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Giolitti, giolittismo, antigiolittismo
Come abbiamo detto la scorsa volta, con la caduta di Crispi le leve di comando
passano al marchese di Rudinì, il quale mette in campo una alternativa che porterà il
sistema ad avvitarsi su se stetto, incapace di dare una risposta alle nuove esigenze di
un tessuto sociale che non è più quello dei primi decenni post-unitari. Abbiamo visto
come quello di Crispi era stato anche un tentativo, seppure contraddittorio, di dare un
nuovo slancio all'Italia, soprattutto da un punto di vista istituzionale, ma anche un
tentativo di portare avanti una politica di sviluppo in cui gli interessi meridionali non
fossero piegati alle esigenze del settentrione d'Italia. Di Rudinì inaugurò una politica
prudente di chiusura dell'avventurismo coloniale e di riavvicinamento alla Francia
con la quale fu firmato nel 1898 un nuovo trattato commerciale, sebbene non si
fuoriuscì dallo schema protezionistico. Allo stesso modo non riuscì modificato lo
schema triplicista, sebbene è da questi anni che la nostra diplomazia tenta di
ammorbidirlo, ne vuole dare una interpretazione più elastica ritenendo ciò più
confacente alle nuove esigenze.
É con tutta evidenza un periodo in cui il sistema politico liberale vive una crisi,
periodo caratterizzato da un ampio dibattito su temi di natura istituzionale. Le
istituzioni si sentono in qualche modo assediate, è vero che la legislazione
antisocialista crspina viene abrogata, ma si continua a temere per la crescita delle
forze che a quel sistema si opponevano da sempre, come abbiamo visto, cattolici da
una parte e socialisti dall'altra. La Chiesa ufficiale, nonostante la sempre presente
linea conciliatorista, aveva irrigidito le proprie posizioni con Crispi al potere sebbene
nel 1891 era stata emanata la Rerum Novarum da parte di Leone XIII, che sanciva un
maggiore impegno del mondo cattolico in capo economico e sociale, definendo la
posizione della Chiesa sulle questiono che lo sviluppo economico aveva posto sul
terreno e che era senza dubbio, come già abbiamo visto, il tentativo di competere con
le forze crescenti del socialismo italiano. É in questa fase che avviene un processo di
organizzazione di leghe sindacali, società cooperative, casse rurali per un maggior
radicamento del fattore cattolico nel mondo del lavoro.
Ma è vero che le istituzioni vivono una situazione di “assedio” e per tuti gli anni
Ottanta e Novanta la teoria politica si era interrogata sulla necessità di preservare il
sistema, addirittura di blindarlo. Il Torniamo allo Statuto di Sonnino, pubblicato nel
1896 è indicativo di questo dibattito. Cosa era? Era un articolo in cui proponeva di
restituire al re quel ruolo centrale che la lettera dello Statuto gli aveva assegnato, cioè
in sostanza un nuovo arresto al processo di parlamentarizzazione che aveva messo in
atto Cavour e che guardava al modello tedesco del cancellierato, che infatti si era
mostrato efficiente per reprimere la SPD.
Siamo in anni in cui vengono messe a punto anche teorie antiparlamentari e il
problema del parlamentarismo, come degenerazione del sistema, viene affrontato
attraverso prospettive anche differenti da quelle dei partiti, si pensi alle teorie di
Mosca e di Pareto, che spostano il punto di osservazione dal partito alla classe
politica. Nella sua “Teorica dei governi” Mosca affermava che la corruzione non era
un effetto patologico del sistema parlamentare, determinato da una anormale
ingerenza dei partiti nella Pubblica amministrazione (Minghetti), ma proprio un
aspetto fisiologico del sistema parlamentare. La Camera era il luogo di una
rappresentanza fittizia del Paese, perchè escludeva alcune forze vive (comprese
quelle popolari). Per cui il sistema parlamentare secondo Mosca era il peggior
sistema di reclutamento della classe olitica e una sorta di paravento dietro il quale
operavano interessi settoriali, di gruppo, che potevano essere anche politicamente
irresponsabili. Quindi Mosca non criticava il sistema parlamentare, ma addirittura ne
metteva in questione l'esistenza, anche se successivamente Mosca rivide alcuni
giudizi troppo radicali e con l'avvento del fascismo divenne poi un suo difensore. Di
Domenico Zanichelli abbiamo già parlato, ma ricordiamo come più o meno nello
stesso periodo egli si poneva in una posizione contraria a coloro che imputavano tutte
le degenerazioni del sistema alla mancanza di partiti strutturati e regolati, come
elementi di razionalizzazione della vita politica. Zanichelli infatti preferiva la
situazione che in Italia si era venuta a creare a partire dall'unificazione, laddove la
paura dei partiti “ordinati” aveva impedito la loro formazione. Queste forze infatti
avevano stentato a trasformarsi in forti e organizzati elementi di distruzione del
sistema.
Furono soltanto alcune delle soluzioni proposte, fatto sta che tutti i limiti vennero alla
luce in occasione appunto dei moti di fine secolo, quando non ci fu alcuna risposta
adeguata ed al passo con i tempi alle richieste provenienti dal basso: l'unica risposta
fu una politica reazionaria che ebbe esiti tragici, ricordando come Pelloux, esponente
della sinistra, fu colui che, dopo la caduta di Di Rudinì in seguito all'ondata di
repressione della protesta che percorse l'Italia, portò all'approvazione della Camera
misure drastiche di contenimento delle opposizioni, soprattutto sicialiste, con
strumenti giuridici permanenti di natura repressiva, contro le associazioni considerate
sovversive e di controllo preventivo della stampa.
E questo fu percepito dalla classe politica più liberale come un attacco alle libertà
statutarie, spingendo leader come Giolitti e Zanardelli all'opposizione e favorendo la
convergenza su posizioni di avversione alla politica di Pelloux di componenti del
mondo liberale e di quello socialista.
In questo senso, la svolta liberale rappresentata dal Governo Zanardelli-Giolitti di
inizio secolo costituisce una strategia diversa: il rinnovamento sarebbe stato affidato
ad un disegno riformistico diretto ad inglobare le ali moderate dell'opposizione
socialista e cattolica.
Ma quello che dobbiamo chiederci è, al momento dell'ascesa di Giolitti al potere, a
che punto è la parlamentarizzazione del sistema politico italiano. É una domanda alla
quale possiamo rispondere guardando a quello che successe proprio dopo il convulso
periodo di fine secolo, quando Vittorio Emanule III, pur in presenza di una
maggioranza di destra, in coerenza con il suo proclama alla Nazione in occasione
della morte del padre - Umberto primo era stato ucciso a Monza nel luglio del 1900
per mano dell'anarchico Gaetano Bresci – proclama nel quale aveva appunto preso
l'impegno di inaugurare un nuovo corso liberale, non dette l'incarico a Sonnino, ma al
capo della sinistra democratica che era erede diretto della sinistra storica, e cioè
Zanardelli. Vari commentatori coevi avevano notato questa discrepanza, nel senso che
correttezza costituzionale avrebbe suggerito un incarico a destra, perchè quella era la
maggioranza uscita dalle urne. Questo è un fatto indicativo dell'influenza che la
corona continua ad esercitare nei confronti dei governi: ad esempio l'opera di
fiancheggiamento della corona nei confronti di Giolitti è palese. La scelta di Giolitti
dopo Zanardelli fu chiaramente politica e andava in direzione di un consolidamento
del nuovo corso liberale. In questo senso, Giolitti era il vero continuatore ideale della
politica di Zanardelli. Si trattò di scelte che formalmente non sono affatto rispettose
delle maggioranze parlamentari, ma che andavano incontro alle aspirazioni
dell'opinione pubblica (Mussolini) e che nello stesso tempo erano funzionali “a
corte”, erano gradite al re e rispondevano a determinati disegni di casa Savoia. Nella
nomina di Zanardelli, ad esempio, più di un osservatore aveva visto un gesto
simbolico di svolta anche in politica estera, di maggiore distanza nei confronti della
Triplice Alleanza, perchè Zanardelli ricordava con la sua esperienza politica troppo
da vicino il Risorgimento e in particolare la lotta contro l'Austria. Giolitti era
particolarmente gradito a corte perché piemontese, proveniente da quella “provincia”
di Cuneo che aveva storicamente fornito gran parte dei quadri della burocrazia
savoiarda. Perchè burocrate egli stesso, dai modi sobri, borghesi e rispondente al
disegno di Vittorio Emanuele III di maggiore colleganza con i ceti medi. La corona
condizionava ancora fortemente il governo per ciò che riguardava il mantenimento
delle spese militari e la continuità della politica estera con la nomina di ministri tutti
graditi a corte, ciò che in qualche modo bisogna dire che limitò il carattere della
svolta liberale. Pensiamo per esempio alla nomina di Tittoni a ministro degli esteri,
che era un nome molto gradito a Vittorio Emanuele III, che aveva avuto modo di
conoscere Tittoni in qualità di prefetto di Napoli. Questa fiducia di Vittorio Emanuele
III nei confronti di Giolitti non venne mai meno, sino alla crisi dell'intervento.
Dunque il governo Zanardelli-Giolitti (con Giolitti ministro degli interni) si forma nel
1901, mentre Giolitti forma il suo secondo governo come presidente del consiglio
nell'ottobre 1903. Due parole su Giolitti: egli si era laureato a Torino in
Giurisprudenza in quella che fu la fucina del diritto nazionale. Di famiglia borghese
del cuneese, il padre era un cancelliere del Tribunale e la madre apparteneva alla
piccola nobiltà di origine francese, aveva avuto una rapida carriera nella magistratura
finanziaria. Nel 1870 era stato capo-sezione con Sella al ministro delle Finanze, poi
Segretario della corte dei conti e poi Consigliere di Stato, cariche e posizioni grazie
alle quali aveva acquisito una grande conoscenza della macchina dello stato,
soprattutto in materia finanziaria. La sua carriera politica come deputato inizia con la
XV legislatura, quella della nuova legge elettorale allargata e bisogna dire che già nel
suo programma di deputato veniva riconosciuto il problema dell'apertura alle classi
popolari. Da un punto di vista di schieramento parlamentare, inizialmente lo troviamo
tra i sostenitori di Depretis, per poi passare ala sua opposizione in contrasto con la
“finanza allegra” del ministro Magliani. Cioè Giolitti pensava che una rigorosa
politica di bilancio avrebbe permeso di realizzare una più adeguata e moderna
politica sociale. Questa opposizione lo porta a convergere con lo schieramento
crispino, un passaggio importante perxhè gli fa guadagnare degli amici sia nella
sinistra anti-trasformista (Crispi), sia nella destra, dove veniva apprezzato il suo
interessamento per una politica di rigore di bilancio. Il suo primo incarico
ministeriale arriva infatti con Crispi quando avrà l'incarico al Tesoro nel 1889. Il
solito attaccamento al rigore del bilancio lo fa progressivamente allontanare dalle
posizioni crispine e da qui il suo appoggio a Di Rudinì in funzione anti-crispina. Il
suo primo governo (maggio 1892-dicmbre 1893) viene investito dallo scandalo del
Banco di Roma, dal quale comunque Giolitti uscì pulito, nel senso che fu scagionato
da ogni accusa di aver favorito il governatore Tanlongo.
Quando dunque arriva al suo incarico con Zanardelli e poi al suo primo governo,
Giolitti ha fama di democratico, di essere uomo cioè favorevole al dialogho con le
forze popolari, socialisti da una parte e cattolici dall'altra, e interprete insenso
progressista del sistema parlamentare. In che senso? Nel senso che in età giolittiana è
vero che ci sarà una evoluzione verso una forma parlamentare del sistema. Ora, la
nascita di un governo era determinata da un decreto di nomina, anche se esso non
poteva vivere senza contare sulla fiducia delle camere. Prima che si stabilisse una
prassi di richiesta esplicita della fiducia alle camere, si trattava di una fiducia
implicita, che risultava indirettamente dal voto popolare ad inizio legislatura e
dall'approvazione dell'indirizzo di risposta al discorso della corona oppure
dall'assenza di un voto si sfiducia su un importante provvedimento del governo. La
richiesta di un voto di fiducia non era prevista dallo Statuto: una prassi in tal senso si
ebbe solo a partire dal 1903, con il II governo Giolitti, che può essere assunto a
momento che segna il passaggio pieno da un governo costituzionale ad un governo
parlamentare. Già nel 1892, in quella parentesi “crispina” in occasione del suo primo
governo, Giolitti aveva chiesto ed ottenuto una fiducia parlamentare, ma fu un caso
isolato. Una vera prassi si stabilisce soltanto dopo la crisi di fine secolo, quindi a
partire dal II governo Giolitti si ebbe sempre un voto di fiducia, sino al I governo
Mussolini, che, va ricordato, si costituì su un voto di fiducia del Parlamento.
Dal punto di vista del sistema dei partiti, il sistema giolittiano può essere definito
come un bipolarismo a geometria variabile. Giolitti è il primo presidente del consiglio
a non portare sulle spalle il peso della rivoluzione risorgimentale, è erede di quella
tradizione, ma ne è anagraficamente escluso (nato nel 1842). Nel suo approccio
iniziale, Giolitti tra l'altro mosse anch'egli dall'assunto della “maturità dei tempi”, per
cui il paese fu giudicato pronto quasi automaticamente per compiere il grande balzo
da un sistema di repressione e contenimento della questione sociale ad un sistema di
sua libera esplicazione. Ciò che in realtà corrispondeva ad una sorte di allucinazione,
come disse Giustino Fortunato. Giolitti riteneva che il problema del governo fosse
soltanto quello del controllo del livello profondo dell'ordine pubblico, per il resto
l'equilibrio andava cercato lasciando libertà allo scontro tra le varie istanze sociali, in
un'ottica autenticamente liberale. Si trattava di una fiducia astratta nell'evoluzione
naturale delle cose, ma le conseguenze negative di questo atteggiamento non furono
poche, sebbene non fossero poche nemmeno quelle positive. Da un lato, questa
libertà di movimento significò una grande emancipazione delle classi lavoratrici, pur
all'interno di un sistema di controllo formale di esse, dall'altro questo improvviso
protagonismo sgomentò la borghesia d'ordine, che fu spinta verso posizioni
conservatrici. Secondo molti storici il 1904, al tempo delle agitazioni socialiste, segna
il corto circuito della politica giolittiana, in cui essa cioè viene messa di fronte alla
realtà delle cose. Il Psi infatti era lungi dall'essere quello strumento di incanalamento
delle turbolenze sociali che Giolitti si era immaginato: al congresso del Psi di Imola
del 1902 vi è la constatazione formale dell'esistenza ormai di due anime contrapposte,
una riformista, una socialista rivoluzionaria, che al congresso di Bologna del 1904
sarà capace di mettere in crisi l'egemonia socialista turatiana (al congresso i riformisti
vanno in minoranza). In quell'occasione i socialisti furono incapaci di scegliere
veramente ed a prevalere fu una corrente di mezzo, ben rappresentata da Enrico Ferri,
che costituiva la prova più evidente di come il partito non riuscisse a qualificarsi “nè
come rivoluzionario, né come evoluzionista”. Nel dibattito entrarono poi anche i
sindacalisti-rivoluzionari, cioè quella componente di intellettuali che ritenevano le
lotte del lavoro come l'asse portante della politica e vedevano nello sciopero generale
lo strumento di palingenesi capace di rompere l'equilibrio ingiusto del capitalismo.
Ma è indubbio che le agitazioni gonfiano le file dell'estrema sinistra, prende piede
l'idea che con un solo sciopero si riesce ad ottenere più che con una intera legislatura.
All'interno del mondo socialista e democratico, ma anche e soprattutto in quello
liberale, si apre tra l'altro un'altra questione relativa alle drammatiche condizioni del
meridione d'Italia, nei confronti del quale prevale un atteggiamento di sfiducia da
parte di Giolitti tendenzialmente assecondato dai socialisti. Negli ambienti di governo
prevale quella idea di cui abbiamo parlato a proposito del momento unitario e cioè la
convinzione che sia assente una classe dirigente locale degna di questo nome, ciò che
giustifica l'uso della forza per la repressione delle agitazioni sociali (Puglia). Ma vi è
anche altro: una volta al governo Giolitti inaugura una prassi differenziata per quanto
riguarda i rapporti con il mondo operaio e la gestione dell’ordine pubblico. Egli farà,
infatti, una distinzione tra gli scioperi nell’industria ed anche dei contadini
organizzati del Nord e le agitazioni agrarie in Puglia ed in Sicilia, che davano luogo a
tumulti spesso sediziosi. Nei confronti dei primi, egli riconobbe il diritto di astenersi
dal lavoro per sostenere le legittime richieste di miglioramenti salariali e degli orari di
lavoro, salvo la salvaguardia di quello che egli considerava “diritto al lavoro” di
coloro che non intendevano associarsi a questa forma di lotta ed intendevano lavorare
(le Camere del Lavoro e le Leghe invece consideravano il lavoro durante gli scioperi
crumiraggio). G. , tuttavia, non intendeva consentire lo sciopero nei servizi pubblici e
lo sciopero generale perché aveva, secondo lui, carattere politico.
Da parte sua il Partito socialista riteneva invece prioritariamente di rafforzarsi là dove
il terreno di reclutamento è già stato dissodato, prima di procedere alla
politicizzazione di terreni vergini che rischiano di assorbire ogni energia del
movimento. Si pensava cioè che una volta cresciuto il movimento al nord questo
avrebbe assolto ad una funzione di traino anche nei confronti del sud, ma così non fu
ed anzi si generò una sorta di aristocrazia operaia socialista di natura prevalentemente
settentrionale, poco attenta ai problemi del Mezzogiorno. Se ne accorse Salvemini
che abbandona il partito in questi anni per iniziare un percorso molto critico nei
confronti sia di Giolitti che del PSI.
Momento topico abbiamo detto è il 1904, in occasione dello sciopero generale,
quando Giolitti ricorre a quello che diventerà uno strumento particolare per stabilire il
suo potere: lo scioglimento delle camere e le elezioni anticipate, laddove il governo
poteva ricorrere alla sua ragnatela di controllo dei collegi elettorali. In conseguenza
dell'inasprimento dello scontro sociale nel 1904, i cattolici sono in qualche caso
autorizzati da Pio X a rompere il non expedit per impedire vittorie socialiste, ciò che
significò un incremento della partecipazione elettorale ed una larga vittoria del fronte
elettorale. Questo primo apparire dei “cattolici deputati” - come vennero chiamati, e
non deputati cattolici – era il segno evidente di quanto essi fossero ormai pienamente
entrati nel sistema politico del paese.
Ma non ci sono soltanto neri e rossi, per così dire, nel senso che Giolitti si trova a
governare una intera società in crescita che impone al governo di allargare le basi del
consenso ai tanti ceti medi interessati allo sviluppo ed alle riforme. La
politicizzazione della classe media è uno dei fattori più evidenti di questi anni, al
declino inesorabile della piccola borghesia rurale corrisponde una dilatazione dei
settori legati all'industria in espansione e al pubblico impiego, che cresce a dismisura
anche in relazione alla crescita dello Stato, sempre più attivo nel processo economico.
Da un punto di vista politico questa nuova media borghesia trova i suoi punti di
riferimento ideali e politici nel liberalismo, nel cattolicesimo, nel radicalismo e
persino nel socialismo riformista. I ceti medi che ripongono la loro fiducia nel Partito
Radicale e nel socialismo riformista rappresentano le fasce più avanzate e
progressiste, interessate alla costruzione di una società moderna capace di offrire pari
opportunità a tutti i cittadini. Attenzione: non si tratta di una conversione al
marxismo, perché è il socialismo positivista, gradualista, evoluzionista a conquistare
questa borghesia del Nord, ma anche del Sud, soprattutto quella più urbana. Questo
spiega la crescita elettorale poderosa del PSI dal 1897 al 1900, una crescita che
tuttavia si arresta in occasione delle elezioni del 1904 e non casualmente, visto che
l'ascesa delle correnti estreme che mettono in minoranza Turati allontana questo ceti
piccolo e medio borghesi dal Partito socialista. La propaganda socialista
rivoluzionaria che rifiuta ogni mediazione con lo stato borghese capitalistico, una
propaganda che è anche antinazionale e antipatriottica non piace alla borghesia
progressista che invece crede nello sviluppo del sistema. C'è un tentativo in questi
anni di dare una risposta politica alla domanda proveniente da questi ceti, che si
concretizza con la nascita dei Blocchi popolari, i cartelli tra radicali, socialisti e
repubblicani che conseguono anche una buona affermazione elettorale nelle elezioni
amministrative di alcune grandi città. Costituisce cioè il tentativo di costruzione di un
partito democratico, che però fallisce, a dimostrazione di un indiscutibile ritardo del
paese e del sistema politico italiano ad avviarsi sui binari della democrazia. I motivi
di questo fallimento sono da ricercarsi intanto, lo abbiamo detto, nella messa in
minoranza delle correnti riformiste nel PSI, poi nella mancanza da parte di radicali e
repubblicani, che sono gli eredi della tradizione mazziniana e garibaldina, di un
centro decisionale e di una struttura organizzativa a livello nazionale (per i
repubblicani esisteva, ma aveva carattere “regionale”). Nel 1904 nasce il Partito
radicale, ma il problema non viene risolto: i radicali vengono inseriti nel sistema
giolittiano, ma ciò non rinvigorisce il partito, gli dà soltanto maggior consistenza
elettorale, ma non lo rafforza perchè i radicali vengono risucchiati dalla prassi
giolittiana, trasformistica o in ogni caso incapace di influenzaare il governo verso una
linea più rispondente alle esigenze del Paese, con il risultato di indebolirsi e
soprattutto di offuscare la propria immagine agli occhi dei potenziali elettori, e cioè i
ceti medi, tra i quali cominciano ad affiorare, già alla metà del primo decennio del
Novecento, inquietudini e sofferenze di un certo rilievo. La storiografia parla di un
“malessere borghese” che ha origine in questi anni e l'assenza di un partito
democratico capace di convogliarne la domanda politica in direzione delle istituzioni
lascerà alla deriva istanze, richieste, suggestioni che non nascono con un marchio
politico predeterminato.
L'espressione più netta del giolittismo si ha nel lungo ministero che va dal 1906 al
1909. Secondo i detrattori di Giolitti, si trattò di un riformismo senza riforme, è vero
però che ci furono dei miglioramenti legislativi, come la conversione del debito
pubblico nel 1906, che però non rimanevano legati ad un disegno riformatore di
grande respiro, il tutto tra l'altro collocato in un quadro sociale che non era per niente
tranquillizzante.
A livello di sistema politico, con il progressivo affermarsi della presenza socialista e
con la sempre più ampia partecipazione dei cattolici alla lotta elettorale si produce
una spinta per una convergenza al centro di tutti gli elementi liberali, quasi come se
fosse una scelta obbligata. Giolitti, abbiamo detto, non ostacola direttamente lo
sviluppo del movimento socialista, ma in qualche modo cerca di controllare gli esiti
di questo sviluppo, cointeressando le organizzazioni operaie alla gestione della cosa
pubblica. In questo senso, il suffragio universale, che viene concesso nel 1912 e
sperimentato per la prima volta alle elezioni politiche del 1913, apparve a Giolitti
come qualcosa di necessario, al fine di dare una soluzione adeguata alla questione
sociale e di integrare il movimento operaio nello stato. Giolitti pensava che con il
suffragio universale lo stato avrebbe trovato una maggiore stabilità, perché le masse
sarebbero state guadagnate ad una politica riformista che le avrebbe immunizzate
dalle contaminazioni anarcoidi e rivoluzionarie. Lo sguardo di Giolitti ai socialisti, i
suoi tentativi di coinvolgerli nelle compagini di governo rispondevano proprio a
questo “sentire”. Poi le cose andarono diversamente, tanto che Giolitti si trovò alleato
ai cattolici. I socialisti infatti votarono il programma di governo che prevedeva
l'allargamento del suffragio elettorale e la creazione del monopolio delle assicurazioni
sulla vita, ma non vollero partecipare al governo. Gi eventi della guerra di Libia
radicalizzarono poi le posizioni interne al partito socialista e contribuirono alla
conquista della maggioranza da parte dei massimalisti guidati da Serrati, Lazzari e
Mussolini nel 1912.
Può essere utile dare uno sguardo ai risultati elettorali di età giolittiana che danno
un'idea della mobilità del sistema: nel 1904 le elezioni si tengono in un clima di
accesa tensione politica: si ha un forte incremento di partecipazione elettorale
(62,7%) e una chiara vittoria liberale: 339 seggi tra conservatori e democratici
ministeriali, 3 cattolici (cattolici-deputati, senza alcuna copertura istituzionale), 37
radicali, 24 repubblicani, 29 socialisti. Alle elezioni del 1909 ci fu una conferma della
crescita delle ali estreme del sistema a danno del centro del sistema, che veniva
corroso: una forte partecipazione, che si assesta al 65%, a dimostrazione di un clima
di mobilitazione politico-sociale; i liberali passano da 407 a 372 seggi, con perdita sia
dei ministeriali, sia della opposizione costituzionale, i cattolici hanno 18 deputati che
fanno capo all'Unione elettorale cattolica, che è un coordinamento di natura elettorale
di area, i socialisti crescono da 26 a 41 seggi; i repubblicani da 19 a 23 seggi; i
radicali da 40 a 48 seggi, sia ministeriali che di opposizione. Alle elezioni del 1913,
che si svolgono a suffragio universale maschile, con un aumento del corpo elettorale
di quattro milioni e mezzo di unità, i liberali escono sconfitti passando da 370 a 307
deputati, di cui 21 facevano parte del vecchio centro sonniniano, 30 del partito
costituzionale democratico (sinistra liberale) e 6 erano nazionalisti, gravitanti
soprattutto attorno a Salandra; i repubblicani scesero da 23 a 17 deputati; i socialisti
crescono da 26 a 52 membri; i riformisti del PSRI da 15 a 20; poi entrarono 7
sindacalisti o socialisti indipendenti; i radicali passano da 51 a 73 deputati, i cattolici
da 19 a 29 deputati. Un quadro cambiato rispetto alle elezioni del 1904, nel senso di
una maggiore scomposizione delle forze, di un rafforzamento è vero delle ali estreme,
ma ancora di una sostanziale tenuta delle forze liberali. L'area governativa è ben salda
e sarà questa maggioranza liberale, radicale, socialista-riformista a gestire il conflitto
mondiale, dalla quale l'Italia uscì vittoriosa.
Certo questi risultati elettorali danno il senso di un profondo cambiamento dal punto
di vista politico, ma non bisogna dimenticare che Giolitti non dovette affrontare
soltanto le trasformazioni di una società politica che vede l'affermarsi dei partiti
popolari e del movimento operaio, ma anche di nuovi attori economici e sociali legati
ad uno sviluppo impetuoso, il primo, del sistema capitalistico italiano. Per realizzare
il suo programma di inserimento di un ventaglio di forze sociali più ampio di quello
tradizionale nel sistema politico Giolitti ricorre ad una continua mediazione, arte di
cui si mostra abilissimo, forse troppo abile perché ogni strumento di persuasione
viene considerato lecito, pur di giungere ad un compromesso. É indubbio che ci sia
una perdita di trasparenza e di visibilità nei processi di composizione dei conflitti in
Parlamento, si smarrisce il filo dell'identità politica della maggioranza che Giolitti
riesce a costruirsi, una maggioranza costruita smantellando progressivamente il fronte
dei conservatori liberali, che era ancora fortissimo al tempo della sua prima nomina a
capo del governo. Giolitti è capace di volgere a suo favore gli equilibri parlamentari
dotandosi di una maggioranza di fedelissimi che gli permise di governare per più di
un decennio il paese, un record di stabilità politica nella storia italiana. Una politica
di compromesso permanente sia a destra che a sinistra con effetti che sono
sicuramente positivi per il paese, che vive una fase di vistoso sviluppo senza grandi
traumi, meno positivi per il sistema politico che non si incammina sui binari di una
moderna democrazia, ma alla fine rimane ingabbiato. Giolitti insomma cercò di
assimilare quanto di nuovo proveniva dalla società in trasformazione senza
squilibrare tuttavia il sistema: rossi e neri, nuovi e vecchi interessi economici in
qualche modo divisero l'azione di Giolitti, che cercò di operare ispirandosi al buon
senso, pensando appunto che l'azione di un governo dovesse essere come quella di un
sarto che ha da vestire un gobbo e che “se non tiene conto della gobba non riesce”.
Non possiamo concludere il discorso su Giolitti senza far riferimento al giudizio
ambivalente che ha generato la sua opera di governo. Se si può parlare di giolittismo,
sappiamo anche che ci fu una intensa corrente di antigiolittismo “coeva”, delle più
svariate connotazioni politiche, ma essenzialmente di natura liberale e democratica.
Ora, ad opporsi a Giolitti era la destra liberale, di cui Sonnino fu espressione a livello
parlamentare, e di cui Luigi Albertini, il grande direttore del CdS fu espressione a
livello di opinione pubblica. Antigiolittiano di ferro fu il già citato Gaetano
Salvemini, che aveva coniato l'epiteto di “ministro della malavita” e antigiolittiana fu
tutta la scuola liberista che faceva capo a Antonio De Viti De Marco, alla quale
guardava con interesse anche Luigi Einaudi, che fu anche lui un antigiolittiano
convinto, che scriveva appunto sul Corriere della Sera e sulla Riforma sociale, che
Einaudi dirige dal 1908. La polemica di Einaudi è interessante perchè ci dà qualche
elemento di comprensione in più della storia dell'Italia liberale. Einaudi attacca la
politica protezionista di Giolitti, ma non tutta la strategia di protezione doganale che
l'Italia aveva adottato sin dal 1878. Quando la classe di governo della sinistra storica
si era incamminata sulla via del protezionismo, determinando una inversione di rotta
rispetto alla politica liberista che aveva la sua matrice in Cavour, lo aveva fatto per
proteggere il giovane tessuto industriale italiano, per metterlo al riparo dalla
concorrenza dei sistemi inglesi e francesi, molto più forti di quello italiano. Einaudi
rimane sempre un convinto liberista, ma in quel caso la scelta poteva essere
giustificata, anche se doveva essere temporanea. In età giolittiana ogni protezionismo
appariva ormai ingiustificato e si spiegava soltanto attraverso il ricorso a logiche
clientelari, a favoritismi politici, a concessioni a fini legittimanti, che tra l'altro
trovava del tutto passivo se non accondiscendente il Partito socialista, semplicemente
preoccupato esclusivamente dal crescere del movimento operaio al riparo della
grande industria protetta. Non bisogna dimenticare che in Einaudi anti-giolittismo e
anti-socialismo sono le due facce di una stessa concezione autenticamente liberale,
che metteva al centro del discorso i diritti dell'individuo, della persona umana e le sue
possibilità di elevazione economica e morale, e l'iniziativa privata e il mercato.
Un altro fenomeno che trovava in Einaudi un accanito censore è quello della crescita
esponenziale della burocrazia, fenomeno tipico dell'Italia giolittiana, tanto che al
1911 l'impiego pubblico riguardava ormai quasi due milioni di persone, cioè il 5/6%
della popolazione, che viveva di quelle che lui chiamava “paghe di stato”. Ora, questa
crescita a dismisura dello Stato per Einaudi, che derivava appunto dalla tendenza
inarrestabile a statizzare ogni settore, comportava il rischio di scivolamento
inconsapevole verso un regime di organizzazione sociale collettivistico, coercitivo di
ogni libertà e iniziativa individuale.
Questi ed altri aspetti della politica di Giolitti vengono aspramente criticati da
Einaudi e tale rimarrà sempre il suo giudizio: nelle prefazioni ai volumi II e III delle
Cronache economiche e politiche di un trentennio, scritte tra il 1959 ed il 1960, cioè
poco prima della sua scomparsa, Einaudi ribadiva che in materia economica e sociale
l'azione del governo non era stata feconda e ricordava i principali “passaggi” di una
politica incerta, a volte rinunciataria, tendente a rinviare le questioni, ciò che se a
volte evitava «soluzioni affrettate e dannose», in altri casi provocava danni peggiori.
C'è però nell'ultima fase della biografia intellettuale di Einaudi una maggiore
disponibilità a valutare l'opera di Giolitti nel quadro di una situazione generale.
D'altronde, spiegava Einaudi, così come un governo non è mai il solo artefice di ciò
che succede nel bene, non lo è nemmeno per gli errori e le deficienze. Quello che va
messo in evidenza in queste “ultime” pagine dell'economista piemontese è soprattutto
il tentativo di comprensione dell' “uomo”. Una essenza positiva del giolittismo veniva
ora restituita attraverso l'esposizione di quelle che erano le principali doti dell'uomo
di governo: esatta conoscenza e opportuna scelta degli uomini, saperli “dominare”
con fermezza e cortesia, conoscenza precisa della pubblica amministrazione,
regolarità nel lavoro, assiduità e perizia nei lavori parlamentari, chiarezza e brevità
nei discorsi, saper ridurre al nocciolo le questioni più complicate, vita morigerata. Ciò
che oggettivamente non sembra essere poco. Einaudi poi filtrava il suo giudizio
attraverso quello che era avvenuto dopo: ricordava infatti che negli anni di Giolitti
una opposizione si faceva sentire alle camere, i giornali potevano liberamente
criticare l'operato del governo. Certo, ricordava anche come ogni volta che sembrava
che l'opposizione dovesse spuntarla, la maggioranza «silenziosamente votava»,
nonostante l'efficacia delle argomentazioni contrarie. Una maggioranza giolittiana per
la quale Einaudi ricorreva alla efficace immagine di una «palude», caratterizzata da
«sudditanza volontaria», ossequio «per favori chiesti», riconoscimento «della
capacità del capo di saper governare gli uomini», soddisfazione delle parti avverse.
Una situazione che tra il 1910 e il 1914 sembrava al riparo da ogni pericolo. Nessuno
cioè avrebbe immaginato che sarebbe arrivato un tempo in cui quella palude avrebbe
«tutto sommerso e si sarebbero visti, nell'aula di Palazzo Madama, senatori piegare il
ginocchio quando passavano davanti al seggio del duce impassibile». Così come
nessuno avrebbe immaginato che dopo il fascismo, di paludi ce ne sarebbero state tre
o quattro, con deputati e senatori che «avrebbero disciplinatamente votato […] al
cenno venuto da un segretario di partito, estraneo come tale al parlamento», scriveva