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Giuseppe Martella - Il prigione

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Estratto dal romanzo breve "Il prigione", Errant Editions, in vendita su Ultimabooks, Libreria Rizzoli, Feltrinelli, BookRepublic.

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Giuseppe Martella

IL PRIGIONE

giacendo corpo di vetro

Andrea Zanzotto

M’inginocchiai per raccogliere quel che era rimasto dell’elefante, ma fui talmente

imprudente nel farlo da pentirmene immediatamente. L’orecchio destro iniziò a

ronzare, le punte dei piedi persero la presa sul pavimento.

Avevo l’impressione di slittare, e tossii per tenere a bada un conato di vomito.

Cercai di recuperare l’equilibrio con il braccio destro, con la mano che tentava di

afferrare il pavimento.

L’elefante era completamente esploso. Non aveva più gambe, non erano rimasti

che moncherini scheggiati. Il paio superiore, quello rampante, per anni sospeso a

grattare aria, sembrava non avere lasciato alcuna traccia. E le orecchie, così sottili,

una carta da zucchero, si erano trasformate in lame ancora più sottili, trasparenti,

attraversate da venature che non avevo mai immaginato possibili in una materia

solida, liquida, come il vetro. Anche la proboscide non c’era più. Si era scomposta

in tanti piccoli granelli opachi.

Nel rialzarmi - con prudenza, appoggiando la mano destra sul marmo freddo del

comodino - provai a ricordarmi la ragione per cui, prima della partenza, avevo

deciso di portare con me anche l’elefantino, ma non ci riuscii.

In piedi mi accorsi che solo le zanne, le due uniche macchie bianche nella goccia

di vetro verde dell’elefantino, incredibilmente si erano salvate. Misi in tasca i suoi

resti, presi la borsa, la valigia, e attraversai il corridoio. Aprii la porta e la richiusi

alle mie spalle scalciandola con il piede destro.

Il pianerottolo era ancora più buio dell’appartamento. Rimasi fermo, in ascolto.

Non dovevo essermi ripreso ancora del tutto, perché l’orecchio destro accennava

una vibrazione e per qualche secondo ebbi paura - no, non paura, terrore - che le

vertigini riprendessero il loro giro. Passò qualche minuto prima che mi decidessi a

scendere lungo la tromba delle scale, appoggiando di tanto in tanto un fianco sul

corrimano.

Con un po’ di fortuna scesi i quattro piani senza incontrare nessuno dei condomini.

Arrivato all’androne guardai l’orologio sopra la teca degli annunci. L’una era

passata da qualche minuto.

Posai la valigia e con la mano libera presi la busta, con su scritto per le bollette,

che avevo infilato in una tasca della giacca. L’assicurai sotto la porta dell’ufficio

della portinaia. Spalancai il portone, ripresi la valigia e uscii.

Solo quando il portone si fu chiuso mi ricordai di non avere firmato la busta, di

non avere chiuso a chiave l’appartamento.

«Le posso rimborsare i primi due biglietti se vuole. Le rimborso i primi due

biglietti, sì? Gli altri due, questi qui, hanno un valore troppo basso. Li ha pagati…

costavano poco, e non è possibile usarli per la destinazione che mi ha detto. Ma li

può conservare. Li può conservare, sì, certo. Valgono altri due mesi e li può usare

per una tratta regionale. Non li ha persi i soldi, capisce? Le basta darmi qualche…

Lo so e mi dispiace, ma questa cosa non è dipesa da me. Queste cose non dipendono

da me, io posso solo cercare di aggiustare quello che si può aggiustare. Però se ora

mi lascia sostituire i biglietti posso servire anche le persone che stanno aspettando

dietro di lei. Magari devono partire anche loro. Avranno un posto dove andare, degli

orari da rispettare. Capisce, sì?»

Il vecchietto rimaneva fermo, non si spostava dal pannello di vetro che lo separava

dal cubicolo della biglietteria. Rimaneva fermo di fronte a me, dandomi le spalle,

con il suo respiro rantoloso, pesante.

Con entrambe le mani teneva stretto sul petto il suo borsalino, come se da un

momento all’altro gli dovesse essere rubato. Appena sopra l’aureola dei pochi

capelli rimasti c’era una seconda aureola, un filo di pelle arrossato, che conservava

la traccia della pressione del borsalino. Il vecchietto era piccolino. Lo potevo

osservare dall’alto in basso senza difficoltà.

Pensai di avere ancora del tempo prima che il mio treno partisse. Mi incamminai

verso il bar.

Al barista che mi chiese, anche lui piccolino, tutt’ossa, sovrastato dalla scatola

verdastra della cassa, risposi due tramezzini. Stavo per chiedergli anche una birra,

poi mi ricordai del divieto del medico di bere alcolici. Indicai una bottiglia d’acqua

nel banco frigo.

Mi sedetti a uno dei tavoli vuoti. Ce n’erano molti. Tutta la saletta era deserta ad

eccezione di un tavolo attorno al quale si era seduta una famiglia. Erano eleganti,

puliti. Ognuno di loro mangiava il proprio spicchio di pizza in silenzio, con le labbra

serrate, usando le posate diligentemente. Bevevano da bicchieri di plastica. Mi

riusciva appena di sentirli deglutire.

Tolsi l’involucro da uno dei tramezzini e iniziai a mordere e masticare anche io,

lentamente, senza bere.

In sala d’attesa, dopo avere preso il biglietto dal cassettone di metallo della

biglietteria automatica, ritrovai il vecchio. Aveva ancora il suo borsalino afferrato

per le tese. Il suo viso era arrossato, la punta del naso, enorme, sfrangiata, era

attraversata da un intrico di vene. Mi sedetti di fronte a lui. Mancava ormai poco

prima che il mio treno partisse e non sapevo cosa fare, non sapevo come occupare il

mio tempo.

Passai qualche minuto roteando la testa attorno alle pareti della sala, fino a quando

non intercettai di nuovo la famiglia.

Il ragazzino, che per quanto gli vedevo mangiare mi appariva troppo magro, aveva

in bocca una merendina. Lo vidi borbottare qualcosa al padre. Poi vidi il padre

passargli una bottiglia di acqua e vidi il ragazzino buttare nello stomaco la metà

della merendina, che gli era rimasta in bocca, svuotando la bottiglia.

Chiusi gli occhi poggiando la nuca sulla parete.

La voce polverosa del megafono, un giglio di plastica grigia incastrato in un

angolo della sala d’attesa, mi costrinse a riaprire gli occhi. Ripresi le mie cose e

m’incamminai verso il sottopassaggio. Il soffitto vibrava. Uno dei vagoni del mio

treno doveva essersi fermato sopra la mia testa. Accelerai il passo.

Sbucato in superficie, vidi la banchina invasa da molte persone. Nessuno di loro

aveva con sé bagagli. Forse erano pendolari ed erano apparsi improvvisamente da

chissà quale luogo, seguendo chissà quali abitudini.

Ero sul punto di salire su un vagone ma due controllori, scendendo, quasi mi

urtarono.

«Hai visto che schifo?»

«Ma scusa, sei sicuro?»

«Certo che sono sicuro, ho anche chiamato.»

«E ti hanno detto cosa? Che dopo una settimana…»

«Niente!»

«Mi sembra strano. Secondo me si sono sbagliati… Che so, sarà stato uno scherzo,

così.»

Uno dei due controllori scrollava la testa. Non si trattava di uno scherzo. Cercai di

continuare ad ascoltarli senza capire di cosa stessero parlando, poi mi voltai. Alle

mie spalle si era creata una fila silenziosa di altri passeggeri. Non mi ero accorto di

loro. Li passai in rassegna uno per uno, ma non vedevo nessuno sguardo contrariato.

Anche loro erano interessati alle parole dei due controllori.

Quando finirono di parlare, i due liberarono finalmente la scaletta del vagone. Salii

e scelsi una carrozza vuota. Poggiai le mie cose sul posto davanti al mio.

D’un tratto vidi il vecchietto della stazione entrare. Indossava il cappello. Era

comunque basso, rotondo, ma il cappotto grigio, ora che lo potevo osservare meglio,

gli restituiva un profilo più composto, quasi severo. Si sedette affianco alla mia

valigia, alla borsa, e iniziò a fissare qualcosa oltre la cornice del finestrino. Poi sfilò

un giornale che teneva piegato in una tasca del cappotto, lo aprì e iniziò a sfogliarlo.

Qualcosa iniziò a picchiettare sopra il tetto del vagone. Alzai la testa.

Improvvisamente sembrava che stessero cadendo monete, a secchiate. Scoppiò un

lampo lontano, aldilà della linea dei pini rinchiusa nel finestrino. Mi coprii l’occhio

sinistro con una mano. Grandinava. Pensai che questa grandinata inaspettata

avrebbe accelerato i preparativi dell’avvio.

Mi alzai, camminai per qualche passo lungo il corridoio. Alcune persone erano

ancora sulla banchina. Fumavano, si guardavano, cercavano chissà quali conferme

negli occhi. Qualche chicco di grandine raggiunse i piedi di una donna anziana. La

donna s’incamminò verso il sottopassaggio. Tornai a sedermi.

Passarono ancora altri minuti.

Sperai che almeno la direzione del treno mi avrebbe permesso di lasciarmi alle

spalle le nuvole scure, orlate di viola, che minacciavano oltre la cortina dei pini.

La motrice iniziò a trascinare con sé i vagoni, compreso quello dentro cui ero

seduto insieme al vecchio. Ma mi ero sbagliato, andavamo incontro alla grandinata.

In lontananza, il rombo di mille carri armati.

«Il mio collega, qui, è sicuro di questa cosa. A me sembra incredibile che dopo una

settimana… Capisco le difficoltà, qui ha ripreso a grandinare… Dovevano pure

darsi da fare per tempo a rimuovere non dico tutta la terra, ma almeno quel poco,

giusto per ripristinare…»

Il controllore più piccino, con la faccia lunga e gli zigomi tondi, allungò la mano

verso il vecchio, che gli rispose dandogli il biglietto. Fece poi lo stesso con me.

Riuscii appena a riprendere il biglietto con l’angolo forato che subito caddi nel

dormiveglia. La temperatura del vagone era alta. Avevo bevuto tutta la bottiglia

d’acqua in poche riprese, trasognato, senza accorgermene. Passai dalla veglia al

sonno molte volte prima di cedere, pensando che mi sarei svegliato comunque prima

dell’arrivo, per andare in bagno. Negli ultimi suoni raccolti dalle orecchie non

riuscivo più a distinguere tra gli schiocchi dei tuoni e i passi cupi della motrice.

Una fitta al piede sinistro mi svegliò. La borsa era caduta proprio sopra il collo del

piede. La raccolsi e me la strinsi al petto. Ricordai appena di averla sistemata in un

secondo momento, insieme alla valigia, sulla rastrelliera che spioveva sopra la mia

testa.

Le palpebre erano ancora pesanti, ma l’alternarsi tra il buio e la poca luce grigia mi

permetteva di intuire che il treno aveva imboccato la galleria che avevo adocchiato

in lontananza. Una galleria che mi pareva attraversasse una collinetta. Eravamo

quasi arrivati alla prima stazione. Con gli occhi ora meno serrati vidi che anche il

vecchietto aveva ceduto al sonno. Aveva le palpebre chiuse. L’intero viso era più

disteso eppure il corpo si era come irrigidito, come se le sue spalle non avessero lo

schienale a sorreggerle.

La motrice decelerò fino a frenare. Mi alzai e raggiunsi il corridoio. Fuori dal

finestrino vidi il controllore bassino che parlava ancora al telefono, la testa incassata

tra le spalle. Volevo chiedergli se dall’altro capo del telefono c’era la stessa persona

con cui aveva parlato prima dell’arrivo di questa tappa intermedia, o se stesse

parlando con un altro collega, con un capostazione.

Qualche persona in piedi, a fumare, intorno a un posacenere a stelo di fronte

all’ingresso del bar, ma per il resto la banchina era deserta, lucidata dalla pioggia

che si alternava alla grandine. Una donna, dopo avere spento la sigaretta per terra,

vicino alla base del posacenere, cercava di frantumare con il tacco della scarpa un

chicco di grandine. Il controllore fischiò, non vidi nessun nuovo passeggero, il treno

ripartì.

Rimasi in piedi non so quanto tempo davanti alla porta del bagno, la luce sopra lo

stipite era rossa.

Uno scarto tra i binari scosse i vagoni e la porta del bagnò si aprì da sé,

meravigliata. Allungai il busto per vedere se dentro ci fosse qualcuno. Il bagno era

vuoto. Entrai chiudendomi alle spalle la porta. Fissai la sicura.

Mi riordinai la cinta attorno alla vita guardandomi allo specchio. Avevo gli occhi

arrossati, la pelle bianca, diafana, vista come attraverso una lastra d’acqua. Pensai

che la notte avrei scontato tutto il dormiveglia cui avevo ceduto durante il viaggio.

Recuperai il cellulare dalla tasca, provai ad accenderlo. Il display si illuminò per

pochi secondi prima di spegnersi. La batteria doveva essere completamente scarica.

Ritornato nella cabina mi accorsi che il vecchietto non c’era, al suo posto c’era un

giornale. Lo presi e iniziai a sfogliarlo. Lessi alcuni titoli, qualche pezzo di cronaca

locale. Poi lo chiusi e iniziai a sventolarlo lentamente sulla fronte, sotto il mento, e

mi decisi ad aprire il finestrino. Entrava aria salmastra, umida. Aveva smesso di

grandinare, e di piovere.

Stavo per sedermi quando vidi il vecchietto rientrare. Non feci in tempo a scusarmi

che il treno frenò bruscamente. Il vecchio finì con una spalla sulla porta, io rimasi

aggrappato al finestrino con le mani.

«Mi devo scusare, non sono riuscito a passare in tempo anche da voi. Mi scuso,

ma la corsa sta finendo. In pratica finisce ora.»

Il vecchietto lo guardava senza parlare. Il controllore non riusciva a ricambiare lo

sguardo, era imbarazzato. Aprì le braccia.

«Non ci volevo credere nemmeno io, ma il fatto è che… Insomma, dopo lo

smottamento non hanno sgomberato i binari. Lo chiedevo al mio collega, prima, e

non mi sembrava possibile. Dopo una settimana, mi dicevo, si saranno dati da fare.

E invece pare che le operazioni saranno più complicate del previsto. Dipende dagli

alberi. Li hanno tolti lungo tutto il tratto intermedio tra queste ultime due stazioni…

Pare che il terreno avesse bisogno delle radici di quegli alberi per stare…»

Il controllore rispose a una chiamata.

«Sì… Sì. Guarda, ho appena avvisato gli ultimi due passeggeri. Se… Se vuoi

prova, fai un tentativo. Io aspetterei, ma se proprio ti sembra il caso, prova. Ma per

due, tre chilometri, altrimenti ci allontaniamo troppo dalla stazione. E cerca di non

superare i quaranta, nel caso. Ah, quindi hai avvisato! E cosa ti hanno detto… Ho

capito, allora ripartiamo. No, l’intercity non… sì, è già andato.»

Il vecchietto aveva capito la situazione e si era piazzato di fronte alla porta del

vagone, dando le spalle al corridoio. Il ritardo doveva averlo contrariato. Lo vedevo

stringersi il borsalino sullo stomaco.

Il controllore gli diede una rapida occhiata prima di rivolgersi a me.

«Ci chiamiamo per cellulare, noi e la motrice. Abbiamo un contratto aziendale, un

tot di minuti al mese, a bimestre. Ma ci siamo impigriti, ci chiamiamo per qualsiasi

cosa come i ragazzini.»

Poi si sedette sul posto del vecchietto.

«Non le dispiace se fumo mezza sigaretta? Non dovrei, lo so, ma tutta la carrozza

è vuota. Siamo io, lei, e quel signore arrabbiato… Sembra che non veda l’ora di

scendere. Se intanto lei mi fa la cortesia di aprire tutto il finestrino, il fumo dovrebbe

uscire per conto suo. Sì, così, grazie… E non si preoccupi, rimango davvero un

minuto, devo riprendere servizio.»

Dopo aver tirato la prima boccata ebbi l’impressione che il controllore avesse

iniziato a comportarsi come se io non fossi vicino a lui. Guardava il sedile davanti a

sé, passava in rassegna i posti vuoti, puntava gli occhi sulle gocce d’acqua che

scendevano lungo il finestrino. Le volute del fumo si srotolavano lente, prima di

essere rapite via dalla bocca del finestrino.

Distesi la schiena, massaggiai le tempie con le punte delle dita.

«Mi dispiace ancora per l’inconveniente. Se crede può chiedere il rimborso. Non

sono molti soldi, me ne rendo conto, ma è anche una questione di rispetto nei

confronti dei passeggeri, di voi clienti. Non so, magari aveva un appuntamento

importante.»

Il controllore parlava senza guardarmi.

«C’era una signora, giovane… No, non proprio una signora. Era una ragazza…

Qualche vagone più su, che viaggiava con il suo bambino. Piccolo, non più di

qualche mese. E non so quante volte mi ha fermato per chiedermi a che ora

esattamente saremmo arrivati, dopo questo disastro. Diceva che il bambino aveva

bisogno di essere cambiato, che lei non aveva con sé le cose necessarie perché

pensava che sarebbe arrivata a casa in tempo.»

Il treno intanto, con un piccolo sussulto, aveva ripreso la corsa. Il controllore

lasciò cadere la sigaretta dalle dita. La raccolse, mi chiese di spostarmi, e la buttò

dal finestrino.

«Ecco, siamo ripartiti. Vedrà che arriviamo, tempo dieci minuti e arriviamo.»

Mi salutò. Lo ricambiai con un sorriso.

Il testo è un estratto dell’ebook Il prigione, pubblicazione digitale di Errant

Editions. Il suo fine è promozionale, non è pertanto consentita alcuna duplicazione,

totale o parziale, previa autorizzazione dell’Editore.