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L'impresa virtuosa. Crescere e innovare in periodi di recessione

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Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

L’IMPRESA VIRTUOSA

Può essere virtuosa una impresa? Una persona assolutamente si; ma una azienda? Certamente si. E perche? Perché la virtù può essere riferita anche alle relazioni sociali, e più in generale a ogni sistema intenzionale di azione. Ad esempio a un pronto soccorso (nel modo in cui tratta i pazienti), ad un call center (per il modo con cui assiste i clienti), a una azienda (per come gestisce le relazioni con fornitori, personale, ecc). Prima d’imparare a distinguere le virtù personali (quelle dell’imprenditore, del manager, del lavoratore) dalle virtù sociali, proviamo a dire cos’è la virtù.

La virtù

Molto sinteticamente, la virtù è una disposizione stabile che un soggetto ha di perseguire il bene morale anche se incontra evidenti e ovvie difficoltà1. La virtù è ciò che consente al soggetto agente razionale di confidare in se stesso e di rispondere di sé di fronte agli altri. Un soggetto esercita le sue virtù mediante scelte (deliberazioni) di vita ispirate a fini eticamente buoni. Per natura non possediamo le virtù, ma soltanto attitudini ad acquisirle; come di solito usiamo dire ai nostri figli: “Hai una buona predisposizione a...”.

1 Cfr. Michelangelo Peláez, L’arte di vivere bene. Beni, virtù, norme, Edizioni Ares, Milano 2007, pp. 181-205.

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Come noi imprenditori impariamo a diventare tali facendolo – facendo appunto gli imprenditori - così diventiamo giusti compiendo azioni giuste, diventiamo sobri non sperperando, e cosi via. In sostanza si diventa virtuosi solo se lo si desidera e solo compiendo azioni virtuose. Sembra una banalità ma non lo è perché, come sempre, al desiderio bisogna far corrispondere i fatti (le nostre azioni). Ancora oggi si dice: tra il dire e il fare c’è di mezzo

il mare. Non bastano la forza di volontà né le convinzioni intellettuali per agire virtuosamente. La virtù comporta una educazione delle passioni e quindi necessita la formazione del carattere della persona. Senza le giuste passioni un’azione sarà solo frutto del proprio autocontrollo.

È come nello sport. Ci vuole molto allenamento e anche un buon allenatore; all’inizio bisogna impegnarsi di più, poi lo sforzo diminuisce e subentra la costanza. Bisogna mettere in conto il fatto che non possiamo vincere sempre: ogni tanto qualche errore lo si commette. L’importante è migliorarsi e sforzarsi di impiegare tutte le proprie facoltà per fare il bene, con perseveranza, in modo eccellente.

Virtù sociali2

Virtuosa è la persona che realizza la vita buona

3, e questo perché le nostre scelte di oggi sono in relazione con quelle di ieri e con quelle di domani. I rapporti tra le persone che si possono configurare come un sistema relazionale di dare e ricevere (non inteso come scambio,

2 Le considerazioni che svolgo in questo paragrafo fanno riferimento a un quadro più generale della sociologia relazionale di cui in Italia è maestro il prof. Pierpaolo Donati. 3 Aristotele in etica Nicomachea: vita buona è quella in cui il bene è ciò a cui tutto tende.

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bensì come il saper accettare di essere dipendenti da altri), se impregnati di virtù conducono alla realizzazione di una vita buona in comune con gli altri. Mi sto riferendo a relazioni che occupano lo spazio di ieri, di oggi e di domani con altre persone. Quindi, se abbiamo inteso che tutta la nostra esistenza si fonda sulla dipendenza da altre persone allora capiamo quanto virtuose devono essere le relazioni per realizzare una vita buona. Sono queste relazioni che determinano la necessità di virtù sociali.

«È utile distinguere fra virtù personali e sociali. La distinzione fra virtù personali e sociali ha un carattere relazionale. Le virtù personali sono riferite alla persona come tale, e il loro centro di imputazione è la coscienza individuale. Il loro fine è il perfezionamento della persona, la sua piena umanizzazione. Le virtù sociali sono riferite alle relazioni fra le persone. Benché il centro di imputazione sia sempre la coscienza personale, si applicano all’atto individuale in quanto genera un bene relazionale oppure un male relazionale. Il loro fine è il perfezionamento della vita sociale, che consiste nella produzione di beni relazionali, quali sono il bene comune, la giustizia, la solidarietà, la sussidiarietà, la pace. Le virtù sociali sono dunque quei modi abituali di vivere secondo il bene morale che si esprimono nei rapporti con ‘gli altri’. Sono modi di relazionarsi agli altri. Gli altri possono essere persone con cui si hanno particolari legami e vincoli reciproci, oppure possono essere

persone estranee, cioè ‘l’altro generalizzato’»4.

4 Lectio doctoralis svolta dal prof. Pierpaolo Donati al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II -

ROMA, giovedì, 23 luglio 2009 – download possibile da: http://www.zenit.org/article-19065?l=italian

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Le virtù non si applicano solo alle cose grandi, alle strategie che prevedono grandi innovazioni o investimenti; le virtù vanno ricercate nelle cose piccole, nelle attività lavorative di ogni giorno (ordine, puntualità, laboriosità, attenzione al collega, sincerità, onestà, riconoscenza, disponibilità all’ascolto, ecc.). Le aziende sono di fatto persone sociali che compiono atti morali (un corretto bilancio fiscale è un atto morale, così come l’assunzione di un dipendente al giusto livello retributivo, ecc.) e quindi sono un soggetto a cui si possono attribuire virtù. Per meglio esplicitare questo concetto possiamo dire che un processo aziendale (ad esempio: accertamento della prestazione e pagamento del fornitore) è virtuoso non perché il dipendente dell’ufficio progettazione e il collega della ragioneria sono brave

persone (generose, ordinate, ecc. - il che è già un fatto positivo), bensì per il fatto che si scambiano informazioni e documenti ben fatti e nel rispetto reciproco dei tempi e della qualità richiesta. Questa relazione (virtuosa) fa bene all’azienda, perché genera beni

sociali quali la stima reciproca, la cordialità, la fiducia. Un imprenditore virtuoso non rende necessariamente una azienda

virtuosa. Un board aziendale costituito da persone di alto prestigio, eticamente corrette, non è detto che renda automaticamente virtuosa una azienda. Quello che può rendere una azienda virtuosa sono le relazioni tra queste persone. I dipendenti osservano la realtà oggettiva (il modo di relazionarsi) e non i concetti o i valori genericamente dichiarati dai loro capi. Sono le relazioni che

comunicano, sono le relazioni che insegnano, sono le relazioni virtuose che determinano il successo di una impresa. La differenza quindi tra virtù personali e virtù sociali sta nella relazione. Sia ben chiaro però che è sempre l’atto individuale del soggetto agente che determina un buona relazione o un cattiva

relazione. Se le virtù personali portano alla felicità individuale, le

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virtù sociali portano alla felicità pubblica (comunità di quanti lavorano per l’impresa). Ma l’una influenza l’altra e viceversa. Per un’impresa le virtù sociali sono dunque quei modi abituali di agire (di relazionarsi) che producono beni per le persone che vi lavorano, i clienti, i fornitori, per se stessa e gli stakeholders in generale. Sono le relazioni virtuose che generano quel clima di cooperazione, reciprocità e fiducia che a sua volta si trasmette ai clienti e a tutti gli altri portatori di interesse. L’impresa è un soggetto (o sistema) relazionale che, se osservato approfonditamente, consente di intuire il perché gli stakholders hanno un determinato comportamento nei suoi confronti. Conoscere il tipo e la qualità delle relazioni consente di capire il perché del suo successo o insuccesso. Ad esempio, scambiare (o semplicemente donare) esternalità (ciò che pensiamo sia uno scarto o un rifiuto o solo un effetto secondario del nostro core business) può essere una relazione virtuosa. In quanto ciò che ci avanza diventa un bene per chi lo riceve. Anche il solo riflettere su quali sono le esternalità che produciamo e con chi scambiarle ci rende azienda virtuosa perché ci ha resi consapevoli del nostro nuovo valore. Potrei dire che non sono i prodotti e i servizi che l’azienda offre al mercato (per quantità e qualità) che la rendono capace di successo, bensì i beni che produce con le sue relazioni virtuose. Quando le relazioni si limitano alle gratificazioni individuali e sono

prive di responsabilità sociale non producono beni.

Se un’azienda rispetto alla comunità in cui opera (territorio in cui è insediata) si sente sempre in credito, vuol dire che nelle relazioni che intesse non c’è virtù sociale (non ha capito il tipo di relazione dare – ricevere). La virtù sociale esiste quando l’impresa decide liberamente di promuovere e perseguire il miglioramento del benessere della comunità a cui appartiene (ad esempio, dando vita

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a un progetto che coinvolge le istituzioni e il mondo del sociale, dell’associazionismo, ecc.), ed è disposta ad accettare quello che la comunità avrà deciso di donarle.

In diverse occasioni (conferenze e meeting sul tema delle virtù d’impresa) mi è stato chiesto se praticare la RSI (Responsabilità Sociale d’Impresa) soddisfi i requisiti dell’Impresa Virtuosa. Oppure quale contributo modelli di eccellenza, quali l’EFQM (EUROPEAN

FOUNDATION for QUALITY MANAGEMENT), possono dare alle imprese per diventare virtuose.

La risposta è che entrambi sono buoni strumenti. Peccato che nella maggioranza dei casi vengano utilizzati dalle imprese più per

apparire virtuosi che per esserlo. Siamo di fronte al solito atteggiamento ispirato all’etica della terza persona o etica normativista, regolamentata da modelli standard dai requisiti minimi. L’impresa virtuosa non ha confini, utilizza i modelli e li supera, perché lavora al miglioramento delle relazioni, anche e soprattutto quelle non previste da un manuale e da una norma.

Organizzazioni che riflettono

Il frenetico cambiamento delle nostre strategie e dei nostri comportamenti, o la rielaborazione degli ordini del giorno dei CdA (quando si fanno) delle nostre aziende che vivono solo di fretta, non lasciano spazio alla calma e alla riflessione per comunicare con noi stessi. Mentre ci prendiamo cura dello stress, continuiamo a lavorare di corsa e forse senza meta. Sembra che abbiamo paura delle pause perché nel silenzio, ad esempio, potremmo sentirci dire

«oggi, noi sacrifichiamo la salute alla carriera allo scopo di fare un sacco di soldi, per poi, nella seconda parte della nostra vita, sacrificare un sacco di soldi allo scopo di riguadagnarci la salute. Al successo sacrifichiamo ciò che nessun successo potrà mai

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ripagare»5. Molti imprenditori, infatti, costantemente nervosi, molto arrabbiati, volto sempre cupo e serioso, sono vittime precoci di tachicardie o peggio di infarti. La nuova generazione di imprenditori è impegnata in un costante aumento del ritmo, non conosce la virtù della pazienza, la necessità di riflettere, il bisogno di silenzio. Per essere una azienda virtuosa è necessario essere una azienda riflessiva, che dedica tempo prezioso a esaminare i suoi comportamenti e, quindi, tutte le relazioni che mette in campo. Ribadisco: sono i comportamenti dell’impresa, le relazioni che intesse, che rivelano le sue premure fondamentali, i suoi interessi, il suo fine. I portatori d’interesse, più in generale il mercato, la osservano e decidono se premiarla. Ma prima che lo facciano gli altri e sia troppo tardi, non è il caso che l’impresa decida d’investire il giusto tempo per guardarsi, per scoprire con chi e che tipo di relazioni gestisce? Il tempo della riflessione è un investimento e non un perdita di tempo. La crisi che viviamo non è forse il risultato di un agire, di un correre senza fermarsi un attimo a riflettere a cosa stavamo andando incontro?

5 Peter Hahne, La festa è finita, Marsilio Editori, Venezia 2006, p.110.

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«Dobbiamo considerare la crisi come grande prova

e occasione per aprire al paese

nuove prospettive di sviluppo.

Sono chiamate alla prova tutte le componenti

della nostra società, l’insieme dei cittadini

che ne animano il movimento,

in una parola l’intera collettività nazionale.

Questo è lecito attendersi dalle generazioni

che oggi ne costituiscono la spina dorsale:

un’autentica reazione vitale

come negli anni più critici del Paese».

(Giorgio Napolitano, Messaggio di fine anno, 31.12.2008)

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LA CRISI ATTUALE

Siamo di fronte a una crisi senza precedenti, stiamo subendo «il danno che il supersviluppo procura allo sviluppo autentico, quando

è accompagnato dal sottosviluppo morale»6 .

«Provate a pensare a quanta parte della nostra vita quotidiana, dei nostri rapporti con altri esseri umani è già strettamente connessa a relazioni di natura economica. Sempre più spesso acquistiamo il tempo degli altri, la loro considerazione, il loro affetto, la loro simpatia e la loro attenzione […] La vita sta diventando sempre più mercificata e le barriere che separano comunicazione, condivisione e commercio sono sempre più labili. […] Quando l’intera vita è una esperienza a pagamento, la cultura si atrofizza e muore, lasciando solo i legami economici a tenere insieme la civiltà. Questa è la crisi

della postmodernità»7.

«La crisi viene dal voler avere la prosperità a ogni costo, senza considerare che un giorno si devono pagare le spese. La crisi più che un fallimento del mercato è stata un fallimento dei regolatori, che hanno voluto simulare i processi del mercato e non ci sono riusciti. Una cosa è certa, l’economia si vendica, se l’uomo non viene messo

al centro del mondo e ci sono forzature. Di qui nasce la crisi»8.

«La combinazione degli effetti a livello economico e a livello ambientale configurano la crisi in corso come la più grave attraversata dall’economia capitalista. A ciò si aggiunga che in conseguenza di un altro fenomeno inerente alla crescita, la

6 Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 29 7 J. Rifkin, op.cit., pp. 13-14 8 Gianni Santamaria, Vita e famiglia fattori economici. L’uomo al centro, in «Avvenire», 08 maggio 2009, p. 23.

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globalizzazione dei mercati, la recessione si è estesa pressoché contestualmente a tutti i paesi del mondo, mentre il cambiamento climatico per la sua stessa natura coinvolge l’ecosistema terrestre

nel suo insieme»9. Cupidigia e avidità hanno agito senza freni nella mente e nelle azioni dell’uomo. Profitto da perseguire subito e in qualsiasi modo. Interessi individuali che hanno sopraffatto gli interessi di carattere generale; con questo comportamento sia privati che pubblici hanno determinato una crisi senza precedenti che ha sancito il fallimento della economia di mercato incapace di essere il motore dello sviluppo. La crisi attuale è la sintesi del declino della centralità dell’uomo e

della relativizzazione della morale. Se guardiamo la figura 2 «ci rendiamo subito conto come negli ultimi anni abbiamo accelerato il decadimento del valore dell’uomo, e come a partire dalla metà del XX secolo l’uomo si sia trasformato, anch’esso, in merce utile alla crescita del Pil. Da un Uomo Centrale e quindi con l’economia che era mezzo della sua crescita, siamo passati ad una economia che lo usa e che di recente lo giudica persino dannoso o pericoloso per la crescita»10. La chiamano crisi finanziaria Per paura di ben interpretare la realtà dei fatti, tutti la vogliono chiamare solo crisi finanziaria e quindi evitano di trattarla nella sua interezza e complessità. Allora, solo per un momento, accontentiamoci di analizzarla come crisi finanziaria sperando che finisca presto; ovviamente i più credenti possono richiedere l’aiuto

9 Maurizio Pallante, contributo del 23.08.09 10 Roberto Lorusso, Dal Prodotto Interno Lordo, al Benessere Interno Lordo, in «Primal Free Time», n. 3, gennaio-aprile 2009, p. 34.

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dall’Alto, i meno credenti possono affidarsi alla loro intelligenza, tutti avremmo potuto ascoltare alcuni saggi del passato per fare in modo che non si verificasse.

Figura 2: L’uomo da centrale a dannoso per la crescita economica

Quindi, tanto per iniziare, leggiamo cosa ci ha lasciato scritto il poeta Ezra Pound nel 1944:

«L’insidia bancaria ha sempre seguito la stessa strada: una abbondanza qualsiasi viene adoperata per creare un ottimismo. L’ottimismo viene esagerato, di solito con l’aiuto della propaganda. Le vendite aumentano. I prezzi delle terre, o delle azioni, salgono oltre le possibilità della rendita materiale. Le banche che hanno favorito prestiti esagerati per manovrare il rialzo, restringono,

richiamano i loro prestiti, e il panico sopravviene».

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L’Economia è un mezzo. L’Economia è al servizio dell’Uomo .

l’Uomo e il PILRelativismo dell’Economia.L’Economia è il fine. L’Uomo èal servizio dell’Economia.

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Anni: 500 -----1000 ----- 1500 - 1600 - 1700 -1800 - 1850 - 1900 - 1950 - 1970 - 2000

Rielaborazione sintetica. Fonte:Prof. Ettore Gotti Tedeschi – 25.10.2008

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«L’attuale crisi economica globale va vista

anche come banco di prova:

siamo pronti a leggerla, nella sua complessità,

quale sfida per il futuro e non solo come emergenza

a cui dare risposte di corto respiro?

Siamo disposti a fare insieme una revisione

profonda del modello di sviluppo dominante

per correggerlo in modo concertato e lungimirante?

Lo esigono, in realtà, più ancora che le difficoltà

finanziarie immediate, lo stato di salute

ecologica del pianeta e, soprattutto,

la crisi culturale e morale, i cui sintomi da tempo

sono evidenti in ogni parte del mondo».

(Benedetto XVI, Omelia del 1 gennaio 2009)

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Trasformiamo la crisi in una opportunità?

Le crisi rappresentano sicuramente un momento difficile nella vita delle imprese, ma costituiscono anche l’occasione per crescere e rinnovarsi. Le crisi conducono alla riflessione, all'apprendimento e quindi al cambiamento. La crisi attuale è un'opportunità per compiere una seria valutazione sul come e perché facciamo impresa. Marco Vitale ci viene in aiuto grazie ad un suo recente scritto e dal quale riprendo la citazione di Luigi Einaudi, riferita alla crisi degli anni ’20, che sembra scritta qualche giorno fa appositamente per noi:

«Come si può pretendere che la crisi sia un incanto, e che a manovrare qualche commutatore cartaceo l’incanto svanisca? Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori e imprenditori incompetenti, o avventati, o disonesti. Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri ma resistono. Gran fracasso di rovine, invece, a chi fece in grande a furia di debiti, a chi progettò colossi, dominazioni, controlli e consorzi; a chi per sostenere l’edificio di carta fabbricò altra carta, e vendette carta a mezzo mondo; a chi, invece di frustare l’intelletto per inventare e applicare congegni tecnici nuovi o metodi perfetti di lavorazione e di organizzazione, riscosse plauso e profitti inventando catene di società, propine ad amministratori – comparse, rivalutazioni eleganti di enti patrimoniali. L’incanto c’è stato, e non è ancora rotto; ma è l’incanto degli scemi, dei farabutti e dei superbi. A iniettar carta, sia pure carta internazionale, in un mondo da cui gli scemi, i farabutti e i superbi non siano ancora stati cacciati via se non in parte, non si guarisce, no, la malattia; ma la si alimenta e inciprignisce. Non l’euforia della carta moneta occorre; ma il

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pentimento, la contrizione e la punizione dei peccatori; l’applicazione inventiva dei sopravvissuti. Fuor del catechismo di Santa Romana Chiesa non c’è salvezza; dalla crisi non si esce se non

allontanandosi dal vizio e praticando la virtù»11.

Nel messaggio di fine anno, il 31 dicembre 2008, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, praticamente all’inizio del periodo di

crisi, ha chiesto di «guardare in faccia agli effetti della crisi economica; non bisogna sottovalutarne la gravità, ma non bisogna avere paura, ne lasciarsi prendere dal pessimismo. La società italiana deve reagire con coraggio e lungimiranza. Facciamo della crisi una occasione per liberarci dei problemi che ci portiamo dietro da tempo, dalle riforme istituzionali, alla pubblica amministrazione e al modo di operare dell'amministrazione e della giustizia. Occorre far leva sui nostri punti di forza e sulle energie vive, e affrontare

decisamente le debolezze del nostro sistema». La complessità e gravità della attuale crisi, anche se ci avvilisce, ci richiama alla nostra responsabilità di imprenditori che operano in un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della scoperta di valori di fondo su cui costruire il sistema imprenditoriale. Siamo obbligati a progettare in modo nuovo il business delle nostre imprese, a darci nuove regole e un nuovo fine. Questa crisi è una seria occasione. Il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, nel giorno della festa della nostra Repubblica durante il suo discorso a Berlino, ha

affermato che «per superare la crisi serve anzitutto trasparenza ma

11 Tratto dall’intervento di Marco Vitale dal titolo “Della Crisi economico-finanziaria e non solo”, al convegno “Un incontro per una risposta reale alla crisi”, Brescia 13 febbraio 2009, http://www.marcovitale.it/articoli/2009/DELLA%20CRISI%20ECONOMICO%20FINANZIARIA%20E%20NON%20SOLO%20COMPAGNIA%20DELLE%20OPERE%20BRESCIA%2013.02.09.pdf

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bisogna anche ridurre il rischio sistemico»12, ovvero il rischio che un componente di un mercato finanziario non possa rispondere ai suoi obblighi con il risultato che gli altri partecipanti o istituti finanziari non possano parimenti adempiere i loro obblighi alla scadenza, come è avvenuto per la crisi che stiamo vivendo.

Realismo e fiducia sono i due atteggiamenti che i vescovi europei chiedono al mondo politico e finanziario per affrontare la crisi. Nel comunicato finale diffuso il 10 giugno 2009 dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee) al termine dell’Incontro europeo dei vescovi responsabili per le questioni sociali, che si è

svolto a Zagabria, si dice: «Nessun pessimismo antropologico, quindi anche in questo tempo di crisi, ma un realismo della speranza ci deve guidare. Una speranza che può diventare un’occasione per riappropriarci responsabilmente della crescita. La crisi ci obbliga a pensare e a riprogettare, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi è occasione di discernimento e di nuova

progettualità. È necessario un realismo che cerca di capire che cosa

sia veramente successo e che cosa è possibile cambiare. Un realismo

impegnato che diventa anche una forma di solidarietà con chi, in

questo momento, sta male a causa di questa crisi. Urge: la necessità

di scoprire di nuovo il significato del lavoro; la promozione della

funzione sociale dell’impresa e la necessità di riproporre il principio

di sussidiarietà»13. Della stessa idea è Alberto Duadrio Curzio che ci invita ad uscire

dalla crisi facendo ricorso a un modello «basato sulle categorie della

12 Draghi: serve trasparenza per superare la crisi, La Gazzetta del Mezzogiorno, 2 giugno 2009. 13 Vescovi Europei, La crisi chiede “realismo e fiducia” , Agenzia Sir – Servizio Informazione Religiosa, http://www.db.agenziasir.it/pls/sir/V2_S2DOC_A.a_autentication?tema=Quotidiano&oggetto=174578&rifi=&rifp=, 10 giugno 2009.

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sussidiarietà e della solidarietà, che sappia garantire con la crescita

economica anche lo sviluppo»14. Il sociologo Mauro Magatti ha recentemente detto in una sua

intervista: «L’economia mondiale è stata colpita da un infarto, tamponato grazie a interventi opportuni e tempestivi. Ora siamo al bivio: tornare a condurre l’esistenza di prima, fingendo di essere

completamente guariti, oppure cambiare stile di vita»15.

Io penso che sia urgente decidersi a cambiare stile di vita, ma per fare questo bisogna essere aiutati; come in tutte le cose difficili è necessario vivere in un contesto che faciliti il cambiamento. Pertanto ritengo che a livello nazionale, ma direi internazionale, è necessario che si cambino alcuni modelli mentali e alcuni atteggiamenti che sono di ostacolo a qualsiasi buon proposito a cambiare stile di vita. Ad esempio possiamo iniziare con: - Aborrire lo stile aggressivo e senza scrupoli del capitalismo

moderno; - Smettere di utilizzare il Pil come unico parametro di buona

economia e benessere; - Pretendere dai manager che non devono più pensare di

produrre valore (profitti) per i soli azionisti; - Annullare i poteri oligarchici e antidemocratici del top

management delle imprese (grandi e piccole, pubbliche e private);

- Non favorire i governi che introducono rottamazioni, agevolazioni ed altre forme similari (pure illusioni: trattasi di interventi di cura sul sintomo e non sulla causa del problema).

14 Giovanni Ruggiero, Sussidiarietà unico antidoto contro la crisi, in «Avvenire», 13 giugno 2009, p. 23. 15 Gerolamo Fazzini, Il Capitalismo? «Tecno-nichilista», in «Avvenire», 28 maggio 2009, p. 31.

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Ma tanto altro si potrebbe aggiungere. Infatti:

«Non ci vuole una grande competenza in materia economica, basta semplicemente un po’ di buon senso per capire che per affrontare con probabilità di successo sia gli aspetti economico-occupazionali, sia gli aspetti ambientali-climatici della crisi in corso bisogna fare esattamente il contrario di quanto sta tentando di fare chi, in nome del rilancio della crescita economica, si propone di sostenere la domanda nei settori produttivi in cui più marcato è l’eccesso di offerta senza preoccuparsi se ciò incrementa i fattori di crisi ambientale-climatica. Occorre indirizzare il sistema economico-produttivo a sviluppare i settori che presentano ampi spazi di

mercato e a parità di produzione riducono l’inquinamento, il

consumo di risorse, in particolare quelle energetiche. Poiché nei decenni passati, in conseguenza della sovrabbondanza di fonti fossili a prezzi irrisori l’unico obbiettivo che si è perseguito è stato la crescita della produzione di merci senza nessuna preoccupazione per le conseguenze ambientali, i settori che oggi presentano i più ampi spazi di mercato sono quelli che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse consentendo di diminuire l’inquinamento, le emissioni di CO2 e i rifiuti. Ma se cresce l’efficienza nell’uso delle risorse, diminuisce automaticamente il loro consumo e quindi, una volta che siano stati ammortizzati i costi d’investimento con i risparmi sui costi di gestione, si riduce il Pil. La decrescita, nell’accezione di riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni, ha le potenzialità per superare sia gli aspetti economico-occupazionali, sia gli aspetti energetici e climatici della

crisi facendo fare un salto di qualità alla storia umana »16

Nella stessa intervista Magatti dice ancora: «La crescita economica è un bene, ma non può essere un fine in sé. Redditività e profitto vanno associati a uno sviluppo sociale… L’unico sviluppo economico

16 M. Pallante, contributo del 23.08.09.

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solido è quello che accetta di andare un po’ più piano, ma fa

crescere la società».

Partendo dalla «consapevolezza che la crisi attuale segna la fine di una fase del processo di crescita dell’economia europea, e che dalla crisi attuale non si esce con una politica di stampo keynesiano di sostegno alla domanda globale, in particolare della domanda dei

beni di consumo», è bene comprendere la necessità di «avviare un nuovo ciclo destinato a promuovere uno sviluppo sostenibile sul

piano economico, sociale, e ambientale»17. Per capirci meglio Spesso noi imprenditori, e insieme a noi molti manager, troviamo difficile a parlare di sostenibilità. Lo riteniamo un tema distante da noi che appartiene a quelli un po’ utopistici del sociale e

dell’ambientalismo. «Qualcosa di poco a che fare quindi con il duro e pragmatico mondo del business, fondato su logiche di competitività, redditività, crescita di fatturati e quote di mercato. Invece, è solo una questione di termini. In realtà diventa molto più semplice ed immediato parlare di ‘Asset Management’, o di gestione del capitale. Il capitale dell’impresa è tangibile o materiale (economico, finanziario) o intangibile (la conoscenza, il brand, la reputazione, etc.). Nessun imprenditore degno di questo nome può permettersi di ignorare la ‘gestione degli asset’. La sostenibilità non è altro che questo, e forse d’ora in avanti possiamo cominciare a chiamarla con questo nome. La domanda cruciale che gli imprenditori si devono oggi porre, a maggior ragione in un momento di crisi, è la seguente: come facciamo a gestire i nostri

asset – materiali e immateriali, il nostro capitale economico,

17 Alberto Majocchi, Una soluzione europea per il superamento della crisi, in «Global Competition», n. 20, giugno 2009, p. 22.

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ambientale e sociale – in modo tale che il profitto prodotto oggi non

comprometta la possibilità di produrre profitto anche domani?»18. In altri termini, come facciamo ad assicurare che le nostre scelte (soluzioni) di oggi possano rappresentare la base anche per le soluzioni di domani? Possiamo evitare che le soluzioni di oggi si

trasformino nei problemi di domani? «La risposta a questa domanda richiede un radicale cambio di prospettiva sull’intero paradigma economico dominante, fondato sulla formula prendi-cresci-usa-

getta, applicato sia alle risorse materiali che alle persone»19.

Questo cambiamento di paradigma o di modello mentale richiede che nelle nostre imprese si inizi con urgenza a ragionare in termini di fonti (energie materiali e immateriali) rinnovabili. Ma l’acquisizione di questa cultura non compete solo ai privati. E’ questione anche di enti pubblici che devono, inoltre, assicurare una

buona dose di investimenti «per la produzione non soltanto di beni materiali – pur necessari, come le infrastrutture – bensì anche immateriali, in particolare investimenti per la ricerca di base e per l’istruzione superiore per ricerca e sviluppo mirati al sostegno dell’innovazione … dell’industria europea, giunta ormai alla soglia

della frontiera tecnologica»20. Io credo che gli investimenti immateriali devono andare ben oltre il pensiero del prof. Majocchi sopra espresso. Gli stati devono

finanziare l’educazione alle virtù sociali. Che vuol dire, in primis, sostenere la famiglia come luogo primordiale e fondamentale per l’apprendimento delle virtù umane (quelle che non sono possedute da chi ci ha portato a questo stato delle cose) e dei principi di solidarietà e sussidiarietà.

18 Contributo di Eric Ezechieli del 28.08.09 19 Contributo di Eric Ezechieli del 28.08.09 20 Alberto Majocchi, Una soluzione europea per il superamento della crisi, in «Global Competition», n. 20, giugno 2009, p. 22.

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

In ultimo desidero condividere quanto dice Benedetto XVI nella recente enciclica Caritas in Veritate:

«La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di

gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma

anche un'esigenza della stessa ragione economica»21.

21 Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 36

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

Una recente indagine

Il 16 gennaio 2009 a Bari l’Istituto Troisi Ricerche, durante un meeting organizzato da Vision (la prima Sap Business School del Mediterraneo del Gruppo Fincons22), ha provato a rispondere alla domanda: in cosa le imprese devono crescere e innovare in tempi di

recessione presentando i risultati di un sondaggio condotto su di un campione di circa 250 persone costituito da dirigenti e manager (47%), imprenditori (28%), impiegati (16%), da lavoratori autonomi (9%). Il campione rappresentava per l’84% aziende private (il 34% di queste era costituito da piccole realtà con un numero di dipendenti compreso tra zero e cinque) e per il 16% da enti pubblici.

Crescere

Alla domanda: in cosa è prioritario che le imprese crescano in periodi

di recessione, il campione, avendo la possibilità di fornire tre risposte libere, ha risposto nel modo seguente (Figura 3). Complessivamente il risultato mi sembra alquanto interessante.

22 www.finconsgroup.com – www.corsisap.com

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University

Figura 3: Risultato della domanda in cosa è prioritario che le imprese crescano in periodi di

recessione? Sondaggio realizzato il 16 gennaio 2009 dall'Istituto Troisi Ricerche.

0,0 5,0 10,0

1. nel profitto economico

2. l’etica nelle relazioni

3. nelle immobilizzazioni

4. nella attenzione ai …

9. nelle postazioni internet

10. in sicurezza sul lavoro

11. nel numero dei soci

12. nel numero di lobby a cui …

13. nella cultura ambientale e …

14. nel numero dei clienti

17. l’etica nei contratti

21. in numero di prodotti a …

22. nella formazione del …

23. in qualità del prodotto

25. l’etica nelle comunicazioni

26. negli investimenti in ricerca

27. nel numero dei punti …

28. negli investimenti …

29. nella formazione …

30. nel fatturato

31. nel numero dei dipendenti

71,2

1,21,21,21,2

1,23,5

4,71,2

9,35,8

4,7

1,21,2

8,13,5

3,5

Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

in cosa è prioritario che le imprese crescano in periodi di

ondaggio realizzato il 16 gennaio 2009 dall'Istituto Troisi Ricerche.

15,0 20,0

17,4

10,5

9,3

11,6

8,1

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

Vorrei partire dai valori delle voci che hanno a che fare con i dipendenti (attenzione 10,5% e formazione 9,3%) che sommati fanno ben 19,8%. Questo ci evidenzia quanto le aziende abbiano interesse a crescere nell’attenzione verso i propri dipendenti, affinché possano diventare l’apice di tutto quanto accade in

azienda. «La persona umana è il punto più alto del disegno creatore

di Dio per il mondo e per la storia»23 –

Trattasi del valore più alto che l’indagine ha attribuito e lo ha fatto verso la persona (soggetto che lavora); è un risultato che ci può aiutare a riconsiderare il lavoro dal punto di vista filosofico-antropologico così come lo esplicita Sanguinetti (1992) 24 definendolo: - Immanente (perché valorizza il soggetto che lavora); - Relazionale (in quanto presuppone la dimensione sociale e lo

spirito di servizio agli altri; - Transitivo (perchè trasforma oggettivamente il mondo); - Trascendente (in quanto lo proietta al di là del mondo finito, in

cerca del divino); Comunque, in primo luogo, il 17,4% degli intervistati ha detto che le imprese siano chiamate a crescere nel profitto economico, e a tal proposito desidero mettervi a conoscenza del pensiero di alcuni imprenditori che, nel luglio 2009, sono stati miei ospiti in un meeting aziendale. Loro hanno così commentato: - il profitto è un mezzo, anche se bisogna farne tanto; - Il profitto deve avere un fine ultimo che dia un significato sia sul

come produrlo sia sul come utilizzarlo.

23 Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, New York, 18 aprile 2008. 24 Cfr. Juan José Sanguineti, Immanenza e transitività dell’operare umano, in «Atti del III congresso della S.I.T.A.», LEV, 1992, pp. 261-274.

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

Chi ha da dirci parecchie cose su questo risultato è Giovanni Paolo II, che nell’Enciclica Centesimus Annus riconosce il profitto come l’indicatore principale del buon andamento dell’azienda, ma non

solo: «Quando un'azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati e i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia, il profitto non è l'unico indice delle condizioni dell'azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine e insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell'azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l'efficienza economica dell'azienda. Scopo dell'impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell'azienda, ma non è l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita

dell'impresa»25. Finalmente, con mio grande piacere, dopo l’11,6% negli investimenti in ricerca, leggiamo che gli imprenditori hanno bisogno di formazione (8,1%). In realtà lo hanno sempre saputo. Il problema è che non hanno tempo. E questo perché non vanno a imparare come si gestisce il tempo. Questi risultati non mi sembrano affatto banali se consideriamo che le risposte ricevute sono state liberamente fornite (l’intervistato non aveva una griglia predefinita dalla quale scegliere). Se facciamo caso al fatto che il 7% del campione crede che bisogna crescere nell’etica delle relazioni (mentre tra le percentuali più

25 Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, 01 maggio 1991, n. 36.

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

basse troviamo la crescita degli investimenti pubblicitari, del numero dei punti vendita, dei prodotti a listino, delle immobilizzazioni, ecc.), e aggiungiamo questa intenzione a quelle precedenti, mi sembra chiaro che il sondaggio ci parli di un desiderio di crescita in ciò che noi semplicemente definiamo responsabilità sociale dell’impresa. Allora approfitto per dare una sintetica descrizione di questa tipologia di imprese. Le imprese socialmente responsabili Sono quelle che riconoscono di non saper competere con successo senza una legittimazione sociale, che contribuiscono al bene comune anche mediante la salvaguardia del patrimonio ambientale. Sono iniziative economiche che pur facendo profitti intendono andare oltre la logica dello scambio delle merci e del profitto fine a se stesso; sono imprese sane moralmente e finanziariamente, che sanno che le risorse naturali sono limitate, che la crescita economica di pochi non può essere ottenuta a discapito di interi popoli e delle generazioni future. Questo tipo di imprese integrano problematiche di tipo etico all’interno dei loro obiettivi di profitto, e investono in nuove tecnologie senza aspettare finanziamenti pubblici, consapevoli che l’investimento si ripagherà da solo per effetto del processo virtuoso di apprendimento e riduzione dei costi che ne consegue. In tal senso queste imprese adottano lo scambio di esternalità con altre aziende, introducono il principio di gratuità e di dono all’interno della normale attività economica, contribuiscono allo sviluppo di tecnologie innovative in grado di tutelare l’ambiente e arginare lo spreco di risorse.

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

Sono aziende governate da imprenditori che decidono di fare delle loro imprese una realtà fulcro di occasioni di incontro, crescita e valorizzazione delle persone coinvolte. Scelgono strategie a favore della qualità della vita dei loro lavoratori, permettendo loro di godere di tempo libero e ritmi di lavoro più umani. Tali imprenditori sanno che così otterranno dai propri collaboratori un maggior rendimento, alta fedeltà e dedizione. Tale imprese rendono credibile il cambiamento, perché orientate alla crescita del capitale sociale di tipo relazionale, utile al raggiungimento degli obiettivi dei loro piani strategici. Desidero dare concretezza a quanto appena detto, e sostegno a quanto altro leggerete di seguito nel capitolo delle proposte, con due bellissime testimonianze.

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

Innovare

Alla domanda: in cosa è prioritario innovare in periodi di recessione,

Il campione, che anche in questo caso, aveva la possibilità di fornire tre risposte libere, si è espresso nel modo seguente (vedi Figura 4). L’analisi del grafico mi fa pensare a risposte alquanto coerenti con quelle fornite alla domanda precedente. In cima ai desideri di innovazione c’è quello afferente i processi decisionali (19,0%). Evidentemente positivo il risultato (14,3%) attribuito ai processi gestionali, che io leggerei molto legato al bisogno di essere più socialmente responsabili in quanto: «Introdurre innovazione pensando al benessere comune è atteggiamento tipico delle imprese che vanno oltre il solo profitto economico; il miglioramento dei prodotti e dei processi che ne deriva non solo riduce il consumo di risorse e migliora la qualità delle prestazioni dei lavoratori, ma

incentiva l’introduzione di nuova tecnologia»26.

Altrettanto interessante e coerente è il 9,5% che riferisce sia alla incentivazione del personale che all’innovazione dei processi di apprendimento (in questo caso, penso riferiti all’intera azienda). A tale proposito mi piace citare l’esperienza delle Organizzazioni che Apprendono, dove trova ampio spazio la possibilità di cercare nuove forme di incentivazione e dove l’apprendimento stesso è già forma di incentivazione e gratificazione, e in particolare la metodologia Harold (Habits ARousing for Organisational Learning Devalopment, ovvero attivazione di comportamenti per lo sviluppo dell’apprendimento organizzativo) di cui sono stato progettista circa 10 anni fa.

26 Roberto Lorusso, Aniello De Padova, DePILiamoci, Editori Riuniti, Roma 2007, p. 31.

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University

Figura 4: Risultato della domanda in cosa è prioritario innovare in periodi di recessione?

realizzato il 16 gennaio 2009 dall'Istituto Troisi Ricerche.

«La cultura delle Organizzazioni che Apprendono promuove comunità nelle quali le risorse umane aumentano costantemente la capacità di raggiungere obiettivi, continuando ad imparare come si apprende insieme. […] In altri termini questo significa che le

0,0 5,0 10,0

1. i processi decisionali

2. le macchine e le attrezzature

3. i criteri di incentivazione del …

4. le modalità di indebitamento

5. i criteri su cui basare la …

6. l’utilizzo delle materie prime

7. i processi gestionali

8. i processi di logistica

9. le modalità di coinvolgimento …

10. i processi di apprendimento

11. i criteri di utilizzo degli utili

12. le scelte in materia energetica

14. i processi di selezione del …

15. le modalità di coinvolgimento …

16. i processi di …

17. la comunicazione verso i …

18. le modalità di assistenza ai …

6,39,5

3,24,8

1,6

1,69,5

9,51,61,6

1,67,9

1,63,2

3,2

Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

in periodi di recessione? sondaggio

La cultura delle Organizzazioni che Apprendono promuove comunità nelle quali le risorse umane aumentano costantemente la capacità di raggiungere obiettivi, continuando ad imparare come si apprende insieme. […] In altri termini questo significa che le

15,0 20,0

19,0

9,5

14,3

9,5

7,9

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

organizzazioni diventano capaci di riflettere sulle modalità di apprendimento messe in atto al loro interno allo scopo di promuovere contemporaneamente lo sviluppo personale dei vari

collaboratori e lo sviluppo dell’organizzazione»27. Da tenere sotto controllo è il risultato (7,9%), che ci dice finalmente quanto sia importante innovare le modalità con le quali coinvolgere i clienti al fine di costruire con loro relazioni a lungo termine. A tale proposito devo ricordare quanto hanno detto due grandi consulenti

di marketing: «Non è importante quanto sia innovativa e creativa un’azienda: l’unico capitale immateriale che serve è la relazione con il cliente. […] Tutti i prodotti sono effimeri: i clienti sono l’unica

realtà permanente»28.

27 Cfr. M. Cortini, M. B. Ligorio (a cura di), op. cit., p. 32. 28 Don Peppers, Martha Rogers, The one to one future: building relationship one customer at a time, Doubleday, New York 1993, p. 394.

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Alcune proposte

Noi imprenditori siamo abituati a pensare l’innovazione come un processo mediante il quale la nostra impresa può ammodernarsi ed essere più competitiva sul mercato. Per fare questo la nostra mente corre subito a nuovi macchinari, nuovi opifici, nuove tecnologie, nuovo marchio. Ma facciamo tutti così? Se la nostra risposta è affermativa, allora possiamo considerarci imprenditori obsoleti, cioè

superati. O comunque pensare cosi, e solo a questo, in periodi di recessione non ci permette di fare nulla di utile e di diverso (di quanto non facciamo già).

Mi sembra il caso di dire che abbiamo bisogno di nuovi apparati umani (occhi, orecchie, naso, braccia, cuore). Non dobbiamo fare chirurgia plastica di rifacimento: abbiamo bisogno del nuovo, altrimenti ci sarà difficile comprendere e intraprendere un percorso di sviluppo che vada oltre ciò che abbiamo sempre fatto così.

Ad esempio, il modo con il quale abbiamo sempre concepito ed utilizzato le tecnologie è stato l’aumento di produttività, cioè più prodotti per unità di tempo. Ma questo ha significato e significa ancora oggi maggiore produzione con meno ore di lavoro o più concretamente con meno personale. Ci è mai venuto in mente che queste tecnologie hanno anche l’effetto paradossale di diminuire la domanda? In sostanza, le merci crescono e le persone che le possono comperare diminuiscono (maggiori disoccupati). E questo è solo un esempio per capire quanto bisogno abbiamo di guardare le cose in modo nuovo e cioè in modo sistemico. Devo ammettere però che anche io sono in difficoltà a fare proposte adeguate attualmente. Sono certo che mi scuserete se risulterò obsoleto, e che mi premierete, almeno, per averci provato.

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

Di seguito, quindi, mi accingo a stilare un elenco di azioni su cosa possiamo innovare e in cosa possiamo crescere (in periodi di recessione) credendo nel fatto che la buona innovazione possa essere il motore di una sana crescita economica, e che la crescita dei profitti possa alimentare gli investimenti in innovazione. Le proposte non seguono alcun ordine specifico ed è possibile, nonché giusto, che ogni lettore possa considerare la singola proposta elencata o come un’azione d’innovazione o come un’azione di crescita. Ogni lettore scopra per sé quello che è giusto fare in relazione alla sua situazione e al suo coraggio.

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

CONCLUSIONI

Questo libro contiene diverse citazioni che afferiscono alla Dottrina Sociale della Chiesa. Il suo Compendio è un testo che continuo a regalare a tanti amici imprenditori e politici, e del quale vado fiero di esserne un promotore. Faccio tutti i giorni lo sforzo di vivere coerentemente la mia Fede, e per questo non ho voluto minimizzare il mio punto di vista per non dispiacere ed essere compiacente o tollerante con quanti non la pensano come me.

Desidero concludere quindi con intimità condividendo con voi due ultime riflessioni. La prima ha per titolo: Per un successo oltre misura

29.

…..

La seconda ha per titolo: il paradiso terrestre. Alcune imprese internazionali il cui capitale è di proprietà di sconosciuti - che a loro volta con molta probabilità non conoscono nulla sul modo con il quale le imprese possedute gli procurano utili – hanno distrutto il nostro pianeta (in molte occasioni ho detto: hanno distrutto il paradiso terrestre che ci è stato donato). I loro manager fanno scelte strategiche stando seduti in una parte del mondo molto diversa da quella nella quale saranno attuate e guardando asetticamente solo numeri. Nessuna conoscenza di territori, culture, persone e molta conoscenza di governanti da corrompere. Trattasi di imprese disumane; più sono grandi, più sono

29 Roberto Lorusso, Per un successo oltre misura. Una lettura imprenditoriale del duc in altum evangelico, Robertolorusso.it, http://www.robertolorusso.it/index.php?option= com_content&view=article&id=116:per-un-successo-oltre-misura&catid=38:blog&Itemid=37, 2008.

Roberto Lorusso. Estratto da L’Impresa Virtuosa Crescere ed innovare in periodi di recessione. Editori Riuniti University Press

globalizzate e più distruggono. La cosa più preoccupante è che le piccole imprese vengono invitate a imitarle, mentre la realtà ci dice, ad esempio, che in Italia la crisi è stata retta grazie alle miriade di piccole imprese. Pertanto concludo che come nella natura va difesa la bio-diversità, così nel mercato dobbiamo difendere la pmi-

diversità. È la piccola impresa che conosce i territori dove opera, le persone che vi abitano. Questa ha gli occhi per guardare quello che le grandi non possono guardare. Se proprio la dimensione delle multinazionali deve essere emulata, allora facciamolo mediante accordi di processo che consentano di soddisfare sia bisogni di

attenzione sia i bisogni di fatturato. Adesso è bene che le imprese internazionali (i colossi dell’economia ai quali tutti i capi di governo si sottomettono) si diano da fare a ricostruire il paradiso terrestre. E lo dico con convinzione, perché cosi come hanno usato intelligenza, creatività, innovazione per distruggere, parimenti possono fare per ricostruire.

È una utopia? «Forse, ma non credo che si debbano temere le utopie. Come ha detto qualcun altro – le utopie sono come le stelle per i naviganti la notte. Nessuno pensa di raggiungerle, ma aiutano a tenere la rotta. La consapevolezza dello scarto esistente tra aspirazioni ideali e condizioni reali non deve far rinunciare ad agire

per il bene e per il giusto»30, e poi, la Speranza è sempre l’ultima a morire. Duc in altum.

30 Paolo Cacciari, op. cit., p. 3.