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1 COPERTINA 1 SOMMARIO 2 ATTUALITÀ 3 BERLAYMONT BUILDING 4 ARCHITETTURA 5 GIAPPONE CHIAMA TRIESTE 6 ARTE – SCULTURA 7 ASAT 7 RECENSIONE DEL LIBRO 7 FOTOGRAFIA DIDASCALIA 7 AVVISIAMO 7 REDAZIONE 8 FOTOGRAFIA 8 QUARTA DI COPERTINA IL GIORNALINO DEGLI STUDENTI DICEMBRE 2009 FUORIONDA

Fuorionda dicembre - 2009

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Il giornale dell'Università degli Studi di Trieste

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Page 1: Fuorionda dicembre - 2009

FOTOGRAFIA – ANONIMI

1 COPERTINA1 SOMMARIO2 ATTUALITÀ3 BERLAYMONT BUILDING4 ARCHITETTURA5 GIAPPONE CHIAMA TRIESTE6 ARTE – SCULTURA7 ASAT7 RECENSIONE DEL LIBRO7 FOTOGRAFIA DIDASCALIA7 AVVISIAMO7 REDAZIONE8 FOTOGRAFIA8 QUARTA DI COPERTINA

IL GIORNALINO DEGLI STUDENTI DICEMBRE 2009

FUORIONDA

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Unione Europea, dall’emozione allo scetticismoFERRARA, piccola città studentesca, è la prima fermata romagnola dopo Rovigo, a meno di due ore di treno da Venezia. Impostazione medievale, circondata dalle mura, appena arrivi hai l’impressione di trovarti in un luogo in cui la vita non scorre in modo frenetico, ma al ritmo di una tranquilla pedalata su una vecchia bici, che sembra essere il mezzo preferito dai ferraresi. Questo è il terzo anno in cui la rivista settimanale “Internazionale” organizza un fine settimana di incontri, conferenze e mostre, con giornalisti di tutto il mondo e molti altri ospiti, trattando temi d’attualità. Ingresso libero.Quest’anno la serie di eventi si è aperta con la consegna, da parte della sorella di Anna Politkovskaja, Elena Kudimova, del premio in memoria della giornalista russa uccisa nel 2006, alla direttrice del settimanale messicano Zeta, Adela Navarro Bello, sotto scorta per le denunce fatte sul suo giornale, e si è conclusa al teatro comunale con la partecipazione di Roberto Saviano sul tema “Mafia Spa: gli affari ai tempi della crisi”.

Arriviamo alle nove e mezza, l’aria è ancora frizzante, è l’autunno che finalmente inizia a farsi sentire. Percorriamo viale Costituzione e ci dirigiamo verso Palazzo dei Diamanti, uno dei più celebri monumenti del Rinascimento italiano. Da lì ci dirigiamo verso il castello estense o di s. Michele sorto nel 1385, circondato da un fossato e cuore del centro storico. E’ qui che si sta svolgendo una chiacchierata sull’Unione Europea: “1989/2009-dall’emozione allo scetticismo”. Purtroppo arriviamo un po’ ritardo e perdiamo l’inizio, infatti la sala in cui si sta svolgendo la conferenza è già gremita e dobbiamo attendere che qualcuno esca. Per fortuna questo accade dopo poco -forse non avendo gradito l’intervento di Michael Braun che noi abbiamo mancato- e troviamo spazio a terra, a gambe incrociate. Arriviamo durante l’intervento di Josef kaspar -Tyden-, che sta percorrendo, in breve, gli ultimi vent’anni di storia politica ed economica della Repubblica Ceca, cercando

di spiegare lo spirito con cui il suo Paese si è affacciato il 1° Maggio 2004, all’Europa capitalista che al tempo contava ancora solo 15 membri. Da una situazione resa stagnante da un’Unione Sovietica ormai sempre più in declino, da un comunismo immobile, opprimente e svuotato d’ideali, all’apertura degli spazi -non solo commerciali- ad ovest. Dopo lo scioglimento dello stato federale comunista, il Paese viene travolto da un’onda di liberismo che presto assunse un carattere sfrenato, condotto dalle maggioranze di governo che si sono succedute fino all’ingresso in Europa nel 2004. Maggioranze che, in campo economico, - per usare l’espressione di Kaspar- “erano più a destra delle destre occidentali con cui per la prima volta si trovavano a contatto”. Con l’ingresso nell’UE e dunque grazie alle regole imposte dall’alto, dal grande burocrate dirigista europeo, questa tendenza ha assistito ad un forte rallentamento. Certo è che se ad un occhio avveduto quest’ingresso può apparire come una svolta positiva, con il passare degli anni ha tuttavia preso avvento un sentimento di scetticismo, che porta la popolazione czeca a sentirsi sì cittadina europea, ma di “serie B”. Basti fare un esempio. Se è vero che l’entrata in vigore anche per la Repubblica Ceca del TCE (Trattato istitutivo delle Comunità Europee, firmato a Roma nel lontanissimo ‘57) ha rese cogenti le quattro libertà di circolazione - persone, merci, servizi e capitali- che costituiscono l’idea di mercato unico, gli imprenditori czechi sono andati incontro a grosse difficoltà pratiche, che, di fatto, li hanno portati a desistere nell’apertura di filiali negli alrti Paesi comunitari.Kaspar infine si è chiesto se il rapidissimo allargamento a 27 dell’Unione sia stato positivo e si dà una risposta schietta: certo che lo è stato; chissà dove saremmo adesso se così non fosse stato. La parola è poi passata a Mircea Vasilescu, giornalista della rivista romena Dilema Veche, che ha descritto come in Romania ad oggi si stia vivendo un euro-entusiasmo strettamente legato ad aspetti di convenienze economica. Orgogliosi “difensori” del

vecchio continente per una semplice ragione geografica, i cittadini romeni si sentono di rappresentare la porta verso l’Est. Con l’ingresso nel gennaio del 2007 nella UE, il Paese ha assistito a una rapidissima crescita economica senza precedenti. Infatti, a detta di Mircea, è stato proprio l’afflusso d’ingenti erogazioni comunitarie a suscitare nella popolazione questa forte sensazione di emozione verso l’Europa.Questo e basta però. Non è un caso se gli slogan politici urlati a grande voce da tutti i partiti nazionali si siano indirizzati in questo senso: “Noi sappiamo come portarvi i soldi dall’Europa alla Romania”. E c’è di più. Questo forte desiderio di appartenenza alla comunità - che si è tradotto in una sete di denaro da spendere e spandere- ha appiattito il dibattito politico attorno a temi riguardanti le sorti dell’Unione, le conseguenze del trattato di Lisbona, gli effetti di una dipendenza da un sistema accentrato ad Ovest, l’immigrazione dei connazionali,l’arrivo di imprese di paesi comunitari, ecc.. : insomma, mancano le opinioni; le proposte, le critiche. Tutto ciò, chiaramente, è andato a riflettersi all’esterno, nei palazzi di quell’enorme pachiderma a ventisette bandiere che ha il suo sistema nervoso, il pensatoio, la bocca delle decisioni, tra Bruxelles e Strasburgo, dove infatti non si è vista un’attiva partecipazione romena ai dibattiti. L’importante, prosegue Mircea, sembra saper portare a casa soldi europei. E ancora, altro riflesso, i cittadini romeni non si sentono appartenere ad una categoria di cittadini europei c.d. “di serie-b”: o per lo meno non cominceranno a pensarlo fino a che da Bruxelles i politici continueranno di far pervenire le generose erogazioni - di cui essi stessi sono contribuenti. Per concludere, Mircea ha raccontato come siano presenti numerosi quotidiani e riviste che sopperiscono alle deficienze dell’amministrazione ingorda ed incapace, alimentando così il fievole dibattito interno. A concludere l’incontro sono state numerose le domande del pubblico .La prima ad essere stata sollevata poneva il quesito se, per far

sentire i cittadini europei parte più attiva ed informata di questo progetto d’integrazione, non fosse opportuno creare dei canali d’informazione comuni a tutta l’UE, come un giornale e una rete televisiva. E’ seguita la risposta affermativa del responsabile della comunicazione presso la Commissione europea, Thierry Vissol: un giornale è già presente in rete (presseurop.eu) ed è tradotto in 10 lingue. Raccoglie articoli provenienti da tutti i paesi comunitari -e non solo- incentrati sulla vita dell’UE stessa. E c’è pure un progetto televisivo: un canale che trasmetta a reti unificate ma che al momento è solo allo stato embrionale. Altre domande si sono poi concentrate attorno al Trattato di Lisbona e alla sua prossima entrata in vigore. Infatti, dopo il “sì” irlandese al referendum -dello scorso 2 ottobre con una maggioranza di 67,1% favorevoli e 32,9% contrari (tutta un’altra storia dopo l’esito negativo che precedette di poco più di un anno la crisi finanziaria scoppiata a Febbraio 2009 che vide vincitori il 54% di voti contrari)-, è questione di giorni la firma dell’atto di ratifica del Trattato da parte del presidente polacco Lech Kaczyski, che aveva deciso di attendere l’esito del referendum irlandese. Di medesime intenzioni si era espresso l’euro-scettico presidente czeco Klaus che, dopo l’esito negativo del primo referendum irlandese, aveva definito il trattato “morto”. Klaus si trova in una situazione traballante. Mi spiego. Avrebbe il potere di astenersi dalla firma dell’atto di ratifica. Tuttavia appare politicamente sconveniente un simile comportamento, dato che entrambi i rami del Parlamento czeco hanno già approvato il testo che andrà a modificare e sostituire il Trattato sulla UE e il Trattato che istituisce le Comunità Europee, e conterrà, finalmente, la Carta dei diritti fondamentali della UE, solennemente proclamata a Nizza nel 2000 da Parlamento, Consiglio e Commissione, ma poi mai inserita in alcun trattato, comportando la qualificazione della stessa a mera dichiarazione. Non sembrano poche le perplessità attorno a questo nuovo Trattato comunitario. Da parte di esperti, come di

funzionari. Sono infatti presenti disposizioni che rendono la lettura del testo -in un’ottica di interpretazione sistematica- assai ambigua e incerta. Mi chiedo quali siano le nuove oligarchie che spingono verso questa avanzata forma di concentrazione del potere. E me lo chiedo perché dove c’è potere non c’è trasparenza, ma puzza di bruciato sì. E me lo sto chiedendo anche perché di questi tempi non tira una bell’aria. Quanto si farà di Europa sociale? Quando si applicheranno veramente quei principi fondamentali su cui l’Europa appare costituita? Come si muove Lisbona 2008 in tema di integrazione dei migranti? A detta dello stesso responsabile della comunicazione della Commissione europea, “in effetti, in nessuna direzione concreta”.P.A. Trentolan

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Unione Europea, dall’emozione allo scetticismoFERRARA, piccola città studentesca, è la prima fermata romagnola dopo Rovigo, a meno di due ore di treno da Venezia. Impostazione medievale, circondata dalle mura, appena arrivi hai l’impressione di trovarti in un luogo in cui la vita non scorre in modo frenetico, ma al ritmo di una tranquilla pedalata su una vecchia bici, che sembra essere il mezzo preferito dai ferraresi. Questo è il terzo anno in cui la rivista settimanale “Internazionale” organizza un fine settimana di incontri, conferenze e mostre, con giornalisti di tutto il mondo e molti altri ospiti, trattando temi d’attualità. Ingresso libero.Quest’anno la serie di eventi si è aperta con la consegna, da parte della sorella di Anna Politkovskaja, Elena Kudimova, del premio in memoria della giornalista russa uccisa nel 2006, alla direttrice del settimanale messicano Zeta, Adela Navarro Bello, sotto scorta per le denunce fatte sul suo giornale, e si è conclusa al teatro comunale con la partecipazione di Roberto Saviano sul tema “Mafia Spa: gli affari ai tempi della crisi”.

Arriviamo alle nove e mezza, l’aria è ancora frizzante, è l’autunno che finalmente inizia a farsi sentire. Percorriamo viale Costituzione e ci dirigiamo verso Palazzo dei Diamanti, uno dei più celebri monumenti del Rinascimento italiano. Da lì ci dirigiamo verso il castello estense o di s. Michele sorto nel 1385, circondato da un fossato e cuore del centro storico. E’ qui che si sta svolgendo una chiacchierata sull’Unione Europea: “1989/2009-dall’emozione allo scetticismo”. Purtroppo arriviamo un po’ ritardo e perdiamo l’inizio, infatti la sala in cui si sta svolgendo la conferenza è già gremita e dobbiamo attendere che qualcuno esca. Per fortuna questo accade dopo poco -forse non avendo gradito l’intervento di Michael Braun che noi abbiamo mancato- e troviamo spazio a terra, a gambe incrociate. Arriviamo durante l’intervento di Josef kaspar -Tyden-, che sta percorrendo, in breve, gli ultimi vent’anni di storia politica ed economica della Repubblica Ceca, cercando

di spiegare lo spirito con cui il suo Paese si è affacciato il 1° Maggio 2004, all’Europa capitalista che al tempo contava ancora solo 15 membri. Da una situazione resa stagnante da un’Unione Sovietica ormai sempre più in declino, da un comunismo immobile, opprimente e svuotato d’ideali, all’apertura degli spazi -non solo commerciali- ad ovest. Dopo lo scioglimento dello stato federale comunista, il Paese viene travolto da un’onda di liberismo che presto assunse un carattere sfrenato, condotto dalle maggioranze di governo che si sono succedute fino all’ingresso in Europa nel 2004. Maggioranze che, in campo economico, - per usare l’espressione di Kaspar- “erano più a destra delle destre occidentali con cui per la prima volta si trovavano a contatto”. Con l’ingresso nell’UE e dunque grazie alle regole imposte dall’alto, dal grande burocrate dirigista europeo, questa tendenza ha assistito ad un forte rallentamento. Certo è che se ad un occhio avveduto quest’ingresso può apparire come una svolta positiva, con il passare degli anni ha tuttavia preso avvento un sentimento di scetticismo, che porta la popolazione czeca a sentirsi sì cittadina europea, ma di “serie B”. Basti fare un esempio. Se è vero che l’entrata in vigore anche per la Repubblica Ceca del TCE (Trattato istitutivo delle Comunità Europee, firmato a Roma nel lontanissimo ‘57) ha rese cogenti le quattro libertà di circolazione - persone, merci, servizi e capitali- che costituiscono l’idea di mercato unico, gli imprenditori czechi sono andati incontro a grosse difficoltà pratiche, che, di fatto, li hanno portati a desistere nell’apertura di filiali negli alrti Paesi comunitari.Kaspar infine si è chiesto se il rapidissimo allargamento a 27 dell’Unione sia stato positivo e si dà una risposta schietta: certo che lo è stato; chissà dove saremmo adesso se così non fosse stato. La parola è poi passata a Mircea Vasilescu, giornalista della rivista romena Dilema Veche, che ha descritto come in Romania ad oggi si stia vivendo un euro-entusiasmo strettamente legato ad aspetti di convenienze economica. Orgogliosi “difensori” del

vecchio continente per una semplice ragione geografica, i cittadini romeni si sentono di rappresentare la porta verso l’Est. Con l’ingresso nel gennaio del 2007 nella UE, il Paese ha assistito a una rapidissima crescita economica senza precedenti. Infatti, a detta di Mircea, è stato proprio l’afflusso d’ingenti erogazioni comunitarie a suscitare nella popolazione questa forte sensazione di emozione verso l’Europa.Questo e basta però. Non è un caso se gli slogan politici urlati a grande voce da tutti i partiti nazionali si siano indirizzati in questo senso: “Noi sappiamo come portarvi i soldi dall’Europa alla Romania”. E c’è di più. Questo forte desiderio di appartenenza alla comunità - che si è tradotto in una sete di denaro da spendere e spandere- ha appiattito il dibattito politico attorno a temi riguardanti le sorti dell’Unione, le conseguenze del trattato di Lisbona, gli effetti di una dipendenza da un sistema accentrato ad Ovest, l’immigrazione dei connazionali,l’arrivo di imprese di paesi comunitari, ecc.. : insomma, mancano le opinioni; le proposte, le critiche. Tutto ciò, chiaramente, è andato a riflettersi all’esterno, nei palazzi di quell’enorme pachiderma a ventisette bandiere che ha il suo sistema nervoso, il pensatoio, la bocca delle decisioni, tra Bruxelles e Strasburgo, dove infatti non si è vista un’attiva partecipazione romena ai dibattiti. L’importante, prosegue Mircea, sembra saper portare a casa soldi europei. E ancora, altro riflesso, i cittadini romeni non si sentono appartenere ad una categoria di cittadini europei c.d. “di serie-b”: o per lo meno non cominceranno a pensarlo fino a che da Bruxelles i politici continueranno di far pervenire le generose erogazioni - di cui essi stessi sono contribuenti. Per concludere, Mircea ha raccontato come siano presenti numerosi quotidiani e riviste che sopperiscono alle deficienze dell’amministrazione ingorda ed incapace, alimentando così il fievole dibattito interno. A concludere l’incontro sono state numerose le domande del pubblico .La prima ad essere stata sollevata poneva il quesito se, per far

sentire i cittadini europei parte più attiva ed informata di questo progetto d’integrazione, non fosse opportuno creare dei canali d’informazione comuni a tutta l’UE, come un giornale e una rete televisiva. E’ seguita la risposta affermativa del responsabile della comunicazione presso la Commissione europea, Thierry Vissol: un giornale è già presente in rete (presseurop.eu) ed è tradotto in 10 lingue. Raccoglie articoli provenienti da tutti i paesi comunitari -e non solo- incentrati sulla vita dell’UE stessa. E c’è pure un progetto televisivo: un canale che trasmetta a reti unificate ma che al momento è solo allo stato embrionale. Altre domande si sono poi concentrate attorno al Trattato di Lisbona e alla sua prossima entrata in vigore. Infatti, dopo il “sì” irlandese al referendum -dello scorso 2 ottobre con una maggioranza di 67,1% favorevoli e 32,9% contrari (tutta un’altra storia dopo l’esito negativo che precedette di poco più di un anno la crisi finanziaria scoppiata a Febbraio 2009 che vide vincitori il 54% di voti contrari)-, è questione di giorni la firma dell’atto di ratifica del Trattato da parte del presidente polacco Lech Kaczyski, che aveva deciso di attendere l’esito del referendum irlandese. Di medesime intenzioni si era espresso l’euro-scettico presidente czeco Klaus che, dopo l’esito negativo del primo referendum irlandese, aveva definito il trattato “morto”. Klaus si trova in una situazione traballante. Mi spiego. Avrebbe il potere di astenersi dalla firma dell’atto di ratifica. Tuttavia appare politicamente sconveniente un simile comportamento, dato che entrambi i rami del Parlamento czeco hanno già approvato il testo che andrà a modificare e sostituire il Trattato sulla UE e il Trattato che istituisce le Comunità Europee, e conterrà, finalmente, la Carta dei diritti fondamentali della UE, solennemente proclamata a Nizza nel 2000 da Parlamento, Consiglio e Commissione, ma poi mai inserita in alcun trattato, comportando la qualificazione della stessa a mera dichiarazione. Non sembrano poche le perplessità attorno a questo nuovo Trattato comunitario. Da parte di esperti, come di

funzionari. Sono infatti presenti disposizioni che rendono la lettura del testo -in un’ottica di interpretazione sistematica- assai ambigua e incerta. Mi chiedo quali siano le nuove oligarchie che spingono verso questa avanzata forma di concentrazione del potere. E me lo chiedo perché dove c’è potere non c’è trasparenza, ma puzza di bruciato sì. E me lo sto chiedendo anche perché di questi tempi non tira una bell’aria. Quanto si farà di Europa sociale? Quando si applicheranno veramente quei principi fondamentali su cui l’Europa appare costituita? Come si muove Lisbona 2008 in tema di integrazione dei migranti? A detta dello stesso responsabile della comunicazione della Commissione europea, “in effetti, in nessuna direzione concreta”.P.A. Trentolan

ATTUALITÀ

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BERLAYMONT BUILDING - BRUSSEL

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GIAPPONE CHIAMA TRIESTEARCHITETTURA

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H. In una mattinata autunnale, nella sala bar del-

l’hotel di fronte alla stazione ferroviaria di Men-drisio mi trovo - con i miei compagni di avventu-ra Erika e Diego - ad attendere Alberto Kalach, uno dei più attivi architetti messicani conosciu-ti. Ha appena tenuto una conferenza all’Acca-demia di Architettura Svizzera. Kalach è un progettista noto per la sua archi-tettura pacificata, mai stridente e soprattutto critica nei confronti del contesto, senza la sua spettacolarizzazione oggi tanto di moda tra gli architetti che fanno gli stilisti.Le sue opere riflettono un interesse per i proble-mi emergenti della grande città, per questo si oc-cupa di varie tipologie abitative, famoso è anche il progetto della città lacustre, per il quale venne premiato alla biennale di Venezia del 2002.Tra le sue opere più importanti vanno inoltre ci-tate la biblioteca pubblica Vasconcelos e l’orto botanico di Città del Messico, Casa Bross e la Nueva Escuela tecnologica a Coacalco.La sua personalità molto disponibile e la veste colloquiale dell’intervista mi ha concesso di dar-gli del tu.

Parliamo della biblioteca Vasconcelos, quant’è importante per una realtà come quella di Città del Messico creare una biblioteca pubblica?

È fondamentale. Non solo io, ma tutto il team ha imparato molto da questo concor-so, soprattutto per il ruolo simbolico che si prefigurava di avere, cioè quello di aumen-tare e divulgare l’accesso all’informazione in un paese (come il nostro) in cui il tasso di analfabetismo resta ancora molto alto. La biblioteca ha infatti una capacità ricettiva di 10.000 visitatori al giorno ed ospita 1 milio-ne di libri, il ché la rende la più grande del-l’America Latina. I libri sospesi a vista al soffitto vogliono invi-tare la gente ad arrampicarsi tra le mura del-la biblioteca ed il giardino esotico, selvaggio, si presta ad essere esplorato avviando così un primo avvicinamento alle vie della cono-scenza. Tanto per citare Vasconcelos , intel-lettuale e politico messicano degli anni ’30 da cui prende il nome,“una buona biblioteca è un’università libera ed efficace.

Il giardino è un elemento imprescindibile nelle tue opere. Com’è stato accolto questo in par-ticolare?

Il sito del progetto è un’area industriale, ma per noi il giardino orto botanico era in-dispensabile. Sin dall’inizio le critiche non sono mancate, la sua realizzazione e la re-lativa manutenzione venivano considerate esose. Il progetto è completato, ma per mo-tivi politici, alla data odierna, rimane chiuso al pubblico, il ché è davvero un peccato vi-sto che le piante esotiche si sono animate e sono cresciute a dismisura.

Quanto tempo è durata la preparazione di questo concorso internazionale che ha visto partecipi anche grossi nomi quali Koolhaas, MVRDV, Herzog de Meuron ecc.?

La prima fase, una settimana. La seconda -riservata a solo 7 squadre- ci ha visto impie-gati per un mese e lo sviluppo del progetto esecutivo, un anno. La costruzione dell’opera completa invece, un anno e mezzo.

Nel vostro studio avete partecipato a tanti concorsi?

Si, penso a tanti. Ci sono momenti in cui non ci sono tante commissioni ed un concorso ti dà l’opportunità di mantenerti allenato, e se sei bravo e fortunato puoi anche vincerlo.

In Europa la media di aggiudicazione di un concorso è di 1 ogni 15 (di solito grossi studi), che ne pensi di questa media?

Per vincere un concorso bisogna avere mol-ta fortuna, non necessariamente vince il progetto più meritevole.Frank Lloyd Wright affermava, più di cen-t’anni fa, che i concorsi di architettura pos-sono produrre soltanto mediocrità: che cosa ne pensi in generale di questa formula?In generale sono d’accordo con Wright. Nu-merose sono le variabili coinvolte; come e da chi è composta la giuria, il loro stato d’animo al momento della valutazione ecc. La cosa più interessante è come noi architetti vo-gliamo attirare la loro attenzione con dei di-segni sempre più spettacolari ed audaci. Di sicuro i progetti vincitori in un concorso non saranno mai uguali a quelli prodotti in una commissione diretta.

Il tuo lavoro sul ritorno alla città lacustre, all’epoca in cui è stato premiato alla biennale di Venezia, è stato proposto come un progetto utopistico. Rimane ancora tale?

Non necessariamente, in quanto il recupe-ro del lago di Texcoco, con la creazione di un nuovo litorale di 75 km nella capitale è fattibile tecnicamente ed economicamente parlando. La nostra società si rivela ancora molto immatura, non si riesce a pianificare su vasta scala, ciò è dovuto ai vari interessi che si creano, ma soprattutto alla voracità della società stessa, ognuno pensa ai pro-pri guadagni. Da dieci anni si vuole costrui-re in questa zona il nuovo aeroporto di Città del Messico e non ci siamo ancora riusciti, nel frattempo in Cina se ne sono costruiti un centinaio. Il narcotraffico invece, si sti-ma, ha costruito circa mille aeroporti clan-destini. Se la città è il riflesso della società, il nostro rimane un problema sociale e a diffe-renza vostra facciamo fatica a costruire un sistema paese. Noi professionisti dobbiamo sentirci chiamati in causa a risolvere i vari problemi che affliggono questa città, servizi infrastrutturali, sistema dei trasporti, ecc.Nonostante ciò è un progetto sul quale ritor-niamo spesso e nel quale ci sentiamo coin-volti. L’idea è viva più che mai.

Parlando del tema dei trasporti, cosa ne pensi del nuovo servizio di Metrobus a Città del Messico, che si rifà al modello della città di Curitiba e Bogotà?

Mi sembra un’ottima idea. Ha pochi costi di costruzione (solo quelli di una via preferen-ziale per gli autobus ed una corsia dotata di pensilina per gli utenti lungo l’asse viario principale di Città del Messico) in confron-to all’implementazione del sistema di metro-politana esistente. Ha permesso di risolvere, solo parzialmente, il problema dell’inquina-mento causato dai veicoli. In futuro si po-trebbe pensare a migliorarlo ulteriormente, per esempio prendendo a modello tipologie

Sono venuto dal Giappone nel 2006 per effettuare un dottorato di ricerca in sociologia per scoprire “le ragioni segrete” che portano gli uomini a vivere a Trieste, confrontando tre diverse prospettive: visione da lontano, da vicino e del futuro. Questa comparazione rappresenta l’idea che hanno di Trieste rispettivamente i giovani giapponesi, gli intellettuali triestini e i giovani triestini. “Porto franco dell’Austria”, “Trento e Trieste” e “Territorio Libero di Trieste” sono alcune delle chiavi di ricerca che mi hanno permesso di conoscere questa realtà prima di venirci personalmente. Grazie a libri, riviste e siti internet ho scoperto che Trieste possiede un patrimonio importante di culture, mescolate nella fisionomia della città; un’indelebile eredità dall’Austria, l’impronta letteraria di Saba, Svevo e Joyce, una ricca presenza di comunità etnico-linguistiche, il successo straordinario della chiusura del manicomio sotto la guida di Basaglia, l’alta qualità di vita in Italia (indagine del “Sole 24 Ore” del 2006). Ho trovato anche tante informazioni, sul Centro internazionale di fisica teorica, Research Park, e SISSA che sono ben noti a livello internazionale in campo scientifico. La sintesi a cui sono giunto è che: “Trieste è una città culturalmente aperta”. Quando sono stato per la prima volta a Trieste nel 2006, ho avuto la stessa impressione perché sono stato accolto in modo gentile. Però quando parlavo alla gente che abita a Trieste della mia impressione sulla città, molti hanno espresso qualche riserva. Uno in particolare mi ha detto: “Trieste non è sempre una città aperta, essa serba un doppio aspetto: uno è aperto e l’altro è chiuso, non esistono mai entrambi allo stesso tempo. Trieste non è solo una città italiana, ma ci sono tanti “altri”. In futuro Trieste non deve chiudere le sue porte ma aprirle di più”. Con il tempo ho potuto conoscere più a fondo questa città e le mie idee sono cambiate, soprattutto grazie all’incontro di alcuni intellettuali triestini e istriani. Come viene analizzata la “visione da vicino” di Trieste dagli intellettuali locali? Elio Apih, storico triestino, considera in un suo volume Trieste (1988) una caratteristica della città moderna di Trieste portando il termine “artificiale”: “la nuova e grande Trieste - dice Apih - non era nata per naturale evoluzione sul territorio, era nata per scelte di politica economica dell’Austria, e in questo senso era largamente “artificiale”. [...] Si prefigurava il bivio tra il superamento di questa contraddizione, la realizzazione di una città “naturale”, inserita in un mondo suo, e il ripiegamento nel particolarismo e nel localismo di sopravvivenza”. A tale lineamento dell’interpretazione, possiamo salire fino a Scipio Slataper. Proprio cento anni fa, nel 1909, Slataper ha considerato in un articolo “Trieste non ha tradizioni di coltura” in Scritti politici (1954) questo aspetto: “Trieste, da qualche decennio, si sente una città importante. [... ma] il suo animo materno dolora pentendosi di non averla imparata per insegnargliela [...] il giovane triestino non ha ancora forza di partire, oltre a non saper la strada: Trieste lo creò di animuccia troppo esile”. Angelo Ara e Claudio Magris hanno interpretato, in un loro famoso libro Trieste identità di frontiera (1987), la speranza e l’angoscia di Slataper: “Slataper voleva incarnare la realtà e la vocazione plurinazionale di Trieste. Trieste è stata contemporaneamente un amalgama di gruppi etnici e culturali diversi e un arcipelago in cui questi gruppi restavano isolati e chiusi gli uni agli altri”. Qui sembra un paradosso. Perché la visione da lontano, quella che abbiamo visto all’inizio, è legata alle immagini della città aperta. Ma l’ osservazione critica degli intellettuali triestini è collegata all’interpretazione della chiusura e ostinatezza della città. Elio Apih ha commentato questo paradosso riferendo un cambiamento dell’atmosfera della città dagli anni Sessanta: “vivono, un po’ paradossalmente, come su un doppio piano: da un lato c’è l’atmosfera della nuova, buona collaborazione tra Italia e Jugoslavia, e la diffusione dell’etica internazionalista nella giovane generazione e nell’ambiente intellettuale, dall’altro lato c’è la chiusura di vasti ambiti locali; frontiera aperta, società chiusa”. Trieste sembra a due piani: il pianoterreno si apre verso i nuovi arrivati. Ma com’è il primo piano? Per poter comprendere la situazione oggi, venti anni dopo quella “frontiera aperta, società chiusa”, ho provato a chiedere a dei giovani triestini la loro “visione del futuro”. Nel dicembre 2006 io e una docente triestina abbiamo fatto una lezione speciale su Giappone e Trieste al Liceo Pedagogico di Trieste. Erano circa 50, tra ragazzi e ragazze di 17 anni, quasi tutti nati e cresciuti a Trieste. Ho chiesto loro di presentare la loro città ai giovani giapponesi. Ho chiesto di usare una frase che rappresentasse una caratteristica di Trieste e di spiegare il perché. Uno studente su due ha usato l’espressione “città multiculturale” perché “c’è un incrocio tra diversi popoli e diverse etnie”, “possiede ricchezze culturali e scientifiche”, “ci sono i luoghi di culto di 15 religioni diverse” e “c’è molta gente proveniente dai paesi dell’Est”. Uno studente su tre ha detto che Trieste è una città “vecchia” perché “c’è poco spazio per i giovani” e “la città è strutturata maggiormente per gli anziani”. Pertanto, attraverso gli occhi dei giovani, Trieste è considerate una città socio-culturalmente composita ma c’è poco spazio per i giovani. Queste tre prospettive mi hanno permesso di comprendere le “ragioni segrete” che portano la gente a vivere a Trieste: Trieste è una città matura. Ho preso l’aggettivo “maturo” per tre ragioni: 1. Trieste ha raggiunto un pieno sviluppo in tensione tra la sua condizione naturale e la forza artificiale e articolata da scelte esterne nell’età moderna; 2. la multiculturalità e l’alta qualità di vita, a frutto dello suo sviluppo, sono delle ragioni segrete che portano gli uomini a vivere a Trieste; 3. con il coinvolgimento dei giovani, Trieste dovrebbe essere pronta a trasformarsi in una città nuova, evitando di diventare una città immobile e ostile a ogni cambiamento nell’epoca di frontiera aperta. Tetsutada Suzuki

TRIESTE, CITTÀ APERTA? IMPRESSIONI DI UNA VISIONE DA LONTANO

di autobus con tecnologia più avanzata, già usati in alcune città europee.

Sto pensando allo scheletro di balena con applicazioni in grafite, sospeso nel salone centrale della biblioteca, che l’artista Gabriel Orozco ha fatto installare: com’è nata questa collaborazione?

Fu merito della segretaria di Cultura che de-cise di contattarlo; noi ancora non ci cono-scevamo all’epoca. Inizialmente era un po’ restio alle collaborazioni con gli architetti, fino a che si è deciso a visitare l’edificio. Ne è rimasto colpito positivamente e da subito s’immaginò un grande scheletro di balena. Poi siamo diventati buoni amici.

Hai visto il suo nuovo lavoro della casa Osservatorio a Puerto Escondido, costruito con la consulenza di Tatiana Bilbao?

Si, molto interessante, un’architettura dalla grande purezza ed essenzialità. Per lo spiri-to mi ricorda molto casa Malaparte di Adal-berto Libera.

Ho letto che hai installato il tuo studio temporaneamente nel giardino della casa Barragan…

In realtà Barragan ne aveva due di atelier. Uno che ospita l’attuale Fondazione in suo nome, ed un altro di fronte. Venni a cono-scenza che quest’ultimo poteva essere da-to in locazione, allora situai lì il mio studio per un periodo di 6 mesi. Poi fummo costret-ti a trasferirci a causa della comunità archi-tettonica divenuta gelosa di tale privilegio. È stata un’esperienza molto divertente.

Hai mai contemplato l’idea di svolgere la tua professione al di fuori del Messico?

Per ora no, perché nella mia sfera professio-nale questa realtà mi sembra abbia tante va-rianti, ed è sempre divertente e stimolante, non si rischia mai la monotonia. A proposi-to è un posto che ha bisogno di ingegneri in questo momento … non ce ne sono di bravi! (eccomi qua!).

Dove trascorri le tue vacanze?Generalmente in Messico, a volte nel deser-to, a volte nella selva, a volte in spiaggia.

C’è qualche posto in Europa nel quale ti piacerebbe vivere?

In qualsiasi posto del Mediterraneo.

Durante i tuoi viaggi in Europa c’è un luogo in particolare che ti piace visitare?

Roma rimane per me un luogo splendido, in particolare il Pantheon è un edificio che de-sta in me sempre grande stupore. Il problema è che, con l’avvento del turismo massifica-to, il tutto è diventato più affollato. Preferi-vo vent’anni fa, si stava molto più tranquilli a spasso.

Ringraziamo Alberto Kalach per la sua cortese disponibilità e ricordiamo a tutti gli interessati che anche la Facoltà di architettura della nostra Università sotto la guida del professore … ha or-ganizzato delle conferenze a cui hanno parte-cipato, tra gli altri, anche Eduardo Arroyo, Mar-co Guarnieri,…, siamo attualmente in attesa dei

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GIAPPONE CHIAMA TRIESTEARCHITETTURA

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H. In una mattinata autunnale, nella sala bar del-

l’hotel di fronte alla stazione ferroviaria di Men-drisio mi trovo - con i miei compagni di avventu-ra Erika e Diego - ad attendere Alberto Kalach, uno dei più attivi architetti messicani conosciu-ti. Ha appena tenuto una conferenza all’Acca-demia di Architettura Svizzera. Kalach è un progettista noto per la sua archi-tettura pacificata, mai stridente e soprattutto critica nei confronti del contesto, senza la sua spettacolarizzazione oggi tanto di moda tra gli architetti che fanno gli stilisti.Le sue opere riflettono un interesse per i proble-mi emergenti della grande città, per questo si oc-cupa di varie tipologie abitative, famoso è anche il progetto della città lacustre, per il quale venne premiato alla biennale di Venezia del 2002.Tra le sue opere più importanti vanno inoltre ci-tate la biblioteca pubblica Vasconcelos e l’orto botanico di Città del Messico, Casa Bross e la Nueva Escuela tecnologica a Coacalco.La sua personalità molto disponibile e la veste colloquiale dell’intervista mi ha concesso di dar-gli del tu.

Parliamo della biblioteca Vasconcelos, quant’è importante per una realtà come quella di Città del Messico creare una biblioteca pubblica?

È fondamentale. Non solo io, ma tutto il team ha imparato molto da questo concor-so, soprattutto per il ruolo simbolico che si prefigurava di avere, cioè quello di aumen-tare e divulgare l’accesso all’informazione in un paese (come il nostro) in cui il tasso di analfabetismo resta ancora molto alto. La biblioteca ha infatti una capacità ricettiva di 10.000 visitatori al giorno ed ospita 1 milio-ne di libri, il ché la rende la più grande del-l’America Latina. I libri sospesi a vista al soffitto vogliono invi-tare la gente ad arrampicarsi tra le mura del-la biblioteca ed il giardino esotico, selvaggio, si presta ad essere esplorato avviando così un primo avvicinamento alle vie della cono-scenza. Tanto per citare Vasconcelos , intel-lettuale e politico messicano degli anni ’30 da cui prende il nome,“una buona biblioteca è un’università libera ed efficace.

Il giardino è un elemento imprescindibile nelle tue opere. Com’è stato accolto questo in par-ticolare?

Il sito del progetto è un’area industriale, ma per noi il giardino orto botanico era in-dispensabile. Sin dall’inizio le critiche non sono mancate, la sua realizzazione e la re-lativa manutenzione venivano considerate esose. Il progetto è completato, ma per mo-tivi politici, alla data odierna, rimane chiuso al pubblico, il ché è davvero un peccato vi-sto che le piante esotiche si sono animate e sono cresciute a dismisura.

Quanto tempo è durata la preparazione di questo concorso internazionale che ha visto partecipi anche grossi nomi quali Koolhaas, MVRDV, Herzog de Meuron ecc.?

La prima fase, una settimana. La seconda -riservata a solo 7 squadre- ci ha visto impie-gati per un mese e lo sviluppo del progetto esecutivo, un anno. La costruzione dell’opera completa invece, un anno e mezzo.

Nel vostro studio avete partecipato a tanti concorsi?

Si, penso a tanti. Ci sono momenti in cui non ci sono tante commissioni ed un concorso ti dà l’opportunità di mantenerti allenato, e se sei bravo e fortunato puoi anche vincerlo.

In Europa la media di aggiudicazione di un concorso è di 1 ogni 15 (di solito grossi studi), che ne pensi di questa media?

Per vincere un concorso bisogna avere mol-ta fortuna, non necessariamente vince il progetto più meritevole.Frank Lloyd Wright affermava, più di cen-t’anni fa, che i concorsi di architettura pos-sono produrre soltanto mediocrità: che cosa ne pensi in generale di questa formula?In generale sono d’accordo con Wright. Nu-merose sono le variabili coinvolte; come e da chi è composta la giuria, il loro stato d’animo al momento della valutazione ecc. La cosa più interessante è come noi architetti vo-gliamo attirare la loro attenzione con dei di-segni sempre più spettacolari ed audaci. Di sicuro i progetti vincitori in un concorso non saranno mai uguali a quelli prodotti in una commissione diretta.

Il tuo lavoro sul ritorno alla città lacustre, all’epoca in cui è stato premiato alla biennale di Venezia, è stato proposto come un progetto utopistico. Rimane ancora tale?

Non necessariamente, in quanto il recupe-ro del lago di Texcoco, con la creazione di un nuovo litorale di 75 km nella capitale è fattibile tecnicamente ed economicamente parlando. La nostra società si rivela ancora molto immatura, non si riesce a pianificare su vasta scala, ciò è dovuto ai vari interessi che si creano, ma soprattutto alla voracità della società stessa, ognuno pensa ai pro-pri guadagni. Da dieci anni si vuole costrui-re in questa zona il nuovo aeroporto di Città del Messico e non ci siamo ancora riusciti, nel frattempo in Cina se ne sono costruiti un centinaio. Il narcotraffico invece, si sti-ma, ha costruito circa mille aeroporti clan-destini. Se la città è il riflesso della società, il nostro rimane un problema sociale e a diffe-renza vostra facciamo fatica a costruire un sistema paese. Noi professionisti dobbiamo sentirci chiamati in causa a risolvere i vari problemi che affliggono questa città, servizi infrastrutturali, sistema dei trasporti, ecc.Nonostante ciò è un progetto sul quale ritor-niamo spesso e nel quale ci sentiamo coin-volti. L’idea è viva più che mai.

Parlando del tema dei trasporti, cosa ne pensi del nuovo servizio di Metrobus a Città del Messico, che si rifà al modello della città di Curitiba e Bogotà?

Mi sembra un’ottima idea. Ha pochi costi di costruzione (solo quelli di una via preferen-ziale per gli autobus ed una corsia dotata di pensilina per gli utenti lungo l’asse viario principale di Città del Messico) in confron-to all’implementazione del sistema di metro-politana esistente. Ha permesso di risolvere, solo parzialmente, il problema dell’inquina-mento causato dai veicoli. In futuro si po-trebbe pensare a migliorarlo ulteriormente, per esempio prendendo a modello tipologie

Sono venuto dal Giappone nel 2006 per effettuare un dottorato di ricerca in sociologia per scoprire “le ragioni segrete” che portano gli uomini a vivere a Trieste, confrontando tre diverse prospettive: visione da lontano, da vicino e del futuro. Questa comparazione rappresenta l’idea che hanno di Trieste rispettivamente i giovani giapponesi, gli intellettuali triestini e i giovani triestini. “Porto franco dell’Austria”, “Trento e Trieste” e “Territorio Libero di Trieste” sono alcune delle chiavi di ricerca che mi hanno permesso di conoscere questa realtà prima di venirci personalmente. Grazie a libri, riviste e siti internet ho scoperto che Trieste possiede un patrimonio importante di culture, mescolate nella fisionomia della città; un’indelebile eredità dall’Austria, l’impronta letteraria di Saba, Svevo e Joyce, una ricca presenza di comunità etnico-linguistiche, il successo straordinario della chiusura del manicomio sotto la guida di Basaglia, l’alta qualità di vita in Italia (indagine del “Sole 24 Ore” del 2006). Ho trovato anche tante informazioni, sul Centro internazionale di fisica teorica, Research Park, e SISSA che sono ben noti a livello internazionale in campo scientifico. La sintesi a cui sono giunto è che: “Trieste è una città culturalmente aperta”. Quando sono stato per la prima volta a Trieste nel 2006, ho avuto la stessa impressione perché sono stato accolto in modo gentile. Però quando parlavo alla gente che abita a Trieste della mia impressione sulla città, molti hanno espresso qualche riserva. Uno in particolare mi ha detto: “Trieste non è sempre una città aperta, essa serba un doppio aspetto: uno è aperto e l’altro è chiuso, non esistono mai entrambi allo stesso tempo. Trieste non è solo una città italiana, ma ci sono tanti “altri”. In futuro Trieste non deve chiudere le sue porte ma aprirle di più”. Con il tempo ho potuto conoscere più a fondo questa città e le mie idee sono cambiate, soprattutto grazie all’incontro di alcuni intellettuali triestini e istriani. Come viene analizzata la “visione da vicino” di Trieste dagli intellettuali locali? Elio Apih, storico triestino, considera in un suo volume Trieste (1988) una caratteristica della città moderna di Trieste portando il termine “artificiale”: “la nuova e grande Trieste - dice Apih - non era nata per naturale evoluzione sul territorio, era nata per scelte di politica economica dell’Austria, e in questo senso era largamente “artificiale”. [...] Si prefigurava il bivio tra il superamento di questa contraddizione, la realizzazione di una città “naturale”, inserita in un mondo suo, e il ripiegamento nel particolarismo e nel localismo di sopravvivenza”. A tale lineamento dell’interpretazione, possiamo salire fino a Scipio Slataper. Proprio cento anni fa, nel 1909, Slataper ha considerato in un articolo “Trieste non ha tradizioni di coltura” in Scritti politici (1954) questo aspetto: “Trieste, da qualche decennio, si sente una città importante. [... ma] il suo animo materno dolora pentendosi di non averla imparata per insegnargliela [...] il giovane triestino non ha ancora forza di partire, oltre a non saper la strada: Trieste lo creò di animuccia troppo esile”. Angelo Ara e Claudio Magris hanno interpretato, in un loro famoso libro Trieste identità di frontiera (1987), la speranza e l’angoscia di Slataper: “Slataper voleva incarnare la realtà e la vocazione plurinazionale di Trieste. Trieste è stata contemporaneamente un amalgama di gruppi etnici e culturali diversi e un arcipelago in cui questi gruppi restavano isolati e chiusi gli uni agli altri”. Qui sembra un paradosso. Perché la visione da lontano, quella che abbiamo visto all’inizio, è legata alle immagini della città aperta. Ma l’ osservazione critica degli intellettuali triestini è collegata all’interpretazione della chiusura e ostinatezza della città. Elio Apih ha commentato questo paradosso riferendo un cambiamento dell’atmosfera della città dagli anni Sessanta: “vivono, un po’ paradossalmente, come su un doppio piano: da un lato c’è l’atmosfera della nuova, buona collaborazione tra Italia e Jugoslavia, e la diffusione dell’etica internazionalista nella giovane generazione e nell’ambiente intellettuale, dall’altro lato c’è la chiusura di vasti ambiti locali; frontiera aperta, società chiusa”. Trieste sembra a due piani: il pianoterreno si apre verso i nuovi arrivati. Ma com’è il primo piano? Per poter comprendere la situazione oggi, venti anni dopo quella “frontiera aperta, società chiusa”, ho provato a chiedere a dei giovani triestini la loro “visione del futuro”. Nel dicembre 2006 io e una docente triestina abbiamo fatto una lezione speciale su Giappone e Trieste al Liceo Pedagogico di Trieste. Erano circa 50, tra ragazzi e ragazze di 17 anni, quasi tutti nati e cresciuti a Trieste. Ho chiesto loro di presentare la loro città ai giovani giapponesi. Ho chiesto di usare una frase che rappresentasse una caratteristica di Trieste e di spiegare il perché. Uno studente su due ha usato l’espressione “città multiculturale” perché “c’è un incrocio tra diversi popoli e diverse etnie”, “possiede ricchezze culturali e scientifiche”, “ci sono i luoghi di culto di 15 religioni diverse” e “c’è molta gente proveniente dai paesi dell’Est”. Uno studente su tre ha detto che Trieste è una città “vecchia” perché “c’è poco spazio per i giovani” e “la città è strutturata maggiormente per gli anziani”. Pertanto, attraverso gli occhi dei giovani, Trieste è considerate una città socio-culturalmente composita ma c’è poco spazio per i giovani. Queste tre prospettive mi hanno permesso di comprendere le “ragioni segrete” che portano la gente a vivere a Trieste: Trieste è una città matura. Ho preso l’aggettivo “maturo” per tre ragioni: 1. Trieste ha raggiunto un pieno sviluppo in tensione tra la sua condizione naturale e la forza artificiale e articolata da scelte esterne nell’età moderna; 2. la multiculturalità e l’alta qualità di vita, a frutto dello suo sviluppo, sono delle ragioni segrete che portano gli uomini a vivere a Trieste; 3. con il coinvolgimento dei giovani, Trieste dovrebbe essere pronta a trasformarsi in una città nuova, evitando di diventare una città immobile e ostile a ogni cambiamento nell’epoca di frontiera aperta. Tetsutada Suzuki

TRIESTE, CITTÀ APERTA? IMPRESSIONI DI UNA VISIONE DA LONTANO

di autobus con tecnologia più avanzata, già usati in alcune città europee.

Sto pensando allo scheletro di balena con applicazioni in grafite, sospeso nel salone centrale della biblioteca, che l’artista Gabriel Orozco ha fatto installare: com’è nata questa collaborazione?

Fu merito della segretaria di Cultura che de-cise di contattarlo; noi ancora non ci cono-scevamo all’epoca. Inizialmente era un po’ restio alle collaborazioni con gli architetti, fino a che si è deciso a visitare l’edificio. Ne è rimasto colpito positivamente e da subito s’immaginò un grande scheletro di balena. Poi siamo diventati buoni amici.

Hai visto il suo nuovo lavoro della casa Osservatorio a Puerto Escondido, costruito con la consulenza di Tatiana Bilbao?

Si, molto interessante, un’architettura dalla grande purezza ed essenzialità. Per lo spiri-to mi ricorda molto casa Malaparte di Adal-berto Libera.

Ho letto che hai installato il tuo studio temporaneamente nel giardino della casa Barragan…

In realtà Barragan ne aveva due di atelier. Uno che ospita l’attuale Fondazione in suo nome, ed un altro di fronte. Venni a cono-scenza che quest’ultimo poteva essere da-to in locazione, allora situai lì il mio studio per un periodo di 6 mesi. Poi fummo costret-ti a trasferirci a causa della comunità archi-tettonica divenuta gelosa di tale privilegio. È stata un’esperienza molto divertente.

Hai mai contemplato l’idea di svolgere la tua professione al di fuori del Messico?

Per ora no, perché nella mia sfera professio-nale questa realtà mi sembra abbia tante va-rianti, ed è sempre divertente e stimolante, non si rischia mai la monotonia. A proposi-to è un posto che ha bisogno di ingegneri in questo momento … non ce ne sono di bravi! (eccomi qua!).

Dove trascorri le tue vacanze?Generalmente in Messico, a volte nel deser-to, a volte nella selva, a volte in spiaggia.

C’è qualche posto in Europa nel quale ti piacerebbe vivere?

In qualsiasi posto del Mediterraneo.

Durante i tuoi viaggi in Europa c’è un luogo in particolare che ti piace visitare?

Roma rimane per me un luogo splendido, in particolare il Pantheon è un edificio che de-sta in me sempre grande stupore. Il problema è che, con l’avvento del turismo massifica-to, il tutto è diventato più affollato. Preferi-vo vent’anni fa, si stava molto più tranquilli a spasso.

Ringraziamo Alberto Kalach per la sua cortese disponibilità e ricordiamo a tutti gli interessati che anche la Facoltà di architettura della nostra Università sotto la guida del professore … ha or-ganizzato delle conferenze a cui hanno parte-cipato, tra gli altri, anche Eduardo Arroyo, Mar-co Guarnieri,…, siamo attualmente in attesa dei

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ARTE - SCULTURA

AVVISIAMO

10.12.09alessio glavina finalmente si è laureato!complimenti!

se volete raccontare le vostre di storie, fuorionda cerca collaboratori, non esitate a contattarci.

direttoreAlberto Montesano Casillas

vicedirettoreMarco Cernogoraz

collaboratoriAlessio Glavina, Mirjam Tomas, Daniele Melchiori, Maurizio Pozzobon, Debora Pietroni, Giovanna Virone, Daniele Fasolo,Davide Cannarella, Caterina Ratzenback,Laura Rizzo, Simon Marc Zovi, Luca Troian,Alessandra De Zottis, Sara Perovic,Alì Mansour

design e impaginazionelucia pasqualin + amanda knox

stampato daTipografia Adriatica

con il contributo di

REDAZIONE

FOTOGRAFIA

nella pagina seguente

Mario Leko Spalato(Croazia)www.marioleko.com

Tanya PrilukovaNovosibirsk (Russia)www.flickr.com/photos/greenlook

Giovani fotografi esprimono in modo quasi naif il loro quotidiano. Impressionano pellicole con un’incantata semplicità, abbandonando molto spesso anche le tecniche fotografiche basilari. L’importante è raccontare, impressionare ed appassionare. I ritratti anonimi di Mario Leko e Tanya Prilukova

6 7

Il movimento artistico del Neoclassicismo, che è la logica conseguenza sulle arti del pensiero illuminista, rifiuta categoricamente gli eccessi del Barocco, e guarda all’arte dell’antichità classica, specie a quella della Grecia, per imitarla. Attenzione: imitare e non copiare, in quanto copiare significa realizzare un’opera identica al modello originale, mentre imitare vuol dire ispirarsi ad un modello che si cerca di uguagliare. Colui che ha fondato le teorie della nuova arte neoclassica, J. J. Winckelmann (siamo a metà del Settecento), comunicava il desiderio di ritorno all’antichità classica e la volontà di dar vita ad un nuovo classicismo.L’opera di Antonio Canova (Possagno 1757 – Venezia 1822) incarna perfettamente i principi neoclassici di Winckelmann, soprattutto in un’opera come “Amore e Psiche che si abbracciano” (1787-93, marmo, Museo del Louvre Parigi). Qui l’artista, riprendendo la favola narrata ne L’Asino d’oro di Lucio Apuleio, rappresenta Amore che rianima Psiche, svenuta in quanto, contro gli ordini di Venere, aveva aperto un vaso ricevuto nell’Ade da Proserpina. Canova ha fermato nel marmo un attimo che rimane sospeso: la tensione dei due giovani corpi che non si

stringono, ma si sfiorano appena con sottile erotismo. Amore contempla, ricambiato con la stessa dolce intensità, il volto della fanciulla amata, ognuno rapito nella bellezza dell’altro. E’ l’attimo che precede il bacio, un contatto che sta per avvenire e che l’atteggiamento dei corpi preannuncia, ma che di fatto non avverrà mai. Ecco la magia della scultura, e dell’arte in generale: fermare (o cogliere) l’attimo. Chi osserva l’opera solo frontalmente, in 2D, e questo è indubbiamente un difetto della visione in fotografia, coglie soltanto a metà l’intensità di questo abbraccio. Per godere appieno del lirismo di questo gruppo scultoreo bisognerebbe girarci attorno, e fare propri i contatti dei due corpi, risolti nello spazio (ecco anche l’importanza di andare a vedere le opere di persona). Vi è un avvolgimento a X delle due figure, poste su un piedistallo dotato di maniglie appunto per essere girato e per poter fare apprezzare al pubblico canoviano anche i particolari nascosti. I corpi dei due giovani sono levigati, il marmo dà l’impressione, se toccato, di essere liscissimo: questo perché Canova soleva levigare con paglia le sue opere, e infine apporre una delicata cera color rosa per rendere meglio la morbidezza e la levigatezza dell’incarnato.

La nostra redazione non poteva mancare all”Albanian Party 2009”, una grande festa che ha permesso all’Associazione degli Stu-denti Albanesi di Trieste – ASAT di presen-tarsi nella comunità studentesca nei migliori dei modi a suon di musica e balli tradizionali. L’ASAT, nell’occasione dell’indipendenza del-l’Albania (28.11.1912), ha voluto celebrare tale festività con proiezioni fotografiche (di pae-saggi dell’Albania e del Kosovo), musica al-banese (ma non solo), danze e prelibatezze culinarie che avevano tanto il sapore “Shqi-pëtare”. Il party si è tenuto nell’affollatissima sala convegni presso la casa dello studente dell’ERDiSU di Trieste ed ha visto coinvolti studenti albanesi, italiani e di altre naziona-lità sino alle prime ore del mattino.Si ringraziano tutte le associazioni ed istitu-zioni (Erdisu, AEGEE, CAU, Radio in Corso) che hanno collaborato alla realizzazione di questo avento.L’ Albanian Party è stata una buona oppor-tunità per dimostrare come una piccola as-sociazione può realizzare in modo molto di-vertente una festa internazionale. L’auspicio è che eventi come questi vengano realizzati più spesso.ASAT L’obbiettivo di ASAT è quello di pro-muovere e sostenere l’integrazione degli stu-denti albanesi, iscritti nel nostro ateneo, nella città di Trieste e nella comunità studentesca. L’associazione, vuole orientare e facilitare gli studenti albanesi per quanto riguarda gli al-loggi e il diritto allo studio in genere.Essa vuole inoltre incentivare e promuovere la conoscenza e la diffusione della cultura al-banese cercando di rafforzare l’amicizia tra gli studenti di origini albanesi e di altre na-zionalità presenti nel nostro ateneo, attra-verso l’organizzazione di vari eventi culturali (proiezioni di film, reportage fotografici, con-ferenze, organizzazione di gite e tanto altro ancora).

contatti cell +39 328 40 38 126 (Arlind) mail [email protected] – www.units.it/asat skype asat_triestefacebook.com/asat.trieste

BERNINIL’arte del Seicento, in tutta Europa, ha queste caratteristiche: grandiosità, spettacolarità, capacità di penetrare nelle coscienze, deve saper sedurre e commuovere … insomma suscita emozioni e sentimenti. L’arte dello stile Barocco è quindi l’arte dei sentimenti e delle passioni, in pittura e scultura. In architettura il gusto seicentesco si manifesta attraverso la monumentalità delle costruzioni. Con il termine “Barocco” non si intende precisamente uno stile o una corrente artistica, quanto, più complessivamente, lo spirito stesso di un secolo, il Seicento. Il termine assume all’inizio un significato dispregiativo, come sinonimo di esagerato, di bizzarro. La critica moderna ha tolto qualsiasi valenza negativa al termine, tuttavia non è facile modificare una valenza linguistica negativa protrattasi per secoli, ed è per questo motivo che il Barocco risulta ancora poco capito, ed in alcuni casi anche disprezzato.In scultura uno dei massimi esponenti dell’arte barocca è Gian Lorenzo Bernini (Napoli 1598 – Roma 1680). Egli non è solo scultore, ma anche architetto, pittore, scenografo, commediografo e disegnatore. Bisogna sottolineare che il linguaggio barocco fonde le tre arti (architettura, pittura e scultura), immaginandole come una forma espressiva integrata. Ad esempio la scultura si appropria dei giochi espressivi di luce ed

ombra caratteristici della pittura, mentre quest’ultima si carica di giochi illusivi.Bernini dimostra un grande gusto teatrale e una sentita espressività ne “Apollo e Dafne”, gruppo scultoreo in marmo che è datato 1622-24 ed è ora conservato presso la Galleria Borghese di Roma. L’artista rappresenta il momento in cui Apollo sta per raggiungere la bellissima ninfa Dafne, di cui si era perdutamente innamorato. Questa, pur di sottrarsi alla non corrisposta passione del dio, chiede ed ottiene di essere tramutata in una pianta di alloro, che in greco si chiama appunto dafne.Bernini conferisce alle figure un movimento prima di allora sconosciuto alla tradizione scultorea. Si notino al riguardo la gamba sinistra di Apollo, sollevata dal suolo perché è in atto di correre, e il corpo nudo di Dafne, che per sfuggire all’indesiderato abbraccio si inarca in avanti, in un ultimo anelito di libertà. La ninfa urla e si dispera, mentre Apollo la sta già ghermendo con la mano sinistra, e i suoi capelli e le sue mani iniziano a tramutarsi in rami di alloro.Si tratta di una scena di grande drammaticità, che il Bernini rende con sofisticata armonia. Il significato del gruppo scultoreo forse è simbolico: Apollo rincorre la giovinezza, e appena ce l’ha fra le mani, questa sfiorisce, muore.

Gian Lorenzo Bernini Apollo e Dafne 1622-24, Galleria Borghese Roma.

Antonio CanovaAmore e Psiche che si abbracciano1787-93, Museo del Louvre Parigi

SCULTURA BAROCCA

SCULTURA NEOCLASSICA

A CONFRONTO

CANOVA

“Oh, perbacco!” E’ stato questo il primo pensie-ro che la mia mente ha prodotto non appena il mio sguardo ha superato il punto legato all’ulti-ma parola dell’ultima pagina di “Cent’anni di so-litudine”. Un libro magistrale, coinvolgente, do-tato di un ritmo ed una densità tali da incollare il lettore alle pagine che scivolano via veloci co-me sapienti, precise pennellate in una tela defi-nita e, ciononostante, imprevedibile. Non è al-lora difficile comprendere le ragioni che hanno portato ad attribuire a Gabriel Garcia Marquez, nel 1982, il premio Nobel per la Letteratura. La fine del romanzo è peraltro coincisa con la fatua immanenza di una sinistra condizione di provvisorietà, che ha gelato il mio volto in un espressione stupita ed attonita. Non ho persi-no avuto il tempo di riflettere prima che la sen-sazione di finitudine corporale conquistasse i miei ragionamenti e scandisse i rintocchi di un tempo dimenticato tra le mille, inutili occupa-zioni. Non esiste conoscenza che superi la cer-tezza della morte, non esiste inganno maggiore di quello elaborato per allontanarne la spettra-le figura. Come spiega benissimo Marquez, la vita flui-sce come un piccolo rivolo di acqua già putrida, che si distacca dalla grande corrente del mon-do per esaurirsi e seccarsi, a poco a poco, nel-la polvere della fine inesorabile. Lungo questo cammino, non manca la ripetizione di talune esperienze che si avvicendano, ripetendo sem-pre se stesse, in tempi e persone diverse; al pa-ri di una grandissima rappresentazione teatra-le, i cui attori sono persone vive che si muovono senza fili nel mondo visibile, e i cui atti si sus-seguono completandosi reciprocamente in un circolo senza fine apparente, la vita nasconde la sua grandezza nelle luci false di proscenio calcato ed interpretato più volte. L’unica soluzione al declino già segnato appa-re l’Amore, declinato nella sua forma più pura ed autentica: non è sufficiente, infatti, l’amore erotico di Josè Arcadio e Rebeca o quello cieco ed impulsivo tra Aureliano Secondo e Fernanda dal Caprio, perchè entrambi divengono facile preda del tedio e della solitudine, quest’ultima eccellentemente descritta da Marquez come la stilla malefica di una malattia allucinante, in-sopprimibile e distruttiva. Solo l’amore mater-no di Ursula, inflessibile nella dedizione al fo-colare domestico e alla famiglia, e quello per il sesso di Pilar Ternera resistono compassione-volmente alle fortune e le disgrazie del tempo, quasi si opponessero l’uno contro l’altro ed am-bedue contro lo stesso male della solitudine ad indicare due diverse strade per convenire, con più tenerezza e meno rassegnazione, al medesi-mo, inevitabile, epilogo. Il messaggio di “Cent’anni di solitudine” è in-tessuto, dunque, col filo della riflessione esi-stenziale e della vanità umana, del progresso sociale e dell’annichilimento interiore, della vita come dubbia certezza e della morte co-me sicuro azzeramento di ogni realtà, passa-ta e futura. “Cent’anni di solitudine” è certamente il mi-glior libro che abbia mai letto, affiancato, per simile grandezza, a “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera.SimonMark Zovic

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CENT’ANNI DI SOLITUDINEdi GABRIEL MARIA MARQUEZ

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ARTE - SCULTURA

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10.12.09alessio glavina finalmente si è laureato!complimenti!

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direttoreAlberto Montesano Casillas

vicedirettoreMarco Cernogoraz

collaboratoriAlessio Glavina, Mirjam Tomas, Daniele Melchiori, Maurizio Pozzobon, Debora Pietroni, Giovanna Virone, Daniele Fasolo,Davide Cannarella, Caterina Ratzenback,Laura Rizzo, Simon Marc Zovi, Luca Troian,Alessandra De Zottis, Sara Perovic,Alì Mansour

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stampato daTipografia Adriatica

con il contributo di

REDAZIONE

FOTOGRAFIA

nella pagina seguente

Mario Leko Spalato(Croazia)www.marioleko.com

Tanya PrilukovaNovosibirsk (Russia)www.flickr.com/photos/greenlook

Giovani fotografi esprimono in modo quasi naif il loro quotidiano. Impressionano pellicole con un’incantata semplicità, abbandonando molto spesso anche le tecniche fotografiche basilari. L’importante è raccontare, impressionare ed appassionare. I ritratti anonimi di Mario Leko e Tanya Prilukova

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Il movimento artistico del Neoclassicismo, che è la logica conseguenza sulle arti del pensiero illuminista, rifiuta categoricamente gli eccessi del Barocco, e guarda all’arte dell’antichità classica, specie a quella della Grecia, per imitarla. Attenzione: imitare e non copiare, in quanto copiare significa realizzare un’opera identica al modello originale, mentre imitare vuol dire ispirarsi ad un modello che si cerca di uguagliare. Colui che ha fondato le teorie della nuova arte neoclassica, J. J. Winckelmann (siamo a metà del Settecento), comunicava il desiderio di ritorno all’antichità classica e la volontà di dar vita ad un nuovo classicismo.L’opera di Antonio Canova (Possagno 1757 – Venezia 1822) incarna perfettamente i principi neoclassici di Winckelmann, soprattutto in un’opera come “Amore e Psiche che si abbracciano” (1787-93, marmo, Museo del Louvre Parigi). Qui l’artista, riprendendo la favola narrata ne L’Asino d’oro di Lucio Apuleio, rappresenta Amore che rianima Psiche, svenuta in quanto, contro gli ordini di Venere, aveva aperto un vaso ricevuto nell’Ade da Proserpina. Canova ha fermato nel marmo un attimo che rimane sospeso: la tensione dei due giovani corpi che non si

stringono, ma si sfiorano appena con sottile erotismo. Amore contempla, ricambiato con la stessa dolce intensità, il volto della fanciulla amata, ognuno rapito nella bellezza dell’altro. E’ l’attimo che precede il bacio, un contatto che sta per avvenire e che l’atteggiamento dei corpi preannuncia, ma che di fatto non avverrà mai. Ecco la magia della scultura, e dell’arte in generale: fermare (o cogliere) l’attimo. Chi osserva l’opera solo frontalmente, in 2D, e questo è indubbiamente un difetto della visione in fotografia, coglie soltanto a metà l’intensità di questo abbraccio. Per godere appieno del lirismo di questo gruppo scultoreo bisognerebbe girarci attorno, e fare propri i contatti dei due corpi, risolti nello spazio (ecco anche l’importanza di andare a vedere le opere di persona). Vi è un avvolgimento a X delle due figure, poste su un piedistallo dotato di maniglie appunto per essere girato e per poter fare apprezzare al pubblico canoviano anche i particolari nascosti. I corpi dei due giovani sono levigati, il marmo dà l’impressione, se toccato, di essere liscissimo: questo perché Canova soleva levigare con paglia le sue opere, e infine apporre una delicata cera color rosa per rendere meglio la morbidezza e la levigatezza dell’incarnato.

La nostra redazione non poteva mancare all”Albanian Party 2009”, una grande festa che ha permesso all’Associazione degli Stu-denti Albanesi di Trieste – ASAT di presen-tarsi nella comunità studentesca nei migliori dei modi a suon di musica e balli tradizionali. L’ASAT, nell’occasione dell’indipendenza del-l’Albania (28.11.1912), ha voluto celebrare tale festività con proiezioni fotografiche (di pae-saggi dell’Albania e del Kosovo), musica al-banese (ma non solo), danze e prelibatezze culinarie che avevano tanto il sapore “Shqi-pëtare”. Il party si è tenuto nell’affollatissima sala convegni presso la casa dello studente dell’ERDiSU di Trieste ed ha visto coinvolti studenti albanesi, italiani e di altre naziona-lità sino alle prime ore del mattino.Si ringraziano tutte le associazioni ed istitu-zioni (Erdisu, AEGEE, CAU, Radio in Corso) che hanno collaborato alla realizzazione di questo avento.L’ Albanian Party è stata una buona oppor-tunità per dimostrare come una piccola as-sociazione può realizzare in modo molto di-vertente una festa internazionale. L’auspicio è che eventi come questi vengano realizzati più spesso.ASAT L’obbiettivo di ASAT è quello di pro-muovere e sostenere l’integrazione degli stu-denti albanesi, iscritti nel nostro ateneo, nella città di Trieste e nella comunità studentesca. L’associazione, vuole orientare e facilitare gli studenti albanesi per quanto riguarda gli al-loggi e il diritto allo studio in genere.Essa vuole inoltre incentivare e promuovere la conoscenza e la diffusione della cultura al-banese cercando di rafforzare l’amicizia tra gli studenti di origini albanesi e di altre na-zionalità presenti nel nostro ateneo, attra-verso l’organizzazione di vari eventi culturali (proiezioni di film, reportage fotografici, con-ferenze, organizzazione di gite e tanto altro ancora).

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BERNINIL’arte del Seicento, in tutta Europa, ha queste caratteristiche: grandiosità, spettacolarità, capacità di penetrare nelle coscienze, deve saper sedurre e commuovere … insomma suscita emozioni e sentimenti. L’arte dello stile Barocco è quindi l’arte dei sentimenti e delle passioni, in pittura e scultura. In architettura il gusto seicentesco si manifesta attraverso la monumentalità delle costruzioni. Con il termine “Barocco” non si intende precisamente uno stile o una corrente artistica, quanto, più complessivamente, lo spirito stesso di un secolo, il Seicento. Il termine assume all’inizio un significato dispregiativo, come sinonimo di esagerato, di bizzarro. La critica moderna ha tolto qualsiasi valenza negativa al termine, tuttavia non è facile modificare una valenza linguistica negativa protrattasi per secoli, ed è per questo motivo che il Barocco risulta ancora poco capito, ed in alcuni casi anche disprezzato.In scultura uno dei massimi esponenti dell’arte barocca è Gian Lorenzo Bernini (Napoli 1598 – Roma 1680). Egli non è solo scultore, ma anche architetto, pittore, scenografo, commediografo e disegnatore. Bisogna sottolineare che il linguaggio barocco fonde le tre arti (architettura, pittura e scultura), immaginandole come una forma espressiva integrata. Ad esempio la scultura si appropria dei giochi espressivi di luce ed

ombra caratteristici della pittura, mentre quest’ultima si carica di giochi illusivi.Bernini dimostra un grande gusto teatrale e una sentita espressività ne “Apollo e Dafne”, gruppo scultoreo in marmo che è datato 1622-24 ed è ora conservato presso la Galleria Borghese di Roma. L’artista rappresenta il momento in cui Apollo sta per raggiungere la bellissima ninfa Dafne, di cui si era perdutamente innamorato. Questa, pur di sottrarsi alla non corrisposta passione del dio, chiede ed ottiene di essere tramutata in una pianta di alloro, che in greco si chiama appunto dafne.Bernini conferisce alle figure un movimento prima di allora sconosciuto alla tradizione scultorea. Si notino al riguardo la gamba sinistra di Apollo, sollevata dal suolo perché è in atto di correre, e il corpo nudo di Dafne, che per sfuggire all’indesiderato abbraccio si inarca in avanti, in un ultimo anelito di libertà. La ninfa urla e si dispera, mentre Apollo la sta già ghermendo con la mano sinistra, e i suoi capelli e le sue mani iniziano a tramutarsi in rami di alloro.Si tratta di una scena di grande drammaticità, che il Bernini rende con sofisticata armonia. Il significato del gruppo scultoreo forse è simbolico: Apollo rincorre la giovinezza, e appena ce l’ha fra le mani, questa sfiorisce, muore.

Gian Lorenzo Bernini Apollo e Dafne 1622-24, Galleria Borghese Roma.

Antonio CanovaAmore e Psiche che si abbracciano1787-93, Museo del Louvre Parigi

SCULTURA BAROCCA

SCULTURA NEOCLASSICA

A CONFRONTO

CANOVA

“Oh, perbacco!” E’ stato questo il primo pensie-ro che la mia mente ha prodotto non appena il mio sguardo ha superato il punto legato all’ulti-ma parola dell’ultima pagina di “Cent’anni di so-litudine”. Un libro magistrale, coinvolgente, do-tato di un ritmo ed una densità tali da incollare il lettore alle pagine che scivolano via veloci co-me sapienti, precise pennellate in una tela defi-nita e, ciononostante, imprevedibile. Non è al-lora difficile comprendere le ragioni che hanno portato ad attribuire a Gabriel Garcia Marquez, nel 1982, il premio Nobel per la Letteratura. La fine del romanzo è peraltro coincisa con la fatua immanenza di una sinistra condizione di provvisorietà, che ha gelato il mio volto in un espressione stupita ed attonita. Non ho persi-no avuto il tempo di riflettere prima che la sen-sazione di finitudine corporale conquistasse i miei ragionamenti e scandisse i rintocchi di un tempo dimenticato tra le mille, inutili occupa-zioni. Non esiste conoscenza che superi la cer-tezza della morte, non esiste inganno maggiore di quello elaborato per allontanarne la spettra-le figura. Come spiega benissimo Marquez, la vita flui-sce come un piccolo rivolo di acqua già putrida, che si distacca dalla grande corrente del mon-do per esaurirsi e seccarsi, a poco a poco, nel-la polvere della fine inesorabile. Lungo questo cammino, non manca la ripetizione di talune esperienze che si avvicendano, ripetendo sem-pre se stesse, in tempi e persone diverse; al pa-ri di una grandissima rappresentazione teatra-le, i cui attori sono persone vive che si muovono senza fili nel mondo visibile, e i cui atti si sus-seguono completandosi reciprocamente in un circolo senza fine apparente, la vita nasconde la sua grandezza nelle luci false di proscenio calcato ed interpretato più volte. L’unica soluzione al declino già segnato appa-re l’Amore, declinato nella sua forma più pura ed autentica: non è sufficiente, infatti, l’amore erotico di Josè Arcadio e Rebeca o quello cieco ed impulsivo tra Aureliano Secondo e Fernanda dal Caprio, perchè entrambi divengono facile preda del tedio e della solitudine, quest’ultima eccellentemente descritta da Marquez come la stilla malefica di una malattia allucinante, in-sopprimibile e distruttiva. Solo l’amore mater-no di Ursula, inflessibile nella dedizione al fo-colare domestico e alla famiglia, e quello per il sesso di Pilar Ternera resistono compassione-volmente alle fortune e le disgrazie del tempo, quasi si opponessero l’uno contro l’altro ed am-bedue contro lo stesso male della solitudine ad indicare due diverse strade per convenire, con più tenerezza e meno rassegnazione, al medesi-mo, inevitabile, epilogo. Il messaggio di “Cent’anni di solitudine” è in-tessuto, dunque, col filo della riflessione esi-stenziale e della vanità umana, del progresso sociale e dell’annichilimento interiore, della vita come dubbia certezza e della morte co-me sicuro azzeramento di ogni realtà, passa-ta e futura. “Cent’anni di solitudine” è certamente il mi-glior libro che abbia mai letto, affiancato, per simile grandezza, a “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera.SimonMark Zovic

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CENT’ANNI DI SOLITUDINEdi GABRIEL MARIA MARQUEZ

Page 8: Fuorionda dicembre - 2009

FOTOGRAFIA – ANONIMI

1 COPERTINA1 SOMMARIO2 ATTUALITÀ3 BERLAYMONT BUILDING4 ARCHITETTURA5 GIAPPONE CHIAMA TRIESTE6 ARTE – SCULTURA7 ASAT7 RECENSIONE DEL LIBRO7 FOTOGRAFIA DIDASCALIA7 AVVISIAMO7 REDAZIONE8 FOTOGRAFIA8 QUARTA DI COPERTINA

IL GIORNALINO DEGLI STUDENTI DICEMBRE 2009

FUORIONDA

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