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I DIALOGHI DI AGOSTINO - Guida alla lettura
di Nello Cipriani
Alla memoria del Prof. Don Giacomo Tantardini
L’Istituto Patristico Agostiniano di Roma dell’Università Pontificia Lateranense ha pubblicato nel
Marzo 2013 un volume con il titolo I Dialoghi di Agostino, Guida alla lettura, di N. Cipriani. Capita
raramente di imbattersi in un libro così intenso, pur nella sua stringatezza, così ricco di fonti, di
novità interpretative e di riferimenti critici. Dove altri avrebbe scritto volumi copiosi, lo studioso
agostiniano ha detto parole importanti in circa duecentocinquanta pagine, risparmiando ai lettori
fatica, tempo e denaro. Leggendo il volume si scorge la visione organica di una mente che pensa e
che padroneggia la letteratura classica, le opere dei Padri della Chiesa, l’opera complessiva di S.
Agostino e la storiografia agostiniana. Il saggio è frutto di ricerche e studi rigorosi scritti in
differenti periodi e occasioni con lo scopo di illustrare la complessa tematica dei Dialoghi
agostiniani..
IL PUNTO DI PARTENZA DELLA RIFLESSIONE DI N. CIPRIANI
Nel 1994 N. Cipriani pubblicava due saggi: il primo intitolato Le fonti cristiane della dottrina
trinitaria nei primi Dialoghi di S. Agostino1; il secondo intitolato L’ispirazione tertulliana nel De
libero arbitrio di S.Agostino2. In questi due lavori lo studioso agostiniano osservava che le numerose
ricerche, condotte nel nostro secolo sulle fonti del pensiero di S. Agostino nei suoi primi scritti,
anteriori e immediatamente posteriori al battesimo, erano state per lo più orientate a rivelare le fonti
nella direzione della letteratura e filosofia pagana, principalmente verso Plotino e Porfirio. L’unica
importante novità introdotta in tale indirizzo storico-critico era stata avanzata da P. Courcelle3, le
cui ricerche avevano avuto lo scopo di evidenziare gli influssi su Agostino dell’ambiente cristiano
di Milano aperto alla filosofia neoplatonica, frequentato da personaggi laici come M. Teodoro e da
ecclesiastici di primo piano come Simpliciano e lo stesso Vescovo Sant’Ambrogio. Le ricerche di P.
Courcelle miravano a correggere e superare la tesi di P. Alfaric. Secondo questo studioso, Agostino:
“moralement comme intellectuelément, c’est au néoplatonisme qu’il s’est convertit plutot qu’à
l’Evangile” 4. P. Courcelle sosteneva che l’incontro del giovane retore africano con il neoplatonismo
era venuto attraverso la mediazione e il filtro di un gruppo di intellettuali cristiani che lo avevano
1 N. Cipriani, Le fonti cristiane della dottrina trinitaria nei primi Dialoghi di S. Agostino, in Augustinianum 34 (1994), pp.
253-312.
2 Ibid., L’ispirazione tertullianea nel De libero arbitrio di S. Agostino, in Il mistero del male e la libertà possibile, SEA 45,
Roma 1994, pp. 165-178.
3 P. Courcelle, Les recherches sur les Confessions de Saint Augustin, Paris 1950.
4 P. Alfaric, L’évolution intellectuelle de Saint Augustin. I: Du Manichéisme au Néoplatonisme, Paris 1918, p. 379.
2
aiutato non solo a conoscere le dottrine neoplatoniche, ma anche a farne una prima critica alla luce
della fede cristiana. N. Cipriani5 faceva osservare che, nonostante l’apertura della nuova
prospettiva avanzata da P. Courcelle, le ricerche successive continuarono a seguire la vecchia pista
riguardante l’ascendenza dei filosofi pagani. Con queste si otteneva qualche risultato apprezzabile
soprattutto nell’individuazione di nuovi riscontri testuali, ma nello stesso tempo si favorivano
interpretazioni distanti dal pensiero di Sant’Agostino su temi importanti come ad esempio quello
trinitario. Era chiaro il riferimento alla tesi sostenuta da O. Du Roy6 nel volume intitolato
L’intelligence de la foi en la Trinité selon Saint Augustin. Genèse de sa théologie trinitarie jusqu’en
391, in cui si sosteneva che Sant’Agostino nei Dialoghi di Cassiciaco, pur essendo ormai un
cristiano convinto, era caduto nell’illusione di scoprire tutto della Trinità cristiana in Plotino, fino a
confondere lo Spirito Santo con l’anima universale o, più esattamente, con la Ragione che da essa
emana7. N. Cipriani
8 concludeva le sue osservazioni critiche sottolineando che gli studi di P.
Courcelle non potevano offrire che un aiuto limitato per la comprensione dei primi Dialoghi: non
era di fatto esaurita la ricerca relativa alla formazione intellettuale di Sant’Agostino nel periodo
antecedente il ritiro di Cassiciaco. P. Courcelle, non avendo avanzato ipotesi relative a eventuali
letture da parte di Agostino di autori cristiani, poteva solo suggerire l’invito a tener conto degli aiuti
che il neoconvertito aveva potuto ricevere dalla predicazione di Sant’Ambrogio e dalle
conversazioni private con Simpliciano e Teodoro. Accogliendo un suggerimento di G. Madec9,
N.Cipriani10
evidenziava la forzatura interpretativa del passo De Ordine 2, 5, 16, compiuta da Du
Roy. In questo testo Agostino11
aveva distinto alcuni (quidam) che professavano la Trinità in
maniera confusa (confuse), da molti altri (multi) che la professavano in maniera blasfema,
oltraggiosa (contumeliose) allontanandosi dal retto sentire dei venerabili misteri. O. Du Roy aveva
eliminato, in modo surrettizio, ogni distinzione fra i due gruppi per indicare in blocco i filosofi
pagani, i quali avrebbero parlato senz’altro della Trinità sebbene senza la chiarezza e l’umiltà della
fede cristiana. L’interpretazione fornita da O. Du Roy del De Ordine 2, 5, 16 faceva cadere un
suggerimento prezioso per far luce sulle reali conoscenze di Agostino circa il dibattito ecclesiale sul
mistero trinitario con la condanna di due opposte eresie: il confusionismo di Sabellio da una parte e
il subordinazionismo ariano dall’altra. Alla luce di questa correzione testuale, N. Cipriani12
si
5 N. Cipriani, Le fonti cristiane, p.254.
6 O. Du Roy, L’intelligence de la foi en la Trinité selon Saint Augustin. Génèse de sa Théologie trinitarie jusqu’en 391,
Paris 1966.
7 Ibid., p. 148.
8 N. Cipriani, Le fonti cristiane, p. 254.
9 G. Madec, Á propos d’une traduction de D Ordine II, 5,6, in Revue des Études Augustiniennes (= REA) 16 (1970), pp.
182-183.
10 N. Cipriani, Le fonti cristiane, pp. 255-256.
11 ord. II, 5, 16: Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, veneranda mysteria, quae fide sincera et inconcussa populos
liberant, nec confuse, ut quidam, nec contumeliose, ut multi praedicant.
12 N. Cipriani, Le fonti cristiane, p. 259.
3
poneva una domanda decisiva: perché escludere da parte di Agostino una conoscenza del dibattito
ecclesiale del mistero trinitario e delle critiche mosse dai cattolici ai sabelliani e agli ariani? Perché
escludere a priori che Agostino avesse potuto conoscere da letture di opere specifiche i giudizi che
si davano di quelle due eresie? In altre parole, che cosa avrebbe potuto impedire ad Agostino, in
quel tratto di tempo così importante per la sua formazione intellettuale, di leggere opere come, ad
esempio, il De fide e il De Spiritu Sancto di Ambrogio o gli scritti trinitari di M. Vittorino?
Nel Saggio Le fonti cristiane della dottrina trinitaria nei primi Dialoghi di Sant’Agostino, N.
Cipriani13
, dopo un’approfondita indagine, perveniva a due importanti conclusioni che riportiamo in
modo sintetico. La prima: Agostino fece suo il convincimento, comune agli intellettuali cristiani di
Milano, come Simpliciano, Teodoro e Ambrogio, di riconoscere ai filosofi neoplatonici il merito di
aver raggiunto con la ragione molte dottrine su Dio e sul suo Verbo, contenute nel prologo del
Vangelo di San Giovanni. Tuttavia gli intellettuali milanesi, guidati e illuminati dalle loro
riflessioni, non caddero nell’illusione di identificare lo Spirito Santo con la Ragione ordinatrice del
cosmo; un’identificazione che avrebbe comportato o la riduzione di una persona divina al rango di
creatura, nell’ipotesi che l’Anima del mondo fosse considerata una creatura, oppure una ricaduta nel
panteismo pagano, nell’ipotesi che la stessa Anima del mondo fosse considerata di natura divina. .
Già nei Dialoghi, infatti, Agostino sottolinea la perfetta divinità sia di Cristo che dello Spirito Santo
e la distanza ontologica che separa l’anima da Dio. La seconda conclusione riguardava le fonti
cristiane da cui Agostino ricevette ispirazione per la sua dottrina trinitaria affermata nel periodo
anteriore al battesimo. Venivano rintracciati indizi di una dipendenza dottrinale e lessicale
dall’opera di Mario Vittorino e dai due trattati ambrosiani Sulla fede e Sullo Spirito Santo.
Nonostante la mancanza di testimonianze interne o esterne e nonostante l’assenza di vere e proprie
citazioni testuali, le coincidenze riscontrate sia sul piano delle idee che su quello del lessico erano
risultate talmente numerose per entrambi gli autori da far apparire irragionevole la negazione di
validità della ipotesi avanzata all’inizio della ricerca.
Nel saggio intitolato L’ispirazione tertullianea nel De libero arbitrio, N. Cipriani14
avanzava
l’ipotesi di una ispirazione tertullianea nel De libero arbitrio. Secondo lo studioso agostiniano
Agostino si accinse a un’opera sul libero arbitrio quando si accorse che per risolvere il problema del
male occorreva distinguere il male del peccato dal male della pena, attribuendo il primo alla libera
volontà dell’uomo e il secondo alla giustizia di Dio. Fatta questa distinzione bisognava dimostrare
che davvero il peccato è opera solo del libero arbitrio umano, che Dio ha fatto bene a darlo
all’uomo e che esso non è in contrasto con la bontà di Dio, né con la sua prescienza, né con la sua
potenza. Tutte queste idee, secondo lo studioso agostiniano erano state suggerite da Tertulliano,
insieme a tanti altri, evidentemente prima dell’inizio dell’opera.
Ai due articoli cui abbiamo fatto cenno, seguirono altri due studi. Nel 1996 fu pubblicato il saggio
dal titolo L’influsso di Varrone sul pensiero antropologico e morale nei primi scritti di
13
Ibid., p. 309.
14 Ibid., L’ispirazione tertullianea, p. 177.
4
Sant’Agostino15
, nel 1998 un nuovo saggio dal titolo Lo schema dei tria vitia (Voluptas, superbia,
curiositas) nel De vera religione: antropologia soggiacente e fonti16
.
Nella ricerca condotta nel 1996 venivano elencati alcuni elementi e nozioni, già presenti nelle prime
opere agostiniane, che attraverso la mediazione di Varrone permettevano di risalire ai filosofi
dell’Antica Accademia e da questi fino allo stoicismo e allo stesso Aristotele. Lo studio prendeva
l’avvio dal modello antropologico e morale esposto da Varrone nel suo De philosophia e attribuito
ad Antioco di Ascalona, modello che Agostino discute nel libro XIX del De civitate Dei, per
mostrare poi come lo stesso modello, di sapore eclettico ma fortemente ispirato dalla filosofia stoica
e peripatetica, era tenuto presente da Agostino già nelle sue prime opere. La conclusione della
ricerca era dunque sorprendente: seguendo le indicazioni dei primi capitoli del XIX libro del De
civitate Dei, venivano individuati nei primi scritti di Sant’Agostino alcuni testi nei quali apparivano
chiari i segni dell’influsso varroniano sul suo modello antropologico e morale. L’indagine arrivava
a verificare che attraverso Varrone erano giunti al neoconvertito africano nozioni ed elementi
aristotelici e stoici che lo avevano aiutato a ridurre fortemente, se non a eliminare del tutto, le
espressioni dualistiche. Veniva dimostrato che già nei primi Dialoghi agostiniani è riconoscibile un
significativo, ancorché parziale, distacco dal neoplatonismo, maturato in forza della fede cristiana
con l’accentuazione, totalmente estranea ai filosofi neoplatonici, dell’unità del composto umano,
con una maggiore valutazione dei valori del corpo e della vita sociale.
Con la ricerca pubblicata nel 1998 lo studioso agostiniano si proponeva di indagare lo schema delle
tre concupiscenze nel quadro della concezione antropologica individuata nella precedente ricerca e
quale si ricava principalmente nel De vera religione, per poi ricercare le fonti letterarie e
filosofiche. La scelta del De vera religione come campo principale, ma non unico, dello studio era
motivata da una ragione precisa: la dottrina antropologica in cui è inserito lo schema dei tre vizi
appare per la prima volta in modo compiuto proprio in quest’opera agostiniana. Veniva esposta la
dottrina antropologica soggiacente allo schema delle tre concupiscenze e venivano individuate le
fonti letterarie e filosofiche; l’articolo si concludeva con un’osservazione che in qualche modo
costituiva una sintesi di tutto il percorso compiuto: “E’ probabile che lo schema dei tre vizi sia stato
elaborato da Agostino quando ha incominciato a ripensare l’antropologia e l’etica dei filosofi
(Cicerone e Varrone) alla luce della triplice tentazione di Cristo e della triplice concupiscenza di I
Io. 2, 16”.17
.
15
Ibid., L’influsso di Varrone sul pensiero antropologico e morale nei primi scritti di S. Agostino, in L’etica cristiana nei
secoli III e IV: eredità e confronti, SEA 53, Roma 1996, pp. 369-400.
16 Ibid., Lo schema dei Tria vitia (voluptas, superbia, curiositas) nel De vera religione: antropologia soggiacente e fonti
in Augustinianum 38 (1998), 157-195.
17 Ibid., p. 195.
5
QUESTIONI DI METODO
a) Natura del nuovo paradigma interpretativo
Veniamo ora al volume in esame. Scrive lo studioso agostiniano18 che chi si avvicina ai Dialoghi agostiniani
può riscontrare una serie di interpretazioni contrastanti che non possono non sorprendere negativamente
gli studiosi. Questa diversità di interpretazioni deriva da alcuni fattori che vengono elencati in modo
sintetico: a) una non perfetta ricostruzione dei momenti più importanti della vita di Agostino; b) una
insufficiente ricerca delle fonti pagane e cristiane; c) una conoscenza imprecisa del metodo seguito
dall’autore dei Dialoghi; d) una conoscenza non approfondita delle regole che erano a fondamento
del genere letterario dei Dialoghi; e) infine, come ha sottolineato G. Madec19
, la scarsa familiarità
con i testi agostiniani causata da una lettura sovente frettolosa e superficiale. Nei cinque capitoli
della prima parte del volume vengono discussi i fattori che sono stati la causa di interpretazioni
contrastanti dei Dialoghi. Intendiamo soffermare l’attenzione del lettore su alcuni fattori che
vengono affrontati nel Capitolo I, intitolato Rassegna Bibliografica, nel Capitolo III, intitolato La
ricerca delle fonti, nel Capitolo IV, intitolato Epistemologia e metodo, infine nel Capitolo V,
intitolato Il genere letterario dei Dialoghi.
Nel capitolo intitolato Rassegna bibliografica viene passata brevemente in rassegna la bibliografia
agostiniana dal secolo XIX ad oggi. N. Cipriani20 sottolinea che nel secolo scorso si sono confrontati diversi
paradigmi interpretativi dell’opera agostiniana precedente il presbiterato. Il primo paradigma
interpretativo, elaborato per lo più in ambito protestante da G. Boissier21, da A. Harnack22 e altri, era basato
su una tesi che tendeva a contrapporre i Dialoghi alle Confessiones, con lo scopo di mettere indubbio la
piena storicità di queste ultime nella ricostruzione delle fasi della conversione di Agostino. Questa tesi
arrivava a mettere in evidenza il presupposto, proprio del protestantesimo liberale, secondo il quale la
filosofia è incompatibile con la religione cristiana. La conclusione di questa interpretazione era la
seguente: fino all’anno 398, quando fu ordinato prete, Agostino non fu che un neoplatonico più o
meno tinto di cristianesimo. P. Alfaric arrivava a scrivere che nel 386 Agostino “è al
neoplatonismo che si è convertito, più che al Vangelo”23
. Tra i punti dottrinali più platonici che
cristiani, P. Alfaric indicava la dottrina delle tre ipostasi divine, la cosmogonia con la concezione
estetica del male e l’antropologia. Questa lettura eccessivamente neoplatonica dei Dialoghi fin
dall’inizio suscitò una vivace reazione in campo cattolico. Molti si opposero alla nuova lettura,
fedeli all’idea tradizionale della piena storicità delle Confessiones. Tra questi autori dobbiamo
18
N. Cipriani, I Dialoghi di Agostino. Guida alla lettura, SEA 134, Roma 2013, p. 1.
19 G. Madec, Il De libero arbitrio di Agostino d’Ippona, Lectio Augustini VI: Settimana agostiniana pavese, Palermo
1990, p. 15.
20 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 9.
21 G. Boissier, La conversion de Saint Augustin, in La fin du paganisme, Paris 1891.
22 A. Harnak, Augustins Confessionen, Ein Vortrag, Giessen 1888.
23 P. Alfaric, L’evolution intellectuelle, p. 379.
6
segnalare E. Portalié, E. Gilson, Ch. Boyer, M.F. Sciacca. Verso la metà del XX secolo venne alla
luce un secondo paradigma interpretativo, di cui fu paladino lo studioso francese P. Courcelle24
,
secondo il quale nel 386 Agostino risulterebbe convertito ad un cristianesimo platonizzante o, se si
preferisce, a un platonismo cristiano proprio dell’ambiente milanese. Questa nuova prospettiva non
aveva modificato affatto il modo di interpretare i Dialoghi di Cassiciaco. Lo prova il fatto che nel
1966 O. Du Roy25
, studiando la prima dottrina trinitaria di Agostino, perveniva alla conclusione che
quella dottrina era solo a metà ispirata dal Vangelo. Questa tesi ne conservava altre: Agostino
avrebbe fatto sua la soluzione plotiniana sul problema del male, avrebbe considerato Cristo solo un
maestro e non il Redentore. Ancora più recentemente, in Italia G. Lettieri26
ripeteva tutte le tesi di
O. Du Roy. Nell’ultimo decennio del XX secolo si è avuta un’autentica svolta grazie a nuovi studi
che, con un metodo innovativo basato sulla ricerca e sul confronto di certe strutture concettuali e
lessicali, hanno permesso di individuare nuove fonti pagane e cristiane dei Dialoghi e mostrare la
fede di Agostino in modo più chiaro. Questi studi hanno evidenziato tre conclusioni importanti che,
come vedremo, costituiscono i presupposti operativi della lettura fatta da N. Cipriani27 dell’opera
agostiniana: a) l’autore dei Dialoghi non si è limitato ad accogliere idee e dottrine dei filosofi
neoplatonici ma si è contrapposto ad essi anche nettamente in punti dottrinali di non scarso rilievo;
b) oltre che dai filosofi neoplatonici Agostino attinse idee da autori classici latini come Cicerone e
Varrone, soprattutto per quanto riguarda il modello antropologico, diverso da quello neoplatonico;
c) infine l’autore dei Dialoghi lesse non solo scrittori pagani ma anche autori cristiani come
Ambrogio e Mario Vittorino che influirono non poco nella sua fede cristiana e in modo particolare
nella sua dottrina trinitaria.
Nel capitolo intitolato Alla ricerca delle fonti viene approfondita e illustrata con vari esempi la
natura del nuovo paradigma interpretativo. Prendendo le mosse da alcune intuizioni di P.Hadot28
, lo
studioso agostiniano N. Cipriani29
ricorda che nell’affrontare la lettura dei primi scritti agostiniani
occorre attrezzarsi di conoscenze non solo filosofiche e teologiche ma anche prestare particolare
attenzione agli aspetti filologici e retorici. Per Agostino, infatti, come per tutti gli scrittori latini
della fine dell’antichità, le idee non sono separate dal loro sostrato letterario, dalla frase ove sono
espresse, dallo sviluppo in cui la frase stessa s’inserisce, dall’opera che contiene tale sviluppo.
Agostino, come tutti i latini della fine dell’antichità, utilizza spesso in modo molto abile per
raggiungere i propri scopi, idee, immagini, schemi di argomentazione, ma anche testi e formule già
esistenti, a cui viene conferito spesso un significato nuovo, adatto a ciò che si vuole dire.
All’intuizione di P. Hadot, N. Cipriani aggiunge che lo studioso, se vuole comprendere
24
P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident, Paris 1948. Ibid., Les recherches sur les Confessions, Paris 1950.
25 O. Du Roy, L’intelligence de la foy, p. 148.
26 G. Lettieri, Agostino, in Storia della teologia. Dalle origini a Bernardo di Chiaravalle, Bologna 1995, pp. 358-366.
27 N. Cipriani, I Dialoghi, pp. 14-15.
28 P. Hadot, Porphyre et Victorinus, Paris, 1968. Si veda in particolare l’introduzione di questo scritto, intitolata Il
problema di Vittorino.
29 N. Cipriani, I Dialoghi, pp. 39-40.
7
l’articolazione degli scritti agostiniani e le sue fonti ispiratrici, non deve fermarsi al paragone di
passi paralleli individuati in un testo agostiniano e in un altro testo della tradizione precedente, ma
occorre che prima faccia una lettura approfondita del testo agostiniano, evidenziando strutture
concettuali che si riscontrano nel testo esaminato, passando poi al confronto con strutture
concettuali e lessicali analoghe che si possono trovare in autori precedenti e illustra così la natura
del nuovo paradigma interpretativo utilizzato: “… una prudente e ragionevole analisi delle fonti non
si basa solo su esplicite citazioni letterarie, né su passi paralleli o concordanze di idee, bensì sulla
corrispondenza esclusiva, in due autori, di più complesse strutture lessicali e concettuali, nelle quali
la coincidenza di idee e di alcuni lemmi permetta di riconoscere l’influenza di un autore
sull’altro”30
. Per verificare la validità e la correttezza di questo nuovo paradigma interpretativo,
vengono portati esempi, che studiati alla luce del metodo innovativo proposto permettono di
arrivare a interpretazioni diametralmente opposte a quelle avanzate da alcuni studiosi del passato.
Riportiamo due dei quattro esempi che lo studioso agostiniano indaga per giungere all’accertamento
della vera fonte.
Nel De ordine ricorre questo schema o struttura concettuale e lessicale: “… a questo grado di
conoscenza pochi possono giungere in questa vita, e nessuno lo può superare neanche dopo questa
vita. Alcuni accontentandosi della sola autorità […]. Non saprei come definirli felici, finché vivono
ancora tra gli uomini, tuttavia credo fermamente che, appena avranno lasciato questo corpo, coloro
che avranno vissuto più o meno onestamente saranno liberati con più o meno facilità”31
. Tale
struttura corrisponde, o meglio, si contrappone alla struttura che si legge nel Fedone di Platone e in
De regressu animae di Porfirio, come registrato in De civitate Dei: “Usi più esplicitamente questa
parola in un passo in cui spieghi la dottrina di Platone. Come lui anche tu non metti in dubbio che in
questa vita l’uomo non può assolutamente raggiungere la perfezione della sapienza ma che per chi
vive secondo l’intelletto tutto ciò che manca può essere condotto a pienezza dopo questa vita dalla
provvidenza e dalla grazia divina”32
. Lo studioso agostiniano33
fa notare che O’Meara aveva
individuato in questo passo del De regressu animae la fonte del testo sopracitato del De ordine, ma
non si era accorto che qui Agostino si contrappone al pessimismo di Porfirio. Infatti il filosofo
pagano aveva affermato che nessun uomo (hominem nullo modo) durante questa vita può
raggiungere la perfezione della sapienza, ossia la conoscenza del primo Principio, perché il corpo è
un ostacolo; mentre riteneva che ciò fosse possibile dopo questa vita solo a quei pochi che sono
vissuti secundum intellectum, ossia secondo le virtù noetiche o contemplative, dopo che la loro
anima sia spogliata del corpo. Agostino invece afferma che già in questa vita almeno pochi
30
Ibid., p. 42.
31 ord. II, 9, 26: (…) ad quam cognitionem in hac vita pervenire pauci, ultra quam vero etiam post hanc vitam nemo
progredi potest; qui autem sola aucoritate contenti (…) beatos eos quidam, cum inter homines vivunt, nescio quo modo
appellem, tamen inconcusse credo mox ut hoc corpus reliquerint, eos qui bene magis minuse vixerunt, eo facilius aut
diffcilius liberari.
32 civ. X, 29, 1: Uteris etiam hoc verbo apertius, ubi Platonis sententiam sequens nec ipse dubitas in hac vita hominem
nullo modo ad perfectionem sapientiae pervenire, secundum intellectum tamen viventibus omne quod deest
providentia Dei et gratia post hanc vitam posse compleri.
33 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 42.
8
possono giungere alla conoscenza del Padre; dopo aver lasciato questo corpo, invece, tutti, anche
quelli che credono soltanto, possono giungere più o meno facilmente alla piena liberazione dai mali
più orribili, secondo che siano vissuti più o meno bene, anche se mentre vivono in questo corpo,
cioè durante questa vita, non si vede come possano essere detti sapienti e quindi felici.
Un secondo esempio che lo studioso agostiniano porta si trova in De ordine II, 5, 5-16; anche qui
viene evidenziata un’importante struttura concettuale e lessicale. L’analisi dello schema che si trova
presente in questo testo porta all’accertamento di una fonte cristiana. Qui Agostino sostiene che la
fides nei mysteria fa sì che “Christus liberet” dai mali peggiori. Una simile struttura concettuale e
lessicale, ripetuta per ben due volte di seguito, trova una precisa corrispondenza nelle opere di
Mario Vittorino, il quale varie volte ripete che, chi crede nei misteri dell’incarnazione, morte e
risurrezione di Cristo, viene da Lui liberato dal male.34
A partire dai quattro esempi, in cui ricorrono
importanti strutture concettuali e lessicali, vengono dedotte importanti conclusioni che troviamo alla
fine del capitolo terzo. L’accertamento delle fonti, fatto mediante il metodo suggerito, illumina
l’interpretazione di alcuni testi agostiniani dei primi Dialoghi. Portando maggiore attenzione ad
alcuni passi, si può dunque pervenire a conclusioni diametralmente opposte a quelle a cui altri
studiosi erano arrivati. Un esempio assai emblematico è quello del De ordine, che molti hanno letto
in chiave esclusivamente plotiniana e porfirina. Nella prima parte del Dialogo in cui si tratta del
problema del male, secondo K. Flasch35
, Agostino non si distaccherebbe affatto dalla posizione di
Plotino; mentre secondo I. Hadot36
, lo schema delle artes liberales che si trova nella seconda parte
sarebbe ispirato nel contenuto e nelle forme a una fonte neoplatonica, probabilmente porfiriana. In
realtà, sottolinea Cipriani37
, se si è attenti fino in fondo ai testi si arriva a conclusioni
completamente diverse. Infatti nella prima parte del dialogo Agostino si oppone alla tesi plotiniana
della necessità ed eternità del male, nella seconda parte si oppone al pessimismo di Porfirio, il quale
insegnava che nessuno può raggiungere la perfetta sapienza in questa vita e pochi possono salvarsi
evitando la reincarnazione dopo questa vita. La ricerca attenta ci porta a scoprire che nei Dialoghi
di Agostino sono presenti non solo Plotino e Porfirio, ma anche autori latini pagani come Cicerone
e Varrone e autori cristiani.
b) Teoria della conoscenza e circolarità ermeneutica
Nel capitolo quarto N. Cipriani affronta la questione relativa all’epistemologia e al metodo
agostiniano. Anche qui i contenuti sono ricchi di novità. Cerchiamo di evidenziare i principali. Il
primo paragrafo di questo capitolo è intitolato Filosofia e Teologia. Agostino, come tutti
nell’antichità, concepiva la teologia come una parte della filosofia e precisamente la parte che si
interessa allo studio della divinità (civ. VIII, 1). Anche per Aristotele la teologia era la parte della
34
Ibid., p.42
35 K. Flash, Augustin, Agostino d’Ippona. Introduzione all’opera filosofica (1980), Bologna 1983, pp. 93-100.
36 I. Hadot, Arts libéraux et philosophie dans la pensée antique, Paris 1984 (2006), p. 118.
37 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 43; cfr., V. Pacioni, L’unità teoretica del De Ordine di Sant’Agostino, Roma 1996.
9
filosofia che persegue la scienza “dei principi e delle cause degli esseri”, e coincideva con la
metafisica38
. Oggi invece noi siamo portati a distinguere nettamente la teologia dalla filosofia ,
intendendo con la prima l’ambito delle verità rivelate, con la seconda l’ambito delle verità che si
possono scoprire con la ragione. Questa distinzione, come si sa, è merito della scolastica, in
particolare di San Tommaso d’Aquino. Seguendo la tradizione pitagorica e platonica e a partire
dall’etimologia della parola Agostino concepiva la filosofia come “amore o studio della sapienza”.
Partendo dal presupposto che la vera sapienza è quella di Dio e la sapienza umana è partecipazione
di quella divina, era arrivato a definire il filosofo come “colui che ama Dio”39
, e inoltre avendo fin
dai primi Dialoghi identificato la Sapienza di Dio e la Verità con Cristo (Acad 1, 1, 1; beata v. 4,
34), aveva affermato che la vera filosofia è quella cristiana40
. N.Cipriani chiarisce un altro aspetto
dell’idea agostiniana di filosofia. Questa, secondo Agostino, non mira a una conoscenza generica,
ma alla scientia corrispondente alla episteme di cui parlavano i filosofi greci, cioè a una conoscenza
rigorosamente razionale certa e indubitabile, che si ottiene con un ragionamento più rigoroso, come
avviene per le scienze matematiche e logiche (sol. 1, 5, 11- 6, 12). Agostino aggiungeva:
Auctoritas fidem flagitat, et rationi praeparat hominem. Ratio ad intellectum cognitionienque (vera
rel. 24, 45), cioè alla scientia che è il vero scopo della filosofia. L’autore dei Dialoghi non si
accontenta di credere soltanto, ma vuole arrivare alla scientia (sol. 1, 3, 8). Questa precisazione
aiuta ad individuare l’insufficienza della nozione di filosofia attribuita da Ch. Boyer41
all’Autore
dei Dialoghi.
Nel paragrafo secondo, intitolato Oggetto della filosofia, viene ricordato che la scientia a cui mira la
filosofia è possibile, come aveva riconosciuto Aristotele, solo a proposito delle “cose eterne e
necessarie”42
, ossia delle realtà intellegibili come sono l’anima e Dio. Per tale ragione l’autore dei
Dialoghi, che mira ad avere la scientia secondo il modello matematico, si propone di riflettere
soltanto sull’anima e Dio ma non sugli eventi salvifici della storia sacra. Egli è convinto che solo
dopo essere giunti alla conoscenza intellettuale di Dio, somma Causa o supremo Autore o Principio
di tutte le cose, raggiunta attraverso Cristo Verità e Sapienza di Dio, potremo conoscere quanto
siano vere le cose che ci è stato ordinato di credere, cioè tutti i miracoli della storia della salvezza
(an. quant. 33, 76; vera rel. 8, 14). Pertanto “una volta che si sia conosciuta l’eternità della Trinità e
la mutevolezza delle creature”, tutti gli avvenimenti salvifici inclusi nella professione di fede “non
solo si credono, ma anche si ritiene che appartengano alla misericordia che il sommo Dio mostra al
genere umano” (vera rel. 8, 14). Degli eventi salvifici oggetto della fede cristiana non si potrà mai
avere una spiegazione scientifica che ne dimostri la necessità; se ne potrà soltanto mostrare la
ragionevolezza e la convenienza in considerazione della potenza e della misericordia di Dio.
38
Metaph. 6, 1, 1. 6 (1025b-1026a).
39 civ. VIII, 1.
40 vera rel. V, 8.
41 C. Boyer, Christianisme et Néoplatonisme dans la formation de Sain Augustin, Roma 1920 (1953), P. 142.
42 EN 6, 3, 1 (1139b).
10
In conclusione, si può affermare che la sapienza è la meta desiderata della filosofia di Agostino.
Essa consiste in una pia e perfetta conoscenza (scientia) di Dio, che necessariamente rende felici,
perché con essa si realizza la plenitudo o il modus (pienezza e misura) dell’animo umano43
. Alla
conoscenza di Dio, però, si deve far precedere la conoscenza dell’anima, come gradino necessario
per arrivare a Dio, perché l’anima è la creatura più vicina a Dio44
.
Nel terzo paragrafo del quarto capitolo, intitolato Metodo e circolo ermeneutico, lo studioso tratta
del punto più delicato della riflessione agostiniana. Si fa notare che per l’autore dei Dialoghi la vera
filosofia mira a conoscere non un Dio qualunque, bensì il Dio della fede cristiana, come è
professato dalla Chiesa Cattolica (ord. 2, 5, 16). In questo testo del De ordine, Agostino afferma
con chiarezza che il Dio cercato con la sua riflessione filosofica non è quello dei platonici, bensì
quello uno e trino rivelato dalla Scrittura e predicato dalla Chiesa. N. Cipriani contesta decisamente,
riprendendo G. Madec, l’interpretazione errata di questo testo data da Du Roy, il quale confonde i
multi con i quidam, riferendo tutto ai pagani. Riprendendo il testo di Acad. 3, 20, 43, viene
sottolineato che la filosofia di Agostino ha il suo fondamento nella auctoritas di Cristo e mira a
conoscere intellettualmente ciò che crede; essa è anche animata dalla fiducia di trovare nei Platonici
idee e dottrine che non siano in contrasto con le Sacre Scritture (sacris nostris) per quanto concerne
le res intellegibiles. Nella dichiarazione di Acad. 3, 20, 43 è condensato tutto il programma della
prima riflessione agostiniana, il quale può essere sintetizzato in tre punti, che vogliamo indicare per
l’utilità dei lettori. Premesso che alla conoscenza del vero si può giungere sia attraverso la
rivelazione che con la semplice ragione, Agostino afferma: a) che la fede cristiana è il punto di
riferimento obbligato per ogni sua ricerca; b) esprime una fiducia critica nei confronti dei filosofi
pagani di poter apprendere anche da loro qualcosa di vero sulle realtà intelligibili, che non sia in
contrasto con la fede; c) infine esprime il proposito di approfondire con la ragione ciò che si
apprende con la fede, per giungere con la ragione all’intelligenza, cioè alla conoscenza certa che
esclude ogni dubbio (scientia)45
. Per Agostino, quindi, le vie per conoscere il vero sono due:
l’auctoritas e la ratio46
. Nel tentativo di ricercare la fonte della soluzione agostiniana del rapporto
intellectus-fides, N. Cipriani seguendo Madec47
contesta Heinrich Dörrie che si era sentito
autorizzato a sostenere che la soluzione di tale rapporto fosse di origine porfiriana. Lo studioso
agostiniano, seguendo anche qui il nuovo paradigma interpretativo basato sulla corrispondenza di
strutture concettuali e lessicali, fa osservare che già Tertulliano e Mario Vittorino si erano dichiarati
a favore dell’opzione metodologica della priorità temporale della fede sulla ragione. Si può dunque
ragionevolmente concludere che già dai primi tempi della conversione è attivo in Agostino quel
duplice movimento di pensiero che, come ricorda N. Cipriani, il filosofo italiano Giovanni Reale48
43
beata v., 4, 33.
44 N. Cipriani, I Dialoghi, pp. 50-51.
45 Ibid., p. 54.
46 acad. III, 20, 43; ord. II, 9, 26.
47 G, Madec, Augustin, disciple et adversaire de Porphyre, in REAug 10 (1964), pp. 365-369.
48 G. Reale, Agostino e il Contra Academincos, in L’opera letteraria tra Cassiciacum e Milano, Palermo 1987, p. 25.
11
ha denominato circolo ermeneutico, perché “incentrato sui rapporti biunivoci tra fede e ragione per
il raggiungimento e la fruizione della verità”.
c) Le norme che regolano il genere letterario dei Dialoghi
La prima parte del volume si chiude con il quinto capitolo intitolato Il genere letterario dei
Dialoghi. Lo studioso agostiniano, dopo aver indagato i paradigmi interpretativi, la ricerca delle
fonti, l’epistemologia e il metodo agostiniano, si sofferma a illustrare la varietà di norme che
anticamente regolavano il genere dialogico e l’uso che ne fa Agostino. Viene sottolineato che la
scarsa attenzione data a questo aspetto ha portato fuori strada molti lettori e anche studiosi di chiara
fama: il caso più clamoroso è costituito da quanti hanno attribuito all’autore del dialogo le idee
espresse da un interlocutore, ma da lui non condivise. Lo studioso si riferisce all’affermazione di De
ordine: 1, 6, 16: Et bona et mala in ordine sunt. Con queste parole Licenzio esprime la convinzione
stoico-platonica che Agostino in seguito critica e corregge. Molti studiosi hanno invece creduto che
esprimesse il pensiero di Agostino.
Dopo una breve digressione sulla dialettica e sulla conoscenza che l’autore dei Dialoghi possedeva
della dialettica platonica, della logica aristotelica e della logica stoica, lo studioso agostiniano si
sofferma sulle caratteristiche e norme principali del dialogo, riprendendo un passo delle Vite dei
filosofi di Diogene Laerzio49
. Crediamo di fare un servizio utile ai lettori riportando qui brevemente
con qualche commento le quattro regole o caratteristiche del dialogo che vengono illustrate nelle
pagine 68-76 del volume. Per quanto ci risulta, gli studiosi hanno poco utilizzato le quattro regole di
Diogene Laerzio per l’analisi dei dialoghi agostiniani: 1) Il dialogo è un discorso, un sermo, ex
interrogatione et responsione compositus, da Agostino ritenuto la forma più adatta per la ricerca
filosofica. Nel dialogo dominano la dialettica e la logica, come nell’eloquenza regna la retorica. Da
qui l’importanza della conoscenza, da parte dello studioso, della logica stoica che Agostino conosce
e utilizza magistralmente; 2) la seconda caratteristica del dialogo riguarda i temi strettamente
filosofici cioè della fisica, della logica, dell’etica e in parte anche della politica. Non ci si può quindi
aspettare dai dialoghi di Agostino la trattazione di argomenti scritturistici o di fede. Nei primi
Dialoghi di Cassiciaco infatti sono discussi temi propri della filosofia: il criterio di verità (criterium
veritatis) nel Contra Academicos, il sommo bene (summum bonum), nel De beata vita, l’ordine
cosmico (ordo rerum), ovvero i mali e la provvidenza, nel De ordine. A questo proposito N.
Cipriani fa un’osservazione amara, scrive: “Non tenendo presenti il carattere propriamente
filosofico del dialogo, che esige tali argomenti, taluni lettori sono stati indotti a concludere che
l’autore non fosse un perfetto convertito al cristianesimo, ma piuttosto un filosofo neoplatonico”50
;
3) per comprendere i Dialoghi è importante anche la terza caratteristica segnalata da Diogene:
l’autore del dialogo deve rispettare il “carattere” dei personaggi introdotti nella discussione. Nei
Dialoghi di Cassiciaco gli interlocutori principale sono ben caratterizzati; 4) l’ultima caratteristica
attribuita da Diogene al dialogo è l’accuratezza della compositio verborum. Infatti grande è la
49
D.L., 3, 32, 48-49.
50 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 71
12
preoccupazione letteraria che traspare nei Dialoghi. Sappiamo dalle Confessiones e dalle
Retractationes che più tardi Agostino biasimerà l’orgogliosa intenzione di fare letteratura nei
Dialoghi di Cassiciaco. Le eccessive preoccupazioni per la latinitas portarono il convertito a
discutere con Alipio sull’opportunità di inserire o meno il nome di Cristo nei Dialoghi, giungendo
in un’occasione a chiamarlo perfino con il nome di Apollo ed evitando in ogni modo rigorosamente
l’uso di cristianismi come ecclesia, sacramenta, scriptura, ecc. che potevano offendere la puritas
della lingua. Commette grave errore, afferma N. Cipriani51
, chi, fermandosi alla superficie del
discorso (agli elementi formali, come la lingua e lo stile), giunge alla conclusione che l’autore dei
Dialoghi è ancora un retore poco cristiano: lui stesso ha confessato il peccato di superbia nel voler
fare letteratura, ma ha riconosciuto nello stesso tempo che quei libri erano già al servizio di Dio,
cioè erano espressione della sua fede cristiana.
UN ESEMPIO DI LETTURA ATTENTA DEI TESTI
a) Alcune osservazioni generali sui dialoghi.
Nella seconda e terza parte del volume vengono presi in esame i singoli dialoghi, quelli anteriori al
battesimo e quelli ad esso posteriori, con lo scopo di offrire al lettore l’aiuto per una lettura attenta e
“semplice”, direbbe C. Madec52
, dei testi e poter cogliere la struttura generale e sottolineare i
passaggi più significativi dell’opera. Viene suggerito di fare di ogni dialogo una lettura che evidenzi
le circostanze della composizione , lo scopo, il genere letterario utilizzato e la struttura generale del
Dialogo. L’indagine su ogni dialogo deve partire sempre dalle informazioni che Agostino fornisce
nelle Retractationes. Questo suggerimento ha un’importanza capitale. A volte viene ricordato che i
lettori, ignorando le indicazioni delle Retractationes circa il contenuto, le circostanze di tempo e di
luogo e i destinatari dei Dialoghi, non hanno ben colto il significato dell’opera. A proposito dei
primi tre Dialoghi, scritti prima del battesimo, viene fatta una rilevazione importante, che molti
studiosi non anno individuato. Il Contra Academicos, il De beata Vita e il De ordine, costituiscono
una trilogia. Senza negare del tutto l’influenza dell’esperienza personale, si deve ricordare che i due
problemi, che costituiscono l’argomento dei primi due Dialoghi, erano ritenuti prioritari ella
tradizione filosofica. Cicerone nel Lucullus scriveva: “Sono due i principali temi in filosofia: il
criterio di verità (iudicium veritatis) e il sommo bene (finem bonorum). Il problema relativo al
criterio di verità e quello del sommo bene riguardavano le prime due parti della filosofia: logica ed
etica e ne costituivano i presupposti fondamentali. A questi due problemi Agostino aggiungeva nel
De Ordine il problema dell’ordine del mondo, sia perché era un tema che riguardava la terza parte
della filosofia, cioè la fisica, sia perché, come l’Autore evidenzia nell’esordio (ord. 1, 1, 1) del
Dialogo, la mancata soluzione del problema del male e della natura della divina Provvidenza
costituisce un serio ostacolo alla ricerca filosofica53
.
51
ibid., p. 73
52 G. Madec, Il De libero arbitrio, p. 15.
53 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 79-80.
13
Occorre inoltre tener presente che la forma dei Dialoghi scritti dopo il battesimo è diversa da quella
dei primi. Già a partire dai Soliloquia il dialogo cessa di essere concepito come un’opera che vuole
gareggiare anche sul piano letterario con i modelli dell’antichità classica. Le dispute non vengono
più inquadrate in un ambiente determinato (nelle terme, nel prato, nel dormitorio), né in un preciso
momento della giornata (mattino o pomeriggio) come accadeva nei primi tre Dialoghi. Inoltre, fa
notare N. Cipriani54
, i dialoghi scritti dopo il battesimo non sono più dispute a più voci in cui si
affrontano tesi contrapposte: gli interlocutori sono soltanto due, uno che domanda, l’altro che
risponde; da un lato c’è un maestro, Agostino, dall’altro un discepolo, l’amico Evodio o il figlio
Adeodato nel De magistro. Comunque si tratta ancora di dialoghi non del tutto fittizi. Gradualmente
Agostino si orienta verso una forma più modesta del dialogo; abbandona la pretesa letteraria con
l’unico intento di ricercare e insegnare.
b) Un’ipotesi di ispirazione tertullianea
Non è necessario, a questo punto, sottolineare tutte le novità interpretative che vengono evidenziate
dall’analisi acuta e precisa che lo studioso agostiniano svolge di ogni dialogo anteriore o posteriore
al battesimo nella seconda e terza parte del volume. Mi limito a evidenziare una novità che ha
contribuito non poco a comprendere meglio alcuni problemi che Agostino tratta nei Dialoghi. Mi
riferisco all’ipotesi dell’ispirazione tertullianea del De libero arbitrio che lo studioso discute nelle
pagine 153-161. L’ipotesi che viene avanza prende spunto da una dichiarazione che si legge nelle
Confessiones e riferita al periodo milanese anteriore al battesimo. “Cercavo di vedere con
l’intelligenza quello che sentivo dire ossia che il libero arbitrio della volontà è la causa del male che
facciamo e il retto giudizio di Dio è la causa del male che soffriamo, ma non riuscivo a vederlo”55
.
Questo pensiero che Agostino aveva ascoltato prima della lettura dei libri platonici è fatta oggetto di
analisi all’inizio del De libero arbitrio.
Il dialogo De libero arbitrio inizia con la domanda di Evodio “utrum Deus non sit auctor mali”,
domanda alla quale Agostino risponde distinguendo due generi di mali e attribuendo a ciascun
genere un proprio autore: “diciamo male ciò che uno fa di male e ciò che uno soffre di male. Dal
momento che crediamo che in un mondo governato dalla divina provvidenza nessuno può soffrire
un male ingiustamente, dobbiamo concludere che i mali che soffriamo sono giuste punizioni di Dio
e che Dio dunque sia l’autore di questo tipo di mali che l’uomo subisce. Dell’altro tipo di male,
invece, ciascuno è autore delle sue cattive azioni che non potrebbero essere punite da Dio se non
fossero compiute con la volontà” (lib. arb. I, 1, 1). Indagando la dottrina dell’origine del male
esposta nel De libero arbitrio, viene portata alla luce un’altra idea centrale, la nozione di ordinatio
iudiciaria: il peccato è un disordine perché contrario alla legge eterna da imputare alla libera
volontà dell’uomo, che il giudizio di Dio punisce con l’infelicità (miseria) per farlo rientrare
nell’ordine. Tale dottrina è anche esposta nell’opera De moribus Ecclesiae catholicae et de moribus
Manichaeorum scritta nel 388, contemporanea almeno al primo libro del De Libero Arbitrio. Nel
De Moribus, Agostino dopo aver chiarito che la corruzione (corruptio) è ontologicamente un
54
Ibid., p.139.
55 conf. VII, 3, 5: et intendebam ut cernerem quod audiebam liberum voluntatis arbitrium causam esse ut male
faceremus, et rectum iudicium tuum ut pateremur et eam liquidam cernere non valebam.
14
deficere ab essentia e che la perversione (perversio) è contraria alla ordinatio, nel capitolo che
segue scrive: “La bontà di Dio tuttavia non permette che le cose giungano a quel punto (cioè al non-
essere), ma ordina tutte le cose che vengono meno in modo che siano nella condizione più
convenente, fino a che, con movimenti ordinati non ritornino al principio da cui si allontanarono.
Così anche le anime ragionevoli, nelle quali è potentissimo il libero arbitrio, se si allontanano da
Dio, vengono da Lui ordinate nei gradi inferiori della creazione, dove è bene che siano. Sono rese
quindi infelici dal giudizio divino, mentre vengono ordinate secondo i loro meriti.56
L’idea
riguardante la distinzione del male dal suo autore e la dottrina riguardante la ordinatio iudiciaria
venivano collegate da Agostino con l’esegesi del passo di Is. 45, 7 (LXX), che i Manichei
interpretavano come un’ammissione, da parte del Dio dell’Antico Testamento, di essere creatore del
male. Il testo di Is. 45, 7 [LXX] suonava così: ego facio bona et condo mala. Agostino, in De
moribus Ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum, II, 7, 9, commentava così la frase
biblica: “Il verbo creare è usato nel senso di regolare e ordinare. Fare, infatti, si dice in riferimento
a quello che non esisteva affatto, condere e ordinare si dice, invece, di ciò che esisteva già, perché
sia meglio e di più. Quando perciò Dio dice: condo mala, significa che Egli ordina le cose che
vengono meno, cioè che tendono al non essere, non già quelle che giunsero là dove tendono”57
.
Evidenziata per la prima volta nella storiografia agostiniana la duplice distinzione del male (il male
che facciamo e il male che soffriamo), la duplice causa del male (la libera volontà dell’uomo per il
primo tipo e il giudizio di Dio per il secondo), la nozione di ordinatio iudiciaria e il legame con
l’esegesi di Isaia 45, 7 (LXX), lo studioso agostiniano individuava con la sorpresa degli studiosi, la
fonte di quelle nozioni utilizzate da Agostino. Veniva avanzata l’ipotesi che Agostino poté
apprendere quelle idee dall’Adversus Marcionem di Terulliano58
. Nel secondo libro di questo
trattato antimarcionita, il prete di Cartagine riporta l’interpretazione che era stata data dai marcioniti
alla frase biblica di Isaia 45, 7 (LXX), e osserva che gli eretici erano stati ingannati dall’ambiguità
della parola mala, che può significare due tipi di male: quia mala dicuntur et delicta et supplicia.
Facendo la dovuta distinzione e separando mala delicti da mala supplicii, mala culpae da mala
poenae, risulta che a Dio non si possono imputare i peccati e le colpe che risalgono al diavolo, ma
solo quelli che convengono alla sua giustizia e al suo giudizio ordinatore (condendis): “questi ultimi
sono certamente mali per coloro che vengono puniti, ma in se stessi sono beni, nemici dei delitti e in
quest’ordine degni di Dio” (Adv. Marc. II, 14, 1-3). E’ evidente che ci troviamo di fronte a una
forma di corrispondenza concettuale e lessicale che non si può negare.
56
mor. II, 7, 9.
57 Ibid.
58 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 155.
15
I RISULTATI PIU’ RILEVANTI DELL’INDAGINE
Dopo aver esposto la struttura e il contenuto dei singoli dialoghi, nella quarta parte del volume N.
Cipriani espone una sintesi dottrinale, con l’evidente scopo di valutare l’estensione dell’influsso del
platonismo nei Dialoghi e quello della fede cristiana di Agostino nel periodo che va dalla
conversione al presbiterato, la dottrina trinitaria, la fede in Cristo e infine il modello antropologico
che Agostino utilizza nell’elaborare il quadro generale della sua filosofia.
a) Fiducia critica nel platonismo
Nel capitolo intitolato Il platonismo nei Dialoghi, viene sostenuto che Agostino è sempre rimasto
fedele alla dichiarazione programmatica fatta al termine del Contra Academicos (3, 20, 43), che no
vuole mai allontanarsi dall’autorità di Cristo e che ha la fiducia di trovare nei Platonici idee non in
contrasto con la fede cristiana. Viene tuttavia ricordato che già prima di ricevere il battesimo
Agostino critica prima gli Accademici per il loro scetticismo ma anche Plotino e Porfirio, il primo
per la sua tesi riguardante la necessità e l’eternità dei mali, il secondo per il suo pessimismo
gnoseologico59
. A proposito del primo vale la pena leggere le pagine 105-113 riguardanti l’analisi
del De ordine, dove viene illustrata in modo chiaro la critica di Agostino a Plotino, sulla questione
riguardante il problema del male morale. E’ cosa probabile che Agostino, soprattutto agli inizi,
abbia concesso ai Platonici più di quanto la fede cristiana consenta. L’ipotesi sembra confermata da
un’autocritica che si trova nelle Retractationes (2, 3, 2) a proposito delle virtù dei filosofi e
dell’esistenza del mondo sensibile e del mondo intellegibile. In questo testo delle Retractationes,
Agostino pur ripetendo la validità della distinzione platonica dei due mondi, tuttavia si rammarica
di averla giustificata equivocando le parole del Vangelo. Ma oltre una certa tendenza che
riscontriamo qua e là a intendere platonicamente la Scrittura denunciata da Agostino stesso, occorre
ricordare che egli ha accolto importanti idee platoniche o neoplatoniche nella convinzione che esse
non fossero in contrasto con la fede cristiana e lo aiutassero a superare il dualismo materialistico dei
Manichei. Cipriani60
giustamente menziona tre studiosi che hanno segnalato i punti nei quali
Agostino è debitore del platonismo: innanzitutto Solignac61
per il quale i libri dei Platonici “hanno
fatto scoprire ad Agostino la riflessività e gli hanno dato il senso dello spirito come atto”; poi viene
ricordato Madec62
, il quale attribuisce alla lettura dei libri dei Platonici la scoperta dello
spiritualismo; infine viene citato il filosofo italiano Giovanni Reale63
che, in un saggio introduttivo
all’edizione bilingue del De natura boni, ha indagato in modo approfondito gli spunti metafisici che
Agostino ha tratto dal platonismo. Sui complessi e strettissimi rapporti di Agostino con il
59
Ibid, p. 202.
60 Ibid, pp. 204-206.
61 A. Solignac, Introduction alle Confessions, BA 13, Paris 1962, p. 99.
62 G. Madec, Le spiritualisme augustinien à la lumière du De immortalitate animae, in Petites études augustiniennes,
Paris 1983, p. 181.
63 G. Reale, Introduzione ad Aurelio Agostino. Natura del Bene, Milano 1995, pp. 7-10.
16
platonismo, viene suggerito a pagina 205 di non dimenticare l’ampia e ricca monografia di G.
Reale64
, introduttiva alle Confessiones, che illustra in modo esauriente e documentato i numerosi
debiti che il Padre della Chiesa ha contratto nei confronti dei filosofi pagani, pur nella salvaguardia
della purezza e originalità della fede cristiana.
Il capitolo intitolato Il platonismo nei Dialoghi si chiude a pag. 206 con questa dichiarazione dello
studioso agostiniano: “Dopo aver rilevato i debiti contratti nei confronti dei Platonici, però, occorre
anche notare come il convertito, fin dall’inizio, abbia saputo contrapporsi ad essi e su punti non
marginali, in forza della sua nuova fede. Il carattere cristiano dei contenuti dei Dialoghi, anteriori e
posteriori al battesimo, apparirà ancora più chiaramente da ciò che diremo in seguito sui punti più
controversi: la dottrina trinitaria, la fede in Cristo e l’antropologia”.
b) Iniziale dottrina trinitaria.
Lo studioso agostiniano è convinto che la dottrina trinitaria, soprattutto nei primi dialoghi non fu
affatto ispirata alla dottrina neoplatonica. Viene ricordato che P. Alfaric, O. Du Roy e altri hanno
sostenuto che la dottrina trinitaria contenuta nei Dialoghi, soprattutto nei primi, sarebbe il risultato
di una confusione tra la triade di Plotino e la fede cristiana, con l’identificazione dello Spirito Santo
con la Ragione ordinatrice del mondo. Con questa tesi fu posto un forte dubbio sull’autenticità della
fede cristiana di Agostino a livello trinitario65
.
Già molti anni fa, come abbiamo ricordato all’inizio, N. Cipriani66
aveva dimostrato che la dottrina
trinitaria dei Dialoghi, non è ispirata a Plotino ma è invece il risultato di una lettura dei trattati
antiariani di Mario Vittorino e delle opere trinitarie di Ambrogio.
Vengono esaminati con il metodo delle concordanze concettuali e lessicali, diversi testi per provare
questa tesi. Riprendiamo alcune osservazioni relative al testo di De ordine 2, 5, 16 nel quale viene
sottolineato che la perfetta conoscenza della Trinità divina proviene soltanto dalla rivelazione
cristiana, tant’è vero che Agostino afferma di voler conoscere Dio trino e uno secondo i venerabili
misteri e non nel modo confuso e blasfemo in cui lo predicano gli eretici o sabelliani o ariani. In De
ordine infatti l’Africano assegna alla vera filosofia (germana philosophia) il compito d’insegnare la
dottrina della divina Trinità ”nec confuse, ut quidam, nec contumeliose, ut multi praedicant”, ma in
conformità ai veneranda mysteria. A quali errori si riferisce l’autore? O. Du Roy67
crede che egli
alluda ai filosofi neoplatonici che insegnerebbero la Trinità confusamente e orgogliosamente. N.
Cipriani68
fa osservare che questa interpretazione è una forzatura, che trascura completamente la
distinzione, presente nel testo, tra i quidam che confondono e i multi che offendono. Più attendibile
è la spiegazione di chi crede che nel confuse ut quidam alluda al modalismo sabelliano e nel
64
Ibid, Introduzione ad Agostino. Confessioni, Milano 2012.
65 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 207.
66 Ibid., Le fonti cristiane, pp.253-312
67 O. Du Roy, L’intelligence de la foy, p. 125, n.1,
68 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 208.
17
contumeliose ut multi alluda agli ariani che considerano il Figlio inferiore al Padre e sua prima
creatura. Questa lettura è verosimile perché la contrapposizione delle dottrine degli eretici sabelliani
e ariani riappare in Soliloquia 1, 1, 4; in De quantitate animae 34, 77 e in De moribus Ecclesiae et
de moribus manichaeorum 1, 30, 62. N. Cipriani è convinto che una conoscenza tanto precisa del
dibattito ecclesiale sulla Trinità non si può spiegare solo con l’ascolto della predicazione di
Ambrogio o con le conversazioni avute con Simpliciano. Non si può scartare l’ipotesi di una lettura
diretta di un’opera scritta e circolante a Milano, come il De fide, dove Ambrogio accenna
ripetutamente e nei medesimi termini a quella opposizione. In molte pagine del De fide Ambrogio si
contrappone alle eresie di Sabellio e di Ario utilizzando contro la prima l’avverbio confuse o il
sostantivo confusio e contro la seconda i sostantivi discretio, iniuria e perfino contumelia. Il lettore
viene rimandato a una serie di testi del De fide, in particolare 1, 1, 6; 1, 1, 8; 2, 2, 33; 4, 11, 159; 5,
12, 159. Il De fide di Sant’Ambrogio può spiegare bene le espressioni contenute nel De ordine, che
altrimenti risulterebbero del tutto oscure.69
Lo studioso agostiniano andando in profondità al testo di De ordine 2, 5, 16 ha fatto osservare che
risulta evidente l’influsso di Mario Vittorino, anche nella terminologia. Per indicare le tre Persone
divine Sant’Agostino privilegia i termini tripotens e tria già utilizzati da quell’autore. Inoltre
chiama il Padre Principium sine principio e il Figlio Intellectus, gli stessi termini usati unicamente
o quasi dal medesimo scrittore nei trattati antiariani. Lo stesso influsso si può osservare anche nella
dottrina oltre che nella terminologia teologica70
. Agostino afferma in De beata vita 4, 35 che i tria
hanno una substantia e che lo Spirito Santo è “per quid connectaris summo modo”; Mario Vittorino
in Inno I, 75 usa gli stessi termini: “Hinc tribus una substantia est” e “Tu, Spiritu sancte, connexio
es; connexio autem est quidquid connectit duo”. L’autore dei Dialoghi crede che lo Spirito Santo sia
Figlio di Dio. Questa idea, che in Occidente è esclusiva di Mario Vittorino, appare qua e là nei
Dialoghi, ora in modo oscuro come in De ordine 2, 5, 16, ora in modo più chiaro come in De beata
vita 4, 35 e in modo inequivocabile in Soliloquia 1, 1, 2. Lo studioso agostiniano trova ulteriori
conferme alla sua tesi analizzando alcuni passaggi della preghiera iniziale dei Soliloquia, così densa
di dottrina teologica che non si può spiegare con l’influsso dei filosofi platonici, né con il semplice
ascolto dei discorsi di Sant’Ambrogio. La preghiera diventa invece comprensibile se si legge alla
luce dei due autori cristiani sopra menzionati71
.
Nella parte finale del Capitolo intitolato La dottrina trinitaria vengono riassunti i risultati
dell’indagine sul tema riguardante la dottrina trinitaria. Riassumiamo due di questi risultati: 1)
l’autore dei Dialoghi non conosce ancora la formula trinitaria che diventerà classica “una sostanza
in tre persone”. Egli preferisce parlare di Tria et una substantia o Tripotens, dando grande
importanza alla regula fidei nel distinguere nella Trinità le persone divine senza conforderle né
separarle, opponendosi da un lato al modalismo sabelliano e dall’altra all’eresia ariana; 2) poiché la
distinzione fra le persone si fa individuando il proprium di ciascuna, il convertito si muove subito in
questa direzione: già nei primi Dialoghi considera Dio il Padre di Gesù Cristo, il Summus Modus, o
69
Ibid, pp. 209-210.
70 Ibid, p. 210.
71 Ibid, p. 212.
18
il Principium sine principio che per una clementia popularis abbassa il suo Intelletto ad assumere il
corpo dell’uomo; seguendo la Scrittura, considera il Figlio la Verità e la Sapienza di Dio incarnata;
più difficile gli risulta la qualifica dello Spirito Santo, che al pari di Mario Vittorino considera
Figlio e del quale preferisce rilevare la molteplice azione interiore72
. In breve occorre rilevare che
Agostino, subito dopo il battesimo; compie passi importanti nella pneumatologia. Riconosce la
Carità come proprium dello Spirito Santo73
, ne afferma esplicitamente la divinità attribuendogli
nello stesso tempo la santificazione dell’uomo74
. In conclusione, la dottrina trinitaria del convertito
risulta ispirata già nei primi dialoghi agli scritti di due autori cristiani, Mario Vittorino e Ambrogio,
ai quali, fin dopo il battesimo, è associato Ilario (e forse altri autori cristiani).
c) La fede nel Verbo fatto carne.
Nel capitolo intitolato La fede in Cristo lo studioso agostiniano s’impegna a contestare
un’affermazione di G. Folliet il quale, a proposito della lettera XI a Evodio, scrive: “A leggere e
rileggere questa lettera, si è un po’ sorpresi di non trovarvi alcuna allusione al peccato dell’uomo e
alla sua redenzione. Il Figlio di Dio ci viene presentato, in rapporto alle altre Persone della Trinità,
nel suo ruolo specifico di Species o di Forma, sia nella funzione di Rivelatore del Padre....” Stando
a questo testo, dunque, sembrerebbe che secondo il pensiero di Agostino, a questa data, la salvezza
portata dal Figlio di Dio all’uomo si realizzi sul piano della conoscenza o della pedagogia e non su
quello della redenzione. Altri testi, anteriori al 391, ci sembrano confermare questa posizione”75
.
Se viene fatta una lettura attenta dei Dialoghi si possono invece individuare testi in cui Cristo
appare molto più che un maestro di moralità. In primo luogo, per quanto riguarda la purezza della
sua fede cristiana, bisogna evidenziare l’insistenza con cui Agostino difende la vera divinità del
Figlio. Contro un’affermazione ambigua di Licenzio precisa: “Sappi contenerti, piuttosto, lo
rimprovera: il Figlio non è detto Dio in senso improprio” (ord. 1, 10, 29). Vengono registrati diversi
testi in cui Agostino crede all’avvenimento dell’incarnazione del Figlio di Dio, come opera d’amore
del Padre e del Figlio. In Acad 3, 19, 42, si legge: “… il sommo Dio con una sorta di clemenza
popolare ha piegato e abbassato l’autorità del divino Intelletto fino allo stesso corpo umano”. In De
ordine 2, 5, 16 scrive che “un Dio così grande si è degnato di assumere e portare per noi (propter
nos) il corpo della nostra specie”. In De beata vita 4, 34 viene fatta un’ampia descrizione della
figura di Cristo, Figlio di Dio, Verità, Potenza e Sapienza di Dio, come si legge nelle Scritture. In
De ordine 2, 9, 27 la purezza di fede cristiana di Agostino si rivela nell’affermazione che Cristo è la
vera, firma, summa auctoritas divina per gli stessi motivi portati da Sant’Ambrogio contro gli
72
Ibid, p. 220.
73 an. quant., 33, 77.
74 mor. I, 14, 33.
75 G. Folliet, La correspondance antre Augusti net Nébridius, in L’opera letteraria di Agostino tra Cassiciaco e Milano,
Palermo 1987, p. 212.
19
Ariani che negavano a Cristo una potestas e una auctoritas divina uguale al Padre. N. Cipriani76
non
si limita a registrare testi il cui senso immediato evoca la fede in Gesù Cristo di Agostino ma tenta
anche di portare l’indagine su altri testi il cui vero significato può essere evidenziato solo se si tiene
presente la fonte ispiratrice. Utilizzando il già collaudato metodo interpretativo delle concordanze
concettuali e lessicali, analizza due testi, il primo in Soliloquia 1, 1, 3, il secondo in De ordine 2, 5,
15-16. Dal primo testo emerge che Cristo non è solo l’Intelletto divino incarnato che insegna agli
uomini la verità e per mezzo del quale possiamo conoscere il Padre, ma è anche il Dio per quem
vincimus inimicum. Il significato cristologico soteriologico di questa affermazione, che Du Roy
aveva riferito allo Spirito Santo, emerge in modo chiaro se viene posto a confronto con la fonte che
l’ha ispirata. L’espressione “quem vincimus inimicum” trova riscontro in un’opera di Mario
Vittorino. Questo retore-filosofo, convertito in tarda età al cristianesimo, aveva affermato in un
inno: Diu repugno, diu resisto inimico meo (Hymn. 2, 48-49). La stessa affermazione che il
credente vince il nemico per mezzo di Gesù Cristo si trova in vari commenti a lettere di San Paolo:
in Eph. 3, 12; 4, 21; 4, 32 e in Phil. 2, 13. Alla luce di questi testi di Mario Vittorino l’invocazione
dei Soliloquia manifesta la fede del convertito nella vittoria che il credente riporta sul peccato, sulla
morte e sul diavolo a motivo della morte e resurrezione di Cristo. La genuina fede cristiana di
Agostino emerge con chiarezza anche in De ordine 2, 5, 15-16, ove Agostino ricorre a una struttura
concettuale costituita da quattro termini: fides (credere), mysteria, Christus, liberare, per esprimere
la propria certezza nella virtù liberatrice della fede cristiana. La suddetta struttura, con gli stessi
termini, è utilizzata da Mario Vittorino in diversi passi dei suoi scritti, mentre non si trova in alcun
altro scrittore precedente.
Ecco i due testi agostiniani: Si autem aut pigriores sunt aut aliis negotiis praeoccupati aut iam duri
ad discendum, fidei sibi praesidia parent, quo illos vinculo ad sese trahat atque ad iis horrendis et
involutissimis malis liberet ille, qui neminem sibi per mysteria bene credentem perire permittit (ord.
2, 5, 15); i mysteria sono (…) veneranda mysteria, quae fide sincera et inconcussa populos liberant
(ord. 2, 5, 16). Si può intuire il vero significato di tali affermazioni se si tiene presente le fonte
ispiratrice. Dal primo testo si ricava che colui che libera da orribili mali è Cristo, perché è Lui che
non lascia perire alcuni di coloro che credono in Lui. (Io 3, 15). Noi comprendiamo la natura dei
misteri, di cui sta parlando l’autore del De ordine, se interpretiamo i testi alla luce di quanto scrive
Mario Vittorino. Basta un testo che ritroviamo nel Commentario alla lettera agli Efesini: ergo
mysterio quod hic implevit et carne et morte et resurrectione, subventum est animis, et, si in
Christum fides sumatur, ille suscipit huismodi animas et adiuvat et liberat (in Eph. 3, 12). M.
Vittorino ripete più volte la medesima struttura concettuale (credere, mysteria, liberare, Christus)
usata da Agostino in De ordine, specificando che si tratta della fede nei misteri dell’incarnazione,
morte e risurrezione di Cristo, che ottiene da Lui la liberazione delle anime. Leggendo i testi
agostiniani alla luce di quanto scrive Mario Vittorino, N. Cipriani77
corregge, in questo caso, J.
Doignon che aveva identificato i mysteria con le Scritture. Nella parte finale del capitolo viene
evidenziata in alcuni Dialoghi la nozione di peccato e di grazia. Il capitolo si chiude con parole che
vogliamo riportare per l’utilità dei lettori i quali, a causa delle molteplici interpretazioni fornite a
76
N. Cipriani, I Dialoghi, p. 224-225.
77 Ibid., p. 226.
20
proposito dei primi scritti agostiniani, si trovano disorientati nel comprendere il pensiero
dell’Africano. L’autore del saggio scrive: “In conclusione, possiamo affermare che, sebbene nei
primi scritti agostiniani l’accento cada sull’aiuto che da Cristo può venire all’uomo nella ricerca
della verità e quindi anche a livello d’insegnamento e di esempio morale, non mancano tuttavia testi
in cui la grazia di Cristo appare più ricca e complessa: Cristo da un lato libera dai mali coloro che
credono nei suoi misteri e li fa partecipare alla sua vittoria sul nemico, dall’altro, mediante il dono
dello Spirito Santo che diffonde nei cuori la carità, li converte, li rinnova, li santifica e infine li fa
partecipi della risurrezione del suo corpo”78
.
d) Elementi varroniani nell’antropologia agostiniana.
N. Cipriani si è sempre ritenuto innanzitutto un filologo, nel senso che ha preferito studiare le fonti,
da cui Agostino ha preso spunto per la formazione del suo pensiero, per seguirne lo sviluppo entro il
suo contesto storico-culturale. Con le indagini da lui condotte per studiare gli aspetti fondamentali
dell’antropologia filosofica agostiniana è riuscito, a partire dai risultati delle sue ricerche
filologiche, a individuare alcune implicazioni speculative che hanno permesso di ricostruire in
modo nuovo il quadro antropologico del pensiero dell’Africano. Inoltre ha posto in evidenza e
documentato che l’antropologia dei primi scritti agostiniani è ispirata al neoplatonismo solo per
quanto riguarda la spiritualità e l’immortalità dell’anima; quando si passa a considerare la
corporeità dell’uomo, i beni del corpo, l’unità del corpo con l’anima e quindi la nozione di natura
umana, Agostino, opponendosi alla concezione antropologica dei neoplatonici (i quali
identificavano l’uomo con l’anima razionale), si orienta verso un modello antropologico che stima il
corpo come parte integrante dell’uomo e che valuta positivamente i valori del corpo e della vita
sociale totalmente estranei ai filosofi neoplatonici79
. E’ proprio Varrone, esponente latino della
filosofia di Antioco di Ascalona, a fornire il modello antropologico. Agostino accoglie questo
modello avanzando però due critiche: 1) Varrone e Antioco pretendevano raggiungere la felicità da
soli, con le proprie forze, senza l’aiuto di Dio; 2) essi pretendevano di raggiungere la felicità sulla
terra. N. Cipriani fa notare che nonostante queste due critiche, cinque verità inclinarono fin dagli
inizi il convertito verso questo modello antropologico: 1) la definizione dell’uomo; 2) l’idea unitaria
dell’anima; 3) la relazione naturale e necessaria dell’anima verso il corpo; 4) la triplice distinzione
aristotelica dei ben; 5) la nozione di natura umana come principio dinamico di appetitus o prima
naturae.
Esaminiamo questi cinque elementi “varroniani” che, secondo lo studioso agostiniano, risultano ben
integrati nella visione antropologica elaborata negli scritti agostiniani che precedono l’ordinazione
presbiterale.
78
Ibid., p. 230.
79 Ibid., p. 231.
21
1) La definizione dell’uomo.
L’illustrazione di questo primo elemento varroniano è fatta precedere da una osservazione
critica rivolta a I. Hadot secondo la quale la definizione di uomo che si trova in De ordine
2, 11, 31 -Homo est animal rationale mortale- sarebbe sì autentica, e quindi non
neoplatonica, “ma l’interpretazione che ne è stata fatta è essenzialmente neoplatonica”. La
studiosa illustra così la sua interpretazione: “l’uomo non è più composto dall’anima e dal
corpo, bensì è ora identico, non all’anima nella sua totalità, ma alla sola anima razionale. La
mortalità dell’uomo non designa più la morte del suo corpo, ma l’inclinazione dell’anima
razionale verso le cose corporee e mortali”80
. Già precedentemente N. Cipriani81
aveva
osservato che questa definizione esprime bene l’unità del composto umano e che ricerche
specifiche, dopo averne rilevato il carattere eclettico platonico-aristotelico-stoico, la
facevano risalire proprio ad Antioco dei Ascalona. In effetti già Aristotele aveva definito
l’uomo animale ragionevole. Secondo Plutarco furono poi gli Stoici, in particolare Crisippo,
a sottolineare la differenza fra l’uomo e gli dei proprio nel fatto che il primo è mortale
mentre i secondi, pur non essendo incorruttibili, sono immortali. Agostino comunque
riferisce la definizione attribuendola ai veteres sapientes o semplicemente ai veteres,
espressioni che certamente rimandano ai filosofi più antichi dei neoplatonici. Ma in De
beata vita (2, 7) viene sottolineato con chiarezza che l’uomo è composto di anima e di
corpo, perché “né senza corpo né senza anima può esserci l’uomo”.
Agostino ritorna negli stessi termini e con maggior chiarezza su questa definizione
nell’opera in De moribus Ecclesiae Catholicae. Qui, riprendendo il suggerimento di
Varrone contenuto nel De philosophia e indagando sulla natura del sommo bene dell’uomo,
Agostino si chiede “che cosa sia il sommo bene dell’uomo” e risponde che “né senza anima
né senza corpo può esserci l’uomo”, spiegando poi così l’affermazione: “infatti né il corpo
sarebbe uomo senza l’anima, né l’anima sarebbe uomo, se essa non animasse il corpo”82
.
Egli ammette che si potrebbe anche dire che l’uomo è l’anima, ma solo perché e in quanto
l’anima dà vita al corpo, cioè dice relazione al corpo. Anche in questo testo Agostino si
confronta con la dottrina antropologica che Varrone aveva esposto in De philosophia, di cui
critica la chiusura immanentistica, accettandone tuttavia la visione eudemonistica e la
concezione antropologica. Secondo ciò che è riferito in De civitate Dei, Varrone, ricordate le
ipotesi dell’identificazione dell’uomo solo con la sua anima o solo col suo corpo, avanzava
la terza ipotesi alla quale dava il suo assenso con queste parole: an vero nec anima sola nec
solum corpus, sed simul utrumque sit homo, cuius sit pars una sive anima sive corpus, ille
autem totus ex utroque constet83
. E’ la stessa concezione che Agostino accoglie sia in De
80
I. Hadot, Arts Libéraux, p. 106.
81 N. Cipriani, L’influsso di Varrone, pp. 378-383.
82 mor. I, 4, 6.
83 civ. XIX, 3, 1.
22
moribus sia in De beata vita( II, 7). In riferimento al testo di De moribus sopra citato, N.
Cipriani scriveva alcuni anni fa: “Non riesco a spiegarmi come un testo così chiaro abbia
potuto essere tanto frainteso da leggervi il contrario, ossia il rigetto da parte dell’autore
dell’idea varroniana che il corpo fa parte integrante dell’uomo. Eppure è proprio su tale
lettura che la I. Hadot ha costruito almeno in parte la sua tesi della fonte neoplatonica della
teoria delle artes liberales nel secondo libro del De ordine“84
.
2) Concezione unitaria dell’anima.
Un altro punto, in cui è evidente l’influsso di Varrone sulla visione antropologica
agostiniana, è la nozione unitaria dell’anima. In De ordine Agostino, contrapponendosi
quasi certamente a Plotino, scrive che “il sapiente consta non solo di corpo e di anima, ma
anche dell’anima intera (anima tota), perché sarebbe una follia dire che non è propria
dell’anima quella parte che fa uso dei sensi”,85
cioè dell’anima sensitiva. Giustamente viene
fatto osservare che abbiamo qui un testo di somma importanza per stabilire il modello
antropologico tenuto presente dal primo Agostino, secondo il quale anche la parte sensitiva
appartiene propriamente e originariamente all’anima, proprio come avevano affermato
Varrone e, prima di lui, Antioco e Aristotele. Secondo i neoplatonici, invece l’anima che
definisce l’uomo è soltanto quella razionale, perché essi consideravano l’anima irrazionale
(con funzione vegetativa e sensitiva), una parte che si è aggiunta accidentalmente nella
discesa nel corpo86
. In De quantitate animae (33, 70-73) Agostino parla esplicitamente di
un’anima capace di tre gradus di operazioni: vegetativa, sensitiva, razionale e intellettiva,
come aveva scritto Varrone87
. Tale concezione unitaria dell’anima, difesa da Agostino, porta
a conseguenze importanti: per lui, infatti, è immortale l’anima intera, e non solo l’animus o
la mens che è la parte più alta dell’anima, mentre per i neoplatonici solo l’anima razionale è
immortale, come per Aristotele solo il nous.
Tutte queste novità, anche se appena accennate, non impediscono ad Agostino di rimanere
fedele allo spiritualismo platonico e plotiniano, nel sostenere che l’anima è incorporea e
immortale, che occupa un posto intermedio tra Dio e il corpo, presente tutta intera nel corpo
e in ogni sua parte senza occupare alcuno spazio.
84
N. Cipriani, L’influsso di Varrone, pp. 375. Si veda I. Hadot, Arts libéraux, p. 134.
85 ord. II, 2, 6-7.
86 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 232.
87 civ. VI, 23.
23
3) Relazione naturale e necessaria dell’anima verso il corpo.
La presa di distanza dall’antropologia neoplatonica emerge in modo ancora più evidente nel
modo in cui viene concepita la relazione dell’anima con il corpo. Fin dalla conversione,
Sant’Agostino si è affrettato a modificare, rispetto ai neoplatonici, lo statuto ontologico
dell’anima umana, riconoscendo ad essa una relazione necessaria e naturale con il corpo.
Nel volume vengono analizzati tre testi di opere diverse nelle quali è chiara l’utilizzazione
del modello antropologico varroniano. Il primo testo in questa direzione si trova in De
ordine( II, 6, 18), in cui, percorrendo le tracce segnate da Varrone, l’autore del dialogo vede
nel cavaliere e nel cavallo le immagini dell’anima e del corpo evidenziando un tipo di
relazione naturale e necessaria. Agostino rileva attraverso tale immagine che l’unità del
corpo e dell’anima non è accidentale ma necessaria (necesse est). L’immagine del cavaliere
e del cavallo ritorna in De moribus Ecclesiae Catholicae (1, 4, 6) per sottolineare che
l’anima (il cavaliere) intanto può essere identificata con l’uomo, in quanto è ordinata a
governare il corpo (il cavallo); vi è stessa immagine anche in De civitate Dei (XIX, 3, 1)
dove viene citato esplicitamente Varrone. Il secondo testo si trova in De immortatlitate
animae((13, 20), dove viene affermato che l’anima è costituita da un appetitus naturale, o
tendenza, o inclinazione, verso il corpo (appetitus ad corpus) “o per possederlo o per dargli
vita o per fabbricarlo in qualche modo o per provvedere comunque ad esso”. Tale appetitus
appartiene alla stessa natura dell’anima umana; ma oltre a questa tendenza primaria ve ne
sono altre, anch’esse legate al corpo: gli appetitus di agire (agendi), di conoscere (sciendi),
di sentire (sentiendi), di vivere (vivendi). Il terzo testo da registrare si legge in De quantitate
animae 13, 22. Qui l’anima viene definita “ sostanza partecipe della ragione, adatta a
governare il corpo (regendo corpori accomodata), mentre in 36, 81 è affermato che l’anima
“è stata data al corpo per dargli vita governarlo” ( agendo atque administrando corpori
anima data sit). Per aiutare a capire la peculiarità della definizione di anima data dall’autore
del dialogo, viene proposto un confronto con la dottrina antropologica di Plotino, per
sottolineare che secondo questo filosofo l’anima è discesa o caduta nel corpo
spontaneamente e che è nel corpo come in un ricettacolo88
, mentre Agostino preferisce
seguire la tradizione aristotelico-stoica, secondo la quale l’anima non solo dà vita al corpo,
ma lo tiene unito dall’interno: “lo raccoglie in unità e lo mantiene nell’unità non
permettendo che si dissolva e si consumi”89
. La definizione agostiniana di anima è formulata
mutuando da Varrone (come si è già accennato) l’idea che l’anima intanto si può
considerare e dire uomo in quanto, è in relazione necessaria con il corpo (regendo corpori
accomodata). Con questa operazione Agostino compie un passo di notevole portata
metafisica, perché riconosce alla natura stessa dell’anima una relazione necessaria con il
corpo, considerato da Plotino e Porfirio, se non una disgrazia, un fatto semplicemente
accidentale.
88
an. quant. 30, 61
89 ibid., 33, 70.
24
3) La triplice distinzione aristotelica dei beni
I segni dell’influsso varroniano sul modello antropologico agostiniano sono evidenti anche
per la teoria relativa alla triplice distinzione aristotelica dei beni, che Agostino fa propria già
nei Soliloquia.90
Anche il Reatino, nel suo trattato De philosophia, aveva registrato l’idea
aristotelica dei tre tipi di beni (bona animi, bona corporis e bona externa). Per Agostino vi
sono i beni dell’anima, i beni del corpo e i beni sociali, nella convinzione che il corpo è
parte integrante della natura umana e che l’essere umano è tendenzialmente portato alla vita
sociale.91
Nel primo libro del De libero arbitrio Agostino, trattando dei rapporti tra legge
eterna e legge temporale, elenca i beni del corpo e quelli esterni. Tra i beni del corpo sono
menzionati la integra valetudo, l’acumen sensuum, le vires, la pulchritudo ed altri. Questi
beni ci richiamano la sintesi del De philosophia del Reatino in De civitate Dei XIX,4 ,2 e
XXII, 24. Il seguente elenco dei beni esterni ci richiama la stessa fonte: la libertà, “per cui si
considerano liberi quelli che non hanno padroni”; poi parentes, fratres, coniux, liberi,
propinqui, affines, familiares…; quindi la civitas e anche gli honores, la laus, la gloria
popularis, fino alla pecunia. Secondo Varrone l’uso di questi beni è regolato dalla legge
dello stato in modo che, come affermerà Agostino “i cittadini li possiedano in maniera da
conservare la pace della società civile” (lib. arb. 1, 15, 32). La concezione esposta da
Varrone nel suo De philosophia a proposito dei beni, ritorna a farsi sentire ancora più
chiaramente nel secondo libro del De libero arbitrio (II, 18, 47; 19, 50) nel quale Agostino
distingue tre tipi di beni che chiama bona magna, media, minima. E’ utile fare un
riferimento anche al piacere del corpo, tema al quale nel presente volume N. Cipriani
accenna brevemente, ma che aveva trattato diffusamente nel saggio L’influsso di Varrone
nel pensiero antropologico e morale nei primi scritti di Sant’Agostino. Alle pagine 397-399
sosteneva che il piacere del corpo risulta essere annoverato tra i beni del corpo, sia da
Varrone che da Agostino. La voluptas corporis, anche se d’infimo e ultimo grado è stimato
un bene naturale (lib. arb. II, 19, 53; vera rel. 45, 83) perché utile e inseparabile da certe
azioni dei sensi, indispensabili alla conservazione della vita, come il mangiare, il bere, il
procreare: “quando si compiono le azioni che corrispondono alle necessità della vita, la
percezione del piacere nulla ha di irrazionale e di illecito, perché è proprio questa percezione
che distingue le cose utili alla natura da quelle nocive. E’ considerato invece contrario alla
natura razionale dell’uomo il desiderio del piacere del corpo in se stesso, allo scopo di
goderne. In questo desiderio consiste il vitium della libido o concupiscentia carnalis.92
Agostino, quindi, pone il piacere corporeo tra i beni naturali, anche se all’ultimo posto,
distinguendosi con ciò persino dagli Stoici, che lo escludevano del tutto.
4) La Nozione di natura umana come principio dinamico di appetitus o prima naturae
90
sol. I, 9, 16 – 10, 17; 11, 19 – 12, 21.
91 N. Cipriani, I Dialoghi, p. 236.
92 N. Cipriani, L’influsso di Varrone, pp. 398.
25
La riflessione sull’antropologia agostiniana di N. Cipriani non si è fermata ai quattro punti
che abbiamo illustrato, ma è andata in profondità, fino a individuare i caratteri di una
particolare nozione di natura umana, che l’autore dei Dialoghi, ispirandosi a Varrone e a
Cicerone, ha elaborato fin dagli inizi della sua produzione letteraria.
Già nei primi scritti vi sono tracce di una dottrina riguardante tendenze originarie (prima
naturae). Sappiamo che tale dottrina era stata esposta da Varrone ma risaliva ad Antioco di
Ascalona, come documentato dal riassunto che Agostino ne fa nei primi capitoli del XIX
libro del De civitate Dei. Questa dottrina era stata insegnata dagli Stoici e l’accademico
Antioco di Ascalona l’aveva fatta propria, apportandovi tuttavia notevoli cambiamenti in
senso aristotelico; Agostino l’accoglie liberandola, però, dalla visione autarchica e chiusa
nell’orizzonte temporale.
Come nel trattato De philosophia di Varrone e come nel quinto libro del De finibus di
Cicerone, così anche nei Dialoghi agostiniani la nozione di natura umana, come insieme di
facoltà e come principio di tendenze (appetitus) orientate verso fini ben determinati, viene
ad occupare un posto centrale. Gli appetitus originari, che richiamano la teoria della
oikeiosis, sono considerati fenomeni positivi, anche se Agostino non manca di avvertire che
essi, a causa del peccato originale, sono ormai distorti e possono deviare dai loro fines
naturali ad altri fines disordinati. Secondo N. Cipriani93
in Agostino è presente una nozione
di natura umana legata ai tre appetitus summenzionati (appetitus vivendi, appetitus
cognoscendi e appetitus agendi) già in De immortalitate animae, ma indagati in modo
sufficientemente compiuto in De vera religione.
Esaminiamo ora in dettaglio i tre appetitus che costituiscono la struttura metafisica della
natura umana, tenendo presenti i passi cu cui lo studioso agostiniano si è particolarmente
soffermato.94
a) La prima tendenza che muove la natura umana è l’appetitus della propria
conservazione (salus o integritas fisica) (vera rel. 52, 101; 53, 103; mus. 6, 14, 45; mus. 6,
5, 13). La nozione di appetitus naturale della salute o quiete non è altro che una
determinazione della oikeiosis o dell’amor sui, tendenza di ogni essere vivente a
salvaguardare se stesso e la propria incolumità di cui avevano parlato gli Stoici. E’ legge
fondamentale della natura che l’uomo ami se stesso, la sua sopravvivenza e l’integrità del
suo corpo; ciò vale anche per le bestie si legge in Doct. Ch. I, 25-26,27; in De vera
religione (41, 77) questo appetitus è messo in risalto a proposito di un piccolo verme, ma
ciò che vi si dice vale per ogni essere vivente. b) Un secondo appetitus naturale è costituito
dalla tendenza a conoscere il vero; espressioni che attestano tale tendenza della natura
umana sono disseminate in quasi tutte le opere scritte da Agostino prima del presbiterato.
“Perché dunque abbiamo tanto timore delle falsità e desideriamo come grande bene la
verità?” (sol. II, 10, 18). Tutto il primo dialogo (Contra Academicos) testimonia l’impeto
radicato nella ragione umana a conoscere la verità. Questo impulso, che a volte è chiamato
cupiditas veri (Acad.. 1, 3, 8) o amor inveniendi veri (ord. 1, 3, 6) o appetitus noscendi
93
N. Cipriani, I Dialoghi, p. 234. Vedi anche ibid., Lo schema dei Tria vitia, pp. 185-193.
94 Ibid.,, I Dialoghi, pp. 194-196.
26
(conf. X, 35, 54) spinge continuamente all’indagine, alla ricerca faticosa. Nei paragrafi 101-
104 del De vera religione questo appetitus naturale a conoscere la verità è ampiamente
illustrato in contrapposizione alla curiositas, che è il disordine del desiderio naturale di
conoscere la verità. c) Il terzo appetitus naturale viene così descritto: “noi vogliamo essere
invincibili (invicti) e a ragione, perché la natura del nostro animo ha questo dopo Dio, alla
cui immagine è stato creato” (vera rel. 45, 85). Tuttavia, per essere veramente invincibile
l’uomo deve amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi (vera rel. 45, 85; 46,
86): “amiamo, come ci è comandato, anche i nemici, se vogliamo veramente essere
invincibili”. Dall’idea di invincibilità Agostino passa quindi alla nozione di libertà: “ogni
uomo è invincibile non per se stesso, ma per quell’immutabile legge, servendo la quale
soltanto si è liberi” (vera rel. 46, 87) . Questa terza tendenza naturale è chiamata anche
appetitus agendi cum facilitate, nel senso che l’uomo vuole essere invictus e libero (vera rel.
52, 101; 53, 102).
* * *
In conclusione, il volume del Professor Nello Cipriani costituisce a nostro parere una risorsa
scientifica di primaria utilità, essendo un concentrato di fonti precedentemente ignorate, di
rilevazioni critiche e di interpretazioni innovative; può essere uno strumento fondamentale
per gli studiosi che intendono approfondire il quadro filosofico che Agostino ci ha trasmesso
con i suoi Dialoghi95
. E’ più che mai necessario questo lavoro di ricostruzione della
complessa tematica filosofica dell’autore dei Dialoghi, il quale, più che in passato, continua
ad essere da molti oggetto di accusa di dualismo platonico, eccessivo spiritualismo e perfino
di residui gnostico-manichei. Auspichiamo che questo volume sia valido contributo a una
sempre più autentica interpretazione del pensiero filosofico dell’Africano96
.
Padre Virgilio Pacioni O.S.A.
Istituto Patristico Augustinianum
95
A questo riguardo vedi V. Pacioni O.S.A., Agustín de Hipona. Perspectiva Histórica y Actualidad de una Filosofía,
Madrid 2012.
96 In questa parte conclusiva intendo richiamare l’attenzione su tre volumi che raccolgono la trascrizione delle lezioni
tenute dal Prof. Don Giacomo Tantardini negli anni Novanta e nel primo decennio del 2000, nella Libera Università San
Pio V di Roma e nella Università degli Studi di Padova: Senso religioso, peccato originale, fede in sant’Agostino, Roma
2006; Il cuore e la grazia in Sant’Agostino, Roma 2006; Il tempo della Chiesa secondo Agostino, Roma 2010. Al Prof.
Don Giacomo Tantardini va attribuito il merito di aver condotto un’indagine dell’opera di Sant’Agostino, utilizzando
per primo il nuovo filone antropologico dovuto alle analisi innovative di Nello Cipriani.