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214 dialoghi Locarno – Anno 42 – Dicembre 2010 di riflessione cristiana BIMESTRALE Dossier Economia RIPENSARE CONFINI E CRESCITA Confini cicatrici della storia, ma in futuro… di Remigio Ratti pag. 3 Contro il mito della crescita continua e illimitata di Silvano Toppi pag. 7 La pecora nera siamo noi! Il 28 novembre, l’elettorato svizzero ha approvato, con il 52,9% dei suffragi, l’iniziativa dell’Unione democratica di centro per l’espulsione automatica degli stranieri condannati per reati pe- nali o che hanno frodato le assicurazioni sociali, contro il pa- rere del Consiglio federale e del Parlamento. Il nostro nuovo ministro della giustizia ha già dato garanzie a Bruxelles che la legge d’applicazione terrà conto dei trattati internazionali sot- toscritti dalla Svizzera – non fosse che per rispetto della non esigua minoranza che ha respinto l’iniziativa (o il banco va tut- to al vincitore?). Difficoltà di applicazione a parte, ci siamo di nuovo illustrati nel mondo come un Paese intollerante e xeno- fobo. «Dialoghi» ha dunque scelto di adottare la copertina del quotidiano ginevrino «Le Courrier» del 29 novembre, non sen- za ricordare ai lettori che quel giornale si appoggia in modo determinante al libero contributo dei sostenitori. Il «sottoscrit- tometro» di quest’anno dà un totale di entrate di fr. 220.017; per chiudere i conti in pareggio mancano 80 mila franchi. Gli abbonamenti costano fr. 373.00 annui (normale), fr. 299.00 (promozionale, per il primo anno). L’indirizzo è: «Le Cour- rier» - Service des abonnements - Rue de la Truite 3 / CP 238, 1211 Genève; [email protected]. È tutta colpa dell’Illuminismo? «Manca uno spirito di comunione, l’impianto anche di strutture che fa- voriscono il dialogo, il confronto, il la- voro insieme e meglio distribuito; la conoscenza, l’adesione più curata al- la Parola di Dio, celebrazioni liturgi- che gioiose e ben partecipate, la ca- pacità di lettura dei segni dei tempi, che favorisce la comunicazione, uno stile di povertà e di sobrietà che im- pegna a favore della giustizia, della solidarietà, della libertà». Così, ri- spondendo a una domanda del «Gior- nale del Popolo» (23 settembre 2010), il vescovo di Lugano, Pier Giacomo Grampa, riassume le grandi linee del- la sua ultima «lettera pastorale»: Co- me il Padre ha mandato me… io man- do voi, pubblicata in settembre. Si fa- rebbe violenza al modo più argomen- tato della Lettera riducendola a questo sfogo. Ma sarebbe improprio anche ri- durre a un tratto caratteriale il senso di angoscia che monsignorGrampa esprime di fronte alla situazione della (continua a pag. 2)

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Dialoghi n.ro 214

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214 dialoghiLocarno – Anno 42 – Dicembre 2010 di riflessione cristiana BIMESTRALE

Dossier EconomiaRIPENSARE

CONFINI E CRESCITAConfini cicatrici della storia,

ma in futuro…di Remigio Ratti

pag. 3

Contro il mito della crescitacontinua e illimitatadi Silvano Toppi

pag. 7

La pecora nera siamo noi!Il 28 novembre, l’elettorato svizzero ha approvato, con il 52,9%dei suffragi, l’iniziativa dell’Unione democratica di centro perl’espulsione automatica degli stranieri condannati per reati pe-nali o che hanno frodato le assicurazioni sociali, contro il pa-rere del Consiglio federale e del Parlamento. Il nostro nuovoministro della giustizia ha già dato garanzie a Bruxelles che lalegge d’applicazione terrà conto dei trattati internazionali sot-toscritti dalla Svizzera – non fosse che per rispetto della nonesigua minoranza che ha respinto l’iniziativa (o il banco va tut-

to al vincitore?). Difficoltà di applicazione a parte, ci siamo dinuovo illustrati nel mondo come un Paese intollerante e xeno-fobo. «Dialoghi» ha dunque scelto di adottare la copertina delquotidiano ginevrino «Le Courrier» del 29 novembre, non sen-za ricordare ai lettori che quel giornale si appoggia in mododeterminante al libero contributo dei sostenitori. Il «sottoscrit-tometro» di quest’anno dà un totale di entrate di fr. 220.017;per chiudere i conti in pareggio mancano 80 mila franchi. Gliabbonamenti costano fr. 373.00 annui (normale), fr. 299.00(promozionale, per il primo anno). L’indirizzo è: «Le Cour-rier» - Service des abonnements - Rue de la Truite 3 / CP 238,1211 Genève; [email protected].

È tutta colpadell’Illuminismo?«Manca uno spirito di comunione,l’impianto anche di strutture che fa-voriscono il dialogo, il confronto, il la-voro insieme e meglio distribuito; laconoscenza, l’adesione più curata al-la Parola di Dio, celebrazioni liturgi-che gioiose e ben partecipate, la ca-pacità di lettura dei segni dei tempi,che favorisce la comunicazione, unostile di povertà e di sobrietà che im-pegna a favore della giustizia, dellasolidarietà, della libertà». Così, ri-spondendo a una domanda del «Gior-nale del Popolo» (23 settembre 2010),il vescovo di Lugano, Pier GiacomoGrampa, riassume le grandi linee del-la sua ultima «lettera pastorale»: Co-me il Padre ha mandato me… io man-do voi, pubblicata in settembre. Si fa-rebbe violenza al modo più argomen-tato della Lettera riducendola a questosfogo.Ma sarebbe improprio anche ri-durre a un tratto caratteriale il sensodi angoscia che monsignorGrampaesprime di fronte alla situazione della

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porzione di Chiesa a lui affidata. È unsentimento che emerge da sempre piùnumerose e ripetute denunce del Ve-scovo ormai vicino alla data delle ob-bligatorie dimissioni (autunno 2011):un tratto di realismo che gli fa onorema che dev’essere verificato e appro-fondito.Il punto di vista di monsignor Gram-pa, certo fondato sulle impressioni rac-colte durante la Visita pastorale che hatoccato tutte le parrocchie del Ticino eora tocca le «zone pastorali», andreb-be verificato («Dialoghi» lo sostieneda molto tempo) attraverso uno studiosociologico completo, per il quale sidice che mancano sempre i mezzi. Larealtà è che non è ritenuto una priori-tà, visto che per altre spese non man-cano né la volontà né la capacità diraccogliere il necessario.Sono due i punti sui quali monsignorGrampa ha più volte, anche pubbli-camente, insistito: (1) l’azione pasto-rale dev’essere centralizzata, far levasu strutture diocesane dotate di perso-nale e di mezzi secondo le nuove esi-genze (formazione, comunicazione,sacramenti), alle quali si deve obbli-gatoriamente riferirsi; (2) la trasmis-sione della fede è ormai compitoessenziaie dei laici e in particolare del-le famiglie. Queste linee programma-tiche trovano ostacolo in due elemen-ti tradizionali del cattolicesimo com’èvissuto nel Ticino: (ad 1) l’autonomiadella parrocchia, prodotto di circo-stanze storiche e di un enfatizzatospirito di campanile, ancora oggi inmolti casi affermati polemicamente ri-spetto a questo o quel vescovo dioce-sano; (ad 2) la tradizionale riserva-tezza del popolo cristiano ticinese nel-le cose di fede e di religione, la seco-lare delega delle responsabilità ditrasmettere la fede al clero – un tem-po numeroso, oggi assente dalla mag-gior parte delle situazioni di vita.Questo stato di cose – monsignorGrampa ha ragione! – deve cambiarein profondità se si vuole che il Cristo– detto con un pizzico di scusabile esa-gerazione – trovi ancora fede sulla ter-ra quando ritornerà. Ma l’accento po-sto sulla Diocesi (ottime le premesseecclesiologiche descritte nella Letterapastorale, al seguito del Concilio Va-ticano II) richiederebbe che la Chiesalocale fosse governata in modo piùpartecipato, meno personale da partedel Pastore (…anche se si può capirel’impazienza davanti a molte resisten-ze, che induce a fughe in avanti). È tut-to vero: per i consigli diocesani, si ha«la sensazione che, di elezione in ele-zione, sia sempre più difficile trovare

nuovi candidati e candidate perché lapartecipazione e collaborazione allavita della Chiesa gode ormai di ben po-ca stima a livello pubblico». Ma è unasituazione denunciata da tempo, percorreggere la quale i vescovi (e chi do-vrebbe?) non hanno mai fatto nulla.Pure il problema del finanziamentodelle strutture diocesane – che impe-disce l’assunzione di personale laicoqualificato – si pone da almeno ven-t’anni: doveva essere affrontato e ri-solto da gran tempo, perché la messain opera di nuove capacità e respon-sabilità non può essere paralizzata ineterno dalla indisponibilità dei mezzinecessari! E, infine, sono stati sciupa-ti cinquant’anni, dal Concilio in poi,tralasciando di conferire alle famiglie(in sostanza: ai laici) responsabilitànell’educazione alla fede, perché lamaggior parte dei preti non ha voluto,o solo a malincuore è stata disposta, arinunciare al monopolio del sacro de-posito.Purtroppo, facilmente questo tipo di di-

scorso sfocia in propositi di «rievan-gelizzazione» che non condividiamonellamisura in cui interpretano la con-dizione secolarizzata del mondo mo-derno come un momento di decadenzada recuperare ripristinando le buonepratiche dei tempi antichi. Il fatto è cheun’età dell’oro del cristianesimo, dacui illuminismo e secolarizzazione ciavrebbero staccati, non è mai esistita.«L’errore di analisi non si concentranel modo di tratteggiare l’età presen-te – scrive Piero Stefani, docente uni-versitario di esegesi biblica e redatto-re della rivista “Il Regno” di Bologna– ma è frutto della maniera in cui sierano dipinte le società precedenti (…)Nessuna società apparsa su questa ter-ra è stata conforme al Vangelo. Sonoesistite solo società in cui il sacro co-stituiva una forma di collante colletti-vo nel senso della religio, ma ciò è esat-tamente quanto la predicazione evan-gelica ha cercato di mandare in fran-tumi al fine di attestare un mododiverso di vivere la fede». E.M.

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Povertà e diritti umaniLe tre Chiese nazionali svizzere, in occasione della «Giornata internaziona-le dei diritti umani» del 10 dicembre, hanno pubblicato una dichiarazione nelquadro dell’Anno europeo per la lotta contro la povertà. Esse attirano l’at-tenzione sul legame tra povertà e diritti umani. Nella dichiarazione, diffusail 2 novembre, la Federazione delle Chiese protestanti di Svizzera, la Chiesacattolico-cristiana di Svizzera e la Conferenza dei vescovi svizzeri sottoli-neano l’esistenza della povertà, in Svizzera come nel mondo, che oltre a per-sistere registra un aumento della ineguaglianza tra ricchi e poveri. La di-chiarazione invita le Chiese e le comunità a essere maggiormente luoghi ovei poveri sono accolti ed ascoltati, dove trovano ospitalità, dove sono inco-raggiati a rimettersi in piedi.

Le Chiese mettono in relazione povertà e diritti umani, due concetti che crea-no una duplice conseguenza: da un lato, la povertà impedisce la realizzazio-ne dei diritti umani (limitando l’accesso alla salute, alla formazione, favo-rendo il lavoro minorile, ecc.), dall’altro, la negazione dei diritti crea la po-vertà (diseguaglianze tra uomo e donna, discriminazione delle minoranze,esclusione sociale, ecc.)

La dichiarazione indica tre prospettive principali per la lotta contro la povertà:la lotta deve essere multisettoriale, perché la povertà non è solo materiale eva combattuta in ogni aspetto, da quello economico a quello sociale, politi-co, culturale. La lotta deve realizzare una maggiore equità, in quanto si trat-ta di garantire a tutti le stesse possibilità di accesso al benessere (le Chieseindicano specialmente le condizioni disagiate di donne e migranti). Infine, lalotta alla povertà deve permettere alle persone di essere protagoniste: non sitratta solo di ridistribuzione della ricchezza, ma di una politica di riconosci-mento e di rispetto.

L’argomentazione in favore dei diritti umani va rafforzata con una riflessio-ne biblica e teologica. Ispirandosi al racconto dell’ evangelista Matteo sulgiorno del giudizio (25, 31-46), le Chiese propongono un accostamento alpovero in tre momenti: la pietà, l’impegno personale, l’azione sociale. Infi-ne, le Chiese chiedono di sostenere due petizioni, elaborate daACAT (l’Azio-ne cristiana per l’abolizione della tortura): una solleva il problema del dirit-to alla salute degli oltre centomila (!) clandestini in Svizzera, il 90% dei qua-li con una limitata protezione in caso di malattia; la secondo ricorda la sortedelle minoranze curde in Turchia, che in conseguenza della guerra tra i se-paratisti e l’esercito sono spinte a rifugiarsi nei centri urbani, cadendo nellapovertà.

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«Frontiere, cicatrici della storia»: co-sì il filosofo ginevrino Denis de Rou-gemont le aveva definite sessant’annifa all’uscita della seconda guerra mon-diale e nella visione di un’Europa del-le Regioni. Un pensiero forte, unachiave di lettura adatta a un discorsodestinato a dispiegarsi sull’arco non dianni ma di decenni. Infatti, De Rou-gement ha anticipato sia il processod’integrazione europea sia i suoi limitiattuali.La Svizzera meridionale e il Ticino,per il rapporto che hanno con il lorospazio naturale (culturale, sociale,economico) sono un laboratorio in cuile cicatrici della storia sono ancora piùche mai presenti: nella percezione del-la gente e dei politici; nei movimentidi fondo, tettonici, di un campo di for-ze che inesorabilmente cambia la no-stra territorialità, definita come capa-cità e modalità di affrontare il cam-biamento. Gli esempi li abbiamo tut-ti davanti agli occhi: dalle sistematichevotazioni popolari contrarie al pro-cesso di costruzione europea alla«scoperta» che la caduta, il 15 otto-bre, del diaframma della galleria fer-roviaria più lunga del mondo è partedi un sistema in cui i confini non do-vrebbero più esistere; allo scudo fi-scale del Ministro Tremonti e allamessa in crisi, invero molto prete-stuosa, della Regio Insubrica.Poiché di questi temi mi occupo da or-mai diversi decenni, tento un rapidoinquadramento del contesto e della si-tuazione attuale, puntando a un sug-gerimento originale per dare maggio-re concretezza alla collaborazionetransfrontaliera e offrire una via d’u-scita alla crisi insubrica.

La natura dell’effetto frontieraLa frontiera è un concetto complesso:ha la funzione di separare ma anchequella di mettere in contatto realtà so-cio-economiche, culturali e istituzio-nali diverse. Inoltre, noi siamo abituatia concepire la frontiera come una li-nea fissa. Ma questa è solo una delleaccezioni del termine. Per un ameri-cano, la frontiera può significare alcontrario qualcosa di mobile: il gran-de storico Frederick Turner descrivela frontiera americana come un conti-nuo processo di spostamento dalle co-ste atlantiche al Pacifico, mentre il ter-

mine inglese di «border» definisce lafrontiera non come una linea ma co-me uno spazio che, pur separando re-altà diverse, è anche zona di contatto.La frontiera può essere, secondo lecontingenze storiche o la percezionesociale, linea, zona, fissa o mobile.Ne deriva una combinazione tipologi-ca interessante, capace di spiegaremolte situazioni; noi la applichiamoalle relazioni Svizzera-Italia, Ticino-Lombardia.

La frontiera come linea fissaÈ quella introdotta dopo la Costitu-zione federale del 1848 e la nascita,nel 1861, del Regno d’Italia. In que-sto scenario prevalgono i punti di vi-sta e le forze nazionali – di Berna e diRoma – e le relazioni di vicinato di-ventano relazioni internazionali. Co-sì, la storia ticinese ricorda la nascitadi una frontiera linea fissa (il primoposto di frontiera e magazzino doga-nale svizzero a Chiasso è del 1850) co-me la fine della relazione naturale conlo spazio lombardo e piemontese, oradestinata a tramutarsi in una forte emi-grazione oltre mare. Per un lungo pe-riodo, la minoranza di lingua italianadovrà convertire lo sguardo versonord, riuscendoci così a fatica da tra-dursi formalmente, negli anni Venti eTrenta del secolo scorso, nelle «Ri-vendicazioni» ticinesi. Tale capitolorivendicativo è ancora presente o la-tente nella politica ticinese del secon-do dopoguerra e nella linea di alcunimovimenti.

La frontiera linea di separazionemobileIl secondo scenario tipologico è de-terminato dalla combinazione di duelogiche di frontiera: quella della fron-tiera-linea e quella della frontiera-mobile. Siamo qui nel campo dellageopolitica e dei fenomeni di conqui-sta di spazi di influenza e di allarga-mento della territorialità, che posso-no avere scopi economici, politico-militari o ideologici. Anche qui nonc’è bisogno di andare lontano per ri-trovare esempi locali: l’idea fascistadi una frontiera mobile, quindi al SanGottardo e le conseguenti manifesta-

zioni irredentiste. Ne segui una rea-zione in appoggio alle attività degli an-tifascisti italiani e lo sviluppo di sen-timenti nazionalistici che spinsero per-fino a costruire e vantare con GuidoCalgari le virtù dell’ «uomo del Got-tardo». Concezioni forse inconscia-mente riprese dalle forme di regiona-lismo regressivo odierne, quando si èpotuto evocare lo spostamento delladogana ad Airolo e/o il modello di unTicino «zona franca».

La realtà della frontiera «filtro»Un terzo scenario – corrispondente al-la realtà di frontiera degli ultimi cin-quant’anni – è il frutto della combi-nazione tra la frontiera concepita co-me linea di demarcazione tra due o piùrealtà istituzionali e la frontiera con-cepita come zona di contatto funzio-nale tra collettività diverse. È in que-sta tipologia che possiamo situare iprocessi d’integrazione-cooperazioneeuropea, nonché quelli della coopera-zione transfrontaliera.La percezione dell’Italia da parte de-gli svizzeri italiani non sembra essereancora uscita da un doppio e ambiguoatteggiamento: da una parte si vuoleessere diversi, dall’altra emerge un bi-sogno vitale di scambio. Da qui il con-cetto – originale e di relativo succes-so – che avevamo definito negli anniottanta: quello di frontiera filtro, perdefinire l’atteggiamento di chi vuoleessere aperto, ma lasciando passaresolo quello che a lui piace, o che è de-terminato dai rapporti di forza e d’in-teresse. Un modello indubbiamenterealistico ma difficile da governare,perché frutto di livelli istituzionali di-versi, quindi non sempre adeguati al-le realtà transfrontaliere. Infatti, le si-tuazioni di frontiera-filtro sono spes-so caratterizzate da effetti asimmetri-ci (positivi per gli uni, negativi per glialtri) o catalizzano processi indeside-rati, o speculativi.Il Ticino è un laboratorio ideale per di-mostrare il funzionamento della fron-tiera-filtro. È sulla base di rendite diposizione – dovute alle differenze isti-tuzionali, di contesto e di percezione– che la banca e la finanza localizza-te in Ticino hanno potuto sviluppare eraggiungere un posto al sole quale ter-za piazza finanziaria svizzera. È sullabase di rendite differenziali – dovutealle differenza salariali, di prezzo dei

Confini cicatrici della storia, ma in futuro...Per una nuova lettura dei rapporti di frontiera con l’Italia

didi Remigio Ratti

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beni o del mercato del lavoro – che ilTicino ha sviluppato un settore indu-striale: dapprima nei settori a forte in-tensità di lavoro poi in settori semprepiù diversificati ed interessanti. Il fe-nomeno del frontalierato è emerso apartire dal 1966 quando la legislazio-ne svizzera ha liberato i frontalieri dalblocco delle assunzioni di manodope-ra estera e si è sviluppato sotto il re-gime del filtro: un lavoratore fronta-liero poteva essere assunto quando sipoteva dimostrare che non vi fosse unresidente interessato a quel posto (main generale creato su misura per ilfrontaliere, poiché legato alla logicadelle rendite differenziali). Con i trat-tati bilaterali – basati sulla regola eu-ropea della libertà di movimento del-le persone – è caduto il filtro e sonoapparse differenze strutturali e distor-sioni da effetto frontiera non risolvi-bili solo localmente e in tempo breve.

La frontiera in un campodi forze apertoUn ultimo quadro teorico combina lafrontiera percepita come mobile conquella vissuta come zona di contatto.In quest’ottica situiamo le frontiere so-cio-culturali nel senso di un’aperturaal pluralismo e a dinamiche di identi-tà sempre in movimento.In questo senso, la percezione dellamatrice culturale italiana non può fer-marsi alle frontiere di Stato – anchese esse possono influenzarla, condi-zionarla e, sovente, distorcerla. Persi-no il fascismo è stato, per reazione,un’occasione per gli svizzeri per raf-forzare a loro modo la propria cono-scenza e i contatti con la cultura ita-liana. Il principio della difesa spiri-tuale del Paese aveva portato alla finedegli anni Trenta alla costituzione neinostri atenei di cattedre, presto diven-tate prestigiose, di lingua e cultura ita-liana (facendosi in parte perdonare loscopo vero, che era di offrire un’al-ternativa agli studi in Italia).Oggi il principio non può più esserequello della difesa spirituale e deve ap-poggiarsi su una vera politica cultura-le per l’insieme della Svizzera.Anchesu questo punto ci troviamo in una fa-se di transizione, non sempre ben per-cepita, comunque laboriosa. Come in-terpretare la chiusura di alcune di que-ste cattedre? Quanto può significare lanascita a Lugano dell’ISI – un istitu-to di studi italiani – che innova facen-do riferimento alla civiltà italiana?Quale il significato e l’apporto, anchedal punto di vista del servizio al Pae-se, di una Svizzera italiana divenuta apieno titolo sede universitaria? Basta-

no le nuove istituzioni per dimostrareil superamento delle frontiere e lo svi-luppo di nuove prossimità? Quest’ul-time le definiamo volentieri – inun’epoca di globalizzazione – comeprossimità non più solo territoriali marelazionali, basate su condivisioni divalori, obiettivi e di spazi e reti fun-zionali. Prossimità costruite, come nelcaso della lingua, in spazi «italici»aperti, cioè rispettosi delle identitàmultiple di un’«italicità» che costitui-sce la nuova frontiera del sentire ita-liano nel mondo (e anche del nostroessere svizzeri di lingua italiana).

Collaborazione transfrontaliera:un castello di sabbia?La nostra analisi tipologica dell’effet-to frontiera permette di capire comemai si sia dovuto attendere fino al 19gennaio 1994 per costituire la RegioInsubrica: non una nuova istituzione,come si tende a credere, ma sempli-cemente un’associazione per la pro-mozione della collaborazione tran-sfrontaliera. Eppure, la Regio Basi-liensis risale al 1965 ed è del 1980 laConvenzione-quadro di Madrid, volu-ta dal Consiglio d’Europa per un piùsistematico approccio alla coopera-zione tra enti regionali e locali di fron-tiera. Del 1990 è il lancio, che la Com-missione europea sostiene in nomedella politica di coesione e finanziacon i suoi «fondi strutturali», dei pro-grammi di cooperazione Interreg, pro-posti agli stati membri dell’UnioneEuropea e ai Paesi terzi limitrofi, Sviz-zera compresa.L’adesione della Svizzera a questoschema fu tiepida. Ben sedici sono icantoni di frontiera interessati, ma consituazioni molto diverse secondo ilPaese di riferimento – Austria, Ger-mania, Francia e Italia – e con rapportifunzionali e strutturali differenti (Gi-nevra e Basilea sono città-polo con en-troterra transfrontaliero; per il Ticino,il polo o la forza demografica sonopiuttosto dall’altra parte della frontie-ra; ancora diversa è la situazione delGiura e ai confini del Bodanico, o peri «parchi» delle vallate del Locarne-se). La Confederazione, rispettando ilfederalismo, dà proporzionalmente aiCantoni la possibilità di attingere alrelativo finanziamento, ma sottovalu-ta in particolare la situazione con l’Ita-lia, per cui i ticinesi, grigionesi e val-lesani coinvolti nei progetti del quar-to programma Interreg (con scadenzanel 2013) vedono il partner italiano be-neficiare del 90% dei fondi garantitidall’UE e dalle istanze regionali ita-

liane contro il 10% racimolato dallaConfederazione e dai rispettivi Can-toni. Inoltre la Regio Insubrica, inquanto associazione, non può esserepartner direttamente attivo in questiprogetti, che spaziano dal culturale,al sociale, alle infrastrutture e alla pro-mozione di specifiche reti economi-che a supporto di attività produttive,turistiche e di servizio.Eppure la realtà della nostra regionetransfrontaliera – l’Insubria compren-de, oltre il Ticino, le province di Co-mo, Varese, Cusio-Ossola, alle qualisi sono poi aggiunte Novara e Lecco– copre un comprensorio di quasi duemilioni di abitanti entro un raggio diventi chilometri dal confine. Questadimensione transfrontaliera rappre-senta anche per il Piano federale disviluppo territoriale 2030 l’elementostrategico di una politica di coesionee di sviluppo che fa i conti con le nuo-ve dimensioni metropolitane e inter-regionali europee.Senza voler fare in questa sede un bi-lancio di quindici anni di collabora-zione transfrontaliera, le polemiche diquesta primavera e la minaccia delCantone Ticino di uscire dall’Asso-ciazione (non mi pare molto riflettutal’uscita dell’USI, mentre è decisa-mente anacronistica quella del comu-ne di Stabio) devono indurre a ripren-dere in considerazione le dinamichedi fondo. Del tutto congiunturali, e an-che poco pertinenti, sembrano le ri-torsioni locali a problematiche comelo scudo fiscale. Tensioni politiche siregistrano pure per un uso opportuni-stico della Regio. Politici, funzionarie mass media dimostrano poca perse-veranza nel credere agli obiettivi dilungo termine. Sono tutti indicatoridella percezione della varietà deglieffetti della frontiera citati all’inizioe tuttora operanti in tutte le loro va-rianti.

Le sfide di una realtà «glocal»e la nuova InsubriaStiamo assistendo, senza che sia mi-nimamente oggetto di discussione, auna lombardizzazione strisciante del-la nostra economia (invero mal perce-pita dalla gente, anche se corrispon-dente all’indicazione strategica dellastessa Berna federale) e a una de-el-vetizzazione dell’economia ticineseche, di fatto, è entrata in una fase disviluppo «glocal», dove il «locale» de-ve affrontare senza troppe mediazio-ni statali o filtri il «globale». In que-sto scenario il tema della frontiera è ilcatalizzatore, ma non la causa, di im-

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portanti fenomeni in attoma di cui nonconosciamo bene i processi.La Convenzione quadro di Madrid haconosciuto un’evoluzione, da ultimocon un nuovo protocollo (N° 3) in fa-vore della creazione di organismi dicooperazione transfrontaliera o inter-territoriale nella forma di «raggrup-pamenti euro regionali di cooperazio-ne -REC». Questa forma giuridica delREC verrà a breve impiegata per ilprogetto di agglomerazione franco-valdo-ginevrina (www.projet-agglo.org).Anche i programmiUE/ Interregdi nuova generazione (2014-2020)prendono in considerazione una di-mensione interregionale più ampia. Sidelinea quindi il rischio effettivo di es-serne tagliati fuori, se la nostra visio-ne si posiziona sull’onda del locali-smo e di un regionalismo regressivo.Si va ormai oltre la cooperazione: cioèverso una vera e propria piattaformaterritoriale transfrontaliera, orienta-ta dai progetti più trainanti e coinvol-gente tutti gli attori in gioco.Alptransit è il progetto che dovrebbeaprirci gli occhi. Solo formalmente èun progetto svizzero (i venti miliardidi franchi li paghiamo noi, ma così ab-biamo voluto!). Conseguirà il suo sco-po solo se serve alle Regioni d’Euro-pa. Non «salterà» il Ticino-zona gri-gia se il Cantone ne considera le op-portunità, ben oltre quella dellamobilità. Lo stesso vale per le pro-vince limitrofe toccate dal grande pro-getto – che include la bretella Men-drisio-Stabio-Varese-Gallarate (Sem-pione)-Malpensa – in quanto dovrà in-tegrarsi e servire l’intero sistema dellamobilità commerciale e dei viaggia-tori dell’area metropolitana nord-ita-liana. Nel medesimo tempo, tutta unaserie di progetti apparentemente mi-nori assumeranno una valenza tran-sfrontaliera, perché i problemi am-bientali, di sviluppo e di riassetto delterritorio sono comuni.

Trasformare la Regio Insubricain un think tank?Nel quadro e nelle dinamiche accen-nate non appare irriverente denuncia-re la debolezza politica della Regioquando il Presidente di turno cambiaogni anno e le strutture d’appoggionon sono all’altezza della sfida. È lapolitica che deve indicare la direzio-ne e precisare i grandi obiettivi, la-sciando a una nuova struttura profes-sionale, a un gruppo creativo di per-sone che riflettono (think tank) e acommissioni d’esperti la definizionedella piattaforma entro la quale pro-

muovere progetti operativi. La politi-ca interverrà poi ancora in seguito san-zionando i protocolli d’intesa e assi-curando le risorse. Nel frattempo ma-tureranno soluzioni giuridiche più vin-colanti, come previsto dal citatoprotocollo N° 3 della Convenzione diMadrid.Non si tratta allora tanto di allargareil territorio della Regio Insubrica –questo può essere fatto anche con in-tese a geometria variabile, senzaescludere che una nuova struttura del-la Regio possa fare riferimento anchea Milano – quanto di assicurarnel’operatività. Lo statuto di semplice

associazione di promozione – lascia-ta in balia delle personalità ma anchedelle debolezze e delle contingenzepolitiche – deve poter essere supera-to. Una fondazione, forte dell’appog-gio politico più allargato possibile, ame pare più ideonea a conseguire unavisione di lungo termine, progettuali-tà ed operatività. Occorre più profes-sionalità, senza per questo scivolarenel tecnocratico e mettere da parte ilpolitico. Sarà questione di suddivisio-ne di ruoli, nel tempo e nelle proce-dure, verso l’obiettivo di una piatta-forma territoriale transfrontaliera.

Spiritualitàdella politica

È questo il titolo adeguato (appare co-me sottotitolo esplicativo) dell’ultimafatica di Giorgio Campanini, studio-so di etica politica e di storia del mo-vimento cattolico, autore di numero-si studi e insegnante alle università diParma, Lugano e Lateranense di Ro-ma.Vivace ottantenne (auguri!), Cam-panini cerca di indicare le strade del-la spiritualità (cioè le vie per andarein Paradiso) che dovrebbe percorrereun politico cristiano. Nell’agile volu-me (solo 172 pagine), l’autore co-mincia a spiegare l’originalità del-l’argomento. I cristiani dei primi tem-pi erano perseguitati (la via dellasantità era il martirio!), poi venne iltempo degli imperatori e dei monar-chi cristiani, e la Chiesa indicò lorocome costruire «lo Stato cristiano»; inseguito, contro il laicismo e la seco-larizzazione, i cattolici furono sulladifensiva per tutelare diritti e privile-gi della Chiesa, non già per governa-re lo Stato moderno. Così – riassu-mendo grossolanamente – il tema del-la «spiritualità» del politico riscossepoco interesse nella riflessione e nel-la letteratura cristiana, salvo signifi-cative eccezioni; interessava e preoc-cupava di più il contenuto della poli-tica, «la moralità della politica» piùche non «la morale del politico». Lageneralità dei cristiani si affaticavanelle faccende quotidiane, se non ave-va abbracciato lo stato clericale di pre-te, di monaco o di suora, a loro si pro-ponevano le virtù che valevano per imonaci, fino alla «rinuncia al mon-do». Ma la dottrina cattolica è muta-ta, per almeno due fondamentali av-venimenti: il prima linea il Concilio

Vaticano II, accogliendo quanto i teo-logi ormai avevano rivalutato da de-cenni, riconobbe la bontà, per aspira-re alla santità, delle cosiddette «real-tà terrestri» (la famiglia, la cultura,l’economia, ma anche la politica) chevenivano inoltre indicate come valorie compiti fondamentali per i laici(cioè i non-ecclesiastici); poi, altret-tanto fondamentale, il diffondersi delsistema democratico, che faceva del-la politica una vera e propria profes-sione (cristianamente, una «vocazio-ne») per un numero di cristiani mag-giore che non nelle monarchie.Inoltre, con il diritto di voto e di ele-zione, l’impegno politico veniva este-so a tutto il popolo cristiano, persinoalle donne, se non ai minori. Ondel’opportunità, anzi la necessità, di in-dicare come deve comportarsi un cri-stiano che fa della politica la sua «pro-fessione», e come deve comportarsiogni cristiano che ha la possibilità, equindi il dovere, di partecipare allapolitica, intesa come servizio al benecomune. Per Benedetto XVI, la poli-tica è riconosciuta come «la via isti-tuzionale» della carità (Caritas in ve-ritate, n. 7). Secondo Campanini, «apartire dalla fondamentale categoriadella laicità, è stato successivamentepossibile gettare le fondamenta diquell’edificio, ancora in parte da com-pletare, che è appunto la visione cri-stiana della spiritualità della politica».In un capitolo l’autore si premura diindicare sette «virtù del politico cri-stiano»; un utile promemoria per icandidati in questo periodo elettorale.

a. l.

G. Campanini, Testimoni nel mondo. Per unaspiritualità della politica, Edizioni Studium,Roma, 2010, pp. 176, € 13.

BIBLIOTECA

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Parrocchie verdi. È questo il titolodella guida ecologica all’attenzionedelle Chiese che è stata pubblicata daoeku presso l’editore ginevrino Laboret Fides. La comunità di lavoro per leChiese e l’Ambiente vuole con questomanuale sensibilizzare tutte le perso-ne che in una maniera o in un’altra agi-scono all’interno di una parrocchia auna maggiore attenzione nei confron-ti dell’ambiente. Molti aspetti riguar-dano coloro che devono amministra-re immobili di proprietà parrocchiale,ma anche chi si occupa della chiesa-edificio e dei suoi dintorni. I capitolitrattano del consumo d’acqua ed’energia, delle pulizie e degli addob-bi floreali, delle candele e degli spaziverdi. Uno è intitolato: «L’ecodiaco-nia: un gesto di fede e di discerni-mento». Un altro infine affronta il te-ma della mobilità. Non si arriva a sug-gerire l’uso della bicicletta elettrica aipreti delle valli…

Un record. Il 19 settembre è statainaugurata la più grande centrale fo-tovoltaica svizzera installata sul tettodi un edificio religioso. Si tratta dellachiesa ecumenica di Halden a SanGallo-città. La comunità è, sin daglianni ‘90, attenta alla questione ecolo-gica. La parrocchia è dell’opinioneche le Chiese abbiano una grande re-sponsabilità per ciò che concerne lasalvaguardia del Creato, che si deb-bano impegnare a non sprecare risor-se e che debbano promuovere fonti al-ternative di energia. Un impianto diquesto genere sul tetto di una chiesa èespressione di una spiritualità che ve-de l’essere umano come parte di untutto, la Creazione appunto. Il nostrostile di vita deve essere tale da per-mettere alle generazioni future di vi-vere su un pianeta intatto. L’impiantorealizza quanto enunciato nelle «lineeguida» di questa parrocchia sangalle-se: «concreta, premurosa, coraggiosa,visionaria».Per chi è interessato agli aspetti tec-nici: in momenti di punta produttival’impianto produce 43 kW e permet-te di fornire elettricità a dodici eco-nomie domestiche.

Tutto bene, ma… Il consumo di ac-qua in Svizzera è diminuito sensibil-mente negli ultimi trent’anni, passan-do da 200 a 160 litri per persona algiorno. Nel calcolo del consumo tota-

le, che comprende anche il consumoindustriale, siamo passati da 500 a 400litri pro capite. A prima vista è unatendenza rallegrante, visto che l’acquaè una risorsa preziosa e va protetta (stascritto addirittura nella Costituzionesvizzera). Ma come è stato possibile,ci si domanda, visto che siamo una so-cietà in crescita? È il cambiamento diabitudini, si risponde: si fa la doccia enon il bagno, i nuovi elettrodomestici(lavatrici e lavastoviglie) utilizzanosempre meno acqua, la delocalizza-zione di industrie all’estero.Ahi! L’ac-qua per produrre molti dei nostri benidi consumo è dunque sfruttata altro-ve, magari addirittura dove non è a di-sposizione in abbondanza. Soddisfa-zione con riserva, dunque

Indigesti per natura. È utile ricorda-re che alla natura occorrono sei mesiper il processo di decomposizione diun fazzoletto di carta, cinque anni peruna gomma da masticare, cento peruna lattina o una bottiglia di plasticae mille per una di vetro.

Landgrabbing. Jesse Mugambi, teo-logo, professore di filosofia ed ecolo-gista keniota, membro del gruppo dilavoro del Consiglio ecumenico delleChiese sui cambiamenti climatici, ri-leva con amarezza che l’Africa è il so-lo continente che produce ciò che nonconsuma e consuma ciò che non pro-duce. L’Africa sarebbe perfettamentein grado di nutrire la sua popolazione,da sempre tuttavia non è stata messain condizioni farlo. All’inizio del XXsecolo, distese immense di terra ferti-le sono state destinate alla coltura dicaffè, tè, cotone, arachidi e di sisal daesportare, contribuendo alle gravi pe-nurie alimentari in molti paesi. Neglianni ’70 del Novecento, le terre su cuile famiglie contadine coltivavano ilmais hanno cominciato a venir con-vertite alla canna da zucchero per laproduzione di etanolo. Oggi si stimache cinque milioni di ettari di terra –la superficie della Danimarca – sonoin via di acquisizione da parte di im-prese estere che desiderano coltivarvibiomasse da destinare alla produzio-ne di agrocarburanti. Sono soprattut-to le imprese europee e cinesi che do-minano questa pratica, per il momen-to localizzate in undici Paesi. Le ac-quisizioni hanno provocato proteste inGhana, Madagascar eTanzania. Quel-

lo che dagli specialisti viene definitolandgrabbing comprende l’acquisi-zione di terre (a tempo determinato oindeterminato) per la produzione digeneri alimentari non destinati al-l’Africa.È dunque venuto il tempo di azionarela sirena d’allarme, perché in questomodo la sicurezza alimentare è gra-vemente minacciata. Sta ai governi deipaesi industrializzati intervenire sulpiano politico. Ma è anche una que-stione di coerenza: non si può dare,da una parte, stanziando fondi perl’aiuto allo sviluppo, e togliere dal-l’altra lasciando totale libertà alle im-prese di sottrarre le basi vitali alle po-polazioni africane.

Sta bene lì. La notizia era già appar-sa in questa sede, ma conviene ri-prenderla perché è un’iniziativa chedovrebbe fare scuola e perché ora ilprogetto ha fatto un passo in avanti.In Ecuador, alla frontiera con il Perù,in piena foresta amazzonica, esiste ilparco nazionale Yasuni, la cui biodi-versità è tra le più alte del pianeta. Sulsuo territorio (10.000 km2, un quartodella Svizzera) sono stati localizzatiin tre siti (Ishpingo, Tambococha eTi-putini) importanti giacimenti di pe-trolio: 840 milioni di barili, equiva-lenti al 20% delle riserve accertate nelPaese, la cui vendita procurerebbe 7,2miliardi di dollari di entrate perl’Ecuador. L’Ecuador ha però propo-sto di rinunciare definitivamente allosfruttamento dei giacimenti se la co-munità internazionale gli verserà il50% della perdita stimata. E perchémai la comunità internazionale do-vrebbe essere interessata a non estrar-re questo petrolio? Perché si evitereb-be di immettere nell’atmosfera 410miliardi di tonnellate di CO2 il fami-gerato gas a effetto serra, correspon-sabile dei mutamenti climatici. Il pro-getto Yasuni-ITT si presenta pertantocome un enorme ambito di compen-sazioni delle emissioni. Il Paese lati-no-americano da parte sua potrebbesalvaguardare in tal modo l’esistenzadi tre popoli autoctoni che vivono nelparco nazionale in isolamento volon-tario: i Tagaeri, i Taromenane e gliOnamenane. Ora l’Ecuador ha firma-to un accordo storico con il Program-ma delle Nazioni Unite per lo Svilup-po per la creazione di un fondo che sa-rà gestito dall’ONU. Ciò rassicura icontribuenti potenziali senza intacca-re l’autonomia del Paese. Vogliamosperare che sia l’Ecuador sia il restodel mondo siano all’altezza di un pro-getto di tale portata.

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NOTIZIARIO (IN)SOSTENIBILEa cura di Daria Lepori

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La storia delle sette vacche grasse edelle sette vacche magre mi ha sem-pre impressionato. Se da bambino micreava attese, da economista mi lasciaancora stupefatto. Dapprima perché ri-tengo Giuseppe, lo schiavo divenutoper quella storia viceré d’Egitto, il pri-mo economista a definire la teoria deicicli economici. Poi perché, tremilaanni dopo, illustri economisti scopro-no che quel «sette» è una costante delciclo economico breve: sette anni diespansione eguiti da sette di relativadepressione. Tutti scientificamentecalcolati sull’andamento del famosopil, il prodotto interno lordo che sin-tetizza con una percentuale l’aumen-to o meno della ricchezza aggiunta nelPaese in un anno. Oggi si accompa-gna il movimento del ciclo con nu-merose altre varabili economiche, co-me l’occupazione, i consumi, gli in-vestimenti, le scorte, la produttività, laquantità di moneta, i tassi di interes-se, i prezzi, i profitti, i salari.Chi rilegge quella storia di Giuseppe(Genesi, 41ss) dovrebbe scoprire an-che tre «logiche» di fondo: la cresci-ta non è infinita, ha dei limiti, che fi-niscono per imporsi. Nel tempo dellevacche grasse è saggio creare le riser-ve per il tempo delle vacche magre;nel periodo delle vacche magre è do-veroso ridistribuire nell’interesse ditutti quanto si è accumulato prima(«allora Giuseppe aprì tutti i depositiin cui vi era grano», anche «per chi ve-niva da altri paesi»).Queste tre «logiche» (o verità), chesembrano iscritte sin dalle origini nel-la natura dell’uomo, sono state di-menticate dalla scienza economica at-tualmente imperante, dalla pratica edalla politica economiche che ne de-rivano, dallo stesso buon senso. Infat-ti, la crescita dev’essere ritenuta infi-nita, senza limiti, altrimenti non han-no senso né l’economia e nemmenola vita. Ciò che conta è il profitto im-mediato, il guadagno istantaneo, nelbreve termine (il cortoterminismo).Gli strumenti studiati e messi in attooggigiorno da economia e finanza edalle varie organizzazioni internazio-nali di pronto intervento rendono pres-soché superata la nozione di ciclo. Èpoi solo l’accumulo di ricchezza, pri-vatizzato, con sempre minori «spolia-zioni» collettive (statalizzate, fiscali)che può eventualmente permettere una

ridistribuzione della ricchezza. (Os-serviamo subito che la realtà attuale,per chi ha occhi per vedere e ragioneper intendere, sembra stia dimostran-do tutto il contrario, dando ragione aGiuseppe).

L’economia imperanteprende origine da un paradossoe da un’utopiaIl paradosso è che sin dall’avvio,quando la crescita diventa obbligo, cisi accorge che si è imboccata una stra-da pericolosa, irrazionale. A metà de-gli anni Settanta, il famoso MIT (Mas-sachusetts Institute of Technology)pubblicò un rapporto che scosse ilmondo. Era intitolato senza mezzi ter-mini: Limits to Growth (1972), limitialla crescita (titolo tradotto impro-priamente: sia in italiano – Limiti del-lo sviluppo, Mondadori 1972 – sia infrancese –Halte à la croissance?, Fa-yard 1973). Prediceva, con ampia di-mostrazione, che la crescita economi-ca non poteva continuare indefinita-mente a causa della limitata disponi-bilità di risorse naturali e della limitatacapacità di assorbimento degli inqui-nanti da parte del pianeta. Il mondo,anestetizzato da una crescita che eragià durata trent’anni (i «trent’anni glo-riosi» del dopoguerra), non volle cre-derci, nonostante la crisi petrolifera.L’economia, che rifiuta sempre le uto-pie, rese invece coessenziale, per lasua stessa ragion d’essere, una delleutopie più innaturali e irrazionali, pro-prio quella demolita dal MIT: la cre-scita economica è, dev’essere, infini-ta, non può avere limiti (nonostanteterra e uomo siano per natura e defi-nizione «finiti»).Da tre decenni la crescita economicacontinua a esserci presentata comel’unica soluzione dei problemi delmondo e di ognuno di noi. È diventa-ta credenza, culto, balsamo miracolo-so per porre rimedio a tutto senza do-verci pensare troppo. Diamo un’oc-chiata ai nostri giornali. La disoccu-pazione, il precariato, il lavoro aigiovani? Scompariranno se ritrovere-mo la crescita. Le pensioni nel 2030?Il ritorno all’equilibro sta nell’au-

mento regolare della crescita. Il cata-clisma dei debiti pubblici? Qui il di-scorso si fa un po’ più complicato perun dilemma da cui non si esce: biso-gna diminuirli per ricuperare in credi-bilità finanziaria, non caricare le ge-nerazioni future, ripartire con una cre-scita costante; non si possono dimi-nuire senza creare disoccupazione,tensioni sociali, depressione, nuovacrisi. La povertà, le crescenti inegua-glianze, la fame nel nondo? Se tutticresceranno, con la globalizzazione,saranno ridotte. Ma come far fronte al-la carenza di risorse, ai problemi am-bientali, agli inquinamenti, alla crisiecologica che non si può più negare?Si è inventata un’altra crescita, si chia-ma «crescita verde» o un altro svilup-po, si chiama «sviluppo sostenibile».Una crescita o uno sviluppo che ten-tano di continuare con un’economiadi crescita (ritenuta irrinunciabile) sal-vaguardando perlomeno alcuni valori(natura, risorse, uomo, qualità di vi-ta). È però spesso nutrita di altra uto-pia o di molta ipocrisia.

La mitizzazione del «pil»e i sei assiomiRimangono sempre inespressi altri in-terrogativi, qualora si volesse perlo-meno ragionare un poco sulla cresci-ta. Ad esempio: sempre più di che co-sa, per chi, con quali conseguenze? Lacrescita non è diventata, a ragion ve-duta, un fattore di crisi, un ostacolo alprogresso umano, una minaccia per-manente? Perché è proibito pensare al-tre ipotesi, quasi fossero, quelle sì,un’utopia?Dietro l’idea di crescita economicasenza fine stanno l’abbondanza mate-riale e l’espansione quantitativa dellaproduzione nella sfera monetaria (del-le imprese come della finanza). Perpassare dall’idea alla misura si fa ca-po all’ormai mitico pil (prodotto in-terno lordo), che ci viene sfornato ognimese, anche in prospettiva, generan-do ottimismo o pessimismo. Il pil rap-presenta la somma di tutti i valori (intermini tecnici: i valori aggiunti) pro-dotti in un paese, in un continente, nelmondo, durante il periodo di un anno.È la misura più usata della «ricchez-za economica prodotta». Non è il ca-so di entrare nei dettagli di questo in-dicatore, oggi spesso contestato per le

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Contro il mito della crescita continua e illimitataIl «pil» misura della ricchezza? Superato e negativo!

diSilvano Toppi

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sue carenze. Ci interessa piuttosto unasequela di assiomi, di verità incontro-vertibili (o di dogmi: è incredibile co-me l’economia abbia preso in presti-to immagini, termini e culti dalla re-ligione. Un sociologo americano, Ri-chard Sennet, ne ha parlato assai!) chesono i pilastri dell’economia tutta im-postata sulla crescita quantitativa.Sintetizziamo al massimo. L’assiomamonetario: tutto va misurato con il de-naro. L’assioma del mercato: il mer-cato è l’unico vero giudice, si fondasul rapporto vendita-acquisto; al mer-cato sono collegati i due motori dellasocietà: il consumo e la produzione.L’assioma della redditività: affinchéun’azione sia giustificata deve procu-rare un aumento di ricchezza, mone-tizzabile. L’assioma della concorren-za o della competitività: non puoi esi-stere sul mercato se non sei competi-tivo (mitizzazione del prezzo semprepiù basso, del low cost). A quest’ulti-mo assioma è legato a doppia manda-ta il lavoro: primo, poiché rappresen-ta un costo deve essere ridotto o con-tenuto al massimo, aumentando laproduttività (più lavoro per unità diproduzione), altrimenti ne va di mez-zo la concorrenza; secondo, un’ atti-vità, anche utile, ma che non figura innessuna contabilità, non è un «lavo-ro». Infine, l’assioma che muove tut-to, l’espansione continua (o la cresci-ta infinita). Questi assiomi formanoovviamente un tutto.Cogliamo subito alcune contraddizio-ni insite nel sistema, che di fatto han-no portato alla crisi di sistema in cuici troviamo immersi. La compressio-ne e la disumanizzazione del lavoro(mutamento o assenza dei diritti dellavoro) con lo scopo di contenerne icosti, facilitata anche dal fatto che lamassa lavoratrice nel mondo si è rad-doppiata (ricorso a manodopera abuon mercato, delocalizzazioni, ecc.)ha tendenzialmente diminuito la mas-sa salariale e quindi il potere d’acqui-sto, anche in Svizzera. Si sono verifi-cate, parallelamente, forti disparità direddito, una elevata concentrazione diricchezza, un aumento dell’emargina-zione sociale e della povertà. Quindi,un risultato contradditorio rispetto aun’economia d’espansione e di cre-scita che deve indurre tutti a un sem-pre maggior consumo e richederebbeuna continua maggior disponibilità direddito da spendere. Contraddizionein parte attenuata dall’accresciuta con-correnza e dalla diminuzione dei prez-zi. Esasperata, però, dall’evoluzionefinanziaria che, con metodi assai so-fisticati, ha accumulato ricchezze sba-

lorditive, in parte fittizie, usando i pro-fitti per moltiplicare i profitti (la fi-nanziarizzazione dell’economia, o il«divenire rendita del profitto», che èil massimo dell’assurdità).

Il consumo fondato sui debitiPer mantenere l’economia in espan-sione si è quindi dovuto ricorrere alconsumo a mezzo di redditi non sala-riali, al consumo indebitato dei sala-riati. Il settore finanziario ha gonfia-to l’indebitamento, succhiando do-vunque poteva. Ed è per quel gonfia-mento oltre ogni limite che la crisidoveva scoppiare (si veda l’ottimo te-sto di Christian Marazzi,Finanza bru-ciata, Casagrande, 2009). Oggi sicommenta, da parte di alcuni gover-nanti: abbiamo vissuto al di sopra deinostri mezzi. E si chiede austerità.Per tentare di salvare il sistema, con-tinuando a ruotare attorno al pil comeunico indicatore di salvezza o con-danna, giustificandosi sempre, moltoipocritamente, con la necessità di sal-vare l’occupazione, si è dovuto ricor-rere all’indebitamento degli Stati oagli Stati che stampano moneta (comegli Stati Uniti ultimamente). Se os-serviamo le tre grandi agglomerazio-ni economiche che sono vissute e vi-vono sempre sul principio della cre-scita infinita (Stati Uniti-Unione eu-ropea-Giappone), l’indebitamentocomplessivo che hanno dovuto assu-mersi, sostituendosi ai fallimenti pri-vati, ammonta ormai a 24.000 miliar-di di dollari, il cento per cento del lo-ro famoso pil. C’è chi ha fatto i contied è giunto alla conclusione, moltoconcreta, che i lavoratori europei,americani e giapponesi dovrebbero la-vorare gratis per un anno, o rinuncia-re ai loro redditi per un intero anno,per poter coprire quei debiti. In buo-na parte è ciò che stanno facendo. Ba-sterebbe pensare alla Grecia, al Por-togallo o all’Irlanda, il Paese che erapreso a modello proprio per aver adot-tato il metodo della crescita first andforemost, con la fiscalità ridotta qua-si a zero per attirare nuovi investitori,con successivi pil stratosferici e cheora si ritrova sulla graticola dell’anti-ca miseria. Di fronte a quei debiti i pa-trimoni privati sono però cresciuti eammontano a 80 mila miliardi di dol-lari; il 10 per cento degli abitanti delpianeta detiene l’85 per cento dellaricchezza (basterebbe quindi il trasfe-rimento di un terzo di quella ricchez-za per pareggiare i conti).Insomma, stando alla sola finitezzadell’economia, senza addentrarci nel-

l’altro tema vitale della finitezza delpianeta e delle sue risorse, si può giàconcludere che l’economia dalla cre-scita illimitata è tra le peggiori e piùdisastrose utopie, assurta purtroppo aunica ideologia dominante.

C’è un’alternativa?A questo punto arriva immancabilel’obiezione: d’accordo, la realtà è que-sta, ma qual è l’alternativa? La decre-scita? Ma chi, nonostante tutto, ac-cetterà una decrescita, che è solo unascelta di rinuncia? Non sarebbe un ri-torno al Medio Evo? La risposta nonè facile, dopo decenni in cui si sonoinculcati una sola ideologia e un solomodo di essere, imponendo l’equa-zione crescita=lavoro=reddito=con-sumo=benessere=pensioni assicura-te. Non è facile perché non può esse-re solo economica, tanto meno di cor-rezione tecnico-economica come sipretende, ma è innanzitutto culturale.Già molti anni fa una sorta di profeta(forse non dimenticato dai lettori di«Dialoghi»: Ivan Illich), parlava del-la necessità di «désaccoutumance à lacroissance».Una sorta di svezzamen-to, di liberazione dalla crescita, chedeve partire dal cervello.Negli ultimi tempi gli «obiettori di cre-scita» sono aumentati di numero. Pertre ragioni, che dovrebbero essere per-lomeno punti di riflessione e di par-tenza.La prima è che sul piano sociale, quel-lo del benessere individuale e collet-tivo, non c’è più nessuna relazione trail livello d’abbondanza misurato conil pil per abitante e le grandi variabilisociali e umane. La crescita degli ul-timi vent’anni ha piuttosto operatocontro la sicurezza sociale, contro illavoro come fattore sociale e non so-lo produttivo, contro la solidarietà,contro l’interesse comune, privile-giando sempre l’interesse privato. Làdove c’è povertà si è importata la stes-sa nozione di crescita: per farvi fron-te bisogna accrescere il prodotto in-terno lordo, cioè la produzione e lavendita di merci; ma per accrescere laproduzione occorre accrescere anchela capacità di consumo. Il cerchio di-venta infernale poiché di fatto si mol-tiplica la povertà, anche perché la so-glia di povertà relativa, misurata in ter-mini di reddito monetario, si spostasempre più in alto. Insomma, il mitodella crescita economica non aggiun-ge felicità umana.La seconda ragione trova le sue radicinelle convinzioni etichepersonali, cir-ca l’importanza relativa dell’essere e

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dell’avere. La critica coinvolge allorail modo con cui siamo intrappolati,nell’ingiunzione di avere e di consu-mare sempre di più («per salvare eco-nomia e lavoro»), del consumo osten-tatario («per dimostrare di esserci»),dell’accumulazione e quindi dellaspasmodica e irrazionale ricerca dinuove fonti di profitto, anche fittizie.La terza ragione sta nell’impossibi-lità, ormai, di ignorare l’ampiezzadella crisi ecologica e delle sue con-seguenze (anche se, prescindendo dal-la crisi ecologica, ci sono sufficientiragioni per rifiutare la prospettiva diuna crescita infinita, di risorse senzalimiti).

Tener presente queste ragioni signifi-cherebbe, economicamente,mettere inquestione: il meccanismo aberranteche non risponde ai bisogni ma ne creae alimenta di nuovi: il consumismo; ilproduttivismo che, per ottenere lamassima produzione al minorcosto e al maggior profitto, riduce illavoro a merce qualsiasi, demolendosistematicamente, in nome della pro-duttività e della competitività, il dirit-to del lavoro, i diritti del lavoratore; ilconcetto dimaggior valore (o di crea-zione di ricchezza), che non può es-sere solo quantitativo e monetizzabi-le. Esemplifico circa quest’ultimo im-portante aspetto: un’agricoltura bio-

logica mi darà una quantità di prodot-ti minore rispetto a un’agricoltura idu-striale-intensiva e mi richiederà mag-gior lavoro e maggiori costi, ma mi dàun altro valore in più e diverso. Lostesso ragionamento si può fare conle energie rinnovabili, oppure con iservizi alla persona (ospedali, case peranziani, ecc.); la cultura, l’educazio-ne, la ricerca non sono spese, sono in-vestimenti non immediatamente mo-netizzabili in redditività, sono il veroplusvalore di una società.Spesso, purtroppo, sono i terremoti, lecatastrofi, le crisi (benché risultino ri-petitive e insuperabili con i vecchi me-todi), a indurre i cambiamenti.

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Il significato della terra per i rurali colombiani«Il nostro ecosistema appartiene all’umanità»

– Perché la terra è così importantenell’odierna Colombia?– Il controllo delle risorse naturali chesi trovano nei territori delle comunità,il loro accesso, come pure l’appro-priazione di terre delle comunità, so-no il bottino della guerra in Colombia.Vengono accumulate dalle élite e daipoteri regionali, che controllano verie propri eserciti privati, come pure ilpotere politico ed economico a livel-lo locale. A questo contesto di con-flitto armato e di deprivazione dellecomunità si sovrappongono i grandiinvestimenti privati, in molti casi gliinteressi delle multinazionali, aggra-vando il problema. Le 31 comunità edorganizzazioni che fanno parte dellaRete delle Iniziative e delle Comuni-tà per la Pace non solo sono state vit-time della violenza e del conflitto ar-mato, ma soprattutto della privazionedelle loro terre e delle risorse di que-sti territori. Anche rappresentanti delnuovo governo hanno riconosciutoche questi due temi sono la pietra an-golare del conflitto armato.

– Mi faccia un esempio concreto.– Il furto delle terre delle comunitàcontadine de «El Garzal», nel sud deldipartimento di Bolivar. Queste co-munità, che vivono da oltre cinquan-t’anni su queste terre, dedicandosiesclusivamente alla produzione di ge-neri alimentari, nell’ultimo decenniosono state oggetto di pressioni illega-li, di minacce e di sparizioni forzate,nonché dell’abuso della giustizia edelle autorità locali, che appoggianolo spostamento di oltre trecento fami-glie contadine per togliere loro defi-nitivamente la terra. L’obiettivo è quel-lo di consegnare queste parcelle a unanziano comandante paramilitare delBloc Central Bolivar, che ha domina-to pubblicamente e apertamente la re-gione del Medio Magdalena per oltresette anni. Costui non ha mai smobi-litato né si è consegnato alla giustizia,è rimasto sul luogo e ha fondato unasocietà per la coltivazione dell’olio dipalma. È l’azienda che promuove tut-te le azioni illegali contro le comuni-tà.

– In altri Paesi dell’America latina, imovimenti sociali pongono l’accentosulla terra e sulla riforma agrariaquale principale stendardo di riven-dicazione e di strategia. Ma si riferi-scono molto meno al concetto di ter-ritorio. Che cosa significa, nella vo-stra percezione, tale nozione?– In generale, il territorio è inteso co-me il luogo, il corpo, in cui le comu-nità contadine, le minoranze etniche ele donne tessono la vita collettiva, cul-turale, economica, sociale e politica.Il territorio è un orizzonte molto piùvasto del concetto di terra, che, in ma-niera quasi esclusiva, si riferisce aduno spazio fisico delimitato, situato inuna zona rurale e che può essere sfrut-tato economicamente per la produ-zione o lo sfruttamento delle risorseche vi si trovano. Certamente, il terri-torio include la terra, ma va oltre, in-corporando il patrimonio immaterialegenerato dalle comunità che l’hannoabitato e conservato, che si canta nel-le canzoni, si rappresenta nelle storie,fa parte dei loro usi e costumi, delleloro lingue e dei proverbi popolari.Questo tipo di rivendicazioni in Co-lombia si riferisce sempre più non so-lo alla riforma agraria, all’accesso edalla democratizzazione della terra, masi estende al riconoscimento di unostatuto speciale del territorio – politi-co e giuridico – e dei diritti che ne sca-turiscono. È uno statuto previsto an-che da strumenti internazionali, comenella Convenzione 169 dell’Organiz-zazione Internazionale del Lavoro onella Dichiarazione dei Popoli Indi-geni delle Nazioni Unite.

«Se il complesso problema dell’accesso alla terra non viene risolto è difficilesperare che una soluzione politica del conflitto armato e sociale possa dare isuoi frutti in Colombia».Questa è l’ipotesi centrale di Rafael Figueroa Rincón, avvocato colombiano emembro del Programma Svizzero per la Promozione della Pace in Colombia(SUIPPCOL). Questa piattaforma raggruppa undici ONG svizzere attive inquel Paese sudamericano e ha l’appoggio del Dipartimento federale degli af-fari esteri (DFAE).«Le comunità hanno deciso, tra l’altro, di esercitare il loro diritto alla parte-cipazione diretta nelle discussioni sulle politiche pubbliche su vasta scala, sutemi che li toccheranno in futuro, come lo sfruttamento degli idrocarburi, leconcessioni minerarie o la costruzione di grandi opere infrastrutturali», sot-tolinea Figueroa in questa intervista.

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10 dossier No. 214

–Quali nuove prospettive si aprono alnuovo governo di Manuel Santos, inrapporto con la terra e il territorio?– Il Governo attuale ha operato uncambiamento rispetto al precedenteper quanto concerne la politica agra-ria. Noi usciamo da otto anni di nega-zione assoluta, da parte dell’insiemedello Stato, su temi come il furto ol’estrema concentrazione della terra.La Colombia è quindicesima al mon-do in una classifica della giustizia/in-giustizia relativa alla proprietà agra-ria. Più grave ancora, l’assenza di in-dennizzi e di restituzione delle terreconfiscate a quasi quattro milioni diprofughi. Il nuovo governo ha annun-ciato che considera uno dei problemifondamentali da risolvere la privazio-ne e la restituzione delle terre, attra-verso il lancio di un progetto di leggedi restituzione delle proprietà. Ma lebuone intenzioni non implicano ne-cessariamente un cambiamento cosìradicale della politica agraria globalee delle vedute economiche di fondo.Le comunità temono anzi che si cer-chi di rendere più efficaci i modellieconomici agro-industriali ed estrat-tivi sviluppatisi negli ultimi otto anni,che generano iniquità, concentrazio-ne della proprietà e abbandono del-l’economia contadina.Per il Governo nazionale, come pureper le organizzazioni e le comunità co-lombiane, la sfida consiste non solonel tenere vivo il dibattito sugli aspet-ti fondamentali della restituzione edella formalizzazione dell’accesso al-la terra, ma anche nell’aprire una con-certazione sul modello economico,che deve assicurare la permanenzadelle comunità contadine, indigene edafro-discendenti, come pure la sovra-nità alimentare del paese.

– SUIPPCOL ha organizzato durantela seconda metà di ottobre, in Svizze-ra, una campagna di sensibilizzazio-ne su questi temi. Come vede il ruoloche può svolgere lla comunità inter-nazionale?– La solidarietà internazionale haun’importanza fondamentale per lapromozione delle rivendicazioni lega-li e legittime delle comunità colom-biane. La campagna ha cercato di pro-muovere un avvicinamento tra lasocietà civile elvetica e le comunitàed organizzazioni che resistono allaprivazione e allo sfruttamento irrazio-nale delle risorse. La solidarietà in-ternazionale è importante come rico-noscimento che esiste un interesse in-ternazionale a preservare questi terri-tori ed ecosistemi, in quanto, per il

loro valore ambientale e alimentare,appartenenti a tutta l’umanità. La cam-pagna tende a convertire questi terri-tori in luoghi protetti dalla società ci-vile svizzera e da altre organizzazio-ni, popoli e persone nel mondo, inte-ressati alla costruzione della pace apartire dal territorio. Lo considero unpasso fondamentale per la preserva-zione della terra e del territorio in Co-lombia e, in fin dei conti, per la co-struzione di una pace sostenibile e du-revole.I problemi che affrontiamo nel nostroPaese potranno essere risolti solo riaf-fidando un ruolo da protagonista allasocietà civile colombiana – e in parti-colare alle comunità ed organizzazio-ni che affrontano questa realtà ognigiorno. Ma anche con la fraternità at-tiva di altri popoli, organizzazioni epersone di buona volontà nel resto nelmondo.

Intervista realizzatada Sergio FerrariE-changer per Alliance SudTraduzione di Lara Argenta

Chi èRafael Figueroa Rincón, 30 anni, è avvocato e coordinatore della Strategiadi incidenza politica sulla Terra e sul Territorio del programma SUIPPCOLda oltre un anno. Da sette anni compie ricerche ed è attivo nel campo deidiritti delle minoranze etniche e del diritto alla terra e al territorio. Ha ac-compagnato numerose comunità ed organizzazioni afro–colombiane, indi-gene e contadine del Paese, in particolare nelle regioni di Chocó, Guajira,Bolivar, Córdoba, Cauca, Magdalena Medio, Caquetá e Nariño.Attualmenteè impegnato nell’assicurare appoggio internazionale alla Rete d’Iniziativae Comunità di Pace dalla Base. Le due principali azioni di questa strategiasono l’incidenza politica e l’azione legale.

Il territorio, perchéIl territorio è stato definito in molti modi dai diversi settori della Rete di Ini-ziativa e Comunità di Pace dalla Base che accompagna SUIPPCOL. Per lecomunità indigene, è lo spazio di vita, di sopravvivenza sociale e culturale,è la Pacha Mama, la Madre Terra. È il mondo dal quale gli esseri umani en-trano in contatto con gli spiriti delle piante, degli animali e di tutto ciò chesi muove in questo ambiente.

Per le comunità nere del Pacifico colombiano, il territorio prende il suo si-gnificato nell’ambito di una relazione particolare tra la comunità, gli esse-ri umani e la natura, relazione nella quale essa non è solo ciò che circondal’essere umano: gli individui e la comunità fanno parte della natura.

Per le comunità contadine, il territorio è uno spazio e una scena di coesio-ne, di mobilitazione e di trasformazione sociale, dove sono state generateesperienze autonome ed endogene di sviluppo, che integrano elementi stra-tegici di difesa dello spazio e delle risorse naturali, come pure nuove formedi organizzazione sociale che hanno lo scopo di mantenere il controllo del-le regioni.

Per le donne, il corpo come primo territorio è attraversato da forme di vio-lenza e dalla guerra. Da qui la necessità di riconoscere e identificare le di-verse forme di violenza contro il corpo al fine di poterlo recuperare in quan-to territorio riconosciuto, autonomo e come spazio di vita quotidiana co-munitaria.

Tosaerba lanosi. Per ora il problemanon è dei più assillanti: si tratta dellamanutenzione del tappeto erboso deinostri giardini.Ma potrebbe essere uti-le cominciare a pensare a soluzionimeno rumorose e inquinanti dei soli-ti tosaerba elettrici e delle falciatrici abenzina. La scorsa estate, per esem-pio, a Lione ha riscosso un notevolesuccesso l’iniziativa di ChristopheDarpheuil e dell’associazione «Natu-rama» di affidare a un gruppetto di cin-que o sei pecore la noiosa incomben-za. Sono state soprattutto le ammini-strazioni comunali a far capo al servi-zio offerto – le pecore sono date inaffitto per alcuni giorni – per la curadei prati di giardini e parchi. Ma an-che privati si sono interessati del ser-vizio, così che in poco tempo le be-stiole si sono viste sommerse da im-pegni, tanto da costringere il loro pro-prietario a rifiutare nuovi ingaggi, finoalla prossima stagione.

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No. 214 opinioni 11

Tra le molte sfaccettature che ha avu-to il viaggio di Benedetto XVI nel Re-gno Unito, qui riflettiamo su quelleecumeniche. In questo senso, il clou èstato l’incontro del Papa con l’arcive-scovodiCanterbury,RowanWilliams,avvenuto il 17 settembre a Lambethpalace, la sede londinese del primateanglicano.Dopoaverlo ringraziato perle diversevisite fattegli aRoma, il pon-tefice ha ricordato a Williams lo «sto-rico incontro» avvenuto nel 1982 nel-la Cattedrale di Canterbury «fra duedei nostri predecessori: il papa Gio-vanni Paolo II e l’arcivescovo RobertRuncie», che pregarono per l’unitàdella Chiesa. «Anche oggi continuia-mo a pregare per quel dono, sapendoche l’unità voluta da Cristo per i suoidiscepoli giungerà solo come rispostaalla preghiera,mediante l’azione delloSpirito Santo, che senza sosta rinnovala Chiesa e la guida alla pienezza del-la verità». Poi Ratzinger affermava:«Non è mia intenzione parlare oggidelle difficoltà che il cammino ecume-nico ha incontrato e continua ad in-contrare. Tali difficoltà sono ben notea ciascuno qui presente. Vorrei piutto-sto unirmi a Lei nel rendere grazie perlaprofondaamicizia cheècresciuta franoi e per il ragguardevole progressofatto in moltissime aree del dialogo inquesti quarant’anni che sono trascorsida quando la Commissione interna-zionale anglo-cattolica ha cominciatoi propri lavori».Da parte sua, dando il benvenuto al-l’ospite,Williams notava: «Incontran-doci, come noi facciamo, quali ve-scovi di comunità di Chiese separate,dobbiamo sentire che ciascuno dei no-stri ministeri è composto meno dal fat-to delle nostre divisioni, e più da unareale seppure imperfetta comunione.Forse non tanto presto supereremo irimanenti ostacoli per ristabilire unapiena comunione; ma nessun ostaco-lo fermerà la nostra ricerca per arri-vare, in obbedienza al Signore, a ce-lebrare insieme [l’Eucaristia]».Né il papa né il primate della Comu-nione anglicana hanno dato un nomeagli «ostacoli» che, oggi come oggi,maggiormente impediscono la ricon-ciliazione tra Roma e Canterbury.Questa scelta si può anche capire, per-ché sarebbe stato imbarazzante turba-re l’atmosfera gioiosa dell’incontro.Ma, da un altro punto di vista, essa la-

scia perplessi, perché fa intravedere unecumenismo che si muove in una bol-la di sapone invece di misurarsi con lesfide grandiose che pongono proble-mi capitali e indifferibili alle due Par-ti.La ricordata Commissione anglicano-cattolica si era infatti arenata sullaquestione del papato. L’eterna que-stione, che divide Roma dall’Orto-dossia, divide anche Roma da Can-terbury. Nel dialogo, gli anglicani era-no giunti ad accettare il ministero diunità del vescovo di Roma, inserito pe-rò in una struttura sinodale e colle-giale. Essi, tuttavia, non accettavano idogmi del primato pontificio e del-l’infallibilità papale del vescovo diRoma, almeno così come formulatidal Concilio Vaticano I nel 1870. Inparticolare, non accettavano l’infalli-bilità del papa «ex sese non ex con-sensu Ecclesiae» (di per se stesso enon per il consenso della Chiesa). Ma,pur inserendolo nel suo contesto sto-rico – la volontà di stroncare ogni vel-leità gallicana di indipendenza da Ro-ma – rimaneva difficile alla parte cat-tolica ridurre al nulla quell’inciso; edunque rimase impossibile agli angli-cani (come del resto lo è per gli orto-dossi) accettarlo.Proprio perché conscio dei problemibiblici, teologici e storici che solleval‘«ex sese», anche al Concilio Vatica-no II qualche raro vescovo aveva pro-posto una modifica della definizionedel 1870, al fine di porre con chiarez-za il carisma del successore di Pietroall’interno della Chiesa e non darel’impressione che fosse «sopra» di es-sa. Tale ipotesi fu respinta. D’altron-de, è vero che nell’enciclica Ut unumsint (1995) Giovanni Paolo II si diràpoi disposto a trovare modi diversidi esercitare l’autorità papale, pur sal-vandone la sostanza; ma questi modinon si sono visti, e anche questo hapesato sull’insuccesso, su questo pun-to, del dialogo con gli anglicani.Tuttavia, in settembre, su Lambeth pa-lace non incombeva tanto l’antica e ir-risolta questione del papato, ma pesa-vano altri due problemi, sorti da po-chi anni: l’ammissione di omosessua-li, uomini e donne, che pubblicamenteconvivono con un partner, al pastora-to e all’episcopato; e l’ammissione didonne all’episcopato. Due scelte ra-dicalmente respinte da Roma ma, an-

che, da una parte dei fedeli anglicani,che le ritengono inammissibili alla lu-ce della Bibbia e della prassi eccle-siastica. La maggior parte dei vesco-vi anglicani del Sud del mondo, conin testa l’Africa, sono tenacemente op-posti ai due «sì» dati, in proposito, daChiese anglicane del Nord del mon-do. I tentativi di Williams di mediaresono sempre più difficili, uno scismasembra inarrestabile. Sullo sfondo, laquestione dell’interpretazione delleScritture (che non possono essere stru-mentalizzate per risolvere problemiche non si sono posti), e il rapportocon la modernità.A complicare la situazione vi è il fat-to che papa Ratzinger, con la costitu-zione apostolica Anglicanorum coeti-bus, un anno fa ha istituito ordinaria-ti personali per anglicani che entranonella piena comunione con la Chiesacattolica. Perché mai questi anglicanilasciano Canterbury per Roma? Ap-punto per la loro radicale avversioneai «sì» sui due problemi dati da mol-te delle loro Chiese, e per il fatto cheanche la Chiesa d’Inghilterra ha av-viato delle procedure che quasi certa-mente porteranno, forse già nel 2014,alla consacrazione di donne-vescovo.Williams ha fatto buon viso a cattivogioco alla decisione di papa Benedet-to, ma è evidente la situazione imba-razzante in cui è venuto a trovarsi: dia-logare con il romano pontefice che, in-tanto, apre le porte a chi abbandona laChiesa-madre anglicana.Se si evitano i problemi cruciali è fa-cile fare incontri ecumenici festosi;ma, per questa via, è arduo costruireil futuro e immaginare la pacificazio-ne di Chiese come «diversità riconci-liate». Luigi Sandri

I nodi irrisolti del dialogo Roma-CanterburyNessun progresso dalla visita del Papa in Inghilterra

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12 osservatorio ecumenico No. 214

Tra i protestanti svizzeriÈ in libreria il libro curato dal sociologo della religioneJörg Stolz e dalla sua assistente Edmée Ballif sul futuro delprotestantesimo in Svizzera. Gli autori constatano che ilmondo sta cambiando e che le Chiese riformate in Svizze-ra diventano «più piccole e povere», e i loro membri sonoin media sempre più anziani. In causa non sono le sceltesbagliate dei pastori o delle autorità ecclesiastiche, ma ilfatto che i riformati hanno in media meno figli, i matrimo-ni misti confessionali sono più numerosi, gli immigrati so-no in maggioranza appartenenti a religioni non cristiane.Non è vero, invece, che i membri della Chiesa riformatafuggono verso le Chiese evangeliche libere: neppure que-ste sono cresciute in modo significativo, il (limitato) incre-mento non dipende dalla loro attività missionaria, ma dalfatto che gli evangelicali hanno in media più figli e li edu-cano con maggiore autorità. È interessante anche la con-statazione che chi lascia la Chiesa – spesso, giovani istrui-ti di sesso maschile e in contesti urbani – di regola non di-chiarano di essere insoddisfatti dell’offerta ecclesiastica lo-cale. Tra le tendenze sociali diffuse, l’indagine ha messo inevidenza l’abbandono della pratica religiosa, il calo dellatradizione nella socializzazione religiosa, la riduzione delnumero dei volontari, difficoltà con le nuove leve di teolo-gi e le finanze ridotte. Il futuro delle facoltà di teologia pro-testante è pure attualmente argomento di discussione nellaSvizzera romanda: il pluralismo e la secolarizzazione del-la vita pubblica impongono agli studi di teologia di rio-rientarsi. Due prospettive si oppongono: il professor Shafi-que Keshavjee, già insegnante a Ginevra di teologia ecu-menica e delle religioni, ha denunciato una marginalizza-zione del messaggio biblico nell’ambito del cursusformativo e afferma la necessità di un insegnamento con-fessionale «in questi tempi di crisi», mentre i decani delleFacoltà di Ginevra e Losanna, Andreas Dettwiler e PierreGisel, ritengono sia necessario continuare a integrare nel-l’offerta formativa argomenti e metodi di portata universa-le, senza per altro rinnegare la storia dei rispettivi atenei,nati proprio come Alte scuole per diffondere la Riforma eformare i pastori. (Notizie rielaborate da «Voce evangeli-ca», novembre 2010)

Ortodossi contrari al primato papaleIl metropolita di Volokolamsk, Hilarion, presidente del Di-partimento per le relazioni esterne del patriarcato di Mosca,sulla sessione della commissione mista cattolico-ortodossatenutasi a Vienna dal 20 al 27 settembre, ha pubblicato uncommento che smentisce l’ottimismo sul superamento del-la divisione – che dura da mille anni – tra cattolicesimo edortodossia, a proposito del ruolo del vescovo di Roma. Nel-la capitale austriaca si era svolto il XII round della com-missione paritetica (istituita nel 1980) per il dialogo teolo-gico tra le due parti, che doveva approfondire la funzionedel vescovo di Roma nella Chiesa del primo millennio. Pre-senti, per parte cattolica, 23 delegati, guidati dal vescovo(ora cardinale) Kurt Koch, fresco presidente del PontificioConsiglio per la promozione dell’Unità dei Cristiani. Per laparte ortodossa, a guidare una formazione composta di duedelegati per ognuna delle tredici Chiese (mancava solo quel-la bulgara), era il metropolita di Pergamo, Ioannis Ziziou-

las, del patriarcato di Costantinopoli. Anche se su alcuniaspetti si sono riscontrati avvicinamenti fra punti di vista fi-nora contrapposti, sul nodo centrale – nel primo millennio,il papa aveva giurisdizione su tutta la Chiesa? – le distanzesono apparse enormi. Perciò, su proposta dei delegati orto-dossi, è stato deciso di non conferire uno statuto ufficiale aldocumento preparato precedentemente, cioè quello emersodalla precedente riunione tenuta a Cipro, ma di affidare aduna sottocommissione lo studio approfondito sui rapportitra primato papale e sinodalità nel primo millennio, lavoroche sarà poi sottoposto al Comitato congiunto di coordina-mento, e poi alla prossima seduta plenaria della commis-sione paritetica.

Che cosa ci insegnano gli ortodossi«Mi permetto di invitare noi occidentali a pensare che nonsiamo soltanto chiamati a dare, ma anche a ricevere. DallaChiesa orientale (che si è cercato in modo errato, per la par-te unita a Roma, di occidentalizzare a forza) abbiamo mol-to da imparare: così, ad esempio, il rispetto delle singoleChiese con le loro diverse, policrome tradizioni, la teneris-sima devozione per Maria e i Santi, l’austera pratica del di-giuno quaresimale, la possibilità di celebrare le seconde noz-ze in una liturgia modesta quando il primo matrimonio è di-chiarato «morto», la capillarità della presenza dei preti conle loro famiglie anche nei villaggi più remoti, l’abbondan-za di vocazioni al ministero presbiterale, la forza di questeChiese di resistere prima alla persecuzione islamica e poi aquella comunista, il legame di comunione che sussisteva conla chiesa di Roma nel primo Millennio. Se si proclamassechiaro e tondo che la divisione è venuta non tanto per mo-tivi dottrinali quanto per stupide questioni di prestigio, e sesi ammettesse che ciò che le Chiese hanno deciso per se stes-se dopo il Mille riguarda solo loro e non verrà imposto al-le altre, noi avremmo posto le basi per ritrovare la piena co-munione sacramentale, pur nel rispetto di tradizioni moltodiverse. L’unità ritrovata sarebbe un impulso eccezionaleper l’evangelizzazione e per la pace del mondo». (da «Il teo-logo risponde» di mons. Sandro Vitalini, pro-vicario dio-cesano, in «Spighe», ottobre 2010).

Crescono in Svizzera gli evangelicaliIn Svizzera ci sono circa duecentomila evangelicali, cioèprotestanti che vivono una fede evangelica dagli accenti di-versi rispetto a quelli delle Chiese storiche che si riferisco-no alla Riforma del ‘500. Secondo Olivier Favre, sociolo-go delle religioni e pastore a Neuchâtel di una Chiesa pro-testante libera carismatica, la sociologia delle religioni di-stingue tre categorie di «evangelicali»: i fondamentalisti,che interpretano letteralmente la Bibbia e non cercano rap-porti con gli altri cristiani; i carismatici, che nei loro culticantano, lodano Dio, pregano per i malati; e i moderati, checercano il dialogo con altre correnti e accettano al propriointerno un certo pluralismo. Un evangelicale afferma pub-blicamente la propria fede, dice che Gesù è al centro dellasua vita; nella maggior parte dei casi all’origine della suafede c’è un’esperienza di conversione, una decisione con-sapevole di appartenere a Dio. Inoltre, un evangelicale sisente parte del popolo di Dio in primo luogo e non membrodi una specifica denominazione; frequenta cioè una chiesache soddisfi le sue esigenze. Ci sono evangelicali che fan-no parte delle Chiese cantonali riformate, ma non tutti imembri delle Chiese libere sono evangelicali: non lo sonoi metodisti e i membri dell’Esercito della Salvezza.

OSSERVATORIO ECUMENICO

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Nell’episcopato svizzero. La diocesidi Friburgo (che comprende gran par-te dei cattolici romandi dei cantoni diFriburgo, Vaud, Ginevra e Neuchâtel)da mesi è senza il vescovo diocesano.Secondo mons. Farine, attualmenteamministratore diocesano, il succes-sore di mons. Genoud, deceduto il 21settembre, dovrebbe essere designatoda Roma entro la prossima Pasqua:una vacanza troppo lunga. La diocesidi Basilea (che comprende dieci can-toni) a fine novembre ha saputo chi so-stituirà mons. Kurt Koch, a Roma dalluglio scorso e neo-cardinale: il Papaha dato il suo gradimento a mons. Fe-lix Gmür, già eletto dai canonici riu-niti a Soletta, e che sarà ordinato il 16gennaio. Mons. Gmür, 44 anni, pretedal 1999 dopo studi a Monaco, Pari-gi, Friburgo e Roma, dal 2006 è se-gretario della Conferenza dei vescovisvizzeri. Poliglotta (parla corrente-mente l’italiano) ha uno spirito gio-viale, come i lucernesi intelligenti. Pa-re proprio che stavolta lo Spirito San-to – felicemente ispirando i canonicidi Soletta – abbia fatto una scelta…felice. «Dialoghi» augura a mons.Gmür e ai diocesani di Basilea un epi-scopato generoso e dialogante.

Religione a scuola. Uno studio sullecollettività religiose in Svizzera, pro-mosso dal Fondo nazionale della ri-cerca scientifica, ha constatato chel’insegnamento della religione nellescuole, fin qui affidato alle comunitàreligiose, è sempre più`sostituito daun insegnamento di scienze religiosee di etica gestito dallo Stato. Così inArgovia, Neuchâtel, Vaud e Zurigo. Igiovani socialisti (secondo la loro vi-cepresidente), in nome della separa-zione netta tra Chiese e Stato, vor-rebbe solo un insegnamento obbliga-torio di etica. L’Associazione svizzeradei liberi pensatori chiede che sianoorganizzati corsi di ateismo e di agno-sticismo. Secondo la consigliera Isa-belle Chassot, il crocefisso non ha sinqui creato problemi nelle scuole delCanton Friburgo, tuttavia ritiene chele Chiese dovrebbero esprimersi sul-l’argomento e le autorità locali devo-no dar prova di tolleranza, se un ge-nitore chiede che non ci siano simbo-li religiosi sui muri scolastici, e ciòper rispettare il principio della neu-tralità confessionale della scuola pub-blica.

«Conoscenza delle religioni». Il par-lamento vodese ha approvato il 28 set-tembre una mozione che domanda algoverno di trasformare l’insegnamen-to della «storia biblica» in «cono-scenza delle religioni»,materia che sa-rà obbligatoria per tutti gli allievi. Al-tri Cantoni (Berna, Zurigo, Giura, Gri-gioni, ecc.) hanno introdotto uninsegnamento simile, il Ticino sta spe-rimentandolo da quest’anno in un nu-mero limitato di sei sedi di scuolamedia. Ma c’è già chi propone di chiu-dere baracca. Quando si è «progressi-sti ad oltranza» si arrischia spesso di…avanzare come i gamberi.

Sempre messo in croce. Un inse-gnante vallesano, del ciclo d’orienta-zione e presidente cantonale dei Li-beri pensatori, ha preteso di togliere ilcrocefisso dall’aula dove insegna, in-vocando la sentenza del Tribunale fe-derale del 1990 relativa alla scuola diCadro (che tuttavia riguardava la tu-tela della libertà di coscienza degli al-lievi). È stato licenziato per… avereperso la fiducia delle autorità. Un al-tro libero pensatore, a Triengen (Lu-cerna), ha chiesto che il crocefissofosse tolto dall’aula scolastica fre-quentata dai suoi figli: le autorità can-tonali hanno raccomandato (come nelTicino) di togliere il crocefisso quan-do il genitore di qualche allievo lo ri-chiede, ma il direttore scolastico si èopposto, l’autorità comunale ha pro-posto di mantenere in aula solo la nu-da croce, il genitore ha minacciato diricorrere al Tribunale federale, dopodi che avrebbe ricevuto minacce dimorte, per cui ha deciso di cambiaredomicilio! («Corriere del Ticino» del23 ottobre). Dopo duemila anni, il Cri-sto (o qualcun altro) continua a esse-re crocefisso.

Per la libertà dei preti. L’Associa-zione ZöFra (Zölibat-Frauen), fon-data nel 2000 per sostenere le donneche hanno una relazione amorosa, piùo meno difficile, con un prete cattoli-co, ha ricordato il suo primo decenniodi attività con un convegno a Lucer-na, presenti circa duecento persone, ingran parte coppie con un prete. Asso-ciazioni simili esistono in Germania ein Austria e prestano sostegno (finan-ziario e/o professionale) a preti chehanno dovuto lasciare il ministero, op-pure a donne e figli abbandonati dai

padri che hanno scelto di restare fe-deli all’impegno clericale. La ZöFrasostiene che la Chiesa cattolica nondeve mantenere l’obbligo del celiba-to per i preti e trovare soluzioni uma-ne per le coppie «illegittime».

Sion in rosso. I conti 2009 della dio-cesi di Sion chiudono in rosso, conuno scoperto di oltre fr. 300.000, ciòche ha imposto di far capo alle riser-ve per pagare la trentina di collabora-tori. Il budget annuale della diocesivallesana è di circa 2,3 milioni di fran-chi, provenienti per la maggior partedalle collette e da donazioni. Di fron-te ad una diminuzione del 20% nel2009, il vescovo e il Consiglio epi-scopale hanno lanciato un nuovo ap-pello alla generosità.

Campane autorizzate. Il Tribunaleamministrativo di Zurigo ha deciso,basandosi su una precedente decisio-ne delTribunale federale, che se il suo-no delle campane non supera i 60 de-cibel, possono suonare anche primadelle 7 del mattino, perché le campanehanno un suono che non disturba unapersona addormentata. Questa deci-sione, presa su un ricorso diretto con-tro le campane di Affoltern am Albis(Zurigo), intralcia la lotta che l’asso-ciazione «IG Stiller» da tempo pro-muove per vietare il suono delle cam-pane tra le 22 e le 7.

Lasciano la Chiesa. Nel Cantone deiGrigioni il numero di coloro che la-sciano la Chiesa cattolica è fortemen-te aumentato, si ritiene a seguito delloscandalo dei preti pedofili e forse an-che dei recenti contrasti sulla nominadi un ennesimo conservatore a vesco-vo ausiliare.Mentre nel 2009 gli ab-bandoni furono in totale 363, nei pri-mi nove mesi del 2010 sarebbero già517. La somma tiene conto di 74 par-rocchie, mancano i dati delle altre 55.Secondo alcuni dirigenti diocesani,molti degli abbandoni riguardano per-sone che già si erano allontanate dallavita della Chiesa. Contenti loro…

Religione e suicidi. Uno studio del-l’Università di Berna ha constatatoche lo svizzero cattolico, sposato e re-sidente in Ticino ha meno tendenza atogliersi la vita. Lo studio ha incrocia-to i dati del censimento 2000, relativia oltre tre milioni di persone di etàcompresa fra i 35 e i 94 anni, con lestatistiche dellamortalità fino al 2005.Il risultato principale è che la religio-ne riveste un ruolo importante: su cen-tomila abitanti il tasso di suicidi è di

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CRONACA SVIZZERAa cura di Alberto Lepori

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39 tra chi non appartiene a una con-fessione, 29 tra i protestanti e 20 tra icattolici. L’effetto, che si constata intutti i gruppi di età, sembra essere piùforte per le donne. Secondo la ricercacondotta da Matthias Egger, la reli-gione è un’importante forza sociale.L’effetto è particolarmente ravvisabi-le presso chi sceglie di mettere fine al-la sua esistenza ricorrendo a un’orga-nizzazione di aiuto: si lasciano ac-compagnare alla morte cinque voltepiù uomini «senza confessione» checattolici. Lo studio mostra anche co-me il tasso di suicidi degli sposati siala metà di quello tra i single, vedovioppure divorziati. Le persone residen-ti in Svizzera tedesca e romanda pre-sentano un rischio doppio di quelleche vivono in Ticino. Non sono inve-ce state rilevate differenze significati-ve riguardo al livello di formazione.

Nomadi in Svizzera.La comunità no-made in Svizzera conta approssimati-vamente trentamila persone. A parti-re dagli anni 1930 e fino alla primametà degli anni 1970, la Pro Juventu-te, con il programma «assistenza aibambini di strada», sottrasse oltre sei-cento bambini ai loro genitori noma-di, costringendoli alla sedentarizza-zione. Di fatto, la maggioranza dei no-madi vive oggi un’esistenza sedenta-ria. Il nomadismo, strettamente legatoall’esercizio di vari mestieri tradizio-nali, è rimasto malgrado tutto un ele-mento fondamentale dell’identità cul-turale nomade. Il numero di nomadi oseminomadi varia attualmente tra i tre-mila e i cinquemila individui. In baseal rilevamento dell’utilizzo degli spa-zi di sosta e di transito, le persone chepraticano attivamente il nomadismo inSvizzera sarebbero circa 2’500. I no-madi svizzeri sono riuniti in diverseassociazioni. Accanto alla Radgenos-senschaft, fondata per difendere gli in-teressi dei nomadi alla fine del pro-getto di sedentarizzazione condottodalla Pro Juventute, esistono il Fa-hrende Zigeuner-Kulturzentrum, l’As-sociation Yenisch Suisse, cui aderi-scono nomadi della Svizzera roman-da e italiana, la Missione evangelicazigana Leben und Licht presieduta dalpastore sinto May Bittel, la Fonda-zione Naschet Jenische, pure impe-gnata a favore delle vittime della ProJuventute, e l’associazione Schinagelfür Fahrende. (da «Voce Evangelica»,ottobre 2010)

Cure palliative. La Società svizzeraper la medicina palliativa ha lanciatoun nuovo portale Internet di informa-

zione. All’indirizzo si trovano infor-mazioni dettagliate circa la situazionenei vari cantoni svizzeri. Il sito è infrancese e tedesco ma dal 2011 saràanche in italiano. Già ora tuttavia so-no offerte indicazioni sui centri di cu-re palliative inTicino e neiGrigioni. Inmolti cantoni la rete di sostegno e cu-ra a favore dei malati terminali e deimorenti è ancora insufficiente e gli in-dirizzi ai quali è possibile rivolgersisonopococonosciuti.Confederazionee Cantoni hanno perciò lanciato lacampagnaNationale Strategie Pallia-tive Care 2010-2012. Le cure palliati-ve intendono garantire aimalati termi-nali la miglior qualità possibile di vitanell’ultimo tratto della loro esistenza.Le cure palliative comprendono ancheil sostegno psicologico, sociale e spi-rituale. Tra gli scopi delle cure pallia-tive vi è quello di permettere alle per-sone di rimanere a casa propria il più alungo possibile, senza ricorrere a rico-veri in strutture ospedaliere.

Razzismo 2009. Lo scorso anno sonostati registrati 112 casi di razzismo: ipiù numerosi (52) di «razzismo ver-bale», 17 con danni materiali e scrit-te offensive; dieci i casi di minaccia;inoltre, 19 manifestazioni di gruppi diestrema destra, concentrate special-mente nelle zone rurali del CantonBerna e inArgovia. Descrizione e cro-nologia delle manifestazioni razzistepossono essere consultate nel sitowww.gra.ch, sotto “Chronologie”.

Diritto alla pace. Il Consiglio dei di-ritti dell’uomo, con sede a Ginevra, haincaricato il comitato consultivo dipreparare un progetto di Dichiarazio-ne del diritto dei popoli alla pace. LaSvizzera (con altri dodici Stati demo-cratici) ha votato contro la proposta,certamente per «buoni motivi giuridi-ci» ma dimostrando ancora una voltail ritardo della politica ufficiale rispet-to alla coscienza universale. Una coa-lizione mondiale «per il diritto umanoalla pace» organizza infatti questo di-cembre un congresso internazionale aSan Giacomo di Compostella, per di-scutere ed approvare una «Dichiara-zione universale della società civilesul diritto alla pace», mentre nel mag-gio 2011 si terrà a Kingston (Giamai-ca) una «Convocazione ecumenica in-ternazionale per la pace» promossadal Consiglio ecumenico delle Chiese(cfr. «Dialoghi», n. 211), cui parteci-peranno anche delegati cattolici.

Commercio equo. Nell’esercizio2009/2010 laClaroFairTrade, leader

nel settore del commercio equo di ge-neri alimentari e artigianato, ha regi-strato un volume d’affari di 20,1 mi-lioni di franchi, in diminuzione rispet-to all’annoprecedente.Grazie tuttaviaa un’oculata gestione dei costi,l’azienda ha chiuso i conti con un uti-le di circa 20 mila franchi. Il giro d’af-fari in Svizzera è calato del 4,3%, pertoccare i 10,4 milioni di franchi. Perquanto riguarda l’export, l’azienda haregistrato un giro d’affari di 9,7 milio-ni di franchi, il 12% in meno dell’an-no prima. La Claro Fair Trade è con-frontata con la concorrenza crescentedella grande distribuzione che ha au-mentato il proprio assortimento diprodotti del commercio equo. Ma laconcorrenza viene anche dalle moltenuove imprese attive nel settore. An-che all’estero la concorrenza è in au-mento, visto il sempre maggior inte-resse da parte di distributori «conven-zionali». In Svizzera i prodotti ClaroFair Trade sono in vendita in 130 ne-gozi specializzati ed esercizi pubblici.L’azienda dà lavoro a 34 dipendenti.

Per l’integrazione dei musulmani.La decana della Facoltà di teologiadell’università di Lucerna, MoniokaJakobs, proponeche leuniversità sviz-zere forniscanocorsi sull’Islam.La fa-coltà di Lucerna studia l’istituzione diuna cattedra interdisciplinare per «leculture dell’Islam in Europa e la ricer-ca sulle relazioni tra Islam e cristiane-simo», inserita nelle facoltà di teolo-gia e di scienze sociali e culturali. Igiovani musulmani avrebbero così lapossibilità di ricevere una conoscenza«scientifica» della loro religione, chepermetterebbe più facilmente il dialo-go e l’integrazione culturale.

Lauree ad honorem. L’Università diFriburgo, in occasione del dies aca-demicus del 15 novembre, ha conferi-to il titolo di dottore honoris causa al-l’arcivescovo di Praga Dominik Duka(ex prete clandestino, imprigionatonella Cecoslovacchia comunista), aRoger de Weck (il giornalista nuovodirettore della Radiotelevisione sviz-zera), a Charles H. Gustafson (pro-fessore di diritto internazionale a Chi-cago) e a Dominique de Werra (deca-no di affari internazionali al Politec-nico di Losanna). La Facoltà diteologia dell’Università di Debrecen(in Ungheria) ha conferito i dottorationorari a tre protestanti svizzeri: An-dreas Hess, Thomas Wipf e WalterWolf, per la solidarietà dimostrata ver-so la Chiesa riformata ungherese du-rante il regime comunista.

14 cronaca No. 214

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Il 15 luglio sono state rese note lenuove norme vaticane, varate – conl’approvazione, il 21 maggio, di Be-nedetto XVI – dalla Congregazioneper la dottrina della fede (CDF), gui-data dal cardinale statunitense Wil-liam J. Levada, che riordinano in par-ticolare le procedure canoniche perarginare il fenomeno delle violenzesessuali del clero nei confronti di mi-nori. L’intervento della Santa Sedenon è nato a tavolino, ma si è reso«necessario» dall’eco mediatica chehanno provocato le rivelazioni sullapedofilia del clero, dagli Stati Unitid’America alla Germania, dall’Irlan-da al Canada.Quando si parla di violenze sessualidel clero cattolico, non si vuol direche la maggioranza di esso sia vitti-ma di questo maledetto virus! Si cal-cola, infatti che, in media – vi sonodifferenze tra Paese e Paese – i pretiche commettono violenze su minorisiano sul 4% del totale (nel mondo visono cinquecentomila sacerdoti cat-tolici); ma il fatto che a compiereazioni nefande siano persone alle qua-li i genitori affidano con piena fiduciai loro ragazzi rende questi «delitti»(così li chiama il Codice di diritto ca-nonico, il CJC) oltremodo odiosi. E ilvenire a sapere che, di solito, la pras-si dei vescovi era quella di spostare ipreti pedofili da una parrocchia al-l’altra, e di tacitare i loro misfatti, hafatto esplodere una rabbia inconteni-bile.

Conferme, variazioni e silenziLe nuove norme De delictis graviori-bus, sui delitti più gravi – che ribadi-scono, integrano o modificano quellein vigore dal 2001, che a loro volta sirifacevano e quelle varate nel 1962 dapapa Giovanni XXIIII – prevedono,sulle violenze sessuali del clero: lacompetenza finale ed esclusiva dellaCDF; procedure più rapide per af-frontare con efficacia le situazioni piùurgenti; il possibile inserimento di lai-ci nel personale dei tribunali, finorain mano solo ad ecclesiastici; la pre-scrizione da dieci a venti anni; l’equi-parazione dell’abuso su persone conlimitato uso di ragione a quello sui mi-nori; il delitto di pedopornografia.Concentrare nella CDF l’esame diquesti «delitti» facilita, da una parte,una prassi uniforme; ma, dall’altra, ri-

schia di favorire quella «centralizza-zione» romana che si diceva di volerstroncare. Ma sono soprattutto duequestioni che sollevano perplessità. Lenuove norme tacciono sul dovere deivescovi di deferire ai tribunali civili ipreti rei di violenza sessuale. Per giu-stificare tale silenzio, il direttore del-la Sala Stampa della Santa Sede, il ge-suita p. Federico Lombardi, ha soste-nuto che «l’adempimento di quantoprevisto dalle leggi civili fa parte del-le indicazioni impartite dalla CDF findalle fasi preliminari della trattazionedei casi di abuso, come risulta dalleLinee guida già pubblicate in merito».Una spiegazione per molti poco con-vincente. Infatti, le citate Linee guidasono state improvvisamente rese notenel maggio scorso, ma senza che sene sappia il protocollo e, anche, la da-ta precisa.Qualche giornale ha ipotizzato che ta-le testo non risalga affatto al 2003, co-me in Vaticano si è detto, ma che sia«apocrifo», scritto ora in fretta, e re-trodatato, per rispondere a un interro-gativo inquietante: come mai, infatti,le norme del 2001 (quando prefettodella CDF era il cardinale Joseph Rat-zinger) non imponevano con chiarez-za, ai vescovi, di rinviare i preti pe-dofili ai tribunali civili, in quanto reidi delitti comuni? Sullo sfondo di que-sta poco chiara vicenda sta un proble-ma di estrema delicatezza: quei ve-scovi che di fatto hanno «tollerato» ipreti violenti hanno agito di testa lo-ro, con irresponsabilità, o forse eranoconvinti di attuare la mens che sem-brava guidare i documenti vaticanistessi?E qui si inserisce un’altra distonia. Lenuove normative romane elencano indettaglio i graviora delicta: la profa-nazione delle specie consacrate; laconcelebrazione del sacrificio eucari-stico insieme a ministri di comunitàecclesiali che non hanno la successio-ne apostolica né riconoscono la di-gnità sacramentale dell’ordinazionesacerdotale; l’assoluzione del compli-ce nel peccato contro il sesto coman-damento; il delitto contro il sesto co-mandamento commesso da un chieri-co con un minore al di sotto dei 18 an-ni di età; l’eresia, l’apostasia e loscisma; l’attentata ordinazione sacradi una donna.

Un amalgama poco convincentePuò darsi che, dal punto di vista me-ramente canonico, fosse opportunomettere in fila delicta di svariatissimogenere; ma, visto che il tema-chiaveche si voleva affrontare era quello del-la violenza sessuale commessa damembri del clero, porre nello stessosacco la pedofilia, la profanazione del-le ostie e l’ordinazione sacerdotale diuna donna è risultato sconcertante.Questa «equiparazione» è fondata sul-la premessa che la Chiesa romana hauna sua legislazione interna, sulla qua-le nessuno dovrebbe, dall’esterno, in-terferire. Ma sorge una domanda. Peri tribunali civili violentare un bambi-no o un adolescente è comunque unreato, severamente punito nei vari Pae-si; ma quale tribunale potrebbe puni-re con identica severità un cittadinoche calpestasse un’ostia? Un cristianopuò dar la vita per difendere un’ostiadal dileggio; ma per i tribunali civiliessa è un pezzo di pane, e difficilmentesi potrebbero infliggere otto anni di ga-lera ad una persona che calpesta il pa-ne. E che dire del mettere nel registroaperto dai preti pedofili la donna cheattenta all’ordinazione sacerdotale?Quello che anche le nuove norme va-ticane faticano ad accogliere – apren-do così vistose contraddizioni – è cheanche il CJC dovrebbe una buona vol-ta considerare delicta quelli che tali,indubitabilmente, sono anche per ilmondo civile; dopo di che – al preteviolento, punito secondo la legge de-gli Stati – il Codice canonico potreb-be aggiungere per conto suo tutte lepene che vuole (scomunica compre-sa); ma tali pene ecclesiali sarebberosempre aggiuntive, interne alla Chie-sa, valide solo per la coscienza del cre-dente, e mai sostitutive della pena in-flitta dai tribunali civili. L.S.

Zoologia teologica. L’università diMünster in Germania ha aperto un isti-tuto di «zoologia teologica» che avràcome scopo di studiare la dignità de-gli animali su base scientifica, lo svi-luppo di una zoologia teologica e diuna spiritualità della creazione, pro-ducendo materiale per l’insegnamen-to scolastico e la catechesi. Per fre-quentare i corsi non è necessario es-sere vegetariani.

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Luci e ombre dei nuovi documentisulle violenze sessuali del clero

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«IL PATTO DELLE CATACOMBE»Sempre più si levano voci nella Chiesa cattolica occidentale(la situazione è diversa in altre parti del mondo) per denun-ciare la perdita di presenza nella gioventù: donArmandoMat-teo, nel suo saggio «La prima generazione incredula» (re-censione a pagina 16) indica tra i possibili cambiamenti una«dieta» che permetta alla Chiesa cattolica di essere più ade-guata alla cultura di oggi, finito il tempo della «cristianità».Una «ricetta» più articolata (anche se a molti indigesta) eragià venuta pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II,quando, il 16 novembre del 1965, una quarantina di Padriconciliari, dopo aver celebrato l’Eucaristia nelle catacombedi Domitilla, a Roma, firmarono il «Patto delle catacombe»,diretto ai fratelli nell’Episcopato, con l’invito a portare avan-ti una vita di povertà, per una Chiesa serva e povera, comeaveva suggerito papa Giovanni XXllI. Tra i proponenti deltesto il vescovo dom Helder Camara, e tra i firmatari moltibrasiliani e latino-americani che si impegnavano a rinunciarea tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poverial centro del loro ministero pastorale, un anticipo della «Teo-logia della liberazione», che sarebbe nata negli anni seguenti.Ma la Curia romana preferì tenersi il barocco e cominciò asostituire sistematicamente i vescovi sudamericani con pre-lati anti-conciliari (che oggi si trovano drammaticamente con-frontati con gli abbandoni a favore delle Chiese «evangeli-cali»).Il «Patto delle catacombe» può ancora essere utile alla stan-ca Chiesa occidentale, e quindi lo riproponiamo per una sa-lutare dieta alla nostra Chiesa.

NOI, VESCOVI RIUNITI NEL CONCILIO VATICANO II,illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondoil Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nellaquale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la pre-sunzione, in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato,contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro SignoreGesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della no-stre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghieradavanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdo-ti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienzadella nostra debolezza ma anche con tutta la determinazione etutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo aquanto segue:1) Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostrapopolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione,i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende (Mt5,3; 6,33s; 8,20).2) Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ric-chezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti),nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essereeffettivamente evangelici) (Mc 6,9; Mt 1O,9s; At 3,6.: né oroné argento).3) Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili,né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il pos-sesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere socialio caritative (Mt 6,19-21; Lc 12,33s).4) Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione fi-nanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissionedi laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, alfine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli(Mt 10,8; At. 6,1-7).5) Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, connomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Ec-

cellenza, Monsignore...). Preferiamo essere chiamati con il no-me evangelico di Padre (Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15).

6) Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, evi-teremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi,priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai po-tenti (banchetti offerti o accettati, classi nei servizi religiosi)(Lc 13,12-14; lCor 9,14-19).

7) Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità dichicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni oper qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a consi-derare i loro doni come una partecipazione normale al culto,all’apostolato e all’azione sociale (Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor12,4).

8) Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, rifles-sione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale del-le persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli epoco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre personee gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconio i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri egli operai, condividendo la vita operaia e il lavoro (Lc 4, 18s;Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; lCor 4,12 e 9,1-27).

9) Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delleloro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di be-neficenza in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia,che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umi-le servizio agli organismi pubblici competenti. (Mt 25,31-46;Lc 13,12-14 e 33s.

10) Opereremo in modo che i responsabili del nostro governoe dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutturee istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza eallo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uo-mini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo,degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio (At. 2,44s; 4,32-35;5,4; 2Cor 8 e 9 interi; lTim 5, 16).11) Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelicarealizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umanein stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi del-l’umanità – ci impegniamo:– a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimentiurgenti a favore degli episcopati di nazioni povere;– a richiedere, insieme agli organismi internazionali, ma testi-moniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’ONU, l’ado-zione di strutture economiche e culturali che non fabbrichinopiù nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che perònon permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.12) Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la no-stra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e lai-ci, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; per-tanto,– ci sforzeremo di «rivedere la nostra vita» con loro;– formeremo collaboratori che siano più animatori, secondo lospirito, che capi secondo il mondo;– cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglien-ti;– saremo aperti a tutti, quale che sia la loro religione (Mc 8,34s;At 6,1-7; lTim 3,8-10).13) Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere aifedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli diaiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro pre-ghiere.Aiutaci Dio a essere fedeli.Testo ripreso da ADISTA, Segni Nuovi, n.21, 21 febbraio 2009

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Attuare il Concilio. Concilio e Co-stituzione sono stati i temi intorno aiquali sono ruotati i lavori del recenteconvegno organizzato a Napoli dalgruppo «IlVangelo che abbiamo rice-vuto». Una frase di Dietrich Bonho-effer – «Pregare e fare ciò che è giu-sto fra gli uomini» – indicava chiara-mente la necessità per i cristiani, pro-prio in quanto credenti, di un impegnodiretto nella sfera sociale e politica perla trasformazione dello stato di cosepresenti. Il giornalista e già senatoreRaniero La Valle ha denunciato i tan-ti tradimenti del Concilio, perpetratiin questi decenni da parte di chi, nel-la Chiesa, lo ha sempre combattuto:sui temi della liturgia, del dialogo ecu-menico e interreligioso, del ruolo deilaici e di quello delle donne. Tra lenovità ancora non adeguatamente ap-prezzate, La Valle ha sottolineato ilfatto che il Concilio ha tolto definiti-vamente alla Chiesa la pretesa «di pos-sedere e amministrare la verità» (am-pi stralci della relazione in «Adista»,Roma, n. 80, 23 ottobre).

Tutte le feste. Per il secondo annoconsecutivo, il mensile «Jesus» haproposto, allegandolo al numero usci-to il 10 ottobre, il calendario «I gior-ni del dialogo», realizzato in collabo-razione con il Monastero di Bose. Ilprogetto è volto alla promozione deldialogo tra le religioni e alla com-prensione della complessità di cultu-re che scandiscono le dinamiche nelmondo contemporaneo. Il calendarioannota infatti, di mese in mese, le prin-cipali festività e i tempi liturgici di cri-stiani, ebrei e musulmani, documen-tandoli con immagini fotografiche edidascalie che guidano alla lettura. Ilcalendario, presentato sul numero disettembre di «Jesus» con un’intervi-sta al priore di Bose, Enzo Bianchi, èin vendita aggiungendo due euro alprezzo della rivista. Si può anche pre-notare, chiamando lo 02/48027575 oinviando una mail a [email protected]

Anti-ecumenismo a Verona. Ha fat-to discutere la decisione del vescovodiVerona di togliere ai luterani la pos-sibilità di utilizzare per le proprie ne-cessità liturgiche, come facevano daqualche anno, la chiesa di San PietroMartire, anche se è avvenuto d’accor-do con la comunità riformata, per laquale è stata messa a disposizione, da

parte del Comune, la chiesa «sconsa-crata» di San Domenico. Il cambia-mento è stata la conseguenza di unacampagna antiecumenica «contro ilrelativismo religioso» di un gruppo diintegralisti condotti da un prete lefeb-vriano e vicini agli ambienti leghisti.

Missionari di ritorno. I Vescovi del-la Conferenza episcopale dell’Africae del Madagascar (SECAM), checomprende 37 Conferenze nazionalie 8 Conferenze regionali, in un re-cente documento hanno risposto ap-pello di papa Benedetto XVI per la«nuova evangelizzazione», osservan-do che la Chiesa è per sua natura mis-sionaria, e quella africana, nata dal-l’opera dei missionari europei, è pron-ta a contraccambiare, inviando mis-sionari in Europa. Don Milani avevaauspicato l’arrivo di missionari cine-si per la vecchia Chiesa europea; perora potrebbero bastare gli africani,che con la loro festosa gioia di vive-re ci insegnassero da capo la BuonaNovella.

Vescovimigranti.Cinque vescovi an-glicani hanno annunciato che abban-doneranno alla fine del 2010 la Chie-sa d’Inghilterra per aderire alla Chie-sa cattolica romana, usufruendo dellefacilitazioni offerte da papa Benedet-to XVI a coloro (vescovi, preti o sem-plici cristiani) delusi per alcune recentidecisioni della loro Chiesa. La gocciache avrebbe fatto traboccare il vaso, egiustificherebbe l’abbandono dellaChiesa madre, è veramente...una goc-ciolina, se si considera il principio fon-damentale (riconosciuto anche sul pia-no ecumenico, da anglicani e cattoli-ci) della «gerarchia delle verità». Que-sti cinque vescovi abbandonano laChiesa d’Inghilterra perché essa hademocraticamente (e regolarmente)deciso di avviare una procedura diconsultazione, al termine della quale,all’incirca nel 2014 se tutto va bene,potrebbero essere consacrate le primedonne-vescovo. Donne-ministro esi-stono da tempo nella Chiesa anglica-na d’Inghilterra, come in altre Chiesein comunione con essa, e la distinzio-ne tra vescovi e ministri consacrati èdi origine storica (non è stata certo isti-tuita da Gesù Cristo). Le motivazionidei cinque vescovi anglicani appaio-no modeste (se non meschine), anchese ogni scelta di coscienza (specie se

dolorosa) va rispettata. Domanda: lemolte pecorelle cattoliche le quali ri-tengono che niente si opponga nelVangelo alla scelta di donne per fareil prete – e quindi anche il vescovo –dove dovrebbero andare secondo leLoro Eccellenze anglicane?A noi pa-re che non essendovi un ovile ade-guato offerto nella Chiesa cattolica(forse un papa, tra qualche secolo,provvederà), e non volendosi trasfe-rirsi nella Chiesa d’Inghilterra o in al-tre Chiese consimili, dovranno sem-plicemente giudicare, in buona scien-za e coscienza, che non conviene cam-biare serraglio, finché nella Chiesavale ancora l’insegnamento che nontutte le «verità» stanno sullo stessopiano.

Legislazione infame. Il fanatismo re-ligioso dilaga nelmondo, aOriente co-me a Occidente. Ha fatto notizia cheAsia Bibi, una donna pakistana di 45anni, madre di sei figli, dopo aver su-bito varie aggressioni, è stata condan-nata a morte per impiccagione da untribunale nel Punjab pachistano, ac-cusata senza fondamento di aver be-stemmiato il profeta Maometto. Lalegge contro la bestemmia, promul-gata dalla dittatura militare nel 1986,secondo la Commissione Giustizia ePace pakistana avrebbe già provocatola condanna di almeno 974 persone,tra cui 119 cristiani. Essa persegue«coloro che, con parole o scritti, congesti o rappresentazioni visibili, coninsinuazioni dirette o indirette, insul-tano il nome sacro del Profeta». Permons. Fisichella occorrerebbe esami-nare almeno le circostanze, per cui unabestemmia del cavaliere Berlusconipotrebbe anche non essere un insultoa Dio: in Pakistan Maometto è megliotutelato.

Spagna cattolica. Il Papa ha visitatoall’inizio di novembre Barcellona,confrontandosi con la secolarizzazio-ne incoraggiata dal governo socialista,mentre le cifre confermano la realtàdi una nazione ancora largamente«cattolica». Su 46 milioni di abitanti,42 milioni si dichiarano cattolici(92,5%); ma i praticanti sono sola-mente il 13,5%. Al 31 dicembre 2009c’erano in Spagna 124 vescovi e24.849 preti, cioè uno ogni 1709 cat-tolici (la media mondiale è di 2849).Vanno aggiunti 3946 religiosi non pre-ti, 50.653 religiose, 2786 laici appar-tenenti a istituti secolari, 3900 semi-naristi e 101.261 catechisti. Le scuo-le cattoliche (materne o primarie) han-no in totale 265.348 allievi, i 3694

No. 214 cronaca 17

CRONACA INTERNAZIONALEa cura di Alberto Lepori

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collegi o licei cattolici hanno oltre unmilione di alunni e le 153 università oistituti superiori accolgono 104.644studenti. Numerose anche le opere ca-ritative e sociali: 93 ospedali, 72 di-spensari, 788 case di cura o di riposo,435 orfanatrofi, 301 centri familiariper la difesa della vita, 3036 centri dirieducazione e oltre quattrocento 400istituti attivi nel settore. Intanto l’Al-ta corte di giustiza dell’Estremaduraha dato ragione a una famiglia che harichiesto di togliere dalla scuola fre-quentata dal figlio ogni simbolo reli-gioso (come il crocefisso e le statuedella Madonna). Il Papa, durante la re-cente visita, ha condannato «la seco-larizzazione aggressiva», chiedendorispetto per il simbolo della croce. Ilpresidente del governo Zapatero staelaborando una legge sulla libertà re-ligiosa, con disposizioni sulla presen-ta dei simboli religiosi nelle scuole enegli spazi pubblici.

Solidarietà effettiva. I cristiani inIraq sono oggetto di criminali aggres-sioni, sia collettive (assalto alla catte-drale) sia a singole famiglie. Gli at-tacchi vengono da frange di mussul-mani fanatici e il governo non è ingrado di offrire un’adeguata protezio-ne. Insomma, i cristiani erano meglioprotetti quando governava il dittatoreSadam, prima di venir «liberati» da«cristiani occidentali». L’università diFriburgo dimostra la sua solidarietàsviluppando una collaborazione scien-tifica con il Babel College di Arbil-Ankawa, del nord dell’Iraq, apparte-nente alla Chiesa cattolica caldea, uni-ca istituzione di formazione teologicaa livello accademico per i cristiani delPaese. Studenti iracheni sono stati in-vitati a compiere soggiorni di studio a

Friburgo; nel maggio 2011 si terrà unconvegno sul cristianesimo in Meso-potania, intitolato «Iraq, dalle originiai nostri giorni» (un ampio servizio inAPIC del 3 novembre).

Bibbia a scuola. Il Ministero italianoper l’istruzione ha sottoscritto un ac-cordo con l’Associazione Biblia peruna maggiore conoscenza della cultu-ra ebraico-cristiana negli insegna-menti curricolari. Mai troppo tardi.

Donne all’altare. Il Papa ha pubbli-cato una «esortazione apostolica» daltitolo magniloquente Verbum Domini(«Parola di Dio») in cui non accogliela proposta n.17 presentata dal Sino-do dei vescovi sulla Sacra Scrittura,svoltosi a fine 2008, che chiedeva chefosse possibile conferire anche alledonne il «lettorato», cioè l’incarico ri-conosciuto di leggere i testi biblici du-rante le liturgie. Il cardinale canadeseMarc Ouellet, prefetto della Congre-gazione dei vescovi, ha tuttavia assi-curato che «il Santo Padre sta stu-diando attualmente la questione».Buon lavoro.

Trattative infinite. Per l’ennesimavolta (si è perso ormai il calcolo) si èriunita una commissione ad hoc tra laSanta Sede e lo Stato d’Israele per re-golare il contenzioso fiscale sui benidella Chiesa cattolica in Terrasanta,in attuazione dell’Accordo fonda-mentale del 10 marzo 1994 e in ap-plicazione del quale il 10 novembre1997 erano stati riconosciuti gli effet-ti civili della personalità giuridica aglienti ecclesiastici. Si tratta del paga-mento di imposte su edifici e attivitàcommerciali, quindi di soldi. Secon-do un comunicato vaticano, l’atmo-

sfera era «cordiale» e per Israele nonc’è fretta. Anche per la Santa Sede iproblemi importanti da discutere so-no (dovrebbero?) essere altri. Prossi-ma riunione il 9 dicembre, senza al-cuna speranza di chiudere la partita.

18 cronaca No. 214

Ci ha lasciato un’amicaÈ morta lo scorso 18 novembreAdriana Zarri, nata presso Bolo-gna nel 1919, figlia di un mugnaio,saggista e teologa anticonformista.Ci teneva a essere ricordata comeil «primo teologo-donna» in Italia.Da anni abitava come eremita invecchie case coloniche non lonta-no da Ivrea, da quando vi si eratrasferita per godere della prote-zione e dell’amicizia del vescovoconciliare Bettazzi. Ha collabora-to a decine di giornali e riviste, da«l’Osservatore romano» (ma intempi lontani…) al «Manifesto» fi-no alla morte, dando voce al dis-senso cattolico e al cristianesimo dibase.Aveva esordito con «LaChie-sa, nostra figlia», anticipatrice delVaticano II (per merito di RienzoColla della Locusta,Vicenza 1962);nell’ultimo «romanzo» si era di-vertita, alle spalle della Curia ro-mana, con «Vita e morte senza mi-racoli di Celestino VI», un futuroPapa che lascia il Vaticano per tor-nare semplice prete, con un gattochiamato Lutero. Contava ammi-ratori ed amici nel Ticino; avevapartecipato al «Sinodo dei laici»organizzato a Lugano da «Dialo-ghi» (cf. «Dialoghi» 103, settem-bre-ottobre 1988). Tra le sue ope-re: Nostro Signore del deserto; Er-ba della mia erba; È più facile cheun cammello; Il pozzo di Giacobbe.

L’Europa,una patria?Iso CamartinFormato12.5x21,272 pp., Fr. 22.–

Fino a che punto l'abitan-te di una piccola patria co-me la Svizzera può esse-re, sentirsi e definirsi eu-

ropeo? Quali fatti, quali circostanze, qualiesperienze fanno di me un europeo? Dalpunto di vista politico, la risposta non puòessere che no. Ma se si guarda ad una di-mensione più ampia? Umana e culturale

Vita di unpoveruomoUlrich BräkerFormato12.5x21,320 pp., Fr. 22.–

Un libro meraviglioso,perchè è nato dalla vitadel popolo. Così fu defi-nita l’autobiografia di

questo piccolo agricoltore, scritta in largaparte di notte e nei pochi momenti libericoncessigli da una vita grama, avara di sod-disfazioni e sempre sul margine della mi-seria più nera.

Storia di duevitePeter KamberFormato12.5x21, 424pp., Fr. 25.–

Wladimir Rosenbaum eAline Valangin: due per-sonaggi che hanno se-gnato la storia culturale e

artistica del Cantone, quando ad Asconae Comologno ospitavano esuli del conflit-to mondiale e uomini di cultura, quali Igna-zio Silone, James Joyce, Thomas Mann edElias Canetti.

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Collana «I Cristalli» 3 bei libri da leggere per le Feste di Natale

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No. 214 biblioteca 19

La generazioneincredula

«Perché i giovani non vanno più amessa», se lo chiede Armando Mat-teo, assistente nazionale della FUCI,associazione benemerita per aver for-mato per la Chiesa e l’Italia una lun-ga serie di personalità. In meno di no-vanta pagine, ma assistito da una im-pressionante «nota bibliografica»,vengono elencate le ragioni, con ar-gomentazioni facilmente condivisibi-li per chi ha gli occhi aperti; mentre la«pars construens» è piuttosto delu-dente: ma l’autore sa bene la difficol-tà a indicare rimedi e proposte opera-tive. Il testo porta il titolo esplicito:La prima generazione incredula. Ildifficile rapporto tra i giovani e la fe-de. La generazione cui si riferisce l’au-tore è quella nata dopo il 1990, per laquale le inchieste sociologiche perl’Italia evidenziano un quasi totale ab-bandono della pratica religiosa, alme-no quale adesione o frequenza allaChiesa cattolica. Le spiegazioni of-ferte riguardano particolarmente dueambiti: fondamentalmente è cambia-to il clima culturale (siamo nel po-stmoderno, che ha completamente se-colarizzato la precedente «cristianità»del «non possiamo non dirci cristia-ni»); la famiglia, che in precedenzafungeva da «apprendistato» alla reli-gione, non è più in grado o non vuolepiù (con genitori post-sessantot tini),trasmettere una «cultura» che antici-pava l’evangelizzazione dispensatapoi dalla struttura ecclesiale. Oltretut-to i giovani sono in competizione coni genitori «giovanilisti», che non fan-no loro posto e quindi non sono ac-cettati come modelli. Qui si riflettespecialmente una situazione italiana,mentre il cambiamento culturale e ledifficoltà di genitori e Chiesa (coi re-lativi negativi esiti) sono largamenteapplicabili anche alla realtà ticinese(basta partecipare ad una messa la do-menica mattina).Le ultime venti pagine sono dedicatea «come superare tale impasse» (pag.60), chiedendosi «c’è ancora spazioper una profezia possibile?». Vieneproposta e delineata «una fede giova-ne», una nuova «grammatica della fe-de», per cui «aver fede significa vive-re la propria libertà all’insegna del pri-mato dell’amore di Dio e dell’amoreal prossimo»; mentre per la Chiesaviene proposto di «mettersi a dieta»

(p. 73), cioè «una razionalizzazione euna gerarchizzazione degli interessi»:«la fede non è detta mai una volta pertutte: la santità cristiana ha grandi alidi fantasia». L’autore non nasconde ledifficoltà e sottolinea la necessità dirinunce, specie per coloro (clero e lai-ci) che oggi propongono di tornare in-dietro, invece di affrontare il nuovo(come del resto aveva cercato di fareil Concilio Vaticano II, ancora com-memorato ma spesso abbandonato).«Bisogna sentire meglio. Sentire il gri-do che i giovani stanno lanciando almondo degli adulti» (p. 80). a.l.A. Matteo, La prima generazione incredula.Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, Rub-bettino, Roma, 2010, Soveria Mannelli (CZ),pp.102, € 10.

Quando Montiniproteggeva «la Corsia»Daniela Saresella, docente di storiacontemporanea all’Università deglistudi di Milano, sta da anni seguendoun proprio personale percorso di co-noscenza delle esperienze più critichedel cattolicesimo italiano del Nove-cento: da Romolo Murri e dal moder-nismo di inizio secolo alle riviste delpost-Concilio, senza trascurare il donMazzolari de «La pieve sull’argine».Il nuovo libro costituisce un altro trat-to di strada. Si tratta della storia dellapresenza di una straordinaria coppiadi frati serviti, Turoldo e De Piaz, nel-la Milano della seconda guerra mon-diale, dell’immediato dopoguerra edegli anni Cinquanta fino all’aperturadel Concilio. Saresella ricostruiscecon pazienza gli sforzi dei due reli-giosi per aggiornare i modi di viverela fede cristiana e per porla in rappor-to con i fermenti più vivaci della cul-tura di quel tempo. Si potrebbe direche sono prove di dialogo e di con-fronto in tempi nei quali si era abituatipiuttosto allo scontro e alla sicurezzadelle proprie idee. Da qui una storia –ben documentata dall’autrice – di ten-sioni e di asprezze, anzitutto all’inter-no dei Servi di Maria. Ma anche unastoria che riserva alcune sorprese, co-me la radicata stima di un uomo co-me mons. Giovanni Battista Montini– tanto prudente e misurato – versoun ciclone umano quale era David Ma-ria Turoldo. Nel 1957 fu proprio l’ar-civescovo di Milano a bloccare un ten-tativo di chiudere la Corsia dei Servi,

segnalando sia a Roma sia al superio-re generale dei Serviti l’inopportuni-tà di porre fine a una esperienza checonteneva tanti lati positivi (pp. 152-160). Ciò non toglie che il futuro Pao-lo VI fosse piuttosto critico verso di-versi atteggiamenti del duo Turoldo-De Piaz.Saresella documenta – sfruttando inmodo intelligente tanti diversi archivi– le sofferenze di Turoldo, costretto aun continuo vagabondare dopo lostretto rapporto intessuto con don Ze-no e con Nomadelfia (aspetto, questo,ben ricostruito nel libro). Qua e làspunta anche – e non poteva essere di-versamente – il nome di don PrimoMazzolari. In altra occasione sarebbeanzi interessante riprendere e valuta-re i severi giudizi che proprio il «Bol-lettino della Corsia dei Servi» formu-lò sia rispetto a «Tu non uccidere» sianei confronti dell’opera del parrocodi Bozzolo (pp. 208-209).

Giorgio Vecchio (da «Impegno»,Bozzolo, novembre 2008)

D. Saresella, David Maria Turoldo – CamilloDe Piaz e la Corsia dei Servi di Milano (1943-1963); Morcelliana, Brescia, 2008, pp. 227.

BIBLIOTECA

«Dialoghi» è offerto invendita nelle seguentilibrerie del Cantone:

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Libreria Eco Libro,Via A. Giovannini 6a, 6710 Biasca.

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20 opinioni No. 214

In questo numeroI corsivi di «Dialoghi»� È TUTTA COLPA

DELL’ILLUMINISMO? (E.M.) 1� DIRITTI AI CRISTIANI (E A TUTTI

GLI ALTRI (a.l.) 20� IL PAPA E IL PRESERVATIVO (E.M.) 20

Dossier Economia� CONFINI CICATRICI DELLA STORIA,

MA IN FUTURO... (Remigio Ratti) 3

� CONTRO IL MITO DELLA CRESCITACONTINUA E ILLIMITATA(Silvano Toppi)) 7

� IL SIGNIFICATO DELLA TERRAPER I RURALI COLOMBIANI(Sergio Ferrari) 9

Articoli� POVERTÀ E DIRITTI UMANI. UNA

DICHIARAZIONE DELLE CHIESE 2� I NODI IRRISOLTI DEL DIALOGO

ROMA-CANTERBURY (Luigi Sandri) 11� LUCI E OMBRE DEI NUOVI

DOCUMENTI SULLE VIOLENZESESSUALI DEL CLERO (L.S.) 15

� «IL PATTO DELLE CATACOMBE» 16

� NOTIZIARIO (IN)SOSTENIBILE 6� OSSERVATORIO ECUMENICO 12� CRONACA SVIZZERA 13� CRONACA

INTERNAZIONALE 17� BIBLIOTECA

- G. Campanini, Testimoni nel mondo. Peruna spiritualità della politica (Studium) 5A. Matteo, La prima generazioneincredula (Rubbettino) 19- D. Saresella, D.M. Turoldo - C. DePiaz e la Corsia dei Servi di Milano(Morcelliana) 19

dialoghi di riflessione cristiana

Comitato: Alberto Bondolfi, ErnestoBorghi, don Emilio Conrad, Serse Forni,Aldo Lafranchi, Alberto Lepori, DariaLepori, Enrico Morresi, MargheritaNoseda Snider, Marina Sartorio, CarloSilini.

Redattore responsabile: Enrico Morresi,via Madonna della Salute 6, CH-6900Massagno, telefono +41 91 - 966 00 73,e-mail: [email protected]

Amministratore: Pietro Lepori,6760 Faido Tengia, tel. 091 866 03 16,email: [email protected].

Stampa: Tipografia-Offset Stazione SA,Locarno.

I collaboratori occasionali o regolarinon si ritengono necessariamenteconsenzienti con la linea della rivista.

L’abbonamento ordinario annuale(cinque numeri) costa fr. 60.–,sostenitori da fr. 100.–Un numero separato costa fr. 12.–Conto corr. post. 65-7206-4, Bellinzona.

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Diritti ai cristiani(e a tutti gli altri)

I Vescovi cattolici del Medio Oriente,convocati da papa Benedetto XVI a Ro-ma per un Sinodo regionale, hanno ri-chiamato l’attenzione dei mass mediasulla difficile situazione dei cristianinella regione che vide la nascita delleloro prime comunità. Due i motivi prin-cipali delle difficoltà di questi gruppiminoritari, divisi tra una decina di de-nominazioni diverse (solo in Egitto icopti rappresentano un gruppo mino-ritario consistente, di circa 8 milioni):le ristrettezze economiche, che spingo-no all’emigrazione, facilitata dai con-fratelli sistemati in Europa occidenta-le e in America, e l’aumento della pres-sione islamica, intollerante e talvoltapersino omicida (come di recente a Ba-ghdad, l’assalto domenicale alla cat-tedrale cattolica, con oltre 50 morti),fiaccamente combattuta da governi chenon tutelano i diritti umani (in primisquello della libertà religiosa) che ma-gari figurano nelle loro costituzioni.Fa piacere che i vescovi cattolici e ilPapa si facciano promotori dei dirittiumani, codificati nell’Occidente spes-so stigmatizzato come secolarizzato erelativista, ma anche un poco di umil-tà non guasterebbe: meno di centocin-quanta anni fa, il predecessore di Be-nedetto XVI, Pio IX, condannava nelSillabo degli errori moderni, la libertàdi culto (8 dicembre 1864).Per evitare interpretazioni parziali chepotrebbero prestarsi a ironia (come af-fermare che l’enciclica Quanta curapremessa al Sillabo partecipa alla«continuità» dell’insegnamento catto-lico, anticipando la dichiarazione con-ciliare – del 1965! – Dignitatis huma-nae), i cattolici e i loro portavoce più omeno ufficiali e autorizzati dovrebberodire chiaramente che la difesa dei di-ritti umani (comprese le libertà di co-scienza e di religione) viene richiestaper tutti gli uomini e per tutte le reli-gioni e tali diritti valgono in MedioOriente per altri gruppi minoritaricome valgono in Svizzera anche per iseguaci di mons. Lefebvre.Per completezza è tuttavia da ricorda-re che, nel Sinodo dedicato al MedioOriente, i vescovi cattolici hanno de-plorato la persecuzione che lo Stato diIsraele da decenni conduce nei con-fronti dei palestinesi: prima di tutto con

l’occupazione illegale del territorio(malgrado le ripetute condanne delleNazioni Unite), e poi con decisioni il-liberali e indisponenti, dalla costru-zione del muro antiterroristi alla ven-tilata pretesa di un «giuramento di fe-deltà» da richiedere agli arabi, pur tut-tavia cittadini israeliani a pieno diritto.Purtroppo questi gesti illiberali sonola conseguenza della democrazia par-lamentare, il governo dell’unica de-mocrazia del Medio Oriente essendoricattato da un gruppuscolo di parla-mentari ebrei fondamentalisti.Tutto il mondo è paese. In Italia, da an-ni parlamentari cattolici hanno ripe-tutamente bloccato leggi di libertà conun atteggiamento intollerante, violan-do per suggerimento vaticano la stes-sa laicità dello Stato (principio deri-vante dal Concordato del 1984). Al-l’inizio del Novecento, il deputato alGran Consiglio Giuseppe Motta de-nunciava l’ipocrisia del governo anti-clericale ticinese, che, in urto al prin-cipio della laicità, pretendeva dai con-tribuenti un giuramento (cioè che in-vocassero il nome di Dio), per attestarela verità della loro dichiarazione fi-scale! a. l.

Il Papa e il preservativo«Ratzinger apre al preservativo», tito-la la stampa di domenica 21 novembre.Rovesciata la tesi portante della Hu-manae vitae di Paolo VI? No. La «con-cessione» è fatta per preservare dalcontagio dell’Aids, in particolare, chisi prostituisce. È una buona ragione.Ma si dimentica che altre «buone ra-gioni» sono già ora tenute in conside-razione dai confessori e dai direttorispirituali nei confronti, per esempio,delle coppie di cristiani che domanda-no consiglio. È l’etica della responsa-bilità che mitiga l’etica della convin-zione. Non sarà una «buona ragione»,allora, che nei rapporti ormai disini-biti tra giovani le gravidanze indesi-derate vadano in quel modo prevenu-te? Pare evidente. Il punto è che, di«buona ragione» in «buona ragione»,il divieto del preservativo per ragioni«naturali»… va a farsi benedire. Ri-mangono l’autodisciplina (una volta sidiceva: la castità) e il senso di re-sponsabilità: ma per questo non sonoindispensabili le encicliche, il Vange-lo basta e avanza. E.M.

ii ccoorrssiivvii ddii ddiiaalloogghhii

AA ttuuttttii ii nnoossttrrii lleettttoorrii aauugguurrii ddii BBuuoonnee FFeessttee