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1 I DIALOGHI DI AGOSTINO - Guida alla lettura di Nello Cipriani Alla memoria del Prof. Don Giacomo Tantardini L’Istituto Patristico Agostiniano di Roma dell’Università Pontificia Lateranense ha pubblicato nel Marzo 2013 un volume con il titolo I Dialoghi di Agostino, Guida alla lettura, di N. Cipriani. Capita raramente di imbattersi in un libro così intenso, pur nella sua stringatezza, così ricco di fonti, di novità interpretative e di riferimenti critici. Dove altri avrebbe scritto volumi copiosi, lo studioso agostiniano ha detto parole importanti in circa duecentocinquanta pagine, risparmiando ai lettori fatica, tempo e denaro. Leggendo il volume si scorge la visione organica di una mente che pensa e che padroneggia la letteratura classica, le opere dei Padri della Chiesa, l’opera complessiva di S. Agostino e la storiografia agostiniana. Il saggio è frutto di ricerche e studi rigorosi scritti in differenti periodi e occasioni con lo scopo di illustrare la complessa tematica dei Dialoghi agostiniani.. IL PUNTO DI PARTENZA DELLA RIFLESSIONE DI N. CIPRIANI Nel 1994 N. Cipriani pubblicava due saggi: il primo intitolato Le fonti cristiane della dottrina trinitaria nei primi Dialoghi di S. Agostino 1 ; il secondo intitolato L’ispirazione tertulliana nel De libero arbitrio di S.Agostino 2 . In questi due lavori lo studioso agostiniano osservava che le numerose ricerche, condotte nel nostro secolo sulle fonti del pensiero di S. Agostino nei suoi primi scritti, anteriori e immediatamente posteriori al battesimo, erano state per lo più orientate a rivelare le fonti nella direzione della letteratura e filosofia pagana, principalmente verso Plotino e Porfirio. L’unica importante novità introdotta in tale indirizzo storico-critico era stata avanzata da P. Courcelle 3 , le cui ricerche avevano avuto lo scopo di evidenziare gli influssi su Agostino dell’ambiente cristiano di Milano aperto alla filosofia neoplatonica, frequentato da personaggi laici come M. Teodoro e da ecclesiastici di primo piano come Simpliciano e lo stesso Vescovo Sant’Ambrogio. Le ricerche di P. Courcelle miravano a correggere e superare la tesi di P. Alfaric. Secondo questo studioso, Agostino: “moralement comme intellectuelément, c’est au néoplatonisme qu’il s’est convertit plutot qu’à l’Evangile” 4 . P. Courcelle sosteneva che l’incontro del giovane retore africano con il neoplatonismo era venuto attraverso la mediazione e il filtro di un gruppo di intellettuali cristiani che lo avevano 1 N. Cipriani, Le fonti cristiane della dottrina trinitaria nei primi Dialoghi di S. Agostino, in Augustinianum 34 (1994), pp. 253-312. 2 Ibid., L’ispirazione tertullianea nel De libero arbitrio di S. Agostino, in Il mistero del male e la libertà possibile, SEA 45, Roma 1994, pp. 165-178. 3 P. Courcelle, Les recherches sur les Confessions de Saint Augustin, Paris 1950. 4 P. Alfaric, L’évolution intellectuelle de Saint Augustin. I: Du Manichéisme au Néoplatonisme, Paris 1918, p. 379.

I DIALOGHI DI AGOSTINO - Guida alla lettura · Nel Saggio Le fonti cristiane della dottrina trinitaria nei primi Dialoghi di Sant’Agostino, N. Cipriani13, dopo un’approfondita

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Page 1: I DIALOGHI DI AGOSTINO - Guida alla lettura · Nel Saggio Le fonti cristiane della dottrina trinitaria nei primi Dialoghi di Sant’Agostino, N. Cipriani13, dopo un’approfondita

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I DIALOGHI DI AGOSTINO - Guida alla lettura

di Nello Cipriani

Alla memoria del Prof. Don Giacomo Tantardini

L’Istituto Patristico Agostiniano di Roma dell’Università Pontificia Lateranense ha pubblicato nel

Marzo 2013 un volume con il titolo I Dialoghi di Agostino, Guida alla lettura, di N. Cipriani. Capita

raramente di imbattersi in un libro così intenso, pur nella sua stringatezza, così ricco di fonti, di

novità interpretative e di riferimenti critici. Dove altri avrebbe scritto volumi copiosi, lo studioso

agostiniano ha detto parole importanti in circa duecentocinquanta pagine, risparmiando ai lettori

fatica, tempo e denaro. Leggendo il volume si scorge la visione organica di una mente che pensa e

che padroneggia la letteratura classica, le opere dei Padri della Chiesa, l’opera complessiva di S.

Agostino e la storiografia agostiniana. Il saggio è frutto di ricerche e studi rigorosi scritti in

differenti periodi e occasioni con lo scopo di illustrare la complessa tematica dei Dialoghi

agostiniani..

IL PUNTO DI PARTENZA DELLA RIFLESSIONE DI N. CIPRIANI

Nel 1994 N. Cipriani pubblicava due saggi: il primo intitolato Le fonti cristiane della dottrina

trinitaria nei primi Dialoghi di S. Agostino1; il secondo intitolato L’ispirazione tertulliana nel De

libero arbitrio di S.Agostino2. In questi due lavori lo studioso agostiniano osservava che le numerose

ricerche, condotte nel nostro secolo sulle fonti del pensiero di S. Agostino nei suoi primi scritti,

anteriori e immediatamente posteriori al battesimo, erano state per lo più orientate a rivelare le fonti

nella direzione della letteratura e filosofia pagana, principalmente verso Plotino e Porfirio. L’unica

importante novità introdotta in tale indirizzo storico-critico era stata avanzata da P. Courcelle3, le

cui ricerche avevano avuto lo scopo di evidenziare gli influssi su Agostino dell’ambiente cristiano

di Milano aperto alla filosofia neoplatonica, frequentato da personaggi laici come M. Teodoro e da

ecclesiastici di primo piano come Simpliciano e lo stesso Vescovo Sant’Ambrogio. Le ricerche di P.

Courcelle miravano a correggere e superare la tesi di P. Alfaric. Secondo questo studioso, Agostino:

“moralement comme intellectuelément, c’est au néoplatonisme qu’il s’est convertit plutot qu’à

l’Evangile” 4. P. Courcelle sosteneva che l’incontro del giovane retore africano con il neoplatonismo

era venuto attraverso la mediazione e il filtro di un gruppo di intellettuali cristiani che lo avevano

1 N. Cipriani, Le fonti cristiane della dottrina trinitaria nei primi Dialoghi di S. Agostino, in Augustinianum 34 (1994), pp.

253-312.

2 Ibid., L’ispirazione tertullianea nel De libero arbitrio di S. Agostino, in Il mistero del male e la libertà possibile, SEA 45,

Roma 1994, pp. 165-178.

3 P. Courcelle, Les recherches sur les Confessions de Saint Augustin, Paris 1950.

4 P. Alfaric, L’évolution intellectuelle de Saint Augustin. I: Du Manichéisme au Néoplatonisme, Paris 1918, p. 379.

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aiutato non solo a conoscere le dottrine neoplatoniche, ma anche a farne una prima critica alla luce

della fede cristiana. N. Cipriani5 faceva osservare che, nonostante l’apertura della nuova

prospettiva avanzata da P. Courcelle, le ricerche successive continuarono a seguire la vecchia pista

riguardante l’ascendenza dei filosofi pagani. Con queste si otteneva qualche risultato apprezzabile

soprattutto nell’individuazione di nuovi riscontri testuali, ma nello stesso tempo si favorivano

interpretazioni distanti dal pensiero di Sant’Agostino su temi importanti come ad esempio quello

trinitario. Era chiaro il riferimento alla tesi sostenuta da O. Du Roy6 nel volume intitolato

L’intelligence de la foi en la Trinité selon Saint Augustin. Genèse de sa théologie trinitarie jusqu’en

391, in cui si sosteneva che Sant’Agostino nei Dialoghi di Cassiciaco, pur essendo ormai un

cristiano convinto, era caduto nell’illusione di scoprire tutto della Trinità cristiana in Plotino, fino a

confondere lo Spirito Santo con l’anima universale o, più esattamente, con la Ragione che da essa

emana7. N. Cipriani

8 concludeva le sue osservazioni critiche sottolineando che gli studi di P.

Courcelle non potevano offrire che un aiuto limitato per la comprensione dei primi Dialoghi: non

era di fatto esaurita la ricerca relativa alla formazione intellettuale di Sant’Agostino nel periodo

antecedente il ritiro di Cassiciaco. P. Courcelle, non avendo avanzato ipotesi relative a eventuali

letture da parte di Agostino di autori cristiani, poteva solo suggerire l’invito a tener conto degli aiuti

che il neoconvertito aveva potuto ricevere dalla predicazione di Sant’Ambrogio e dalle

conversazioni private con Simpliciano e Teodoro. Accogliendo un suggerimento di G. Madec9,

N.Cipriani10

evidenziava la forzatura interpretativa del passo De Ordine 2, 5, 16, compiuta da Du

Roy. In questo testo Agostino11

aveva distinto alcuni (quidam) che professavano la Trinità in

maniera confusa (confuse), da molti altri (multi) che la professavano in maniera blasfema,

oltraggiosa (contumeliose) allontanandosi dal retto sentire dei venerabili misteri. O. Du Roy aveva

eliminato, in modo surrettizio, ogni distinzione fra i due gruppi per indicare in blocco i filosofi

pagani, i quali avrebbero parlato senz’altro della Trinità sebbene senza la chiarezza e l’umiltà della

fede cristiana. L’interpretazione fornita da O. Du Roy del De Ordine 2, 5, 16 faceva cadere un

suggerimento prezioso per far luce sulle reali conoscenze di Agostino circa il dibattito ecclesiale sul

mistero trinitario con la condanna di due opposte eresie: il confusionismo di Sabellio da una parte e

il subordinazionismo ariano dall’altra. Alla luce di questa correzione testuale, N. Cipriani12

si

5 N. Cipriani, Le fonti cristiane, p.254.

6 O. Du Roy, L’intelligence de la foi en la Trinité selon Saint Augustin. Génèse de sa Théologie trinitarie jusqu’en 391,

Paris 1966.

7 Ibid., p. 148.

8 N. Cipriani, Le fonti cristiane, p. 254.

9 G. Madec, Á propos d’une traduction de D Ordine II, 5,6, in Revue des Études Augustiniennes (= REA) 16 (1970), pp.

182-183.

10 N. Cipriani, Le fonti cristiane, pp. 255-256.

11 ord. II, 5, 16: Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, veneranda mysteria, quae fide sincera et inconcussa populos

liberant, nec confuse, ut quidam, nec contumeliose, ut multi praedicant.

12 N. Cipriani, Le fonti cristiane, p. 259.

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poneva una domanda decisiva: perché escludere da parte di Agostino una conoscenza del dibattito

ecclesiale del mistero trinitario e delle critiche mosse dai cattolici ai sabelliani e agli ariani? Perché

escludere a priori che Agostino avesse potuto conoscere da letture di opere specifiche i giudizi che

si davano di quelle due eresie? In altre parole, che cosa avrebbe potuto impedire ad Agostino, in

quel tratto di tempo così importante per la sua formazione intellettuale, di leggere opere come, ad

esempio, il De fide e il De Spiritu Sancto di Ambrogio o gli scritti trinitari di M. Vittorino?

Nel Saggio Le fonti cristiane della dottrina trinitaria nei primi Dialoghi di Sant’Agostino, N.

Cipriani13

, dopo un’approfondita indagine, perveniva a due importanti conclusioni che riportiamo in

modo sintetico. La prima: Agostino fece suo il convincimento, comune agli intellettuali cristiani di

Milano, come Simpliciano, Teodoro e Ambrogio, di riconoscere ai filosofi neoplatonici il merito di

aver raggiunto con la ragione molte dottrine su Dio e sul suo Verbo, contenute nel prologo del

Vangelo di San Giovanni. Tuttavia gli intellettuali milanesi, guidati e illuminati dalle loro

riflessioni, non caddero nell’illusione di identificare lo Spirito Santo con la Ragione ordinatrice del

cosmo; un’identificazione che avrebbe comportato o la riduzione di una persona divina al rango di

creatura, nell’ipotesi che l’Anima del mondo fosse considerata una creatura, oppure una ricaduta nel

panteismo pagano, nell’ipotesi che la stessa Anima del mondo fosse considerata di natura divina. .

Già nei Dialoghi, infatti, Agostino sottolinea la perfetta divinità sia di Cristo che dello Spirito Santo

e la distanza ontologica che separa l’anima da Dio. La seconda conclusione riguardava le fonti

cristiane da cui Agostino ricevette ispirazione per la sua dottrina trinitaria affermata nel periodo

anteriore al battesimo. Venivano rintracciati indizi di una dipendenza dottrinale e lessicale

dall’opera di Mario Vittorino e dai due trattati ambrosiani Sulla fede e Sullo Spirito Santo.

Nonostante la mancanza di testimonianze interne o esterne e nonostante l’assenza di vere e proprie

citazioni testuali, le coincidenze riscontrate sia sul piano delle idee che su quello del lessico erano

risultate talmente numerose per entrambi gli autori da far apparire irragionevole la negazione di

validità della ipotesi avanzata all’inizio della ricerca.

Nel saggio intitolato L’ispirazione tertullianea nel De libero arbitrio, N. Cipriani14

avanzava

l’ipotesi di una ispirazione tertullianea nel De libero arbitrio. Secondo lo studioso agostiniano

Agostino si accinse a un’opera sul libero arbitrio quando si accorse che per risolvere il problema del

male occorreva distinguere il male del peccato dal male della pena, attribuendo il primo alla libera

volontà dell’uomo e il secondo alla giustizia di Dio. Fatta questa distinzione bisognava dimostrare

che davvero il peccato è opera solo del libero arbitrio umano, che Dio ha fatto bene a darlo

all’uomo e che esso non è in contrasto con la bontà di Dio, né con la sua prescienza, né con la sua

potenza. Tutte queste idee, secondo lo studioso agostiniano erano state suggerite da Tertulliano,

insieme a tanti altri, evidentemente prima dell’inizio dell’opera.

Ai due articoli cui abbiamo fatto cenno, seguirono altri due studi. Nel 1996 fu pubblicato il saggio

dal titolo L’influsso di Varrone sul pensiero antropologico e morale nei primi scritti di

13

Ibid., p. 309.

14 Ibid., L’ispirazione tertullianea, p. 177.

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Sant’Agostino15

, nel 1998 un nuovo saggio dal titolo Lo schema dei tria vitia (Voluptas, superbia,

curiositas) nel De vera religione: antropologia soggiacente e fonti16

.

Nella ricerca condotta nel 1996 venivano elencati alcuni elementi e nozioni, già presenti nelle prime

opere agostiniane, che attraverso la mediazione di Varrone permettevano di risalire ai filosofi

dell’Antica Accademia e da questi fino allo stoicismo e allo stesso Aristotele. Lo studio prendeva

l’avvio dal modello antropologico e morale esposto da Varrone nel suo De philosophia e attribuito

ad Antioco di Ascalona, modello che Agostino discute nel libro XIX del De civitate Dei, per

mostrare poi come lo stesso modello, di sapore eclettico ma fortemente ispirato dalla filosofia stoica

e peripatetica, era tenuto presente da Agostino già nelle sue prime opere. La conclusione della

ricerca era dunque sorprendente: seguendo le indicazioni dei primi capitoli del XIX libro del De

civitate Dei, venivano individuati nei primi scritti di Sant’Agostino alcuni testi nei quali apparivano

chiari i segni dell’influsso varroniano sul suo modello antropologico e morale. L’indagine arrivava

a verificare che attraverso Varrone erano giunti al neoconvertito africano nozioni ed elementi

aristotelici e stoici che lo avevano aiutato a ridurre fortemente, se non a eliminare del tutto, le

espressioni dualistiche. Veniva dimostrato che già nei primi Dialoghi agostiniani è riconoscibile un

significativo, ancorché parziale, distacco dal neoplatonismo, maturato in forza della fede cristiana

con l’accentuazione, totalmente estranea ai filosofi neoplatonici, dell’unità del composto umano,

con una maggiore valutazione dei valori del corpo e della vita sociale.

Con la ricerca pubblicata nel 1998 lo studioso agostiniano si proponeva di indagare lo schema delle

tre concupiscenze nel quadro della concezione antropologica individuata nella precedente ricerca e

quale si ricava principalmente nel De vera religione, per poi ricercare le fonti letterarie e

filosofiche. La scelta del De vera religione come campo principale, ma non unico, dello studio era

motivata da una ragione precisa: la dottrina antropologica in cui è inserito lo schema dei tre vizi

appare per la prima volta in modo compiuto proprio in quest’opera agostiniana. Veniva esposta la

dottrina antropologica soggiacente allo schema delle tre concupiscenze e venivano individuate le

fonti letterarie e filosofiche; l’articolo si concludeva con un’osservazione che in qualche modo

costituiva una sintesi di tutto il percorso compiuto: “E’ probabile che lo schema dei tre vizi sia stato

elaborato da Agostino quando ha incominciato a ripensare l’antropologia e l’etica dei filosofi

(Cicerone e Varrone) alla luce della triplice tentazione di Cristo e della triplice concupiscenza di I

Io. 2, 16”.17

.

15

Ibid., L’influsso di Varrone sul pensiero antropologico e morale nei primi scritti di S. Agostino, in L’etica cristiana nei

secoli III e IV: eredità e confronti, SEA 53, Roma 1996, pp. 369-400.

16 Ibid., Lo schema dei Tria vitia (voluptas, superbia, curiositas) nel De vera religione: antropologia soggiacente e fonti

in Augustinianum 38 (1998), 157-195.

17 Ibid., p. 195.

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QUESTIONI DI METODO

a) Natura del nuovo paradigma interpretativo

Veniamo ora al volume in esame. Scrive lo studioso agostiniano18 che chi si avvicina ai Dialoghi agostiniani

può riscontrare una serie di interpretazioni contrastanti che non possono non sorprendere negativamente

gli studiosi. Questa diversità di interpretazioni deriva da alcuni fattori che vengono elencati in modo

sintetico: a) una non perfetta ricostruzione dei momenti più importanti della vita di Agostino; b) una

insufficiente ricerca delle fonti pagane e cristiane; c) una conoscenza imprecisa del metodo seguito

dall’autore dei Dialoghi; d) una conoscenza non approfondita delle regole che erano a fondamento

del genere letterario dei Dialoghi; e) infine, come ha sottolineato G. Madec19

, la scarsa familiarità

con i testi agostiniani causata da una lettura sovente frettolosa e superficiale. Nei cinque capitoli

della prima parte del volume vengono discussi i fattori che sono stati la causa di interpretazioni

contrastanti dei Dialoghi. Intendiamo soffermare l’attenzione del lettore su alcuni fattori che

vengono affrontati nel Capitolo I, intitolato Rassegna Bibliografica, nel Capitolo III, intitolato La

ricerca delle fonti, nel Capitolo IV, intitolato Epistemologia e metodo, infine nel Capitolo V,

intitolato Il genere letterario dei Dialoghi.

Nel capitolo intitolato Rassegna bibliografica viene passata brevemente in rassegna la bibliografia

agostiniana dal secolo XIX ad oggi. N. Cipriani20 sottolinea che nel secolo scorso si sono confrontati diversi

paradigmi interpretativi dell’opera agostiniana precedente il presbiterato. Il primo paradigma

interpretativo, elaborato per lo più in ambito protestante da G. Boissier21, da A. Harnack22 e altri, era basato

su una tesi che tendeva a contrapporre i Dialoghi alle Confessiones, con lo scopo di mettere indubbio la

piena storicità di queste ultime nella ricostruzione delle fasi della conversione di Agostino. Questa tesi

arrivava a mettere in evidenza il presupposto, proprio del protestantesimo liberale, secondo il quale la

filosofia è incompatibile con la religione cristiana. La conclusione di questa interpretazione era la

seguente: fino all’anno 398, quando fu ordinato prete, Agostino non fu che un neoplatonico più o

meno tinto di cristianesimo. P. Alfaric arrivava a scrivere che nel 386 Agostino “è al

neoplatonismo che si è convertito, più che al Vangelo”23

. Tra i punti dottrinali più platonici che

cristiani, P. Alfaric indicava la dottrina delle tre ipostasi divine, la cosmogonia con la concezione

estetica del male e l’antropologia. Questa lettura eccessivamente neoplatonica dei Dialoghi fin

dall’inizio suscitò una vivace reazione in campo cattolico. Molti si opposero alla nuova lettura,

fedeli all’idea tradizionale della piena storicità delle Confessiones. Tra questi autori dobbiamo

18

N. Cipriani, I Dialoghi di Agostino. Guida alla lettura, SEA 134, Roma 2013, p. 1.

19 G. Madec, Il De libero arbitrio di Agostino d’Ippona, Lectio Augustini VI: Settimana agostiniana pavese, Palermo

1990, p. 15.

20 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 9.

21 G. Boissier, La conversion de Saint Augustin, in La fin du paganisme, Paris 1891.

22 A. Harnak, Augustins Confessionen, Ein Vortrag, Giessen 1888.

23 P. Alfaric, L’evolution intellectuelle, p. 379.

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segnalare E. Portalié, E. Gilson, Ch. Boyer, M.F. Sciacca. Verso la metà del XX secolo venne alla

luce un secondo paradigma interpretativo, di cui fu paladino lo studioso francese P. Courcelle24

,

secondo il quale nel 386 Agostino risulterebbe convertito ad un cristianesimo platonizzante o, se si

preferisce, a un platonismo cristiano proprio dell’ambiente milanese. Questa nuova prospettiva non

aveva modificato affatto il modo di interpretare i Dialoghi di Cassiciaco. Lo prova il fatto che nel

1966 O. Du Roy25

, studiando la prima dottrina trinitaria di Agostino, perveniva alla conclusione che

quella dottrina era solo a metà ispirata dal Vangelo. Questa tesi ne conservava altre: Agostino

avrebbe fatto sua la soluzione plotiniana sul problema del male, avrebbe considerato Cristo solo un

maestro e non il Redentore. Ancora più recentemente, in Italia G. Lettieri26

ripeteva tutte le tesi di

O. Du Roy. Nell’ultimo decennio del XX secolo si è avuta un’autentica svolta grazie a nuovi studi

che, con un metodo innovativo basato sulla ricerca e sul confronto di certe strutture concettuali e

lessicali, hanno permesso di individuare nuove fonti pagane e cristiane dei Dialoghi e mostrare la

fede di Agostino in modo più chiaro. Questi studi hanno evidenziato tre conclusioni importanti che,

come vedremo, costituiscono i presupposti operativi della lettura fatta da N. Cipriani27 dell’opera

agostiniana: a) l’autore dei Dialoghi non si è limitato ad accogliere idee e dottrine dei filosofi

neoplatonici ma si è contrapposto ad essi anche nettamente in punti dottrinali di non scarso rilievo;

b) oltre che dai filosofi neoplatonici Agostino attinse idee da autori classici latini come Cicerone e

Varrone, soprattutto per quanto riguarda il modello antropologico, diverso da quello neoplatonico;

c) infine l’autore dei Dialoghi lesse non solo scrittori pagani ma anche autori cristiani come

Ambrogio e Mario Vittorino che influirono non poco nella sua fede cristiana e in modo particolare

nella sua dottrina trinitaria.

Nel capitolo intitolato Alla ricerca delle fonti viene approfondita e illustrata con vari esempi la

natura del nuovo paradigma interpretativo. Prendendo le mosse da alcune intuizioni di P.Hadot28

, lo

studioso agostiniano N. Cipriani29

ricorda che nell’affrontare la lettura dei primi scritti agostiniani

occorre attrezzarsi di conoscenze non solo filosofiche e teologiche ma anche prestare particolare

attenzione agli aspetti filologici e retorici. Per Agostino, infatti, come per tutti gli scrittori latini

della fine dell’antichità, le idee non sono separate dal loro sostrato letterario, dalla frase ove sono

espresse, dallo sviluppo in cui la frase stessa s’inserisce, dall’opera che contiene tale sviluppo.

Agostino, come tutti i latini della fine dell’antichità, utilizza spesso in modo molto abile per

raggiungere i propri scopi, idee, immagini, schemi di argomentazione, ma anche testi e formule già

esistenti, a cui viene conferito spesso un significato nuovo, adatto a ciò che si vuole dire.

All’intuizione di P. Hadot, N. Cipriani aggiunge che lo studioso, se vuole comprendere

24

P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident, Paris 1948. Ibid., Les recherches sur les Confessions, Paris 1950.

25 O. Du Roy, L’intelligence de la foy, p. 148.

26 G. Lettieri, Agostino, in Storia della teologia. Dalle origini a Bernardo di Chiaravalle, Bologna 1995, pp. 358-366.

27 N. Cipriani, I Dialoghi, pp. 14-15.

28 P. Hadot, Porphyre et Victorinus, Paris, 1968. Si veda in particolare l’introduzione di questo scritto, intitolata Il

problema di Vittorino.

29 N. Cipriani, I Dialoghi, pp. 39-40.

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l’articolazione degli scritti agostiniani e le sue fonti ispiratrici, non deve fermarsi al paragone di

passi paralleli individuati in un testo agostiniano e in un altro testo della tradizione precedente, ma

occorre che prima faccia una lettura approfondita del testo agostiniano, evidenziando strutture

concettuali che si riscontrano nel testo esaminato, passando poi al confronto con strutture

concettuali e lessicali analoghe che si possono trovare in autori precedenti e illustra così la natura

del nuovo paradigma interpretativo utilizzato: “… una prudente e ragionevole analisi delle fonti non

si basa solo su esplicite citazioni letterarie, né su passi paralleli o concordanze di idee, bensì sulla

corrispondenza esclusiva, in due autori, di più complesse strutture lessicali e concettuali, nelle quali

la coincidenza di idee e di alcuni lemmi permetta di riconoscere l’influenza di un autore

sull’altro”30

. Per verificare la validità e la correttezza di questo nuovo paradigma interpretativo,

vengono portati esempi, che studiati alla luce del metodo innovativo proposto permettono di

arrivare a interpretazioni diametralmente opposte a quelle avanzate da alcuni studiosi del passato.

Riportiamo due dei quattro esempi che lo studioso agostiniano indaga per giungere all’accertamento

della vera fonte.

Nel De ordine ricorre questo schema o struttura concettuale e lessicale: “… a questo grado di

conoscenza pochi possono giungere in questa vita, e nessuno lo può superare neanche dopo questa

vita. Alcuni accontentandosi della sola autorità […]. Non saprei come definirli felici, finché vivono

ancora tra gli uomini, tuttavia credo fermamente che, appena avranno lasciato questo corpo, coloro

che avranno vissuto più o meno onestamente saranno liberati con più o meno facilità”31

. Tale

struttura corrisponde, o meglio, si contrappone alla struttura che si legge nel Fedone di Platone e in

De regressu animae di Porfirio, come registrato in De civitate Dei: “Usi più esplicitamente questa

parola in un passo in cui spieghi la dottrina di Platone. Come lui anche tu non metti in dubbio che in

questa vita l’uomo non può assolutamente raggiungere la perfezione della sapienza ma che per chi

vive secondo l’intelletto tutto ciò che manca può essere condotto a pienezza dopo questa vita dalla

provvidenza e dalla grazia divina”32

. Lo studioso agostiniano33

fa notare che O’Meara aveva

individuato in questo passo del De regressu animae la fonte del testo sopracitato del De ordine, ma

non si era accorto che qui Agostino si contrappone al pessimismo di Porfirio. Infatti il filosofo

pagano aveva affermato che nessun uomo (hominem nullo modo) durante questa vita può

raggiungere la perfezione della sapienza, ossia la conoscenza del primo Principio, perché il corpo è

un ostacolo; mentre riteneva che ciò fosse possibile dopo questa vita solo a quei pochi che sono

vissuti secundum intellectum, ossia secondo le virtù noetiche o contemplative, dopo che la loro

anima sia spogliata del corpo. Agostino invece afferma che già in questa vita almeno pochi

30

Ibid., p. 42.

31 ord. II, 9, 26: (…) ad quam cognitionem in hac vita pervenire pauci, ultra quam vero etiam post hanc vitam nemo

progredi potest; qui autem sola aucoritate contenti (…) beatos eos quidam, cum inter homines vivunt, nescio quo modo

appellem, tamen inconcusse credo mox ut hoc corpus reliquerint, eos qui bene magis minuse vixerunt, eo facilius aut

diffcilius liberari.

32 civ. X, 29, 1: Uteris etiam hoc verbo apertius, ubi Platonis sententiam sequens nec ipse dubitas in hac vita hominem

nullo modo ad perfectionem sapientiae pervenire, secundum intellectum tamen viventibus omne quod deest

providentia Dei et gratia post hanc vitam posse compleri.

33 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 42.

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possono giungere alla conoscenza del Padre; dopo aver lasciato questo corpo, invece, tutti, anche

quelli che credono soltanto, possono giungere più o meno facilmente alla piena liberazione dai mali

più orribili, secondo che siano vissuti più o meno bene, anche se mentre vivono in questo corpo,

cioè durante questa vita, non si vede come possano essere detti sapienti e quindi felici.

Un secondo esempio che lo studioso agostiniano porta si trova in De ordine II, 5, 5-16; anche qui

viene evidenziata un’importante struttura concettuale e lessicale. L’analisi dello schema che si trova

presente in questo testo porta all’accertamento di una fonte cristiana. Qui Agostino sostiene che la

fides nei mysteria fa sì che “Christus liberet” dai mali peggiori. Una simile struttura concettuale e

lessicale, ripetuta per ben due volte di seguito, trova una precisa corrispondenza nelle opere di

Mario Vittorino, il quale varie volte ripete che, chi crede nei misteri dell’incarnazione, morte e

risurrezione di Cristo, viene da Lui liberato dal male.34

A partire dai quattro esempi, in cui ricorrono

importanti strutture concettuali e lessicali, vengono dedotte importanti conclusioni che troviamo alla

fine del capitolo terzo. L’accertamento delle fonti, fatto mediante il metodo suggerito, illumina

l’interpretazione di alcuni testi agostiniani dei primi Dialoghi. Portando maggiore attenzione ad

alcuni passi, si può dunque pervenire a conclusioni diametralmente opposte a quelle a cui altri

studiosi erano arrivati. Un esempio assai emblematico è quello del De ordine, che molti hanno letto

in chiave esclusivamente plotiniana e porfirina. Nella prima parte del Dialogo in cui si tratta del

problema del male, secondo K. Flasch35

, Agostino non si distaccherebbe affatto dalla posizione di

Plotino; mentre secondo I. Hadot36

, lo schema delle artes liberales che si trova nella seconda parte

sarebbe ispirato nel contenuto e nelle forme a una fonte neoplatonica, probabilmente porfiriana. In

realtà, sottolinea Cipriani37

, se si è attenti fino in fondo ai testi si arriva a conclusioni

completamente diverse. Infatti nella prima parte del dialogo Agostino si oppone alla tesi plotiniana

della necessità ed eternità del male, nella seconda parte si oppone al pessimismo di Porfirio, il quale

insegnava che nessuno può raggiungere la perfetta sapienza in questa vita e pochi possono salvarsi

evitando la reincarnazione dopo questa vita. La ricerca attenta ci porta a scoprire che nei Dialoghi

di Agostino sono presenti non solo Plotino e Porfirio, ma anche autori latini pagani come Cicerone

e Varrone e autori cristiani.

b) Teoria della conoscenza e circolarità ermeneutica

Nel capitolo quarto N. Cipriani affronta la questione relativa all’epistemologia e al metodo

agostiniano. Anche qui i contenuti sono ricchi di novità. Cerchiamo di evidenziare i principali. Il

primo paragrafo di questo capitolo è intitolato Filosofia e Teologia. Agostino, come tutti

nell’antichità, concepiva la teologia come una parte della filosofia e precisamente la parte che si

interessa allo studio della divinità (civ. VIII, 1). Anche per Aristotele la teologia era la parte della

34

Ibid., p.42

35 K. Flash, Augustin, Agostino d’Ippona. Introduzione all’opera filosofica (1980), Bologna 1983, pp. 93-100.

36 I. Hadot, Arts libéraux et philosophie dans la pensée antique, Paris 1984 (2006), p. 118.

37 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 43; cfr., V. Pacioni, L’unità teoretica del De Ordine di Sant’Agostino, Roma 1996.

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filosofia che persegue la scienza “dei principi e delle cause degli esseri”, e coincideva con la

metafisica38

. Oggi invece noi siamo portati a distinguere nettamente la teologia dalla filosofia ,

intendendo con la prima l’ambito delle verità rivelate, con la seconda l’ambito delle verità che si

possono scoprire con la ragione. Questa distinzione, come si sa, è merito della scolastica, in

particolare di San Tommaso d’Aquino. Seguendo la tradizione pitagorica e platonica e a partire

dall’etimologia della parola Agostino concepiva la filosofia come “amore o studio della sapienza”.

Partendo dal presupposto che la vera sapienza è quella di Dio e la sapienza umana è partecipazione

di quella divina, era arrivato a definire il filosofo come “colui che ama Dio”39

, e inoltre avendo fin

dai primi Dialoghi identificato la Sapienza di Dio e la Verità con Cristo (Acad 1, 1, 1; beata v. 4,

34), aveva affermato che la vera filosofia è quella cristiana40

. N.Cipriani chiarisce un altro aspetto

dell’idea agostiniana di filosofia. Questa, secondo Agostino, non mira a una conoscenza generica,

ma alla scientia corrispondente alla episteme di cui parlavano i filosofi greci, cioè a una conoscenza

rigorosamente razionale certa e indubitabile, che si ottiene con un ragionamento più rigoroso, come

avviene per le scienze matematiche e logiche (sol. 1, 5, 11- 6, 12). Agostino aggiungeva:

Auctoritas fidem flagitat, et rationi praeparat hominem. Ratio ad intellectum cognitionienque (vera

rel. 24, 45), cioè alla scientia che è il vero scopo della filosofia. L’autore dei Dialoghi non si

accontenta di credere soltanto, ma vuole arrivare alla scientia (sol. 1, 3, 8). Questa precisazione

aiuta ad individuare l’insufficienza della nozione di filosofia attribuita da Ch. Boyer41

all’Autore

dei Dialoghi.

Nel paragrafo secondo, intitolato Oggetto della filosofia, viene ricordato che la scientia a cui mira la

filosofia è possibile, come aveva riconosciuto Aristotele, solo a proposito delle “cose eterne e

necessarie”42

, ossia delle realtà intellegibili come sono l’anima e Dio. Per tale ragione l’autore dei

Dialoghi, che mira ad avere la scientia secondo il modello matematico, si propone di riflettere

soltanto sull’anima e Dio ma non sugli eventi salvifici della storia sacra. Egli è convinto che solo

dopo essere giunti alla conoscenza intellettuale di Dio, somma Causa o supremo Autore o Principio

di tutte le cose, raggiunta attraverso Cristo Verità e Sapienza di Dio, potremo conoscere quanto

siano vere le cose che ci è stato ordinato di credere, cioè tutti i miracoli della storia della salvezza

(an. quant. 33, 76; vera rel. 8, 14). Pertanto “una volta che si sia conosciuta l’eternità della Trinità e

la mutevolezza delle creature”, tutti gli avvenimenti salvifici inclusi nella professione di fede “non

solo si credono, ma anche si ritiene che appartengano alla misericordia che il sommo Dio mostra al

genere umano” (vera rel. 8, 14). Degli eventi salvifici oggetto della fede cristiana non si potrà mai

avere una spiegazione scientifica che ne dimostri la necessità; se ne potrà soltanto mostrare la

ragionevolezza e la convenienza in considerazione della potenza e della misericordia di Dio.

38

Metaph. 6, 1, 1. 6 (1025b-1026a).

39 civ. VIII, 1.

40 vera rel. V, 8.

41 C. Boyer, Christianisme et Néoplatonisme dans la formation de Sain Augustin, Roma 1920 (1953), P. 142.

42 EN 6, 3, 1 (1139b).

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In conclusione, si può affermare che la sapienza è la meta desiderata della filosofia di Agostino.

Essa consiste in una pia e perfetta conoscenza (scientia) di Dio, che necessariamente rende felici,

perché con essa si realizza la plenitudo o il modus (pienezza e misura) dell’animo umano43

. Alla

conoscenza di Dio, però, si deve far precedere la conoscenza dell’anima, come gradino necessario

per arrivare a Dio, perché l’anima è la creatura più vicina a Dio44

.

Nel terzo paragrafo del quarto capitolo, intitolato Metodo e circolo ermeneutico, lo studioso tratta

del punto più delicato della riflessione agostiniana. Si fa notare che per l’autore dei Dialoghi la vera

filosofia mira a conoscere non un Dio qualunque, bensì il Dio della fede cristiana, come è

professato dalla Chiesa Cattolica (ord. 2, 5, 16). In questo testo del De ordine, Agostino afferma

con chiarezza che il Dio cercato con la sua riflessione filosofica non è quello dei platonici, bensì

quello uno e trino rivelato dalla Scrittura e predicato dalla Chiesa. N. Cipriani contesta decisamente,

riprendendo G. Madec, l’interpretazione errata di questo testo data da Du Roy, il quale confonde i

multi con i quidam, riferendo tutto ai pagani. Riprendendo il testo di Acad. 3, 20, 43, viene

sottolineato che la filosofia di Agostino ha il suo fondamento nella auctoritas di Cristo e mira a

conoscere intellettualmente ciò che crede; essa è anche animata dalla fiducia di trovare nei Platonici

idee e dottrine che non siano in contrasto con le Sacre Scritture (sacris nostris) per quanto concerne

le res intellegibiles. Nella dichiarazione di Acad. 3, 20, 43 è condensato tutto il programma della

prima riflessione agostiniana, il quale può essere sintetizzato in tre punti, che vogliamo indicare per

l’utilità dei lettori. Premesso che alla conoscenza del vero si può giungere sia attraverso la

rivelazione che con la semplice ragione, Agostino afferma: a) che la fede cristiana è il punto di

riferimento obbligato per ogni sua ricerca; b) esprime una fiducia critica nei confronti dei filosofi

pagani di poter apprendere anche da loro qualcosa di vero sulle realtà intelligibili, che non sia in

contrasto con la fede; c) infine esprime il proposito di approfondire con la ragione ciò che si

apprende con la fede, per giungere con la ragione all’intelligenza, cioè alla conoscenza certa che

esclude ogni dubbio (scientia)45

. Per Agostino, quindi, le vie per conoscere il vero sono due:

l’auctoritas e la ratio46

. Nel tentativo di ricercare la fonte della soluzione agostiniana del rapporto

intellectus-fides, N. Cipriani seguendo Madec47

contesta Heinrich Dörrie che si era sentito

autorizzato a sostenere che la soluzione di tale rapporto fosse di origine porfiriana. Lo studioso

agostiniano, seguendo anche qui il nuovo paradigma interpretativo basato sulla corrispondenza di

strutture concettuali e lessicali, fa osservare che già Tertulliano e Mario Vittorino si erano dichiarati

a favore dell’opzione metodologica della priorità temporale della fede sulla ragione. Si può dunque

ragionevolmente concludere che già dai primi tempi della conversione è attivo in Agostino quel

duplice movimento di pensiero che, come ricorda N. Cipriani, il filosofo italiano Giovanni Reale48

43

beata v., 4, 33.

44 N. Cipriani, I Dialoghi, pp. 50-51.

45 Ibid., p. 54.

46 acad. III, 20, 43; ord. II, 9, 26.

47 G, Madec, Augustin, disciple et adversaire de Porphyre, in REAug 10 (1964), pp. 365-369.

48 G. Reale, Agostino e il Contra Academincos, in L’opera letteraria tra Cassiciacum e Milano, Palermo 1987, p. 25.

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ha denominato circolo ermeneutico, perché “incentrato sui rapporti biunivoci tra fede e ragione per

il raggiungimento e la fruizione della verità”.

c) Le norme che regolano il genere letterario dei Dialoghi

La prima parte del volume si chiude con il quinto capitolo intitolato Il genere letterario dei

Dialoghi. Lo studioso agostiniano, dopo aver indagato i paradigmi interpretativi, la ricerca delle

fonti, l’epistemologia e il metodo agostiniano, si sofferma a illustrare la varietà di norme che

anticamente regolavano il genere dialogico e l’uso che ne fa Agostino. Viene sottolineato che la

scarsa attenzione data a questo aspetto ha portato fuori strada molti lettori e anche studiosi di chiara

fama: il caso più clamoroso è costituito da quanti hanno attribuito all’autore del dialogo le idee

espresse da un interlocutore, ma da lui non condivise. Lo studioso si riferisce all’affermazione di De

ordine: 1, 6, 16: Et bona et mala in ordine sunt. Con queste parole Licenzio esprime la convinzione

stoico-platonica che Agostino in seguito critica e corregge. Molti studiosi hanno invece creduto che

esprimesse il pensiero di Agostino.

Dopo una breve digressione sulla dialettica e sulla conoscenza che l’autore dei Dialoghi possedeva

della dialettica platonica, della logica aristotelica e della logica stoica, lo studioso agostiniano si

sofferma sulle caratteristiche e norme principali del dialogo, riprendendo un passo delle Vite dei

filosofi di Diogene Laerzio49

. Crediamo di fare un servizio utile ai lettori riportando qui brevemente

con qualche commento le quattro regole o caratteristiche del dialogo che vengono illustrate nelle

pagine 68-76 del volume. Per quanto ci risulta, gli studiosi hanno poco utilizzato le quattro regole di

Diogene Laerzio per l’analisi dei dialoghi agostiniani: 1) Il dialogo è un discorso, un sermo, ex

interrogatione et responsione compositus, da Agostino ritenuto la forma più adatta per la ricerca

filosofica. Nel dialogo dominano la dialettica e la logica, come nell’eloquenza regna la retorica. Da

qui l’importanza della conoscenza, da parte dello studioso, della logica stoica che Agostino conosce

e utilizza magistralmente; 2) la seconda caratteristica del dialogo riguarda i temi strettamente

filosofici cioè della fisica, della logica, dell’etica e in parte anche della politica. Non ci si può quindi

aspettare dai dialoghi di Agostino la trattazione di argomenti scritturistici o di fede. Nei primi

Dialoghi di Cassiciaco infatti sono discussi temi propri della filosofia: il criterio di verità (criterium

veritatis) nel Contra Academicos, il sommo bene (summum bonum), nel De beata vita, l’ordine

cosmico (ordo rerum), ovvero i mali e la provvidenza, nel De ordine. A questo proposito N.

Cipriani fa un’osservazione amara, scrive: “Non tenendo presenti il carattere propriamente

filosofico del dialogo, che esige tali argomenti, taluni lettori sono stati indotti a concludere che

l’autore non fosse un perfetto convertito al cristianesimo, ma piuttosto un filosofo neoplatonico”50

;

3) per comprendere i Dialoghi è importante anche la terza caratteristica segnalata da Diogene:

l’autore del dialogo deve rispettare il “carattere” dei personaggi introdotti nella discussione. Nei

Dialoghi di Cassiciaco gli interlocutori principale sono ben caratterizzati; 4) l’ultima caratteristica

attribuita da Diogene al dialogo è l’accuratezza della compositio verborum. Infatti grande è la

49

D.L., 3, 32, 48-49.

50 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 71

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preoccupazione letteraria che traspare nei Dialoghi. Sappiamo dalle Confessiones e dalle

Retractationes che più tardi Agostino biasimerà l’orgogliosa intenzione di fare letteratura nei

Dialoghi di Cassiciaco. Le eccessive preoccupazioni per la latinitas portarono il convertito a

discutere con Alipio sull’opportunità di inserire o meno il nome di Cristo nei Dialoghi, giungendo

in un’occasione a chiamarlo perfino con il nome di Apollo ed evitando in ogni modo rigorosamente

l’uso di cristianismi come ecclesia, sacramenta, scriptura, ecc. che potevano offendere la puritas

della lingua. Commette grave errore, afferma N. Cipriani51

, chi, fermandosi alla superficie del

discorso (agli elementi formali, come la lingua e lo stile), giunge alla conclusione che l’autore dei

Dialoghi è ancora un retore poco cristiano: lui stesso ha confessato il peccato di superbia nel voler

fare letteratura, ma ha riconosciuto nello stesso tempo che quei libri erano già al servizio di Dio,

cioè erano espressione della sua fede cristiana.

UN ESEMPIO DI LETTURA ATTENTA DEI TESTI

a) Alcune osservazioni generali sui dialoghi.

Nella seconda e terza parte del volume vengono presi in esame i singoli dialoghi, quelli anteriori al

battesimo e quelli ad esso posteriori, con lo scopo di offrire al lettore l’aiuto per una lettura attenta e

“semplice”, direbbe C. Madec52

, dei testi e poter cogliere la struttura generale e sottolineare i

passaggi più significativi dell’opera. Viene suggerito di fare di ogni dialogo una lettura che evidenzi

le circostanze della composizione , lo scopo, il genere letterario utilizzato e la struttura generale del

Dialogo. L’indagine su ogni dialogo deve partire sempre dalle informazioni che Agostino fornisce

nelle Retractationes. Questo suggerimento ha un’importanza capitale. A volte viene ricordato che i

lettori, ignorando le indicazioni delle Retractationes circa il contenuto, le circostanze di tempo e di

luogo e i destinatari dei Dialoghi, non hanno ben colto il significato dell’opera. A proposito dei

primi tre Dialoghi, scritti prima del battesimo, viene fatta una rilevazione importante, che molti

studiosi non anno individuato. Il Contra Academicos, il De beata Vita e il De ordine, costituiscono

una trilogia. Senza negare del tutto l’influenza dell’esperienza personale, si deve ricordare che i due

problemi, che costituiscono l’argomento dei primi due Dialoghi, erano ritenuti prioritari ella

tradizione filosofica. Cicerone nel Lucullus scriveva: “Sono due i principali temi in filosofia: il

criterio di verità (iudicium veritatis) e il sommo bene (finem bonorum). Il problema relativo al

criterio di verità e quello del sommo bene riguardavano le prime due parti della filosofia: logica ed

etica e ne costituivano i presupposti fondamentali. A questi due problemi Agostino aggiungeva nel

De Ordine il problema dell’ordine del mondo, sia perché era un tema che riguardava la terza parte

della filosofia, cioè la fisica, sia perché, come l’Autore evidenzia nell’esordio (ord. 1, 1, 1) del

Dialogo, la mancata soluzione del problema del male e della natura della divina Provvidenza

costituisce un serio ostacolo alla ricerca filosofica53

.

51

ibid., p. 73

52 G. Madec, Il De libero arbitrio, p. 15.

53 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 79-80.

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Occorre inoltre tener presente che la forma dei Dialoghi scritti dopo il battesimo è diversa da quella

dei primi. Già a partire dai Soliloquia il dialogo cessa di essere concepito come un’opera che vuole

gareggiare anche sul piano letterario con i modelli dell’antichità classica. Le dispute non vengono

più inquadrate in un ambiente determinato (nelle terme, nel prato, nel dormitorio), né in un preciso

momento della giornata (mattino o pomeriggio) come accadeva nei primi tre Dialoghi. Inoltre, fa

notare N. Cipriani54

, i dialoghi scritti dopo il battesimo non sono più dispute a più voci in cui si

affrontano tesi contrapposte: gli interlocutori sono soltanto due, uno che domanda, l’altro che

risponde; da un lato c’è un maestro, Agostino, dall’altro un discepolo, l’amico Evodio o il figlio

Adeodato nel De magistro. Comunque si tratta ancora di dialoghi non del tutto fittizi. Gradualmente

Agostino si orienta verso una forma più modesta del dialogo; abbandona la pretesa letteraria con

l’unico intento di ricercare e insegnare.

b) Un’ipotesi di ispirazione tertullianea

Non è necessario, a questo punto, sottolineare tutte le novità interpretative che vengono evidenziate

dall’analisi acuta e precisa che lo studioso agostiniano svolge di ogni dialogo anteriore o posteriore

al battesimo nella seconda e terza parte del volume. Mi limito a evidenziare una novità che ha

contribuito non poco a comprendere meglio alcuni problemi che Agostino tratta nei Dialoghi. Mi

riferisco all’ipotesi dell’ispirazione tertullianea del De libero arbitrio che lo studioso discute nelle

pagine 153-161. L’ipotesi che viene avanza prende spunto da una dichiarazione che si legge nelle

Confessiones e riferita al periodo milanese anteriore al battesimo. “Cercavo di vedere con

l’intelligenza quello che sentivo dire ossia che il libero arbitrio della volontà è la causa del male che

facciamo e il retto giudizio di Dio è la causa del male che soffriamo, ma non riuscivo a vederlo”55

.

Questo pensiero che Agostino aveva ascoltato prima della lettura dei libri platonici è fatta oggetto di

analisi all’inizio del De libero arbitrio.

Il dialogo De libero arbitrio inizia con la domanda di Evodio “utrum Deus non sit auctor mali”,

domanda alla quale Agostino risponde distinguendo due generi di mali e attribuendo a ciascun

genere un proprio autore: “diciamo male ciò che uno fa di male e ciò che uno soffre di male. Dal

momento che crediamo che in un mondo governato dalla divina provvidenza nessuno può soffrire

un male ingiustamente, dobbiamo concludere che i mali che soffriamo sono giuste punizioni di Dio

e che Dio dunque sia l’autore di questo tipo di mali che l’uomo subisce. Dell’altro tipo di male,

invece, ciascuno è autore delle sue cattive azioni che non potrebbero essere punite da Dio se non

fossero compiute con la volontà” (lib. arb. I, 1, 1). Indagando la dottrina dell’origine del male

esposta nel De libero arbitrio, viene portata alla luce un’altra idea centrale, la nozione di ordinatio

iudiciaria: il peccato è un disordine perché contrario alla legge eterna da imputare alla libera

volontà dell’uomo, che il giudizio di Dio punisce con l’infelicità (miseria) per farlo rientrare

nell’ordine. Tale dottrina è anche esposta nell’opera De moribus Ecclesiae catholicae et de moribus

Manichaeorum scritta nel 388, contemporanea almeno al primo libro del De Libero Arbitrio. Nel

De Moribus, Agostino dopo aver chiarito che la corruzione (corruptio) è ontologicamente un

54

Ibid., p.139.

55 conf. VII, 3, 5: et intendebam ut cernerem quod audiebam liberum voluntatis arbitrium causam esse ut male

faceremus, et rectum iudicium tuum ut pateremur et eam liquidam cernere non valebam.

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deficere ab essentia e che la perversione (perversio) è contraria alla ordinatio, nel capitolo che

segue scrive: “La bontà di Dio tuttavia non permette che le cose giungano a quel punto (cioè al non-

essere), ma ordina tutte le cose che vengono meno in modo che siano nella condizione più

convenente, fino a che, con movimenti ordinati non ritornino al principio da cui si allontanarono.

Così anche le anime ragionevoli, nelle quali è potentissimo il libero arbitrio, se si allontanano da

Dio, vengono da Lui ordinate nei gradi inferiori della creazione, dove è bene che siano. Sono rese

quindi infelici dal giudizio divino, mentre vengono ordinate secondo i loro meriti.56

L’idea

riguardante la distinzione del male dal suo autore e la dottrina riguardante la ordinatio iudiciaria

venivano collegate da Agostino con l’esegesi del passo di Is. 45, 7 (LXX), che i Manichei

interpretavano come un’ammissione, da parte del Dio dell’Antico Testamento, di essere creatore del

male. Il testo di Is. 45, 7 [LXX] suonava così: ego facio bona et condo mala. Agostino, in De

moribus Ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum, II, 7, 9, commentava così la frase

biblica: “Il verbo creare è usato nel senso di regolare e ordinare. Fare, infatti, si dice in riferimento

a quello che non esisteva affatto, condere e ordinare si dice, invece, di ciò che esisteva già, perché

sia meglio e di più. Quando perciò Dio dice: condo mala, significa che Egli ordina le cose che

vengono meno, cioè che tendono al non essere, non già quelle che giunsero là dove tendono”57

.

Evidenziata per la prima volta nella storiografia agostiniana la duplice distinzione del male (il male

che facciamo e il male che soffriamo), la duplice causa del male (la libera volontà dell’uomo per il

primo tipo e il giudizio di Dio per il secondo), la nozione di ordinatio iudiciaria e il legame con

l’esegesi di Isaia 45, 7 (LXX), lo studioso agostiniano individuava con la sorpresa degli studiosi, la

fonte di quelle nozioni utilizzate da Agostino. Veniva avanzata l’ipotesi che Agostino poté

apprendere quelle idee dall’Adversus Marcionem di Terulliano58

. Nel secondo libro di questo

trattato antimarcionita, il prete di Cartagine riporta l’interpretazione che era stata data dai marcioniti

alla frase biblica di Isaia 45, 7 (LXX), e osserva che gli eretici erano stati ingannati dall’ambiguità

della parola mala, che può significare due tipi di male: quia mala dicuntur et delicta et supplicia.

Facendo la dovuta distinzione e separando mala delicti da mala supplicii, mala culpae da mala

poenae, risulta che a Dio non si possono imputare i peccati e le colpe che risalgono al diavolo, ma

solo quelli che convengono alla sua giustizia e al suo giudizio ordinatore (condendis): “questi ultimi

sono certamente mali per coloro che vengono puniti, ma in se stessi sono beni, nemici dei delitti e in

quest’ordine degni di Dio” (Adv. Marc. II, 14, 1-3). E’ evidente che ci troviamo di fronte a una

forma di corrispondenza concettuale e lessicale che non si può negare.

56

mor. II, 7, 9.

57 Ibid.

58 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 155.

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I RISULTATI PIU’ RILEVANTI DELL’INDAGINE

Dopo aver esposto la struttura e il contenuto dei singoli dialoghi, nella quarta parte del volume N.

Cipriani espone una sintesi dottrinale, con l’evidente scopo di valutare l’estensione dell’influsso del

platonismo nei Dialoghi e quello della fede cristiana di Agostino nel periodo che va dalla

conversione al presbiterato, la dottrina trinitaria, la fede in Cristo e infine il modello antropologico

che Agostino utilizza nell’elaborare il quadro generale della sua filosofia.

a) Fiducia critica nel platonismo

Nel capitolo intitolato Il platonismo nei Dialoghi, viene sostenuto che Agostino è sempre rimasto

fedele alla dichiarazione programmatica fatta al termine del Contra Academicos (3, 20, 43), che no

vuole mai allontanarsi dall’autorità di Cristo e che ha la fiducia di trovare nei Platonici idee non in

contrasto con la fede cristiana. Viene tuttavia ricordato che già prima di ricevere il battesimo

Agostino critica prima gli Accademici per il loro scetticismo ma anche Plotino e Porfirio, il primo

per la sua tesi riguardante la necessità e l’eternità dei mali, il secondo per il suo pessimismo

gnoseologico59

. A proposito del primo vale la pena leggere le pagine 105-113 riguardanti l’analisi

del De ordine, dove viene illustrata in modo chiaro la critica di Agostino a Plotino, sulla questione

riguardante il problema del male morale. E’ cosa probabile che Agostino, soprattutto agli inizi,

abbia concesso ai Platonici più di quanto la fede cristiana consenta. L’ipotesi sembra confermata da

un’autocritica che si trova nelle Retractationes (2, 3, 2) a proposito delle virtù dei filosofi e

dell’esistenza del mondo sensibile e del mondo intellegibile. In questo testo delle Retractationes,

Agostino pur ripetendo la validità della distinzione platonica dei due mondi, tuttavia si rammarica

di averla giustificata equivocando le parole del Vangelo. Ma oltre una certa tendenza che

riscontriamo qua e là a intendere platonicamente la Scrittura denunciata da Agostino stesso, occorre

ricordare che egli ha accolto importanti idee platoniche o neoplatoniche nella convinzione che esse

non fossero in contrasto con la fede cristiana e lo aiutassero a superare il dualismo materialistico dei

Manichei. Cipriani60

giustamente menziona tre studiosi che hanno segnalato i punti nei quali

Agostino è debitore del platonismo: innanzitutto Solignac61

per il quale i libri dei Platonici “hanno

fatto scoprire ad Agostino la riflessività e gli hanno dato il senso dello spirito come atto”; poi viene

ricordato Madec62

, il quale attribuisce alla lettura dei libri dei Platonici la scoperta dello

spiritualismo; infine viene citato il filosofo italiano Giovanni Reale63

che, in un saggio introduttivo

all’edizione bilingue del De natura boni, ha indagato in modo approfondito gli spunti metafisici che

Agostino ha tratto dal platonismo. Sui complessi e strettissimi rapporti di Agostino con il

59

Ibid, p. 202.

60 Ibid, pp. 204-206.

61 A. Solignac, Introduction alle Confessions, BA 13, Paris 1962, p. 99.

62 G. Madec, Le spiritualisme augustinien à la lumière du De immortalitate animae, in Petites études augustiniennes,

Paris 1983, p. 181.

63 G. Reale, Introduzione ad Aurelio Agostino. Natura del Bene, Milano 1995, pp. 7-10.

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platonismo, viene suggerito a pagina 205 di non dimenticare l’ampia e ricca monografia di G.

Reale64

, introduttiva alle Confessiones, che illustra in modo esauriente e documentato i numerosi

debiti che il Padre della Chiesa ha contratto nei confronti dei filosofi pagani, pur nella salvaguardia

della purezza e originalità della fede cristiana.

Il capitolo intitolato Il platonismo nei Dialoghi si chiude a pag. 206 con questa dichiarazione dello

studioso agostiniano: “Dopo aver rilevato i debiti contratti nei confronti dei Platonici, però, occorre

anche notare come il convertito, fin dall’inizio, abbia saputo contrapporsi ad essi e su punti non

marginali, in forza della sua nuova fede. Il carattere cristiano dei contenuti dei Dialoghi, anteriori e

posteriori al battesimo, apparirà ancora più chiaramente da ciò che diremo in seguito sui punti più

controversi: la dottrina trinitaria, la fede in Cristo e l’antropologia”.

b) Iniziale dottrina trinitaria.

Lo studioso agostiniano è convinto che la dottrina trinitaria, soprattutto nei primi dialoghi non fu

affatto ispirata alla dottrina neoplatonica. Viene ricordato che P. Alfaric, O. Du Roy e altri hanno

sostenuto che la dottrina trinitaria contenuta nei Dialoghi, soprattutto nei primi, sarebbe il risultato

di una confusione tra la triade di Plotino e la fede cristiana, con l’identificazione dello Spirito Santo

con la Ragione ordinatrice del mondo. Con questa tesi fu posto un forte dubbio sull’autenticità della

fede cristiana di Agostino a livello trinitario65

.

Già molti anni fa, come abbiamo ricordato all’inizio, N. Cipriani66

aveva dimostrato che la dottrina

trinitaria dei Dialoghi, non è ispirata a Plotino ma è invece il risultato di una lettura dei trattati

antiariani di Mario Vittorino e delle opere trinitarie di Ambrogio.

Vengono esaminati con il metodo delle concordanze concettuali e lessicali, diversi testi per provare

questa tesi. Riprendiamo alcune osservazioni relative al testo di De ordine 2, 5, 16 nel quale viene

sottolineato che la perfetta conoscenza della Trinità divina proviene soltanto dalla rivelazione

cristiana, tant’è vero che Agostino afferma di voler conoscere Dio trino e uno secondo i venerabili

misteri e non nel modo confuso e blasfemo in cui lo predicano gli eretici o sabelliani o ariani. In De

ordine infatti l’Africano assegna alla vera filosofia (germana philosophia) il compito d’insegnare la

dottrina della divina Trinità ”nec confuse, ut quidam, nec contumeliose, ut multi praedicant”, ma in

conformità ai veneranda mysteria. A quali errori si riferisce l’autore? O. Du Roy67

crede che egli

alluda ai filosofi neoplatonici che insegnerebbero la Trinità confusamente e orgogliosamente. N.

Cipriani68

fa osservare che questa interpretazione è una forzatura, che trascura completamente la

distinzione, presente nel testo, tra i quidam che confondono e i multi che offendono. Più attendibile

è la spiegazione di chi crede che nel confuse ut quidam alluda al modalismo sabelliano e nel

64

Ibid, Introduzione ad Agostino. Confessioni, Milano 2012.

65 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 207.

66 Ibid., Le fonti cristiane, pp.253-312

67 O. Du Roy, L’intelligence de la foy, p. 125, n.1,

68 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 208.

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contumeliose ut multi alluda agli ariani che considerano il Figlio inferiore al Padre e sua prima

creatura. Questa lettura è verosimile perché la contrapposizione delle dottrine degli eretici sabelliani

e ariani riappare in Soliloquia 1, 1, 4; in De quantitate animae 34, 77 e in De moribus Ecclesiae et

de moribus manichaeorum 1, 30, 62. N. Cipriani è convinto che una conoscenza tanto precisa del

dibattito ecclesiale sulla Trinità non si può spiegare solo con l’ascolto della predicazione di

Ambrogio o con le conversazioni avute con Simpliciano. Non si può scartare l’ipotesi di una lettura

diretta di un’opera scritta e circolante a Milano, come il De fide, dove Ambrogio accenna

ripetutamente e nei medesimi termini a quella opposizione. In molte pagine del De fide Ambrogio si

contrappone alle eresie di Sabellio e di Ario utilizzando contro la prima l’avverbio confuse o il

sostantivo confusio e contro la seconda i sostantivi discretio, iniuria e perfino contumelia. Il lettore

viene rimandato a una serie di testi del De fide, in particolare 1, 1, 6; 1, 1, 8; 2, 2, 33; 4, 11, 159; 5,

12, 159. Il De fide di Sant’Ambrogio può spiegare bene le espressioni contenute nel De ordine, che

altrimenti risulterebbero del tutto oscure.69

Lo studioso agostiniano andando in profondità al testo di De ordine 2, 5, 16 ha fatto osservare che

risulta evidente l’influsso di Mario Vittorino, anche nella terminologia. Per indicare le tre Persone

divine Sant’Agostino privilegia i termini tripotens e tria già utilizzati da quell’autore. Inoltre

chiama il Padre Principium sine principio e il Figlio Intellectus, gli stessi termini usati unicamente

o quasi dal medesimo scrittore nei trattati antiariani. Lo stesso influsso si può osservare anche nella

dottrina oltre che nella terminologia teologica70

. Agostino afferma in De beata vita 4, 35 che i tria

hanno una substantia e che lo Spirito Santo è “per quid connectaris summo modo”; Mario Vittorino

in Inno I, 75 usa gli stessi termini: “Hinc tribus una substantia est” e “Tu, Spiritu sancte, connexio

es; connexio autem est quidquid connectit duo”. L’autore dei Dialoghi crede che lo Spirito Santo sia

Figlio di Dio. Questa idea, che in Occidente è esclusiva di Mario Vittorino, appare qua e là nei

Dialoghi, ora in modo oscuro come in De ordine 2, 5, 16, ora in modo più chiaro come in De beata

vita 4, 35 e in modo inequivocabile in Soliloquia 1, 1, 2. Lo studioso agostiniano trova ulteriori

conferme alla sua tesi analizzando alcuni passaggi della preghiera iniziale dei Soliloquia, così densa

di dottrina teologica che non si può spiegare con l’influsso dei filosofi platonici, né con il semplice

ascolto dei discorsi di Sant’Ambrogio. La preghiera diventa invece comprensibile se si legge alla

luce dei due autori cristiani sopra menzionati71

.

Nella parte finale del Capitolo intitolato La dottrina trinitaria vengono riassunti i risultati

dell’indagine sul tema riguardante la dottrina trinitaria. Riassumiamo due di questi risultati: 1)

l’autore dei Dialoghi non conosce ancora la formula trinitaria che diventerà classica “una sostanza

in tre persone”. Egli preferisce parlare di Tria et una substantia o Tripotens, dando grande

importanza alla regula fidei nel distinguere nella Trinità le persone divine senza conforderle né

separarle, opponendosi da un lato al modalismo sabelliano e dall’altra all’eresia ariana; 2) poiché la

distinzione fra le persone si fa individuando il proprium di ciascuna, il convertito si muove subito in

questa direzione: già nei primi Dialoghi considera Dio il Padre di Gesù Cristo, il Summus Modus, o

69

Ibid, pp. 209-210.

70 Ibid, p. 210.

71 Ibid, p. 212.

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il Principium sine principio che per una clementia popularis abbassa il suo Intelletto ad assumere il

corpo dell’uomo; seguendo la Scrittura, considera il Figlio la Verità e la Sapienza di Dio incarnata;

più difficile gli risulta la qualifica dello Spirito Santo, che al pari di Mario Vittorino considera

Figlio e del quale preferisce rilevare la molteplice azione interiore72

. In breve occorre rilevare che

Agostino, subito dopo il battesimo; compie passi importanti nella pneumatologia. Riconosce la

Carità come proprium dello Spirito Santo73

, ne afferma esplicitamente la divinità attribuendogli

nello stesso tempo la santificazione dell’uomo74

. In conclusione, la dottrina trinitaria del convertito

risulta ispirata già nei primi dialoghi agli scritti di due autori cristiani, Mario Vittorino e Ambrogio,

ai quali, fin dopo il battesimo, è associato Ilario (e forse altri autori cristiani).

c) La fede nel Verbo fatto carne.

Nel capitolo intitolato La fede in Cristo lo studioso agostiniano s’impegna a contestare

un’affermazione di G. Folliet il quale, a proposito della lettera XI a Evodio, scrive: “A leggere e

rileggere questa lettera, si è un po’ sorpresi di non trovarvi alcuna allusione al peccato dell’uomo e

alla sua redenzione. Il Figlio di Dio ci viene presentato, in rapporto alle altre Persone della Trinità,

nel suo ruolo specifico di Species o di Forma, sia nella funzione di Rivelatore del Padre....” Stando

a questo testo, dunque, sembrerebbe che secondo il pensiero di Agostino, a questa data, la salvezza

portata dal Figlio di Dio all’uomo si realizzi sul piano della conoscenza o della pedagogia e non su

quello della redenzione. Altri testi, anteriori al 391, ci sembrano confermare questa posizione”75

.

Se viene fatta una lettura attenta dei Dialoghi si possono invece individuare testi in cui Cristo

appare molto più che un maestro di moralità. In primo luogo, per quanto riguarda la purezza della

sua fede cristiana, bisogna evidenziare l’insistenza con cui Agostino difende la vera divinità del

Figlio. Contro un’affermazione ambigua di Licenzio precisa: “Sappi contenerti, piuttosto, lo

rimprovera: il Figlio non è detto Dio in senso improprio” (ord. 1, 10, 29). Vengono registrati diversi

testi in cui Agostino crede all’avvenimento dell’incarnazione del Figlio di Dio, come opera d’amore

del Padre e del Figlio. In Acad 3, 19, 42, si legge: “… il sommo Dio con una sorta di clemenza

popolare ha piegato e abbassato l’autorità del divino Intelletto fino allo stesso corpo umano”. In De

ordine 2, 5, 16 scrive che “un Dio così grande si è degnato di assumere e portare per noi (propter

nos) il corpo della nostra specie”. In De beata vita 4, 34 viene fatta un’ampia descrizione della

figura di Cristo, Figlio di Dio, Verità, Potenza e Sapienza di Dio, come si legge nelle Scritture. In

De ordine 2, 9, 27 la purezza di fede cristiana di Agostino si rivela nell’affermazione che Cristo è la

vera, firma, summa auctoritas divina per gli stessi motivi portati da Sant’Ambrogio contro gli

72

Ibid, p. 220.

73 an. quant., 33, 77.

74 mor. I, 14, 33.

75 G. Folliet, La correspondance antre Augusti net Nébridius, in L’opera letteraria di Agostino tra Cassiciaco e Milano,

Palermo 1987, p. 212.

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Ariani che negavano a Cristo una potestas e una auctoritas divina uguale al Padre. N. Cipriani76

non

si limita a registrare testi il cui senso immediato evoca la fede in Gesù Cristo di Agostino ma tenta

anche di portare l’indagine su altri testi il cui vero significato può essere evidenziato solo se si tiene

presente la fonte ispiratrice. Utilizzando il già collaudato metodo interpretativo delle concordanze

concettuali e lessicali, analizza due testi, il primo in Soliloquia 1, 1, 3, il secondo in De ordine 2, 5,

15-16. Dal primo testo emerge che Cristo non è solo l’Intelletto divino incarnato che insegna agli

uomini la verità e per mezzo del quale possiamo conoscere il Padre, ma è anche il Dio per quem

vincimus inimicum. Il significato cristologico soteriologico di questa affermazione, che Du Roy

aveva riferito allo Spirito Santo, emerge in modo chiaro se viene posto a confronto con la fonte che

l’ha ispirata. L’espressione “quem vincimus inimicum” trova riscontro in un’opera di Mario

Vittorino. Questo retore-filosofo, convertito in tarda età al cristianesimo, aveva affermato in un

inno: Diu repugno, diu resisto inimico meo (Hymn. 2, 48-49). La stessa affermazione che il

credente vince il nemico per mezzo di Gesù Cristo si trova in vari commenti a lettere di San Paolo:

in Eph. 3, 12; 4, 21; 4, 32 e in Phil. 2, 13. Alla luce di questi testi di Mario Vittorino l’invocazione

dei Soliloquia manifesta la fede del convertito nella vittoria che il credente riporta sul peccato, sulla

morte e sul diavolo a motivo della morte e resurrezione di Cristo. La genuina fede cristiana di

Agostino emerge con chiarezza anche in De ordine 2, 5, 15-16, ove Agostino ricorre a una struttura

concettuale costituita da quattro termini: fides (credere), mysteria, Christus, liberare, per esprimere

la propria certezza nella virtù liberatrice della fede cristiana. La suddetta struttura, con gli stessi

termini, è utilizzata da Mario Vittorino in diversi passi dei suoi scritti, mentre non si trova in alcun

altro scrittore precedente.

Ecco i due testi agostiniani: Si autem aut pigriores sunt aut aliis negotiis praeoccupati aut iam duri

ad discendum, fidei sibi praesidia parent, quo illos vinculo ad sese trahat atque ad iis horrendis et

involutissimis malis liberet ille, qui neminem sibi per mysteria bene credentem perire permittit (ord.

2, 5, 15); i mysteria sono (…) veneranda mysteria, quae fide sincera et inconcussa populos liberant

(ord. 2, 5, 16). Si può intuire il vero significato di tali affermazioni se si tiene presente le fonte

ispiratrice. Dal primo testo si ricava che colui che libera da orribili mali è Cristo, perché è Lui che

non lascia perire alcuni di coloro che credono in Lui. (Io 3, 15). Noi comprendiamo la natura dei

misteri, di cui sta parlando l’autore del De ordine, se interpretiamo i testi alla luce di quanto scrive

Mario Vittorino. Basta un testo che ritroviamo nel Commentario alla lettera agli Efesini: ergo

mysterio quod hic implevit et carne et morte et resurrectione, subventum est animis, et, si in

Christum fides sumatur, ille suscipit huismodi animas et adiuvat et liberat (in Eph. 3, 12). M.

Vittorino ripete più volte la medesima struttura concettuale (credere, mysteria, liberare, Christus)

usata da Agostino in De ordine, specificando che si tratta della fede nei misteri dell’incarnazione,

morte e risurrezione di Cristo, che ottiene da Lui la liberazione delle anime. Leggendo i testi

agostiniani alla luce di quanto scrive Mario Vittorino, N. Cipriani77

corregge, in questo caso, J.

Doignon che aveva identificato i mysteria con le Scritture. Nella parte finale del capitolo viene

evidenziata in alcuni Dialoghi la nozione di peccato e di grazia. Il capitolo si chiude con parole che

vogliamo riportare per l’utilità dei lettori i quali, a causa delle molteplici interpretazioni fornite a

76

N. Cipriani, I Dialoghi, p. 224-225.

77 Ibid., p. 226.

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proposito dei primi scritti agostiniani, si trovano disorientati nel comprendere il pensiero

dell’Africano. L’autore del saggio scrive: “In conclusione, possiamo affermare che, sebbene nei

primi scritti agostiniani l’accento cada sull’aiuto che da Cristo può venire all’uomo nella ricerca

della verità e quindi anche a livello d’insegnamento e di esempio morale, non mancano tuttavia testi

in cui la grazia di Cristo appare più ricca e complessa: Cristo da un lato libera dai mali coloro che

credono nei suoi misteri e li fa partecipare alla sua vittoria sul nemico, dall’altro, mediante il dono

dello Spirito Santo che diffonde nei cuori la carità, li converte, li rinnova, li santifica e infine li fa

partecipi della risurrezione del suo corpo”78

.

d) Elementi varroniani nell’antropologia agostiniana.

N. Cipriani si è sempre ritenuto innanzitutto un filologo, nel senso che ha preferito studiare le fonti,

da cui Agostino ha preso spunto per la formazione del suo pensiero, per seguirne lo sviluppo entro il

suo contesto storico-culturale. Con le indagini da lui condotte per studiare gli aspetti fondamentali

dell’antropologia filosofica agostiniana è riuscito, a partire dai risultati delle sue ricerche

filologiche, a individuare alcune implicazioni speculative che hanno permesso di ricostruire in

modo nuovo il quadro antropologico del pensiero dell’Africano. Inoltre ha posto in evidenza e

documentato che l’antropologia dei primi scritti agostiniani è ispirata al neoplatonismo solo per

quanto riguarda la spiritualità e l’immortalità dell’anima; quando si passa a considerare la

corporeità dell’uomo, i beni del corpo, l’unità del corpo con l’anima e quindi la nozione di natura

umana, Agostino, opponendosi alla concezione antropologica dei neoplatonici (i quali

identificavano l’uomo con l’anima razionale), si orienta verso un modello antropologico che stima il

corpo come parte integrante dell’uomo e che valuta positivamente i valori del corpo e della vita

sociale totalmente estranei ai filosofi neoplatonici79

. E’ proprio Varrone, esponente latino della

filosofia di Antioco di Ascalona, a fornire il modello antropologico. Agostino accoglie questo

modello avanzando però due critiche: 1) Varrone e Antioco pretendevano raggiungere la felicità da

soli, con le proprie forze, senza l’aiuto di Dio; 2) essi pretendevano di raggiungere la felicità sulla

terra. N. Cipriani fa notare che nonostante queste due critiche, cinque verità inclinarono fin dagli

inizi il convertito verso questo modello antropologico: 1) la definizione dell’uomo; 2) l’idea unitaria

dell’anima; 3) la relazione naturale e necessaria dell’anima verso il corpo; 4) la triplice distinzione

aristotelica dei ben; 5) la nozione di natura umana come principio dinamico di appetitus o prima

naturae.

Esaminiamo questi cinque elementi “varroniani” che, secondo lo studioso agostiniano, risultano ben

integrati nella visione antropologica elaborata negli scritti agostiniani che precedono l’ordinazione

presbiterale.

78

Ibid., p. 230.

79 Ibid., p. 231.

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1) La definizione dell’uomo.

L’illustrazione di questo primo elemento varroniano è fatta precedere da una osservazione

critica rivolta a I. Hadot secondo la quale la definizione di uomo che si trova in De ordine

2, 11, 31 -Homo est animal rationale mortale- sarebbe sì autentica, e quindi non

neoplatonica, “ma l’interpretazione che ne è stata fatta è essenzialmente neoplatonica”. La

studiosa illustra così la sua interpretazione: “l’uomo non è più composto dall’anima e dal

corpo, bensì è ora identico, non all’anima nella sua totalità, ma alla sola anima razionale. La

mortalità dell’uomo non designa più la morte del suo corpo, ma l’inclinazione dell’anima

razionale verso le cose corporee e mortali”80

. Già precedentemente N. Cipriani81

aveva

osservato che questa definizione esprime bene l’unità del composto umano e che ricerche

specifiche, dopo averne rilevato il carattere eclettico platonico-aristotelico-stoico, la

facevano risalire proprio ad Antioco dei Ascalona. In effetti già Aristotele aveva definito

l’uomo animale ragionevole. Secondo Plutarco furono poi gli Stoici, in particolare Crisippo,

a sottolineare la differenza fra l’uomo e gli dei proprio nel fatto che il primo è mortale

mentre i secondi, pur non essendo incorruttibili, sono immortali. Agostino comunque

riferisce la definizione attribuendola ai veteres sapientes o semplicemente ai veteres,

espressioni che certamente rimandano ai filosofi più antichi dei neoplatonici. Ma in De

beata vita (2, 7) viene sottolineato con chiarezza che l’uomo è composto di anima e di

corpo, perché “né senza corpo né senza anima può esserci l’uomo”.

Agostino ritorna negli stessi termini e con maggior chiarezza su questa definizione

nell’opera in De moribus Ecclesiae Catholicae. Qui, riprendendo il suggerimento di

Varrone contenuto nel De philosophia e indagando sulla natura del sommo bene dell’uomo,

Agostino si chiede “che cosa sia il sommo bene dell’uomo” e risponde che “né senza anima

né senza corpo può esserci l’uomo”, spiegando poi così l’affermazione: “infatti né il corpo

sarebbe uomo senza l’anima, né l’anima sarebbe uomo, se essa non animasse il corpo”82

.

Egli ammette che si potrebbe anche dire che l’uomo è l’anima, ma solo perché e in quanto

l’anima dà vita al corpo, cioè dice relazione al corpo. Anche in questo testo Agostino si

confronta con la dottrina antropologica che Varrone aveva esposto in De philosophia, di cui

critica la chiusura immanentistica, accettandone tuttavia la visione eudemonistica e la

concezione antropologica. Secondo ciò che è riferito in De civitate Dei, Varrone, ricordate le

ipotesi dell’identificazione dell’uomo solo con la sua anima o solo col suo corpo, avanzava

la terza ipotesi alla quale dava il suo assenso con queste parole: an vero nec anima sola nec

solum corpus, sed simul utrumque sit homo, cuius sit pars una sive anima sive corpus, ille

autem totus ex utroque constet83

. E’ la stessa concezione che Agostino accoglie sia in De

80

I. Hadot, Arts Libéraux, p. 106.

81 N. Cipriani, L’influsso di Varrone, pp. 378-383.

82 mor. I, 4, 6.

83 civ. XIX, 3, 1.

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moribus sia in De beata vita( II, 7). In riferimento al testo di De moribus sopra citato, N.

Cipriani scriveva alcuni anni fa: “Non riesco a spiegarmi come un testo così chiaro abbia

potuto essere tanto frainteso da leggervi il contrario, ossia il rigetto da parte dell’autore

dell’idea varroniana che il corpo fa parte integrante dell’uomo. Eppure è proprio su tale

lettura che la I. Hadot ha costruito almeno in parte la sua tesi della fonte neoplatonica della

teoria delle artes liberales nel secondo libro del De ordine“84

.

2) Concezione unitaria dell’anima.

Un altro punto, in cui è evidente l’influsso di Varrone sulla visione antropologica

agostiniana, è la nozione unitaria dell’anima. In De ordine Agostino, contrapponendosi

quasi certamente a Plotino, scrive che “il sapiente consta non solo di corpo e di anima, ma

anche dell’anima intera (anima tota), perché sarebbe una follia dire che non è propria

dell’anima quella parte che fa uso dei sensi”,85

cioè dell’anima sensitiva. Giustamente viene

fatto osservare che abbiamo qui un testo di somma importanza per stabilire il modello

antropologico tenuto presente dal primo Agostino, secondo il quale anche la parte sensitiva

appartiene propriamente e originariamente all’anima, proprio come avevano affermato

Varrone e, prima di lui, Antioco e Aristotele. Secondo i neoplatonici, invece l’anima che

definisce l’uomo è soltanto quella razionale, perché essi consideravano l’anima irrazionale

(con funzione vegetativa e sensitiva), una parte che si è aggiunta accidentalmente nella

discesa nel corpo86

. In De quantitate animae (33, 70-73) Agostino parla esplicitamente di

un’anima capace di tre gradus di operazioni: vegetativa, sensitiva, razionale e intellettiva,

come aveva scritto Varrone87

. Tale concezione unitaria dell’anima, difesa da Agostino, porta

a conseguenze importanti: per lui, infatti, è immortale l’anima intera, e non solo l’animus o

la mens che è la parte più alta dell’anima, mentre per i neoplatonici solo l’anima razionale è

immortale, come per Aristotele solo il nous.

Tutte queste novità, anche se appena accennate, non impediscono ad Agostino di rimanere

fedele allo spiritualismo platonico e plotiniano, nel sostenere che l’anima è incorporea e

immortale, che occupa un posto intermedio tra Dio e il corpo, presente tutta intera nel corpo

e in ogni sua parte senza occupare alcuno spazio.

84

N. Cipriani, L’influsso di Varrone, pp. 375. Si veda I. Hadot, Arts libéraux, p. 134.

85 ord. II, 2, 6-7.

86 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 232.

87 civ. VI, 23.

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23

3) Relazione naturale e necessaria dell’anima verso il corpo.

La presa di distanza dall’antropologia neoplatonica emerge in modo ancora più evidente nel

modo in cui viene concepita la relazione dell’anima con il corpo. Fin dalla conversione,

Sant’Agostino si è affrettato a modificare, rispetto ai neoplatonici, lo statuto ontologico

dell’anima umana, riconoscendo ad essa una relazione necessaria e naturale con il corpo.

Nel volume vengono analizzati tre testi di opere diverse nelle quali è chiara l’utilizzazione

del modello antropologico varroniano. Il primo testo in questa direzione si trova in De

ordine( II, 6, 18), in cui, percorrendo le tracce segnate da Varrone, l’autore del dialogo vede

nel cavaliere e nel cavallo le immagini dell’anima e del corpo evidenziando un tipo di

relazione naturale e necessaria. Agostino rileva attraverso tale immagine che l’unità del

corpo e dell’anima non è accidentale ma necessaria (necesse est). L’immagine del cavaliere

e del cavallo ritorna in De moribus Ecclesiae Catholicae (1, 4, 6) per sottolineare che

l’anima (il cavaliere) intanto può essere identificata con l’uomo, in quanto è ordinata a

governare il corpo (il cavallo); vi è stessa immagine anche in De civitate Dei (XIX, 3, 1)

dove viene citato esplicitamente Varrone. Il secondo testo si trova in De immortatlitate

animae((13, 20), dove viene affermato che l’anima è costituita da un appetitus naturale, o

tendenza, o inclinazione, verso il corpo (appetitus ad corpus) “o per possederlo o per dargli

vita o per fabbricarlo in qualche modo o per provvedere comunque ad esso”. Tale appetitus

appartiene alla stessa natura dell’anima umana; ma oltre a questa tendenza primaria ve ne

sono altre, anch’esse legate al corpo: gli appetitus di agire (agendi), di conoscere (sciendi),

di sentire (sentiendi), di vivere (vivendi). Il terzo testo da registrare si legge in De quantitate

animae 13, 22. Qui l’anima viene definita “ sostanza partecipe della ragione, adatta a

governare il corpo (regendo corpori accomodata), mentre in 36, 81 è affermato che l’anima

“è stata data al corpo per dargli vita governarlo” ( agendo atque administrando corpori

anima data sit). Per aiutare a capire la peculiarità della definizione di anima data dall’autore

del dialogo, viene proposto un confronto con la dottrina antropologica di Plotino, per

sottolineare che secondo questo filosofo l’anima è discesa o caduta nel corpo

spontaneamente e che è nel corpo come in un ricettacolo88

, mentre Agostino preferisce

seguire la tradizione aristotelico-stoica, secondo la quale l’anima non solo dà vita al corpo,

ma lo tiene unito dall’interno: “lo raccoglie in unità e lo mantiene nell’unità non

permettendo che si dissolva e si consumi”89

. La definizione agostiniana di anima è formulata

mutuando da Varrone (come si è già accennato) l’idea che l’anima intanto si può

considerare e dire uomo in quanto, è in relazione necessaria con il corpo (regendo corpori

accomodata). Con questa operazione Agostino compie un passo di notevole portata

metafisica, perché riconosce alla natura stessa dell’anima una relazione necessaria con il

corpo, considerato da Plotino e Porfirio, se non una disgrazia, un fatto semplicemente

accidentale.

88

an. quant. 30, 61

89 ibid., 33, 70.

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3) La triplice distinzione aristotelica dei beni

I segni dell’influsso varroniano sul modello antropologico agostiniano sono evidenti anche

per la teoria relativa alla triplice distinzione aristotelica dei beni, che Agostino fa propria già

nei Soliloquia.90

Anche il Reatino, nel suo trattato De philosophia, aveva registrato l’idea

aristotelica dei tre tipi di beni (bona animi, bona corporis e bona externa). Per Agostino vi

sono i beni dell’anima, i beni del corpo e i beni sociali, nella convinzione che il corpo è

parte integrante della natura umana e che l’essere umano è tendenzialmente portato alla vita

sociale.91

Nel primo libro del De libero arbitrio Agostino, trattando dei rapporti tra legge

eterna e legge temporale, elenca i beni del corpo e quelli esterni. Tra i beni del corpo sono

menzionati la integra valetudo, l’acumen sensuum, le vires, la pulchritudo ed altri. Questi

beni ci richiamano la sintesi del De philosophia del Reatino in De civitate Dei XIX,4 ,2 e

XXII, 24. Il seguente elenco dei beni esterni ci richiama la stessa fonte: la libertà, “per cui si

considerano liberi quelli che non hanno padroni”; poi parentes, fratres, coniux, liberi,

propinqui, affines, familiares…; quindi la civitas e anche gli honores, la laus, la gloria

popularis, fino alla pecunia. Secondo Varrone l’uso di questi beni è regolato dalla legge

dello stato in modo che, come affermerà Agostino “i cittadini li possiedano in maniera da

conservare la pace della società civile” (lib. arb. 1, 15, 32). La concezione esposta da

Varrone nel suo De philosophia a proposito dei beni, ritorna a farsi sentire ancora più

chiaramente nel secondo libro del De libero arbitrio (II, 18, 47; 19, 50) nel quale Agostino

distingue tre tipi di beni che chiama bona magna, media, minima. E’ utile fare un

riferimento anche al piacere del corpo, tema al quale nel presente volume N. Cipriani

accenna brevemente, ma che aveva trattato diffusamente nel saggio L’influsso di Varrone

nel pensiero antropologico e morale nei primi scritti di Sant’Agostino. Alle pagine 397-399

sosteneva che il piacere del corpo risulta essere annoverato tra i beni del corpo, sia da

Varrone che da Agostino. La voluptas corporis, anche se d’infimo e ultimo grado è stimato

un bene naturale (lib. arb. II, 19, 53; vera rel. 45, 83) perché utile e inseparabile da certe

azioni dei sensi, indispensabili alla conservazione della vita, come il mangiare, il bere, il

procreare: “quando si compiono le azioni che corrispondono alle necessità della vita, la

percezione del piacere nulla ha di irrazionale e di illecito, perché è proprio questa percezione

che distingue le cose utili alla natura da quelle nocive. E’ considerato invece contrario alla

natura razionale dell’uomo il desiderio del piacere del corpo in se stesso, allo scopo di

goderne. In questo desiderio consiste il vitium della libido o concupiscentia carnalis.92

Agostino, quindi, pone il piacere corporeo tra i beni naturali, anche se all’ultimo posto,

distinguendosi con ciò persino dagli Stoici, che lo escludevano del tutto.

4) La Nozione di natura umana come principio dinamico di appetitus o prima naturae

90

sol. I, 9, 16 – 10, 17; 11, 19 – 12, 21.

91 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 236.

92 N. Cipriani, L’influsso di Varrone, pp. 398.

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La riflessione sull’antropologia agostiniana di N. Cipriani non si è fermata ai quattro punti

che abbiamo illustrato, ma è andata in profondità, fino a individuare i caratteri di una

particolare nozione di natura umana, che l’autore dei Dialoghi, ispirandosi a Varrone e a

Cicerone, ha elaborato fin dagli inizi della sua produzione letteraria.

Già nei primi scritti vi sono tracce di una dottrina riguardante tendenze originarie (prima

naturae). Sappiamo che tale dottrina era stata esposta da Varrone ma risaliva ad Antioco di

Ascalona, come documentato dal riassunto che Agostino ne fa nei primi capitoli del XIX

libro del De civitate Dei. Questa dottrina era stata insegnata dagli Stoici e l’accademico

Antioco di Ascalona l’aveva fatta propria, apportandovi tuttavia notevoli cambiamenti in

senso aristotelico; Agostino l’accoglie liberandola, però, dalla visione autarchica e chiusa

nell’orizzonte temporale.

Come nel trattato De philosophia di Varrone e come nel quinto libro del De finibus di

Cicerone, così anche nei Dialoghi agostiniani la nozione di natura umana, come insieme di

facoltà e come principio di tendenze (appetitus) orientate verso fini ben determinati, viene

ad occupare un posto centrale. Gli appetitus originari, che richiamano la teoria della

oikeiosis, sono considerati fenomeni positivi, anche se Agostino non manca di avvertire che

essi, a causa del peccato originale, sono ormai distorti e possono deviare dai loro fines

naturali ad altri fines disordinati. Secondo N. Cipriani93

in Agostino è presente una nozione

di natura umana legata ai tre appetitus summenzionati (appetitus vivendi, appetitus

cognoscendi e appetitus agendi) già in De immortalitate animae, ma indagati in modo

sufficientemente compiuto in De vera religione.

Esaminiamo ora in dettaglio i tre appetitus che costituiscono la struttura metafisica della

natura umana, tenendo presenti i passi cu cui lo studioso agostiniano si è particolarmente

soffermato.94

a) La prima tendenza che muove la natura umana è l’appetitus della propria

conservazione (salus o integritas fisica) (vera rel. 52, 101; 53, 103; mus. 6, 14, 45; mus. 6,

5, 13). La nozione di appetitus naturale della salute o quiete non è altro che una

determinazione della oikeiosis o dell’amor sui, tendenza di ogni essere vivente a

salvaguardare se stesso e la propria incolumità di cui avevano parlato gli Stoici. E’ legge

fondamentale della natura che l’uomo ami se stesso, la sua sopravvivenza e l’integrità del

suo corpo; ciò vale anche per le bestie si legge in Doct. Ch. I, 25-26,27; in De vera

religione (41, 77) questo appetitus è messo in risalto a proposito di un piccolo verme, ma

ciò che vi si dice vale per ogni essere vivente. b) Un secondo appetitus naturale è costituito

dalla tendenza a conoscere il vero; espressioni che attestano tale tendenza della natura

umana sono disseminate in quasi tutte le opere scritte da Agostino prima del presbiterato.

“Perché dunque abbiamo tanto timore delle falsità e desideriamo come grande bene la

verità?” (sol. II, 10, 18). Tutto il primo dialogo (Contra Academicos) testimonia l’impeto

radicato nella ragione umana a conoscere la verità. Questo impulso, che a volte è chiamato

cupiditas veri (Acad.. 1, 3, 8) o amor inveniendi veri (ord. 1, 3, 6) o appetitus noscendi

93

N. Cipriani, I Dialoghi, p. 234. Vedi anche ibid., Lo schema dei Tria vitia, pp. 185-193.

94 Ibid.,, I Dialoghi, pp. 194-196.

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(conf. X, 35, 54) spinge continuamente all’indagine, alla ricerca faticosa. Nei paragrafi 101-

104 del De vera religione questo appetitus naturale a conoscere la verità è ampiamente

illustrato in contrapposizione alla curiositas, che è il disordine del desiderio naturale di

conoscere la verità. c) Il terzo appetitus naturale viene così descritto: “noi vogliamo essere

invincibili (invicti) e a ragione, perché la natura del nostro animo ha questo dopo Dio, alla

cui immagine è stato creato” (vera rel. 45, 85). Tuttavia, per essere veramente invincibile

l’uomo deve amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi (vera rel. 45, 85; 46,

86): “amiamo, come ci è comandato, anche i nemici, se vogliamo veramente essere

invincibili”. Dall’idea di invincibilità Agostino passa quindi alla nozione di libertà: “ogni

uomo è invincibile non per se stesso, ma per quell’immutabile legge, servendo la quale

soltanto si è liberi” (vera rel. 46, 87) . Questa terza tendenza naturale è chiamata anche

appetitus agendi cum facilitate, nel senso che l’uomo vuole essere invictus e libero (vera rel.

52, 101; 53, 102).

* * *

In conclusione, il volume del Professor Nello Cipriani costituisce a nostro parere una risorsa

scientifica di primaria utilità, essendo un concentrato di fonti precedentemente ignorate, di

rilevazioni critiche e di interpretazioni innovative; può essere uno strumento fondamentale

per gli studiosi che intendono approfondire il quadro filosofico che Agostino ci ha trasmesso

con i suoi Dialoghi95

. E’ più che mai necessario questo lavoro di ricostruzione della

complessa tematica filosofica dell’autore dei Dialoghi, il quale, più che in passato, continua

ad essere da molti oggetto di accusa di dualismo platonico, eccessivo spiritualismo e perfino

di residui gnostico-manichei. Auspichiamo che questo volume sia valido contributo a una

sempre più autentica interpretazione del pensiero filosofico dell’Africano96

.

Padre Virgilio Pacioni O.S.A.

Istituto Patristico Augustinianum

95

A questo riguardo vedi V. Pacioni O.S.A., Agustín de Hipona. Perspectiva Histórica y Actualidad de una Filosofía,

Madrid 2012.

96 In questa parte conclusiva intendo richiamare l’attenzione su tre volumi che raccolgono la trascrizione delle lezioni

tenute dal Prof. Don Giacomo Tantardini negli anni Novanta e nel primo decennio del 2000, nella Libera Università San

Pio V di Roma e nella Università degli Studi di Padova: Senso religioso, peccato originale, fede in sant’Agostino, Roma

2006; Il cuore e la grazia in Sant’Agostino, Roma 2006; Il tempo della Chiesa secondo Agostino, Roma 2010. Al Prof.

Don Giacomo Tantardini va attribuito il merito di aver condotto un’indagine dell’opera di Sant’Agostino, utilizzando

per primo il nuovo filone antropologico dovuto alle analisi innovative di Nello Cipriani.