regolari, è passata dal 5% del 2008 al 7,4% del gennaio 2013. Al primo gennaio 2013 risultano 4.387.721 stranieri regolari, 334 mila in più rispetto all'anno precedente (+8,2%). Questo non significa che tutti gli stranieri sono delinquenti, anzi, dimostra come la maggior parte non lo sia, visto che parliamo di 23.492 detenuti su oltre quattro milioni di persone. Indica semplicemente che, aumentando il tasso di tale popolazione, è inevitabile un aumento anche della popolazione carceraria. Per quanto riguarda gli irregolari, circa il 73% di loro entra in Italia con un normale visto turistico prevalentemente in aereo, ma poi rimane anche dopo che il visto è scaduto. Solo il 12% entra via mare dall’Africa (paesi più presenti in carcere) con i barconi. Sarebbe utile, ai fini della prevenzione della criminalità straniera che non può prescindere dalle politiche sull’immigrazione, un’analisi statistica che va a verificare quanti tra coloro che giungono con i barconi commettono poi reati e quanti li commettono tra coloro che invece arrivano con regolare visto. Questo perché tra chi accetta di spendere cifre importanti (e simili o più alte di quelle che servono per entrare in Italia regolarmente) per introdursi illegalmente nel paese, affidandosi ai delinquenti e mettendo a rischio la vita propria e dei propri figli, non ci sono solo persone che hanno effettivamente bisogno di asilo politico, ma anche coloro che hanno problemi con la giustizia nel paese di origine. E ogni anno in Italia con gli sbarchi arrivano circa 20.000 clandestini. Ma vediamo la situazione nelle carceri italiane. Nel 2000 la popolazione detenuta straniera era del 29%, nel 2013 è del 35% (circa 22.874 detenuti), le nazionalità maggiormente presenti, come si evince dalle statistiche del 2012 che confermano quelle precedenti, su un totale di 23.492 detenuti, la maggior parte provenivano da: Marocco 4480, Romania 3595, Tunisia 2986, Albania 2980, Nigeria 1023, Jugoslavia 472. I reati di cui sono accusati o per i quali sono stati condannati, sono nella maggior parte dei casi molto gravi. Un’altissima percentuale si trova in cella per reati legati alla produzione e spaccio di stupefacenti (49,7%), a seguire per rapina e furto (entrambi 17,8%), per lesioni (17%), per violenza o resistenza a pubblico ufficiale (12,9%), per violazioni delle leggi sull’immigrazione (9,6% in concomitanza con altri reati meno gravi), per ricettazione (9,3%), per violenza privata o minaccia (8,4%), per omicidio (8,3%), per violenza sessuale (5,9%). Come abbiamo visto nella tabella sopra riportata, in carcere per il solo reato di immigrazione clandestina, al 30 giugno 2013 c’erano 1.082 persone. Chi afferma dunque che per risolvere il problema del sovraffollamento bisogna abolire tale reato lo fa per interessi che non riguardano questo problema. Per quanto riguarda la presenza massiccia di stranieri - peraltro in

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carcere per reati particolarmente gravi come appena mostrato - invece di chiedere indulti e amnistie che li liberano lasciandoli a loro stessi o nelle mani della criminalità organizzata, sarebbe opportuno agire strutturalmente mettendo in atto gli accordi bilaterali esistenti e facendone di nuovi con i paesi con cui ancora non li abbiamo. Si consideri che oltre al sovraffollamento si risolverebbe anche un altro problema, quello dei costi. I detenuti stranieri equivalgono a circa 1 miliardo annuo di spesa pubblica (costo medio per detenuto 124,6 euro al giorno). Gli accordi bilaterali per lo scambio ci sono e sono previsti dalla Convenzione di Strasburgo del 1983, che l’Italia ha ratificato e inserito nel proprio ordinamento dal 1989. Il rimpatrio si può applicare, secondo le norme internazionali, ai detenuti stranieri condannati, che in questo momento sono 12.509 (124,6 x 12.509 0= 1.558.621 euro al giorno). L’unico impedimento può essere dovuto dal fatto che occorre il consenso del detenuto per il rimpatrio, e difficilmente chi ha già assaggiato o conosce le carceri del proprio paese vuole ritornarci. Uno dei modi per prevenire la delinquenza straniera è proprio quello di fare una verifica sui nuovi arrivati e rimandare immediatamente indietro coloro che, richiesta di asilo o meno, hanno problemi con la giustizia nel loro paese di origine. Anche se gli accordi ci sono con i paesi che non incidono maggiormente sulla popolazione carceraria come Marocco, Romania e Tunisia, si può cominciare, per esempio, a rimpatriare gli albanesi (12%). Da domani! Certo, meglio un atto di clemenza. Se non altro facciamo felici tanti delinquenti, e anche gli oltre 350 politici indagati, imputati e condannati che operano in regioni, province, comuni e parlamento. In un attimo vedrebbero cancellata non solo la pena, ma anche il reato e il procedimento penale relativo. Evviva!

INDULTO 2006 Tra il 1942 e il 2006 ci sono stati 35 provvedimenti di clemenza (indulti, indultini, amnistie) fatti in gran parte per motivi per lo più politici o di pacificazione sociale. Il primo vero indulto che possiamo definire “di massa” per l’alto numero di persone coinvolte - e che ha rimesso in libertà anche recidivi, plurirecidivi e delinquenti colpevoli di reati predatori - è quello del 2006, passato con 460 voti a favore, 94 contrari e 18 astenuti alla Camera, e 245 voti favorevoli, 56 contrari e 6 astenuti in Senato. Il numero di soggetti che sono tornati in libertà dopo aver usufruito del provvedimento di clemenza è di circa 44.994, probabilmente di più perché l’indulto ha avuto effetto anche negli anni successivi. Tale cifra si ottiene sommando i 27.607 scarcerati dopo il provvedimento con i 17.387 dimessi dalle misura alternative (ma che c’entra la misura alternativa ovvero i domiciliari e la messa in prova, con il sovraffollamento?). Il solo studio effettuato sugli effetti di tali provvedimenti risale al 1978, “Benefici di clemenza e il relativismo”, che non comprende l’indultino del 2003 e l’indulto del 2006. E’ forse giunto il momento di realizzare un nuovo studio approfondito e completo, che prenda in considerazione più varianti e tutti gli attori del reato, quindi anche le persone che ne sono state colpite. La legge 31 luglio 2006 (indulto) comprendeva i reati commessi fino al 2 maggio dello stesso anno, puniti entro i tre anni di pena detentiva e con pene pecuniarie non superiori a 10.000 euro. Il provvedimento prevedeva però anche uno sconto di tre anni per chi era condannato a una pena detentiva di maggiore durata, per un fatto commesso precedentemente alla stessa data. Il beneficio era revocato a chi, entro i cinque anni successivi, avesse commesso nuovi reati non colposi per i quali è comminata una pena non inferiore a due anni. Si consideri che ancora oggi c’è chi esce anticipatamente grazie a quel provvedimento, per lo più persone che avevano una pena lunga da scontare, per esempio per omicidio, reato che, come l’ omicidio tentato, non era escluso. A significare quale valore diamo alla vita umana! Erano invece esclusi dalla concessione d’indulto i colpevoli di alcuni reati previsti dal codice penale, come l’associazione sovversiva, i reati di terrorismo, la strage, il sequestro di persona, la banda armata, l’associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 del codice penale relativi alla tratta di persone, l’associazione di tipo mafioso, la riduzione in schiavitù, la prostituzione

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minorile, la pornografia minorile, la violenza sessuale, l’usura, il riciclaggio, produzione e traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti. Non erano esclusi il furto con strappo, il furto anche aggravato, la rapina, la violenza privata e domestica, l’omicidio volontario, preterintenzionale e il tentato, l’omicidio colposo, tra gli altri gravissimi reati - che non stiamo ad elencare - previsti dal codice penale.

GLI EFFETTI DELL’INDULTO 2006

Dopo l’indulto, secondo i dati forniti dal Ministro Cancellieri a ottobre del 2013, il numero dei detenuti è cresciuto, rispetto a prima, in media di 7000 soggetti in più ogni anno. Il ritmo di crescita dei detenuti è stato alto per i primi quattro anni successivi, fino a giungere, nel 2009, a un picco di oltre 69.000 presenze in carcere, 30.000 in più di quelli presenti dopo l’applicazione dell’indulto. I promotori dei provvedimenti collettivi di clemenza affermano che chi ha beneficiato dell’indulto del 2006 ha una recidiva più bassa rispetto a chi non ne ha beneficiato. Ma per arrivare a questa conclusione si utilizzano dati parziali e comparazioni scorrette. Per quanto riguarda la recidiva di chi non ha usufruito dell’indulto viene utilizzato il dato emerso dalla rilevazione effettuata dall’Ufficio Statistico del DAP, citata dallo studio di Fabrizio Leonardi (2007), che ha mostrato come il 68,45% dei soggetti scarcerati nel 1998 abbia, nei successivi 7 anni, ha fatto reingresso in carcere una o più volte. Il periodo di riferimento (1998-2005) è però superiore di due anni rispetto al dato rilevato per la recidiva di indultati, che invece si ferma a 4 anni (2007-2011). E due anni in più possono incidere notevolmente sulla percentuale. Ma la cosa più rilevante ai fini della scorrettezza del dato rispetto a ciò che dovrebbe rappresentare, è nel fatto che non tiene conto di coloro che hanno reiterato dopo avere usufruito dell’indultino del 2003. Per quanto riguarda invece il dato utilizzato per la comparazione riguardante i recidivi indultati nel 2006, se si usa l’ultimo disponibile che si ferma a dicembre 2011, pari al 33,92%, si mostra un dato parziale in quanto non tiene conto di coloro che hanno usufruito del beneficio e che si trovavano alle misure alternative. Ma anche unendo recidivi che erano in carcere + recidivi che erano alle misure alternative, la percentuale che ne risulta resta parziale. Il numero riguardante gli indultati che erano alle misure alternative è infatti stato rilevato su un campione di ex-detenuti pari a 7.615 su un totale di 17.387 individui, a differenza del dato di recidiva di indultati che erano in carcere che riguarda la totalità. Inoltre, la rilevazione sul campione è terminata nell’ottobre del 2008 ovvero tre anni prima di quella sui recidivi che erano usciti dal carcere. La comparazione tra i recidivi che hanno usufruito del beneficio e quelli che non ne hanno usufruito decantata da più parti per mostrare che l’indulto è una “misura educativa”, è di fatto impossibile. Il risultato che ne emerge è scorretto e viene utilizzato in modo distorto. Se vogliamo davvero risolvere il problema del sovraffollamento, del sistema rieducativo, della sicurezza dei cittadini, dobbiamo lavorare su dati corretti. Una comparazione che si possa dire credibile e realistica deve essere effettuata su dati rilevati con lo stesso metodo statistico e nello stesso arco temporale. Aggiungiamo una riflessione: prima dell’indulto le persone che erano alle misure alternative non creavano certo il problema del sovraffollamento, ci chiediamo dunque per quale motivo fossero state liberate anzitempo, anche in virtù del fatto che la messa in prova è ritenuta, dai detrattori delle misure detentive in carcere, altamente rieducativa. Perché interrompere prima del tempo un trattamento ritenuto efficace? Su certe personalità fragili l’idea che alla fine non si paga mai del tutto per i reati commessi può essere considerata davvero rieducativa? Noi crediamo di no. Inoltre al danno si aggiunge la beffa. Chi era alle misure alternative (e non occupava posti in carcere), ed è rientrato per avere commesso nuovi reati con una pena ovviamente superiore a quella che stava scontando prima dell’indulto, non andrà certo nuovamente alle misure alternative ma diritto in cella, contribuendo ad alimentare quel sovraffollamento che si afferma di voler eliminare. Possiamo chiamarla follia di Stato? Viene da pensare che non ci sia la volontà politica di

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risolvere questo problema definitivamente, perché altrimenti sarebbe impossibile fare passare in futuro altri provvedimenti di clemenza, che sono sempre stati un mezzo da utilizzare per compromessi e accordi politici di cui non ci è dato sapere. Detto ciò, a noi interessa sottolineare che, sia il 10%, il 40% o il 70%, nella percentuale che si propina come un successo in termini di recidiva non ci sono solo i detenuti, ma ci sono anche i cittadini certamente innocenti che i reati li hanno subiti a causa di un provvedimento scellerato dello Stato. Ci sono le Vittime, che non possono essere considerate un peso, un effetto collaterale secondario, e che anzi fanno parte a pieno titolo dei costi sociali e umani di tali provvedimenti. Costi a volte così elevati da non poter essere nemmeno quantificati, specie quando si tratta di vite spezzate. I reati i cui autori possono beneficiare dei provvedimenti di clemenza sono proprio quelli di maggiore allarme sociale, quelli che toccano le persone nella loro quotidianità come le rapine, i borseggiamenti, i furti. Reati che, come si dimostra l’elenco che segue, non escludono, anche grazie al senso d’impunità provocato dal provvedimento, che si vada oltre fino a uccidere.

Salvatore Buglione, rapinato da due delinquenti, uno dei quali indultato, mentre chiudeva l’edicola della moglie. E’ morto con una coltellata nel cuore. Antonio Pizza, ventotto anni, sposato e padre di un bimbo di pochi mesi, è morto dopo una lunga agonia durante una rapina commessa da un criminale slavo, uscito pochi giorni prima grazie all’indulto. Aniello Scognamiglio, 16 anni, investito e ucciso a Torre del Greco da ubriaco e drogato al volante. L’omicida, libero grazie all’indulto, in carcere ci era entrato per spaccio di stupefacenti, violenza, resistenza a pubblico ufficiale e reati vari contro il patrimonio Paolo Cordova, farmacista, ucciso durante una tentata rapina da chi prima dell’indulto era dentro perché ne aveva commesse altre sei. Luigia Polloni, morta strangolata per mano di un tossicodipendente indultato durante una rapina. Ne aveva alle spalle ben 25. Antonio Allegra, morto sparato da Pietro Arena, fuori grazie all’indulto nonostante un tentato omicidio. Barbara Dodi, 46 anni con due figlie a carico, strangolata in camera da letto con una cinta dal marito, già condannato per tentata rapina e libero grazie all'indulto. Guido Pelliciardi e Lucia Comin, torturati, seviziati e poi uccisi in provincia di Treviso da un rumeno e da due albanesi irregolari che avevano già commesso rapine e violenza sessuale, fuori grazie all’indulto (ma la violenza sessuale non era reato escluso dal provvedimento?). Antonella Mariani, 77 anni, aggredita e scippata cade a terra e sbatte la testa. L’assassino (eroinomane) aveva da pochi mesi beneficiato dell'indulto (siamo nel 2008), era in carcere per rapine e sequestro di persona Florinda De Martino, mamma di 35 anni, uccisa a colpi d’ascia il 23 luglio del 2009 in un villino del quartiere Camaldoli a Napoli. Il fidanzato assassino nel 2002 aveva tentato di uccidere la ex moglie. Tentativo fallito solo perché la lama del coltello si spezzò nell’addome della donna. Condannato a sei anni con sconto per indulto (nonostante recidivo) è arrivato a tre, da cui vanno decurtati 9 mesi di sconti automatici.

Una sorte di condanna a morte autorizzata dallo Stato, quella ricevuta da questi e da altre decine di cittadini innocenti “morti d’indulto”, che hanno ricevuto un trattamento disumano di cui nessun umanitario si preoccupa. Queste persone sono solo una minuscola parte di quelle

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che sono morte ammazzate da chi era fuori grazie all’indulto del 2006, e non abbiamo dati relativi a quello parziale del 2003, ma ne basterebbero due per rendere lo Stato, e tutti coloro che hanno votato quel provvedimento, mandanti di pluriomicidio. L’elenco appena mostrato afferma con forza e chiarezza che l’impunità è altamente diseducativa (contraria dunque all’art.27 della Costituzione tirato in ballo spesso a proprio comodo e del quale si dimentica il principio di responsabilità penale). Queste persone oggi potrebbero essere ancora vive se quell’indulto non ci fosse mai stato. Invece sono morte e per niente, perché già dopo due anni la capienza regolare era superata e perché alla fine questi provvedimenti hanno un solo “pregio”, permettere ai politici di rilassarsi sugli allori, mentre la gente, fuori e dentro le carceri, muore. Si parli di legalità all’interno delle carceri, di diritto alla dignità, siamo d’accordo, ma senza mai dimenticare che l’unica libertà che deve essere tutelata sopra ogni altra è quella che rispetta i confini delle libertà altrui.

TIPOLOGIA DEI REATI COMMESSI DA INDULTATI

Tipologie di reato per cui sono rientrati gli indultati entro il gennaio del 2007 CONTRO IL PATRIMONIO 46,86% DROGA 14,48% CONTRO LA PERSONA 10,4% ARMI 7 55% FEDE PUBBLICA 7,02% CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE 4,54% CONTRO AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA 3,90% CONTRAVVENZIONI 1,37% ALTRI 1,61% Analizzando le statistiche giudiziarie penali regionali, relative al dopo indulto, si rileva che l’aumento dei reati denunciati cresce con l’aumento degli scarcerati. Dall’agosto del 2006 - e per i quattro anni successivi - l’aumento dei reati (come si nota nell’Indice di Detenzione) è costante. Dal 2011 si nota un calo significativo, ma resta elevato il tasso di criminalità. E anche qui una comparazione è necessaria, bisogna chiedersi perché calano i detenuti, ma aumenta la criminalità. Perché ci sono meno delinquenti in cella e più nelle nostre strade. Al di là dell’indulto e dei suoi effetti criminogeni, è importante, per rispondere a questo quesito, valutare l’efficacia in termini di sicurezza pubblica delle misure premiali e sempre più miti. Nel 2012 in Italia ci sono stati cinque reati al minuto, 320 all'ora, quasi 8.000 al giorno. E si parla solo di quelli denunciati. Da calcoli e percentuali (anche relative alla recidiva) è escluso infatti il “numero oscuro” ovvero il numero dei reati non denunciati e dei rei che non vengono scoperti. Nel caso dei furti in abitazione tentati, ad esempio, la quota di sommerso è pari al 60% mentre solo il 37,6% delle vittime denuncia lo scippo, e solo il 10% le violenze sessuali. Se si tiene conto della quota di sommerso la recidiva da indulto può essere anche tre volte tanto quello che viene dichiarato. Inoltre, molti recidivi e plurirecidivi che hanno beneficiato del provvedimento sono criminali abituali che mettono in conto il carcere come rischio del mestiere e che hanno una certa esperienza nel non farsi scoprire, anche in virtù del fatto che solo l’80% dei reati denunciati trova un colpevole. La probabilità di non essere scoperti è elevata per il furto di oggetti personali (88,5%), per il borseggio (75,9%), per il furto in abitazione (69,9%), per lo scippo (66%), per la rapina (50,8%), per il furto d’automobile (43,6%) e anche per la violenza sessuale in virtù di quel 90% di donne che non la denuncia. Evviva! Tra luglio-dicembre del 2005 e luglio-dicembre del 2006 (periodo del dopo indulto) sono aumentati: furto con destrezza (+19,69) rapine in banca (+ 18,30), furto con strappo (+17,93), furti in abitazione (+ 8,63%), furti (+5,36), omicidi volontari (+4,19). E

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stiamo parlando di appena cinque mesi dopo il provvedimento che ha avuto effetti, lo ricordiamo, per i quattro anni successivi. Secondo una ricerca dell’ABI effettuata subito dopo l’indulto del 2006, sono aumentati i reati come spaccio di stupefacenti, furti d’auto, borseggi e omicidi preterintenzionali e volontari. In particolare nel mese successivo hanno avuto un’impennata le rapine in banca (+30,5%), che nell’anno precedente avevano invece segnato una linea decrescente -17%. Chi è favorevole a indulto e amnistia afferma che l’allarme sociale non è giustificato. Fate voi! A riprova che i provvedimenti d’impunità sono tutt’altro che rieducativi, preventivi e deterrenti, bisogna pensare che i reati aumentano non solo perché chi doveva essere in carcere a partecipare a programmi trattamentali (efficaci!) invece reitera, ma anche perché l’effetto su quella fascia di popolazione libera, ma borderline, è devastante. Insomma, se qualcuno era indeciso, diciamo che magari si è convinto che forse il gioco vale la candela. Un dato interessante ai fini della valutazione dell’effetto che tali provvedimenti hanno in termini di rieducazione e deterrenza, lo abbiamo nel fatto che tra gennaio e luglio del 2006 (prima dell’indulto) i reati predatori come furti e rapine erano in calo rispetto allo stesso periodo del 2005. I furti denunciati erano diminuiti di 23,323 unità, mentre le rapine di 1.048. Invece, nel solo periodo immediatamente successivo al provvedimento (agosto-settembre), si è saliti rispetto allo stesso periodo del 2005 di 1.952 rapine e di ben 28.830 furti. Invece di fare passi avanti facciamo passi indietro! Negare gli effetti nefasti dell’indulto sull’aumento della criminalità a fronte di tali dati è, quantomeno, fazioso. Di certo non aiuta a risolvere il problema, anzi, lo alimenta. Bisogna trovare una mediazione tra il rispetto della legalità in carcere, il diritto alla sicurezza riconosciuto a ogni cittadino e il diritto alla riparazione del torto subito, per fare questo occorre lavorare su dati certi e comparati in modo corretto, concentrandosi su tutti gli attori del reato (colpevoli e Vittime), ma anche su chi non deve diventare né l’uno né l’altro.

COSTI SOCIALI DELL’INDULTO 2006

I costi sociali sono difficilmente quantificabili, specie con i dati di cui siamo in possesso e senza una ricerca organica che comprende i diversi strati sociali coinvolti, che non si limitano a quello carcerario, giudiziario e penale. Un’idea però l’abbiamo. Quando viene decisa una misura eccezionale come l’indulto o l’amnistia, il legislatore mette necessariamente in conto un possibile aumento del crimine (il famoso “effetto collaterale”, che ha un costo, ovviamente pagato dai cittadini) che però dovrebbe restare al di sotto del beneficio derivante dal provvedimento di clemenza. Rimarcando il fatto che per noi anche una sola vita umana perduta a causa di questo provvedimento è un costo che deve essere evitato, le cifre che emergono dall’ISTAT e dall’ABI indicano che il risultato raggiunto è notevolmente al di sotto delle aspettative: a fronte di una spesa media per detenuto calcolata intorno ai 70mila euro l’anno, la società civile paga un prezzo medio stimato in 150mila euro, in conseguenza dei crimini commessi nuovamente dai detenuti che hanno usufruito del beneficio di clemenza. Una stima che non tiene conto di alcune tipologie di reati, come lo spaccio di stupefacenti, gli omicidi stradali, i tentativi di omicidio e la categoria residua dell’Istat "altri crimini". Inoltre l’indulto si applica anche a pene pecuniarie sotto i 10.000 euro, il che significa qualche centinaio di milioni di euro in meno nelle casse dello Stato. Che poi saranno naturalmente richiesti ai cittadini onesti tra i quali ci sono anche le vittime dei reati! Ci sono poi i costi di polizia e di magistratura dovuti alla commissione di nuovi reati, ma anche i costi sostenuti per processi che grazie all’indulto sono stati, nella sostanza, inutili. Chi rientra in carcere inoltre dovrà prolungare il soggiorno, in virtù dell’ovvio aumento di pena, e ogni giorno di permanenza ha un costo. Per quanto riguarda i recidivi che prima erano alle misure alternative – come abbiamo già detto - poi si troveranno a dover dividere le celle con altri detenuti e ad alimentare il sovraffollamento, e magari ad aprire una vertenza con la Corte Europea che ci costerà

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qualche altro migliaio di euro. Come dire “sì, questi provvedimenti clemenziali (che preferiamo chiamare demenziali) sono risolutivi e per nulla dispendiosi!” Beato chi ci crede! Quando per curare un cancro si sbaglia la cura o si usa solo un palliativo, il rischio è che le metastasi aumentino e alla fine non ci sia più nulla da fare. E’ questo che vogliamo? E qui qualcuno potrebbe obiettare che questi reati sarebbero stati commessi anche se la pena fosse stata scontata fino alla fine. Se fosse davvero così, allora aboliamo direttamente l’intero sistema giudiziario e penale, tanto non serve a niente! Di fatto un pizzico di verità c’è e sta a dimostrare il fallimento di un modello rieducativo che ci si ostina a mantenere inalterato. Serve a poco aumentare la capienza delle carceri o svuotarle con provvedimenti d’impunità se non si lavora correttamente e realisticamente sulla rieducazione e sulla prevenzione della criminalità. Come afferma la Corte Costituzionale con la sentenza numero 12 del 1966 in riferimento all’articolo 27 della Costituzione, “la rieducazione del condannato, pur nella importanza che assume in virtù del precetto costituzionale, rimane sempre inserita nel trattamento penale vero e proprio. [...] Rimane in tal modo stabilita anche la vera portata del principio rieducativo, il quale, dovendo agire in concorso delle altre funzioni della pena, non può essere inteso in senso esclusivo e assoluto. [...] E ciò, evidentemente, in considerazione delle altre funzioni della pena che, al di là della prospettiva del miglioramento del reo, sono essenziali alla tutela dei cittadini e dell’ordine giuridico contro la delinquenza, e da cui dipende l’esistenza stessa della vita sociale.” Noi invece neghiamo che la pena ha anche una funzione deterrente e una preventiva, di per sé. Continuiamo a portare avanti un modello penale e rieducativo utopistico e ipocrita. A rimetterci sono sempre i cittadini per bene, ma anche i detenuti, di cui alla fine non sappiamo quanto importi davvero ai signori politici che in questi giorni si affannano a chiedere indulti e amnistie, anche di fronte all’evidenza del fallimento dei provvedimenti di clemenza precedenti, e delle conseguenze nefaste sotto ogni profilo, compreso quello, non trascurabile, di una sfiducia nella politica e nei politici che non potrebbe che aumentare, pericolosamente.

COSA SI E’ FATTO DOPO L’INDULTO PER RISOLVERE IN MODO STRUTTURALE

IL PROBLEMA CARCERI?

Cos’è stato fatto dal 2006 a oggi per risolvere il problema in modo strutturale? I posti in carcere sono stati aumentati di appena 4000 unità, rispetto ai 9.150 posti previsti dal Comitato costituito dal Ministro della Giustizia, dal Ministro delle Infrastrutture e dal Capo del dipartimento della Protezione civile il 29 giugno 2010. Piano che prevedeva la costruzione di 11 nuovi istituti penitenziari e di 20 padiglioni all'interno di strutture già esistenti e che implicava anche l’assunzione di 2.000 nuovi agenti di polizia penitenziaria, mai assunti! Le leggi che hanno contribuito di più e i cui effetti si vedranno entro i prossimi due anni, ma che hanno già registrato un calo del sovraffollamento a partire dal 2011, sono in particolare tre: D.L. 2010 Alfano, D.L. 2012 Severino, D.L. 2013 Cancellieri. Decreti che prevedono di scontare l’ultimo periodo di pena ai domiciliari e che ampliano l’utilizzo delle misure alternative al carcere. A partire dalla data di entrata in vigore della legge 199, voluta da Alfano nel 2010, sono stati 12.109 i detenuti ammessi alla specifica forma di detenzione domiciliare prevista. Al numero delle persone ammesse alla misura però non corrisponde pari decremento delle presenze in carcere, trattandosi di strumento che anticipa, in modo diluito nel tempo, l’uscita. Per quanto riguarda la legge n. 9 del 17 febbraio 2012 (Severino), ha influito sul fenomeno delle detenzioni brevi (“porte girevoli”) riducendo di quasi due terzi il numero di persone che permangono meno di tre giorni in carcere a seguito dell’arresto. Ma non basta. Come vedremo più avanti sono molte altre le misure da mettere in atto e che potrebbero attivarsi da subito, per ridurre in modo strutturale il sovrafollamento. E’ inoltre urgente un’indagine che valuti la recidiva di coloro che sono usciti grazie a queste leggi e di coloro che si rendono recidivi dopo avere scontato le misure alternative, per dare una risposta esaustiva a due dati che non collidono: il Tasso di Detenzione che scende e quello di criminalità che invece sale. Le misure

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alternative sono davvero utili ai fini rieducativi e preventivi, a prescindere dal loro effetto sul sovraffollamento? In riguardo a ciò riportiamo un esempio (tra le migliaia) in grado di dimostrare che per reati di particolare gravità contro la persona non si possono applicare, per esempio, gli arresti domiciliari. Non si può procedere linearmente con l’applicazione delle misure alternative che devono essere valutate non in base al numero di anni della condanna edittale, ma in base alla gravità morale ed etica del reato commesso. La giustizia non può essere clemente con chi fa del male agli altri, perché quel male nella clemenza si nutre e cresce fino a diventare così grande da sovrastare tutto, come si evince da questo fatto, tratto dal libro Vittime per Sempre (Aliberti):

È il 21 novembre 2010 quando una giovane donna poco più che ventenne viene uccisa dal suo ex ragazzo. Il suo nome è Emiliana Femiano. Una lama d’acciaio per ben sessantasei volte s’infila nella sua carne, spezza le ossa, taglia la pelle, recide i muscoli e le sfigura il volto bellissimo. Emiliana è stata massacrata da un uomo che solo undici mesi prima, un fendente glielo aveva infilzato nel collo. Era il 21 dicembre 2009. Condannato a otto anni per il tentato omicidio di Emiliana, aveva ottenuto dopo pochi mesi gli arresti domiciliari. Ma per lui la giovane era un’ossessione che andava eliminata dalla faccia della terra. Lui per la Vittima era un incubo che la tormentava anche quando non c’era. «Mamma, ho sempre paura di trovarmelo alle spalle» diceva. Viveva nel terrore di essere ancora ferita, picchiata. Uccisa. Un terrore giustificato. Emiliana è stata ammazzata nel peggiore dei modi. Perché può accadere una tragedia simile? Perché chi aveva tentato di ucciderla un anno prima ha potuto finire ciò che aveva cominciato? Perché? Una cosa è certa: un uomo che infila un coltello nel corpo di una donna che si salva da quell’aggressione non dovrebbe essere, poi, “libero” di ucciderla. Invece ha potuto perfino tentare la fuga. Si può dire che nel sistema c’è qualche cosa che non va?

IN CHE SITUAZIONE DI CRIMINIALTITA’ VIGENTE SI VOGLIONO APPLICARE NUOVI PROVVEDIMENTI DI CLEMENZA?

Su quale tasso di criminalità si andranno a posare questi provvedimenti che già a partire dal giorno dopo la scarcerazione andranno ad alimentare la popolazione criminale del paese? Vediamo il rapporto del Ministero dell’Interno relativo al 2012, prendendo i dati relativi a rapine, furti e scippi, in quanto sono considerati indicatori importanti per la valutazione dell’andamento delinquenziale. Nei primi sei mesi del 2012 ad aumentare sono state le rapine in abitazione: 1.677 a fronte delle 1.333 dello stesso periodo del 2011(+25,8%). Calano invece in maniera evidente (- 22,1%) quelle in banca. I furti in abitazione salgono (+17,3%) passando da 87.161 casi del 2011 ai 102.219, aumentano pure i cosiddetti furti con destrezza (+10,1%) che dai 63.835 casi denunciati nel primo semestre del 2011, sono arrivati ai 70.297 dello stesso periodo del 2012. E vanno su anche gli scippi, che passano da 8.021 a 8.552 (+ 6,2%). Cosa ci aspetta dopo Natale, se è vero che appena gli italiani partiranno per le vacanze questi provvedimenti di clemenza saranno probabilmente approvati?

QUALI SOLUZIONI?

Noi non abbiamo in tasca la bacchetta magica, ma un pizzico di buon senso sì. Proviamo quindi a dare alcune idee pratiche e concrete che possano aiutare chi di dovere a risolvere strutturalmente un problema, che non riguarda solo la popolazione carceraria, ma tutto il paese. Sono necessari provvedimenti legislativi in grado di aumentare l’utilizzo della messa in prova, ma esclusivamente per reati selezionati e di poco peso. Lo stesso discorso vale per le misure

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ai domiciliari, alle quali non dovrebbero accedere coloro che hanno commesso reati contro la persona, e che devono essere controllati almeno elettronicamente anche attraverso un maggiore utilizzo del braccialetto elettronico (abbiamo speso milioni e milioni di euro per realizzarli e mantenerli a fronte di un uso ridicolo!). Come abbiamo già suggerito, occorre regolare diversamente la custodia cautelare e prevedere anche un organo terzo e sopra le parti che possa verificare i casi dove si presume ci sia un abuso. E, aggiungiamo, come richiesto recentemente anche dalla UE è importante la responsabilità civile per i Magistrati, forse qualche abuso di carcerazione preventiva in meno ci sarebbe. E’ poi necessario dare avvio ai rimpatri degli stranieri condannati in via definitiva e siglare gli accordi bilaterali o multilaterali con i paesi con cui ancora non sono stati siglati. E rivedere le politiche sull’immigrazione in modo più restrittivo, almeno laddove ci si trova di fronte a persone che nel paese di origine avevano già commesso reati. Vanno poi depenalizzati i cosiddetti “reati nani”, residui del vecchio codice penale, purché siano nani davvero, o la situazione non può che peggiorare, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza dei cittadini e il principio, sempre più debole, di legalità. Le contravvenzioni regolate dal libro terzo del codice penale (che ora vedono in carcere 4.386 persone), escluse quelle particolarmente gravi contro la persona e la cui detenzione in carcere ha funzione preventiva e deterrente, come la guida in stato di ebbrezza, per esempio, potrebbero prevedere sanzioni pecuniarie salatissime o le misure alternative invece della cella. Per quanto riguarda i tossicodipendenti (circa 16.000), dovrebbero scontare la pena nelle comunità, mentre i malati gravi dovrebbero essere inseriti in strutture ospedaliere (con gli accorgimenti del caso) o finire il resto dei loro giorni ai domiciliari quando la malattia è in fase terminale, a meno che non si tratti di personaggi legati alla criminalità organizzata, che potrebbero agire anche se in fin di vita. SOVRAFFOLLAMENTO E “NUOVE” CARCERI Come abbiamo visto all’inizio di questa ricerca, il Tasso di Detenzione in Italia è inferiore alla media europea. Il sovraffollamento è dunque dovuto in buona parte alla mancanza di istituti. Per quanto riguarda lo stato delle carceri non tutte sono fatiscenti, istituti che funzionano e all’interno dei quali i detenuti possono vivere in condizioni dignitose ci sono e dovrebbero fungere da modello per l’intero sistema. Gli istituti invece fatiscenti devono essere ristrutturati senza se, senza ma e velocemente, perché le persone, anche in stato di detenzione, devono vivere in condizioni che non ne minano la salute psico-fisica. Ma non è indispensabile, allo stato attuale, costruire nuove carceri, azione che molti politici chiedono con forza (anche l’edilizia carceraria è un business!) Occorre invece razionalizzare le strutture carcerarie esistenti, cosa che si può fare già a partire da domani. Ci sono carceri che hanno interi reparti liberi e altri sovraffollati. Ce ne sono almeno una quarantina finiti e mai utilizzati. Ci sono le caserme della difesa dismesse, che lo Stato vuole vendere e che invece possono essere trasformate in carcere (secondo il Sole24Ore sono ben 76) e abbiamo perfino un ex carcere militare. Ci sono poi alcuni istituti minorili (come quello di Lecce, per esempio, che vede addirittura 22 agenti e 15 impiegati per sorvegliare zero detenuti) sotto utilizzati e con esubero di personale. Si pensi che ci sono situazioni in cui 900 agenti sorvegliano 450 detenuti minorenni, mentre in carceri come San Vittore, 790 agenti controllano 1900 detenuti adulti. Ovvio che c’è qualcosa che non va negli equilibri e nelle proporzioni. Generalmente quando si dice di attivare le carceri inutilizzate, le caserme ecc. ci si sente rispondere che non ci sono i soldi per il personale, ma come abbiamo visto, una razionalizzazione e ridistribuzione anche delle persone può andare a ovviare in parte il problema, che può essere risolto però anche attingendo a qualcuno dei 700 milioni di euro di titoli dello Stato, confiscati alla mafia e depositati nel Fondo unico giustizia. Razionalizzazione, ottimizzazione e ridistribuzione devono essere le parole d’ordine, che già entro un paio di mesi, a volerlo fare, possono ridurre notevolmente il sovraffollamento carcerario.

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SUICIDI IN CARCERE E TOSSICODIPENDENTI Quella dei suicidi è una triste realtà, che purtroppo coinvolge anche chi nel carcere ci lavora, ma alla quale c’è un rimedio, tra gli altri, nell’attuazione dei protocolli internazionali (world health organization) che, dove sono applicati, permettono di ridurre in modo notevole queste tragedie, fino quasi ad azzerarle in alcuni casi. Il carcere di Lucca ne è esempio. Si tratta di un progetto terapeutico-riabilitativo individualizzato e sottoposto a continue verifiche, che si fa soprattutto nelle fasi in cui è riscontrato che avviene il maggior numero di suicidi: quando comincia la detenzione e subito prima o dopo il processo. Ma sarebbe utile sapere, ai fini della prevenzione, quanti dei detenuti che si suicidano fanno uso di droghe durante la detenzione, dal momento che nelle carceri la droga circola eccome, altro problema a cui porre rimedio. E chissà, forse ci sarebbe anche qualche suicidio in meno. RIEDUCAZIONE E REINSERIMENTO Il sistema rieducativo non funziona. Non ci vuole un genio per capirlo. Se funzionasse le carceri sarebbero meno piene e il mondo sarebbe migliore. Perché allora perseveriamo in un modello rieducativo valido solo sulla carta? Un sistema che si basa sulla premialità non aiuta il reo a riconoscere le sue colpe e il disvalore sociale di ciò che ha fatto, oltre a fare arrabbiare le Vittime. E se non riconosci la tua colpa non puoi definirti rieducato nel senso profondo del termine. La rieducazione apparente, cioè la buona condotta in carcere come mezzo per ottenere benefici, non è un’opinione. E’ una realtà riconosciuta e accertata da molti studiosi e criminologi.

La nostra Carta costituzionale parla di fine educativo della pena, ma non indica, tra le diverse possibilità offerte dalla pedagogia, quale sia quella preferibile. E non possiamo scambiare la tortura e il trattamento disumano e degradante con la disciplina. Nel 1975 il legislatore, riformando il sistema penitenziario, ha previsto una serie di offerte trattamentali rieducative personalizzate, che tendono a favorire il reinserimento sociale del detenuto a pena espiata. Ma non tutti sono convinti che il sistema, nel suo insieme, funzioni davvero, come il magistrato Federico Tomassi il quale afferma che “i criminologi sono scettici, anzi fanno dell’ironia su questo argomento e parlano di «mito della rieducazione» e di «utopia del trattamento carcerario». Alcuni parlano di indulgenza criminogena per significare con la parola “indulgenza” tutta la legislazione ispirata al buonismo (come, per esempio, la legge Gozzini, la legge sull’indulto...), e con la parola “criminogena” il fenomeno per cui “più si concede, meno si ottiene” dal punto di vista penale, oppure “a far del bene ci si rimette sempre”. E poi c’è la rieducazione “apparente”, cioè la condotta in carcere, che è un mezzo per ottenere i benefici, buona condotta che può essere simulata.” Affermazioni queste che trovano riscontro troppo spesso nella realtà della cronaca nera. E continuare a negare l’evidenza, di benefici non ne porta a nessuna delle parti in causa. Di certo non possono essere le proteste dei detenuti, se pur sacrosante, a stabilire quale sia la linea da seguire. Non possono essere, almeno, solo queste. Le tutele legislative nei loro con- fronti sono notevoli. Basta leggere l’ordinamento penitenziario con un occhio attento all’intera realtà del delitto, per rendersi immediatamente conto dello squilibrio che c’è tra le garanzie offerte ai detenuti e quelle offerte alle loro vittime. Un esempio significativo in questo senso lo si può individuare per esempio nell’articolo 45 della legge 26 luglio 1975, numero 354, che riguarda l’assistenza alle famiglie dei detenuti: Il trattamento dei detenuti e degli internati è integrato da un’azione di assistenza alle loro famiglie. Tale azione è rivolta anche a conservare e migliorare le relazioni dei soggetti con i familiari e a rimuovere le difficoltà che possono ostacolarne il reinserimento sociale. È

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utilizzata, all’uopo, la collaborazione degli enti pubblici e privati qualificati nell’assistenza sociale.” Tratto da Vittime per Sempre ( Aliberti).

La buona condotta può essere dunque simulata, specie laddove ci troviamo di fronte a persone che intendono il carcere come un rischio del mestiere, che grazie a premi e cotillon durerà poco. E noi, invece di cambiare rotta di fronte all’evidenza, continuiamo a premiare sempre di più senza chiedere in cambio nulla che possa definirsi un sacrificio se pur minimo. Eppure quanti ne fanno i cittadini liberi ogni giorno? Perché i detenuti no? Sono cittadini di serie B? Per quanto riguarda la rieducazione non stiamo a elencare tutte le possibili soluzioni, ci limitiamo a due possibilità tra le altre, che reputiamo particolarmente importanti e che hanno già dato notevoli risultati nella sperimentazione italiana e all’estero, dove sono la norma. Uno riguarda programmi - scissi dalla premialità - che sono in grado di stimolare negli autori dei reati il senso di responsabilità verso le Vittime e verso la società nel suo insieme, compito che può ben svolgere il progetto Sicomoro che s’ispira, nel suo approccio metodologico, ai principi della Giustizia Riparativa (Restorative Justice) ovvero a un insieme di pratiche che “valorizzano” la Vittima, ponendola al centro della risposta del reato e, allo stesso tempo, tendono alla responsabilizzazione dell’autore verso le conseguenze del suo comportamento. L’altro metodo rieducativo riguarda il lavoro, diritto/dovere sul quale si fonda la nostra Costituzione e attraverso il quale passa la dignità della persona, e che, secondo l’ordinamento penitenziario, sarebbe obbligatorio. Ma nella realtà l’obbligo è solo virtuale, il detenuto infatti può rifiutarsi. Il lavoro in ambito penitenziario è una “chance di riabilitazione e risocializzazione per il detenuto che volesse profittarne”. Se partecipa, avrà un bello sconto automatico, tre mesi ogni anno (che Cancellieri vuole ampliare con nostra grande disapprovazione, la rieducazione richiede tempi lunghi che vanno commisurati anche in base alla personalità del detenuto, alla gravità del reato commesso e all’età). Ma se il detenuto non partecipa poco male per lui, gli sconti automatici può ottenerli in un altro modo, per esempio stando tutto il giorno a fare niente, purché non dia di matto. Peccato che quando uscirà per fine pena, se non lavora non avrà di che mantenersi, dovrà allora reiterare perché nessuno gli darà tre mesi di stipendio “a gratis” o, se trova lavoro (ma in Italia abbiamo il collocamento per i detenuti, non quello per le Vittime), si stancherà facilmente perché non riceverà tre mesi di stipendio in più all’anno. E questo scollamento tra realtà penitenziaria e realtà sociale, non può essere pensato come educativo. Per ovviare bisognerebbe rendere davvero obbligatorio il lavoro, come lo è la scuola per i nostri figli, ed eliminare lo sconto automatico in modo che sia considerato la normalità. Il premio, se deve esserci, dovrebbe essere dato solo se si eccelle o se si raggiungono obiettivi elevati, un po’ come accade per tutti i normali lavoratori. Il sistema carcerario attuale è un’utopia che costa soldi, ma soprattutto vite umane, quelle delle troppe Vittime di un sistema malato. Come utopia è quello che adesso vogliono farci passare come un salto di civiltà irrinunciabile (i provvedimenti di clemenza) attraverso una catechizzazione mediatica che fa quasi venire la nausea, dove si ascoltano solo voci a favore mentre quelle contrarie sono solo piccoli lumi annacquati nel mare magnum del nulla. Più che un salto di civiltà noi lo vediamo come un salto nel buio di un pozzo nero. Quello dove generalmente ci si buttano gli “Altri” o si pensa che ci cadano solo loro, senza mai pensare che gli “Altri” siamo noi. A cura di Barbara Benedettelli - Presidente Associazione L’Italia Vera Novembre 2013

ASSOCIAZIONE ITALIA VERA www.litaliavera.it


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