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Il figlio bastardo della società

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di Andrea Ciccolini, mainstream Tutti, quasi ogni giorno, subiamo piccole grandi ingiustizie. Siamo vittime rassegnate di soprusi più o meno gravi, perché tanto una giustizia pronta a proteggerci non esiste. Da qui parte l’intuizione di un ragazzo come tanti, da qui nascono “I Figli Bastardi della Società”, organizzazione silenziosa, che si annida a tutti i livelli sociali con il solo scopo di destabilizzare il sistema e fare giustizia. Quella giustizia che quasi sempre ci viene negata. Tutto ha inizio in un giorno piovoso, in cui quel ragazzo sta uscendo con estrema difficoltà da un parcheggio a causa di una macchina in doppia fila. Una vigilessa lo ferma contestandogli una guida contromano e ritirandogli la patente. Quando cerca di giustificarsi spiegando l’accaduto, l’auto in doppia fila che ha causato il problema è sparita, si è volatilizzata alla vista della pattuglia. Non resta che ingoiare il rospo, calmarsi e meditare. Proprio in quel momento la macchina che era in doppia fila

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ANDREA CICCOLINI

IL FIGLIO BASTARDO DELLA SOCIETÀ

www.0111edizioni.com

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IL FIGLIO BASTARDO DELLA SOCIETÀ Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-635-6 Copertina: bookcover design by Minjee Kim per

Il figlio bastardo della società

Prima edizione Dicembre 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Testo curato da Agenzia Riscrivimi

www.riscrivimi.it

Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o personaggi è da ritenersi puramente casuale.

A Martina, perché feci una promessa

e perché te lo meriti

Nota di apertura dell’Editore Con questa pubblicazione non intendiamo spingere in nessun modo i lettori a compiere azioni simili a quelle descritte in quest’opera auto-biografica. Ci tiriamo indietro da qualsiasi responsabilità nel caso in cui qualcuno cerchi di emulare il protagonista. Ci dissociamo dai contenuti sovversivi presenti all’interno del testo. Questo manoscritto è arrivato in redazione dopo essersi salvato da un incidente causato da quella che sembra essere stata una Punizione com-piuta da una cellula che non è riuscita a gestire la situazione, provocan-do un incidente stradale nel quale ha perso la vita una guardia carcera-ria.

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1 Tutti ormai mi conoscono con il nome di Refosco e io sono convinto che rifarei tutto ciò che ho fatto da quando mi chiamano così. Non amo particolarmente parlare di me stesso, preferisco che lo facciano gli altri ma, alla luce ciò che è successo, ho sentito il dovere di farlo. Quello che io ho creato è il bug più pericoloso che la nostra società ab-bia mai conosciuto. Quello che io ho creato è un’infezione che ormai ha attecchito e si diffonderà anche senza altre azioni da parte mia. Quello che io ho creato è paragonabile a un computer che all’improvviso deci-de, senza che arrivi un virus dall’esterno, di auto-infettarsi. Quello che io ho creato è un cancro con metastasi ovunque. Quello che io ho creato è una rivoluzione che ucciderà la società occidentale. Quello che io ho creato sono “I figli bastardi della società”, e ormai non potete fermarli. Neanche loro, se volessero, potrebbero fermarsi. Tutto è cominciato dopo che, per anni, ho covato un senso di repulsione e disgusto per la società in cui sono nato e cresciuto. La goccia che fece traboccare il vaso cadde in un giorno di pioggia. Ero in macchina e sot-to a un nubifragio stavo facendo una manovra millimetrica per uscire da un parcheggio reso strettissimo da un’utilitaria parcheggiata in doppia fila. Riuscii nell’impresa e iniziai a girare la macchina per rimetterla dritta visto che, per forza di cose, mi ero ritrovato con il muso dalla par-te sbagliata. Ero innervosito ma ce l’avevo quasi fatta, quando vidi una fottuta macchina dei Vigili Urbani che mi si piazzò davanti al cofano. Scesero e, dopo avermi bussato sul finestrino con il manico di un man-ganello, mi chiesero patente e libretto. Li presi, mi squadrarono e se li portarono sulla volante. Erano un uomo e una donna, lui sembrava re-missivo, con la tipica espressione del cane bastonato. Lei, la classica faccia da stronza, di sicuro incattivita dall’evidente scarsità di rapporti sessuali sostituiti da un po’ di orgasmico abuso di potere. Li vidi confa-bulare, i minuti passarono e l’idea che volessero fare un semplice con-trollo si sfaldò come un foglio di giornale sotto una pioggia intensa co-me quella che picchiava sull’asfalto. Dopo tre quarti d’ora la vigilessa

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tornò ad affacciarsi al mio finestrino. Sul volto aveva dipinta la tipica espressione di chi ha appena fatto una sveltina. La constatazione m’inquietò molto. Con voce dura e soddisfatta mi disse di mettere un firmetta in fondo a un foglio sul quale c’era scritto che mi avrebbero ritirato la patente per tre mesi, visto che guidavo contromano. In quel momento vidi rosso. Non dissi nulla. Non feci un movimento. In apparenza ero calmissimo. Ma accumulai in un secondo così tanta bile che mi venne da vomitare. Passarono lunghi e lenti secondi durante i quali percepii che la vigilessa iniziava a perdere la sua espressione del cazzo visto che si stava inzup-pando sotto il nubifragio. Decisi di rallentare il più possibile le mie rea-zioni. Provai a spiegare, con molta calma e lentezza, soppesando ogni singola parola, che mi ero trovato in quella posizione perché c’era una macchina in doppia fila che mi aveva costretto a una strana manovra. La stronza, con un sorrisetto schernitore, mi disse che non vedeva nes-suna macchina parcheggiata male. Eh già, quello che aveva parcheggia-to in doppia fila, appena aveva visto i vigili fermarsi, si era dileguato. In quel momento il mio cervello vagliò due possibilità: a) Subire in silenzio e farmi ritirare la patente. b) Accendere la macchina, prendere la stronza per i capelli e trascinar-mela per tutta la città appesa al finestrino, fingendo di essere Achille con il corpo di Ettore legato alla biga. Rassegnato firmai il verbale e lo feci con tanta forza da bucare il foglio, poi presi la mia copia e il libretto di circolazione. Niente patente. Guardavo fisso davanti a me e la mia rabbia continuava ad aumentare mentre la vigilessa mi spiegava che dovevo tornare a casa seguendo la strada più breve. Prima che finisse la sua patetica spiegazione su come mi sarei dovuto comportare in futuro, alzai il finestrino. Non so quanti minuti restai fermo in macchina in mezzo alla strada do-po che la volante se ne fu andata. Quei minuti furono la svolta della mia e delle vostre vite. Fu in quel lasso di tempo che vidi passare davanti a me la macchina che prima aveva parcheggiato in doppia fila. La riconobbi, nonostante la pioggia battente e il parabrezza appannato, perché aveva uno strano adesivo accanto alla targa. Agii senza esitare e senza pensare a quello

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che mi era appena capitato. Insomma agii e basta. Feci un’inversione a “U” e mi misi all’inseguimento. Mi mantenevo a una certa distanza, ma stavo attento a non farmelo scappare ai semafori e intanto pensavo. Do-po circa mezz’ora la macchina con l’adesivo parcheggiò di nuovo e la conducente, una donna cicciona e sgraziata, scese dirigendosi verso un bar. Passai davanti al locale e vidi la cicciona, che a quel punto era di-ventata la mia vittima, sedersi a un tavolino con un’altra donna. Pensai che, visto l’orario, si accingevano a prendere un aperitivo e io avrei a-vuto tutto il tempo per agire. Guidando più veloce cercai un supermer-cato e comprai una confezione di zucchero, tornai indietro e parcheg-giai la mia macchina vicino al bar, diedi un’occhiata dentro e notai che in effetti la mia vittima stava chiacchierando davanti a quello che sem-brava un Crodino. Raggiunsi la macchina della cicciona incurante della pioggia che stava inzuppando i miei vestiti, aprii lo sportellino della bocchetta del serbatoio della benzina, presi le mie chiavi di casa alle quali era attaccato un piccolo coltellino svizzero e lo usai per forzare la serratura del tappo che, dopo pochi secondi, cedette. L’adrenalina pom-pava nelle mie vene, la sentivo arrampicarsi in tutto il corpo, ma non era dovuta alla paura di essere beccato in flagrante, era stimolata dall’eccitazione che mi dava quello che stavo facendo. Aprii la confe-zione di zucchero, poi, colto da quella che mi parve un’illuminazione, buttai lo zucchero a terra, mi abbassai la cerniera dei pantaloni e svuotai tutta la mia orina bollente dentro al serbatoio, rimisi il tappo e richiusi lo sportellino. Tornato alla mia macchina, completamente zuppo, spinsi play sullo stereo, accesi una sigaretta e aspettai che la mia vittima rien-trasse nella sua auto. La cicciona schifosa ripartì. Dopo pochi metri si ritrovò in mezzo alla strada con la macchina ingolfata e, sotto al dilu-vio, incazzata, dava i pugni al volante sbraitando al cellulare. Mi sentii eccitato e realizzato. Mi sentii, forse per la prima volta in vita mia, me stesso. Mi sentii finalmente vivo. Sentii un’erezione gonfiarmi le mutande. Pioveva ancora di brutto quando la cicciona scese dalla macchina per cercare di fermare qualche buon samaritano che le desse una mano. Io le passai accanto prendendo a gran velocità una pozzanghera e alzando-le addosso un’onda di acqua putrida. Poi la mia vittima si perse nello specchietto retrovisore mentre io, rinfrancato e soddisfatto come se a-vessi scopato, tornai verso casa.

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Mentre ero alla guida, con Bob Dylan che strimpellava nelle casse dello stereo, pensavo che quella era stata la punizione più giusta per la cic-ciona. Aveva parcheggiato in doppia fila bloccando la mia e altre mac-chine, e ora si trovava bloccata in mezzo alla strada. Non faceva una piega. Per fortuna a casa mia non c’era nessuno, mio padre era andato via anni prima e mia madre, pilota d’aereo, stava quasi sempre fuori per lavoro. Mio fratello suonava in un gruppo di discreto successo e stava spesso in giro in tournée o a drogarsi, quindi non mi trovai costretto a dover rac-contare a nessuno il ritiro della patente. Chiamai subito un amico dei miei che era molto affezionato a me e lavorava alla Polizia Municipale. Gli raccontai quello che mi era successo e si dimostrò subito disponibi-le ad aiutarmi. Mi disse di non pagare la multa e di non guidare finché lui non avesse risolto la cosa. Prima di riagganciare mi chiese il nome e la matricola dei due vigili che mi avevano ritirato la patente e quando gli diedi i dati della vigilessa mi disse che la conosceva, lavorava dove stava lui ed era famosa per essere una vera stronza. Quel coglione dell’amico dei miei lo disse come se io non me ne fossi già reso conto. Con qualche strascico di eccitazione per quello che avevo combinato alla cicciona mi buttai sotto la doccia e iniziai a pensare, a sognare. Riflettendoci, è buffo notare come tutto quello a cui ho dato vita è nato sotto l’acqua scrosciante, della pioggia prima e della doccia dopo… e sarebbe finito sotto allo scrosciare del sangue. Dopo essermi asciugato i capelli presi il verbale della multa, lo lessi e mi venne un’idea che mi conquistò subito. D’improvviso mi accorsi che tutti i miei pensieri si sforzarono di convergere verso un unico obietti-vo. Punire. Chiamai un amico che di certo mi avrebbe seguito e sarebbe stato il compagno ideale per quello che avevo in mente. Mi passò a prendere in macchina e lungo il tragitto gli spiegai tutto dall’inizio. La sua reazione mi sorprese, si entusiasmò all’idea di quello che volevo realizzare. Questo amico, che ora tutti conoscono con il no-me di Nero d’Avola, è un fenomeno a guidare, ha una seria passione per il cinema e da quel giorno non ha mai abbandonato il mio grande pro-getto. In macchina, con la radio che suonava un pezzo melodico dei Sum41, iniziammo a ripassare il piano in ogni suo dettaglio.

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Arrivammo nei pressi della Centrale dei Vigili dove sapevo che lavora-va l’amico di famiglia. Ci fermammo in un posto dal quale si vedeva l’entrata ma non avremmo dato nell’occhio e ci preparammo ad aspetta-re. Volevo beccare lei, la vigilessa stronza. Ero talmente determinato che sarei rimasto appostato anche un mese intero. Passarono lunghe ore, durante le quali i nostri polmoni dovettero assorbire una cospicua dose di fumo e le nostre menti dovettero respingere gli attacchi della noia. L’attesa si sa, è snervante, ma quando finalmente finì, lasciò il posto a una voglia quasi compulsiva di agire. La vedemmo uscire a pie-di e dirigersi alla fermata dell’autobus, forse aveva paura di prendere delle multe andando in macchina. In mano aveva un borsone dentro al quale speravamo ci fosse il suo manganello. Una sera a cena avevo sentito l’amico di famiglia vigile raccontare che, da quando il sindaco, un anno prima, aveva stabilito che la Polizia Mu-nicipale avesse in dotazione un manganello, questo era diventato un personale oggetto di culto per molti di loro, li faceva sentire potenti e alcuni, contravvenendo alle regole, se lo portavano sempre dietro, an-che fuori dall’orario di lavoro. Io speravo con tutto me stesso che la nostra vigilessa rientrasse in questa categoria. Prese l’autobus e lo seguimmo finché non scese ed entrò in una pale-stra. Andai con Nero d’Avola a casa mia e, con lo scanner, modificam-mo la fotocopia della mia carta d’identità lasciando la foto ma inseren-do dati falsi. Tornammo alla palestra della Vigilessa, entrai e andai di-retto dalla giovane segretaria, un puttanone esagerato. Le feci le classi-che domande che farebbe una persona che si vuole iscrivere e dissi che mi avevano convinto, mi sarei iscritto. Quando mi chiesero un docu-mento per la registrazione, con la faccia affranta presentai la fotocopia della carta d’identità e la segretaria, con un sorriso smagliante, disse che andava benissimo anche quella. Quando mi chiese un recapito tele-fonico me ne inventai uno sul momento, pagai la somma per l’iscrizione annuale e dissi che la quota mensile avrei preferito versarla il primo giorno di allenamento. La segretaria, con il tipico sorriso grot-tesco da labbra rifatte, mi disse che non c’erano problemi. Tornando alla macchina presi un appunto mentale: “Spararsi una sega pensando di sbattermi quel puttanone sui macchinari della palestra”. Con Nero d’Avola decidemmo di andare a cena in un ristorantino cine-se vicino casa, dove mangiavamo molto spesso. La cameriera che ci prese le ordinazioni, con quei suoi occhietti a mandorla, mi regalò un

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formicolio inguinale. Presi un appunto mentale: “Spararsi una sega pensando di chiavarmi la cinesina alla chiusura del ristorante. Me la sbatto su un tavolo dopo averlo sparecchiato buttando tutto per terra con violenza”. In quell’atmosfera orientale condita dal tipico odore di fritto, pianifi-cammo le mosse da compiere il giorno successivo. Eravamo sereni, concentrati, ma soprattutto eccitati all’idea di quello che stavamo per compiere. Mentre gustavo il mio maiale croccante in salsa agrodolce sentii dentro di me delle vibrazioni positive e una strana sensazione, come se ci stesse per investire un grande evento fuori dal nostro con-trollo. Ancora non riuscivo bene a delineare i confini di quei pensieri, di ciò che si andava creando, ma iniziavo a intravedere una linea guida tra la nebbia nebulosa del destino e, nonostante tutto fosse ancora da vede-re e da plasmare, mi sentivo rassicurato dall’entusiasmo che Nero d’Avola condivideva con me in quei primi passi incerti. Ero sempre più convinto di aver trovato in lui un compagno prezioso e un alleato fon-damentale. Quando mi coricai per dormire riuscii ad addormentarmi subito, non ero estraneo agli eventi che mi avevano scosso durante la giornata, ma tutta l’adrenalina che le ghiandole surrenali mi avevano sparato in vena mi aveva stancato molto. Ero seduto sulla mia vespa 50 sotto casa di Nero d’Avola, avevo deciso di fottermene della patente ritirata, non potevano pretendere che vivessi tre mesi senza poter guidare e poi ero troppo su di giri per poter rispet-tare degli stupidi divieti. Lo vidi scendere con il casco già in testa e a tracolla una borsa da palestra dentro alla quale misi la spesa. Tornammo a casa mia e nel garage, con gli attrezzi da lavoro che erano stati di pa-pà, creammo l’oggetto che avrebbe punito la nostra preda. Quando lo maneggiammo, eravamo soddisfatti e talmente divertiti che non riusci-vamo a fermarci dal ridere. Nero d’Avola, con un sorriso divertito ma uno sguardo ammirato, brandendo la nostra creatura mi disse: «Sei un genio». Io mi feci una risata e risposi: «Lo so». In realtà dentro di me non risi, non aveva detto nulla di nuovo, che fossi un genio lo sapevo già. Partimmo e lungo il tragitto non parlammo mol-to ma eravamo entrambi sereni e decisi. Ci fermammo a un bar davanti alla palestra della vigilessa e con una sigaretta, un caffè e un giornale

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davanti, aspettammo circa un’ora prima di veder entrare la nostra preda. Un fiotto di adrenalina e una sensazione generale di tensione m’invasero il corpo, scambiai un’occhiata d’intesa con Nero d’Avola, sapevamo perfettamente cosa fare e non serviva ripeterlo, tanto meno in un luogo affollato. Entrai e non vidi nessuno al banco della segreteria. “Perfetto, non dovrò neanche giustificare il mancato pagamento della quota mensile” pensai. Senza farmi notare troppo, cercai con lo sguardo la vigilessa ma non la vidi, forse si stava cambiando. Cercando di passare il più possibile i-nosservato, entrai nello spogliatoio maschile dove poggiai la mia borsa, subito dopo iniziai ad allenarmi nella grande area fitness finché non la vidi varcare la soglia e poggiare il suo borsone insieme agli altri vicino alla porta. Mi concentrai per non agire con impazienza. Finii la mia se-rie di addominali, la osservai smanettare con i tasti di una cyclette dalla quale la visuale verso la zona dove stavano i borsoni era parziale. Scos-so dall’adrenalina mi alzai e con nonchalance, senza guardarmi intorno, afferrai il borsone della vigilessa e, comportandomi come se fosse mio, entrai nello spogliatoio maschile tenendo le orecchie tese per sentire segnali di allarme. Nulla, tutto sembrava filare liscio. Sedetti sulla pan-chetta, da una parte la mia borsa da palestra e dall’altra quella della mia preda. Nello spogliatoio non c’era molta gente e nessuno badava a me. Aprii la zip del borsone della stronza sperando con tutto me stesso che la mia intuizione fosse giusta. Avevo basato tutto il piano sul fatto che, andando direttamente in palestra dal lavoro, avesse il manganello nel borsone. Era proprio così. Dentro di me esultai, ero eccitato e mi sentivo un genio per aver intuito tutto. In un momento in cui nessuno passava davanti alla panca sulla quale ero seduto, levai il manganello dalla custodia di cuoio che lo avvolgeva e lo sostituii con quello nostro, richiusi tutto in gran fretta e tornai verso la palestra, cercando con lo sguardo la vigilessa per vedere se stava an-cora sulla cyclette. La mia paura in quel momento era che, per qualche motivo, si fosse accorta della mancanza del borsone, ma non era così, era tutta impegnata a pedalare con quel suo culone da stronza che tra-sbordava dal sellino. Rimisi il borsone nel mucchio con gli altri e andai a fare qualche trazione per non dare nell’occhio. Mi rendevo conto di avere dei pensieri e degli atteggiamenti quasi paranoici ma non volevo

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lasciare nulla al caso, pretendevo la perfezione; l’ho sempre fatto, come i grandi geni del calibro di Leonardo Da Vinci o di Stanley Kubrick. Quando finalmente uscii dalla palestra ed entrai nel bar dove mi aspet-tava Nero d’Avola, non riuscii a trattenere un sorriso. Lui capì che ce l’avevo fatta e lo schiocco che fecero i palmi della nostre mani strin-gendosi sigillò il successo. Non c’interessava la reazione della vigilessa, l’importante era averla punita; non era una vendetta, rappresentava piuttosto una punizione, sì, punizione è la parola corretta. Avrei chiamato l’amico di famiglia per conoscere gli effetti che avevamo provocato, ma quello sarebbe stato un premio, un bonus. Mi ripromisi di spiegare il prima possibile a Nero d’Avola i motivi pro-fondi che mi avevano spinto ad agire, ero sicuro che lui credeva di a-vermi aiutato a eseguire una semplice vendetta e niente più, ma presto avrebbe capito la profondità di quello che stavo creando con il suo aiu-to. Dentro di me, più il tempo passava e più si delineava in modo chiaro un progetto che stava assumendo le fattezze di un Cavallo di Troia, da far entrare nelle sudice mura della società. Non riuscivo a non pensare in grande. Lungo il tragitto verso casa buttammo il manganello della vigilessa nel fiume. Con Nero d’Avola ne avevamo parlato e ci eravamo trovati d’accordo nel considerare inutile tenere un trofeo che, nel caso di un’indagine, avrebbe costituito una prova schiacciante. Non avevo intenzione di essere fermato da nessuno. Una volta arrivato a casa mi feci un bagno caldo. In realtà non sto parlando di un semplice bagno caldo, ho un rituale con delle regole ben precise e ho sempre la sensazione che se non è tutto come dico io non mi rilasso e perdo solo tempo. Prima di tutto trovo la temperatura dell’acqua, deve essere bollente, poi metto sul fondo della vasca dei sali che servono a rilassare e depurare la pelle, riempio un calice di vino rosso, metto lo stereo in bagno con la musica classica, che ascolto solo in quest’occasione, prendo un posacenere e le sigarette e, una volta riempita la vasca, acceso un incenso alla vaniglia e qualche candela, mi calo nel mio piccolo e personale angolo di paradiso dome-stico, dove rimango finché non rischio di addormentarmi. Il giorno seguente Nero d’Avola venne a casa mia dopo aver finito di lavorare in officina e, con il pretesto di chiedergli se sapeva dirmi qual-

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cosa sulla mia patente, telefonai all’amico di famiglia. Rispose dopo molti squilli e quando lo fece inserii il vivavoce per far sentire anche Nero d’Avola. «Ciao ragazzo, scommetto che vuoi sapere se ho risolto qualcosa con la tua patente, eh?! Sono un genio vero?» «Già» risposi, pensando che il buonumore che sentivo dall’altra parte della cornetta fosse un buon segno, ma avrei voluto rispondergli che l’unico genio lì in mezzo ero io. «Be’, ho quasi risolto, tranquillo. Fra pochi giorni potrai andare in giro come se non ti fosse successo nulla». Poi fece una risata tra sé e sé. Nero d’Avola s’agitò sul divano, l’amico di famiglia continuò: «E poi i giochetti che devo fare per la tua patente saranno molto semplificati in questi giorni, non sai cos’è successo alla tua amica Vigilessa, se ci ripenso non smetto di ridere. Una cosa che entrerà negli annali della Polizia Urbana». Una risata più accentuata fece crescere l’aspettativa in me e Nero d’Avola, anche se era quasi pa-lese che avevamo centrato il successo, ma in quel momento i dettagli valevano più di ogni altra cosa. Finalmente fummo accontentati. «Insomma, oggi quella Vigilessa che ti ha ritirato la patente entra in Centrale, apre il suo borsone, tira fuori la custodia di cuoio dentro alla quale tiene il manganello, lo sfila per metterlo nell’anello attaccato al cinturone e indovina?» Questa volta la risata fu sonora e prolungata, io mi stavo godendo il successo sorridendo, mentre Nero d’Avola si rotolava per terra dalle risate immaginando già la scena. «Non lo so, non riesco a indovinare» feci il finto tonto cercando di trat-tenere le risate. Sentii un’erezione gonfiarmi le mutande. Fu un momento eccezionale. «Insomma, la parte superiore era quella di un manganello normale ma la metà inferiore era un dildo rosa, moscio e tutto venoso». Le risate si fecero incontrollabili da entrambe le parti del telefono. «Non ti racconto neanche la faccia di lei e le reazioni nostre. Credo che non ci siamo mai divertiti così tanto al lavoro. Sentendo il casino è arri-vato il capo che si è fatto una risata vedendo il nuovo look del manga-nello. Poi però ha convocato la zozza nel suo ufficio. Non so che san-zione ha ricevuto ma sicuramente non se l’è cavata con poco. Comun-que ora ti devo salutare. Fra massimo due giorni ti faccio riavere la pa-

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tente, ciao bello». «Ciao, e grazie per la patente e per il racconto». Abbassato il telefono presi due birre dal frigorifero, le stappai e brin-dammo, lasciandoci andare al buonumore e alle risate. Nero d’Avola condì l’atmosfera con una canna d’erba e dopo un po’, aiutati dalla par-lantina che provoca la “fattanza”, gli spiegai la differenza fra una sem-plice vendetta e il senso della nostra punizione. A una donna che si sen-te frustrata e crede di sfogarsi sugli altri sfruttando la propria posizione di potere, noi avevamo preso l’oggetto che più le conferisce forza, il suo scettro del potere, e le avevamo dimostrato, nel vero senso della parola, che non valeva un cazzo. Nero d’Avola all’inizio del mio di-scorso sembrava un po’ perplesso, come se io stessi straparlando, ma poi, continuando ad ascoltarmi, smise di ribattere e lessi nel suo sguar-do che era affascinato dal mio progetto; mi suggerì anche delle chiavi d’interpretazione interessanti e apprezzò soprattutto il fatto che, avendo l’impalcatura di un progetto che ci sorreggeva, potevamo continuare puntando sempre più in alto con altre punizioni. Poi, dopo un’altra birra e un’altra canna, i discorsi seri si dissolsero per lasciare spazio al caz-zeggio.

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2 La mattina, oltre a portare le ovvie conseguenze di una sbronza protrat-ta fino alle ore piccole della notte, mi accolse con uno spiacevole senso di vuoto. Mi sembrava di essere diventato d’improvviso inutile, come se avessi fatto tutto quello che dovevo e la mia presenza sul pianeta fos-se diventata superflua. Avevo paura di non avere più un ruolo da prota-gonista. In quel momento la mia unica ancora di salvezza era quella che Nero d’Avola aveva definito un’impalcatura che mi avrebbe permesso di salire sempre più in alto. Capii di dover limare, modellare e com-prendere quell’impalcatura che, fino ad allora, non era stata altro che un’intuizione. Mi alzai dal letto e senza neanche fare colazione mi misi a scrivere sul computer. Dopo una quindicina di righe infervorate mi ritrovai con la barretta che lampeggiava sullo schermo. Era immobile e non riuscivo a spingerla avanti. Passarono vari secondi durante i quali l’intermittenza della barretta iniziò a mettermi sempre più pressione fino a innervosir-mi, stavo per dare un pugno al monitor. Decisi di andare al bar a fare colazione, calmarmi e riordinare le idee. Non dovevo essere precipito-so, per i progetti ambiziosi bisogna avere pazienza e capire che serve tempo perché le idee germoglino. Forte di una nuova consapevolezza, quella mattina allontanai nervosismo e malumore e riuscii a riprendere le redini di quel progetto. Lo vedevo come un puledro selvaggio da domare. Al bar mi distrassi, mi persi in chiacchiere con il padrone, lo conoscevo da quando ero piccolo e sentivo sempre gli stessi discorsi, mi annoiavo a sentire le solite cose ma non mi dispiaceva andare là a fare colazione o prendere un aperitivo. Quel luogo mi piaceva perché non dovevo pen-sare a nulla, tanto ogni discorso seguiva sempre il medesimo copione scritto da uno sceneggiatore che non faceva altro che produrre gli stessi dialoghi sullo sport e sulle donne. Quel giorno dovevo andare a lavorare e pensai che avrei potuto scrivere qualcosa sul mio progetto durante quelle otto ore in cui sarei rimasto in

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cabina di proiezione. Era da un anno che lavoravo in un piccolo cinema vicino casa, ci andavo circa tre volte a settimana, dal primo pomeriggio fino alla fine dell’ultimo spettacolo. In quelle ore, eccetto i momenti in cui dovevo far partire il proiettore o cambiare la pellicola, il mio unico compito consisteva nell’essere presente e fare in modo che niente an-dasse storto durante il film. Per queste mie competenze il cinema mi pagava 600€ al mese che io incrementavo grazie alla collaborazione con due riviste, una in rete e una stampata. Le richieste della redazione non erano mai impegnative per me, non mi sono mai vergognato di ri-empire gli spazi bianchi con cazzate molto plausibili. Scrivevo questi insulsi e inutili articoli mentre stavo in cabina di proiezione e poi li mandavo via mail. Così arrivavo a guadagnare in totale circa 1000€ al mese che, abitando a casa di mia madre, costituiva una somma di tutto rispetto, insomma mi permetteva di fare il cazzo che mi pareva senza dover controllare sempre il portafogli. Devo dire che non mi sono mai lamentato del lavoro e poi fare il proie-zionista mi dà un certo brivido. Quando monto la pellicola, accendo i proiettori, inizio a spegnere alcu-ne luci della sala, sistemo l’audio, levo l’illuminazione, faccio partire la proiezione e poi mi siedo per assaporare il momento, credo di capire come si è sentito Dio quando ha creato la Terra. É in uno di questi mo-menti che ho partorito l’idea che in realtà Dio abbia creato la Terra per-ché si annoiava a morte e ha messo su un film per passare un po’ di tempo; quando si sarà stancato di guardarlo schiaccerà lo STOP e noi moriremo tutti. Di sicuro è molto meglio scrivere per riviste e fare il proiezionista piuttosto che montare e aggiustare serrature come ho fatto per tre anni appena finita scuola. Non ho mai amato lo studio, l’ho sempre trovato un’insulsa e inutile costrizione ad apprendere qualcosa che qualcun altro considera importante, ma poi importante per che co-sa? Ho sempre amato l’arte e la letteratura, ma sono stato attento a col-tivare questi interessi indipendentemente dagli insegnamenti vuoti e stitici dei professori. Seguivo e continuo a seguire un percorso tutto mio che non ha mai incrociato quello dei programmi scolastici. Mentre la-voravo come fabbro mi sono anche impegnato a prendere il tesserino da pubblicista, non so bene perché l’ho fatto, molto probabilmente perché scrivere mi è sempre piaciuto, i miei sarebbero stati contenti e avrebbe potuto darmi qualche sbocco lavorativo interessante. Ho sempre avuto il pallino del giornalismo, mi vedevo, fin da ragazzino, come inviato di

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guerra teso a documentare e raccontare le ingiustizie scabrose subite da popoli senza voce, oppressi dalla fame e dalla guerra. L’iter per diven-tare giornalista consisteva nel diventare pubblicista e poi fare l’esame per entrare nell’albo dei giornalisti. Pubblicista lo sono diventato, il problema mi si è presentato dopo, quando ho scoperto che per diventare giornalista bisognava essere laureati. Quando appresi la notizia impre-cai contro la società, le regole, la burocrazia e quel cazzo di albo dei giornalisti che è un’eredità che ci portiamo avanti dal medioevo e con-tinua a esistere in pochissimi paesi del cazzo. Decisi a malincuore di non piegarmi a una simile imposizione, convinto che dall’università non sarei mai riuscito a uscirne indenne districandomi in quella giungla fatta di burocrazia, corsi, professori, esami, ragazzi illusi e sogni infran-ti. Mi si presentò allora la possibilità di collaborare con due riviste, ac-cettai subito ma dovetti lasciare il lavoro di fabbro che in realtà comin-ciava a stancarmi un po’. Poi sentii un mio amico che mi proponeva di fare il proiezionista, l’idea mi piacque all’istante e così mi sono ritrova-to in una sala di proiezione. Soddisfatto del mio caffè, tornai a casa senza voglia di scrivere ma con la consapevolezza che qualcosa mi sarei dovuto far venire in mente per evitare che l’impalcatura del progetto rimanesse uno scheletro senza vita. Percepivo il peso di questa situazione e da una parte ci provavo gusto, mi faceva sentire come un grande artista che iniziava l’opera del-la propria vita. Tutti i geni, ne sono sicuro, hanno provato quello che stavo provando io in quel momento. Michelangelo davanti alla volta ancora vuota della Cappella Sistina. Dante con la penna in mano, il fo-glio bianco davanti e i versi della “Divina Commedia” in mente. Bee-thoven quando si mise al piano e alimentò con le dita le note iniziali della prima delle nove sinfonie. Stavo uscendo di casa per andare a lavorare quando mi telefonò Nero d’Avola chiedendomi speranzoso se avessi qualcosa in mente, gli dissi di no e tagliai corto infastidito. “Che cazzo, mica può dipendere tutto da me, si facesse venire in mente lui qualcosa” pensai. Ero innervosito anche perché non volevo raccontare a me stesso che quel giorno stava passando senza che io fossi riuscito a dargli un senso, non ero stato in grado di vomitare neanche un’idea per mandare avanti quella bozza di progetto. Per fortuna quel giorno dovetti proiettare un film che m’interessava

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molto e ancora non avevo visto. Così mi distrassi per due ore e mezzo gustandomi uno strepitoso Mickey Rourke, rinato per farci vedere come si muore lentamente cercando di capire come vivere. Quando rimisi la pellicola per il secondo spettacolo mi costrinsi a scrivere un paio di ar-ticoli per una delle due riviste il cui direttore diventava sempre più esi-gente e puntiglioso, come se i lettori capissero qualcosa di scrittura e letteratura. Rompeva i coglioni solo per darsi un tono, per ricordarmi che, nonostante collaborassi da molto tempo con lui, non dovevo alzare la cresta prendendomi delle licenze ideologiche velatamente contrastan-ti con la sensibilità e le inclinazioni sue e dei lettori, e io, per non ri-schiare un pippone, scrivevo come cazzo volevano loro. Mi dava fasti-dio questo modo di fare ma avevo deciso di fregarmene, non potevo mica stare lì a perder tempo con questi padroncini tutti laccati che si credono “stocazzo”. Avevo progetti molto più ambiziosi. Una volta chiuso il cinema, bevuto un caffè corretto al solito bar vicino e fumato una sigaretta in solitudine cercando di non pensare a nulla, tornai a casa e mi misi a dormire incazzato con me stesso per non esse-re riuscito a dire a Nero d’Avola: “Sì, ho qualcosa d’interessante in mente”. Passò la notte e passò anche un’altra manciata di giorni durante i quali frustrato, incazzato e quasi demoralizzato, arrivai a pensare che mi ero fatto prendere troppo dell’entusiasmo per un progetto più grande di me che non ero in grado di sviluppare. Ma ancora non avevo rinunciato, mi dissi che forse serviva tempo, e se questo era il modo per spiccare il volo avrei dato tutto il tempo necessario alle mie ali per imparare a muoversi e per riuscire a contrastare la pesante forza di gravità impo-staci dalla società. Quella mattina ero immerso nel traffico mattutino, perso in fantasiosi e pigri pensieri. Evitavo di farmi prendere dallo stress che attanaglia qua-si tutti i guidatori che all’ora di punta si trovavano incolonnati e lenti come processionarie. Notando un bizzarro ingorgo di macchine mi chiesi se quel giorno il traffico era così contorto e caotico perché era in corso lo sciopero dei mezzi pubblici o delle capacità locomotorie della gente che mi circondava. Eravamo tutti bloccati perché due deficienti non sapevano come districarsi in mezzo a un incrocio. Io ero calmo, mi godevo la scena quasi comica condita dalle parolacce che uscivano a ciclo continuo da chiunque fosse anche indirettamente coinvolto

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nell’ingorgo. Il sudore, visti i trentatré gradi centigradi e il sole battente, imperlava la fronte di chiunque si rifiutasse di azionare l’aria condizio-nata in macchina. Improvvisamente risultò chiaro chi fosse l’artefice del tremendo ingorgo, era una vecchia con un bizzarro cappello sforma-to che teneva il sedile della propria macchina scassata a pochissimi cen-timetri dal volante. La centenaria rincoglionita era in balia della situa-zione, paralizzata in mezzo all’incrocio e agli insulti. Non ci si poteva aspettare nulla di diverso da una donna, per di più vecchia, che siede dietro al volante. Dopo pochi minuti, che nel traffico si dilatarono fino a sembrare ore, le macchine riuscirono a districarsi e ricominciammo ad avanzare a passo d’uomo. Mi trovavo in una delle vie più ricche della città, dove le case sono lussuose e supervalutate, dove non puoi abitare se non hai entrate mensili importanti, frutto di un posto di lavoro di alto prestigio. Dove sei obbligato, dal giudizio altrui, a possedere minimo una Smart come seconda macchina, uno scooterone come mezzo agile di locomozione e, più importante di tutto, una macchina di cinque metri o più di lunghezza, con una marca dal nome costoso, una cilindrata no-tevole e gli interni in pelle. Il top è il Suv, più ingombrante, potente, inutile e costoso che mai. Non troverai mai una signora che vive in que-sta zona senza manicure fresca, capelli appena accarezzati dal parruc-chiere, fisico modellato in palestra e da qualche chirurgo. Qui abitano famiglie che se hanno un figlio andrà a scuola privata con vestiti griffati da grandi stilisti, occhialoni e la macchinetta, un attrezzo tanto costoso quanto inutile e pericoloso, la cui forma dovrebbe assomigliare a una macchina ma sembra un tostapane con le ruote, con la cilindrata di un motorino ma il rumore di un trattore. Qui vigono delle ferree regole d’immagine anche per chi ha cani. Gli uomini li prediligono di taglia grande o medio-grande, molto appariscenti e spesso feroci, il più umile passeggerà insieme, o meglio, si farà trasportare da un pastore tedesco, il più egocentrico da un rottweiler o un dobermann e il più ricco da un collie o un setter irlandese. Mentre le donne hanno un cagnolino, me-glio se una cagnolina, di piccola o piccolissima taglia, che zompetta imitando la padrona sui tacchi. La piccola quadrupede sarà snob e al-tezzosa, agghindata con ridicoli vestitini, scomodi ma appariscenti… mi riferisco alle cagnette e non alle padrone. Ho sempre avuto il sospet-to che il guinzaglio costituisca un mezzo attraverso il quale il padrone e il proprio cane si scambiano informazioni su come comportarsi in pub-blico, solo che, certe volte, la comunicazione procede secondo le abitu-

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dini specifiche del regno animale. Mi è nato questo sospetto quando i due sessi s’incontrano: c’è chi per valutare l’altro annusa il sedere, lo fanno i cani, mentre c’è chi il sedere lo guarda, lo fanno gli uomini. Pensandoci bene i comportamenti non sono poi così diversi. Il traffico doveva essere veramente in tilt se mi dava modo di concepire pensieri così lunghi, complessi e inutili, ma perlomeno mi distaccavo dallo stress. Un elemento fondamentale del traffico è il parcheggio, vero tallone d’Achille della viabilità cittadina. Per quasi tutte le persone che hanno la patente è più snervante cercare parcheggio piuttosto che avanzare a passo d’uomo nel traffico. Le giornate in cui trovi subito parcheggio non sono altro che il frutto di un sogno piacevole, oppure sono così rare e fortunate che si ricordano per sempre. Il parcheggio, o meglio, la sua ricerca spasmodica da parte del guidatore, provoca il massimo nervosi-smo perché può succedere che: 1) Lo trovi, ma scopri che ha le strisce gialle, quindi non si può sostare. 2) Lo trovi, ma il marciapiede a ridosso di quella nicchia perfetta per la macchina ha una discesetta per gli invalidi ed è vietato occuparla. 3) Lo trovi, ma appena ti avvicini scopri che il posto è occupato da un motorino che sta in mezzo come fosse una jeep. 4) Lo trovi, ma guardi bene le strisce scolorite per terra e ti rendi conto che è un passaggio pedonale. 5) Lo trovi, ma quando ti accosti capisci che il dubbio che fosse un pas-saggio carrabile era fondato. 6) Lo trovi, ma una volta iniziata la manovra vedi arrivare un autobus e capisci che stai per lasciare la macchina davanti alla fermata. Ma ciò che fa davvero impazzire il cercatore di parcheggio è vedere una macchina che esce da un posto, preparasi mentalmente a parcheg-giare e notare un altro cercatore che, una frazione di secondo prima, aveva messo le quattro frecce prenotandosi per occupare l’agognato posto. Fu proprio assistendo a una simile scena di questa interminabile saga chiamata “Parcheggio: la ricerca infinita”, che finalmente si rianimò il progetto che ormai consideravo in coma. Un posto si liberò miracolosamente, un Suv enorme mise le frecce, si preparò a fare manovra per entrarvi quando un bastardo con una Cin-quecento scalcagnata, compiendo una manovra fulminea, s’intrufolò nel parcheggio, tirò il freno a mano, scese, chiuse la macchina e liquidò il

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guidatore del Suv incazzato nero dicendo, con tono divertito e sottil-mente canzonatorio: «Che ci vuoi fare, il mondo è dei furbi». Io non vidi in faccia l’uomo dentro al Suv ma sono sicuro che i suoi lineamenti s’indurirono in un’espressione di educatissima ira cieca che lo portò a fare un qualcosa di geniale. Ingranò la prima e con il suo lus-suoso ed enorme ammasso d’acciaio iniziò a tamponare la minuscola Cinquecento, riducendola a un ammasso di lamiere informe. Il furbo rimase attonito ad assistere alla distruzione della propria macchina e della propria personalità senza riuscire a dire o fare nulla, fino a quando l’uomo dentro al Suv non gli diede il proprio biglietto da visita dicen-dogli: «Il mondo non è dei furbi, è dei ricchi». Appena il Suv s’immerse di nuovo nel traffico per cercare un altro posto io lasciai il furbo davanti al proprio rottame e, ridendo dentro di me, iniziai a seguire quel ricco che mi aveva risvegliato. Mentre gli guidavo dietro capii come agire. Lo avrei seguito tutto il giorno fino a scoprire dove abitava, era quello il primo passo. Mi avrebbe portato via molto tempo che avrei riciclato per pensare alla prossima mossa, anche se un’idea, come sempre geniale, già veleggiava col vento in poppa nel mare burrascoso della mia mente. Finora erano state punite la cicciona e la vigilessa, due ritorsioni che possedevano uno spiccato gusto personale. Ora era necessario evolversi dalla condizione vendicativa per arrivare a quella sociale. Con questa motivazione ben delineata dentro di me dedicai tutta la giornata, fino a sera, al pedinamento del ricco finché scoprii dove abitava. Prima di tor-nare a casa, passai da Nero d’Avola. Appena aprì la porta, il suo sguardo speranzoso mi diede entusiasmo, mi fece capire che era giusto andare avanti, iniziai a pensare che ingi-gantendosi si sarebbe impadronito di tutto il mio tempo, quell’idea riu-sciva a esaltarmi e turbarmi allo stesso tempo. «Allora, ecco quello che dobbiamo fare» esordii così, ancora prima di salutarlo. I giorni d’inattività mi avevano fatto capire quanto potesse essere rassi-curante e inebriante l’azione. Anche Nero d’Avola era in attesa di com-piere un’altra punizione, possibilmente più importante ed educativa della precedente. Mi metteva tristezza pensare che si fosse messo nelle mie mani, attendendo come un cane fedele che io prendessi il guinza-glio per portarlo a fare la sua cagatina; ma non dissi nulla, non era il momento e non avevo voglia di fare il polemico. Fumando una sigaretta

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dopo l’altra pianificammo le nostre mosse. Pedinammo il ricco per cinque giorni, quando Nero d’Avola lavorava all’officina lo seguivo io e quando finiva ci davamo il cambio. Io dissi al cinema che stavo male e saltai qualche giornata lavorativa, dedican-domi alla scrittura degli articoli per le riviste mentre aspettavo in mac-china che il ricco si rimettesse al volante. Nero d’Avola raccontò al ca-po che aveva dei problemi familiari e preferiva per qualche giorno lavo-rare la metà delle ore. Per fortuna il ricco conduceva una vita abbastan-za noiosa. Arrivava in ufficio alle sette e mezza, all’una si concedeva un’ora di pausa pranzo, staccava dal lavoro alle sette di sera, andava dall’amante e tornava a casa sempre alle otto e mezza, solo una volta andò a cena fuori. Pretendevo di conoscere alla perfezione ogni minimo spostamento della nostra preda, dovevamo sapere talmente bene dove andava e in quale orario da poterlo anticipare. Nero d’Avola al terzo giorno provò a dirmi che forse stavo esagerando, che ero troppo pigno-lo visto che, da quando gli stavamo dietro, faceva sempre le stesse cose, io gli dissi che se si era stancato potevo fare il colpo da solo. Lui reagì con una grassa risata e un insulto rivolto a me, ai miei morti e a quanto fossi paranoico. Risi anch’io, per un secondo mi fece venire il dubbio che stessi esagerando con la prudenza, ma subito decisi che il mio mo-do di agire era il migliore, l’unico che potesse consentirci di arrivare dove dovevamo senza fare cazzate. Nel week-end, dopo cinque giorni che gli stavamo attaccati al culo, decisi di verificare se potevamo essere sicuri di poter anticipare le mosse del ricco e quindi agire con i tempi giusti. Su un foglio scrivemmo quello che avrebbe fatto nei giorni se-guenti e, se avesse fatto tutto ciò che avevamo pronosticato, saremmo passati alla seconda parte del piano. Con la certezza definitiva che quell’uomo conduceva una noiosissima vita di merda, passammo alla fase successiva. In un caldo fine settimana preparammo tutto l’occorrente per la puni-zione. Avevo comprato il materiale e quando non spettava a me pedina-re il ricco lavoravo in garage. Eravamo stanchissimi, seguire una per-sona che conduce una vita così piatta è facile ma anche noioso, e la noia provoca stanchezza psicologica ma soprattutto abbassa lo stato di guar-dia, alzando il rischio di commettere errori. Io e Nero d’Avola non ci trovammo d’accordo solo su un particolare del colpo che però era fon-damentale, il momento in cui agire. Lui sosteneva che l’ideale sarebbe stato colpire di notte, perché meno rischioso, ma non sapevamo se il

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garage dove metteva la macchina quando andava dall’amante o quello di casa avevano un allarme. Io, invece, ero convinto che avremmo do-vuto agire di giorno, era molto più rischioso ma se ci fossimo mossi con disinvoltura avremmo avuto più possibilità di successo, e soprattutto sia noi che i fortunati passanti avrebbero potuto assistere allo spettacolo. Alla fine, com’era ovvio, facemmo come avevo deciso io. Una volta finiti i preparativi ci dedicammo al cazzeggio per un’intera giornata. Stavamo a casa mia e pretesi da Nero d’Avola il rispetto del divieto di parlare del colpo fino al giorno successivo perché avevo sen-tito crescere troppo la tensione e lo stress. Bevemmo in quantità ma senza esagerare, giocammo al Nintendo Wii e guardammo un paio di film. Riuscimmo a rilassarci ma appena suonò la sveglia che ci catapultò alla mattina del colpo sentii la tensione risalire come un rigurgito acido. Nero d’Avola si era dato malato, io non avevo impegni. Eravamo pronti per agire. Quel giorno avremmo seguito il ricco verificando i suoi spo-stamenti e confrontandoli con quelli che avevamo previsto noi, avrem-mo fatto la stessa cosa il giorno seguente; in mancanza di sorprese sa-remmo passati alla terza fase del piano, quella finale. La nostra preda uscì di casa in perfetto orario, si recò come da pro-gramma in ufficio. Noi stavamo in macchina a scherzare prendendoci in giro perché ci sentivamo come due agenti dei servizi segreti. Tutto sembrava filare liscio quando, alle nove e un quarto, lo vedemmo pre-cipitarsi fuori dal portone dell’edificio. «Oh cazzo, ma che fa lo stronzo?» eruttò Nero d’Avola non appena lo vide. «Calmo, ora lo scopriamo» cercai subito di calmare il mio amico, ma anch’io non ero affatto tranquillo. Misi in moto e lo seguii, sempre stando concentrato nel mantenere la distanza giusta per non essere notati. Il ricco camminava a passo svelto, era preoccupato per qualcosa. «Non è che ci ha tanati?» mi chiese Nero d’Avola preoccupato. Aveva espresso esattamente quello che avevo pensato io, ma riflettei pochissimi secondi per rendermi conto che era impossibile. «No, non credo, come avrebbe fatto?» «Magari qualche suo collega ci ha notati e gliel’ha detto». «E lui avrebbe chiamato la Polizia, non sarebbe corso fuori dall’ufficio, dai cazzo, è impossibile».

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Non ero per niente tranquillo perché non era affatto impossibile. «Aspetta, aspetta, va verso la sua macchina». Il ricco arrivò al Suv, aprì lo sportello si sporse dentro. «Che cazzo fa?» Non risposi a Nero d’Avola, ero concentrato a studiare la nostra preda. Quando lo vidi sgusciare fuori da quella fottuta macchina con il cellula-re in mano e un’espressione sollevata proruppi, in contemporanea con Nero d’Avola, in un sonoro: «Ma vaffanculo!». Il bastardo aveva dimenticato il cellulare in macchina e, non trovandolo in ufficio, era corso a cercarlo. Ci aveva fatto spaventare per una stupi-daggine, ma sarebbe potuta succedere mentre stavamo agendo sul suo Suv. Per un attimo valutai anche di rinunciare alla punizione, ma ormai mi ero spinto troppo oltre e preferii rischiare. Quando il ricco tornò in ufficio e noi parcheggiammo la macchina in attesa di vederlo uscire per la pausa pranzo, il nostro argomento di conversazione preferito divenne il rischio imprevisto. Sapevamo entrambi che non ci potevamo fare nul-la, era parte del gioco, tutto ciò che potevamo fare era assottigliare al massimo la casualità pianificando al meglio ogni mossa e variante. La nostra preda si fece perdonare la smaltita di quella mattina compor-tandosi proprio come avevamo previsto, come se seguisse il copione scritto da noi. La notte prima dell’atto finale la passammo concludendo i preparativi e facendo tutte le prove necessarie ad agire il più veloce-mente possibile. Lavorammo fino a notte fonda e non dormimmo per l’eccitazione e l’agitazione. Quando il giorno successivo la nostra preda entrò in ufficio, avevo al-lontanato ogni pensiero superfluo, il mio corpo e la mia mente erano tesi verso l’azione, mi stavo anche impegnando a calmare Nero d’Avola che sembrava attanagliato da un incrollabile pessimismo. Cercai di mo-tivarlo e dargli fiducia, non potevamo fallire e sapevo che non l’avremmo fatto. In realtà mi stava innervosendo, sembrava non avesse fiducia nel mio piano e rischiava di fare cazzate, le scenate o i senti-menti negativi erano controproducenti in quel momento. Parcheggiammo accanto al Suv del ricco, uscimmo dalla macchina ca-muffati con barba, baffi e occhiali per evitare di farci riconoscere e fi-nalmente agimmo. Aprii la portiera con un cacciavite, scattò l’antifurto, ma scattano in continuazione e la gente di solito non ci fa caso, mi tuffai dentro alla macchina, aprii il cofano e Nero d’Avola smontò i collegamenti

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dell’antifurto azzittendolo. Ne aveva montati talmente tanti in officina che sapeva dove mettere le mani per disattivarli. Richiusi la portiera che ormai aveva la serratura aperta, risalimmo sulla nostra macchina e ce ne andammo. A quanto pareva nessuno aveva assistito alla scena, o quantomeno nessuno si era messo a urlare: “Al ladro! Al ladro!”. Dopo esserci levati le barbe e gli occhiali rimanemmo fino alla fine dell’ora della pausa pranzo per controllare che il ricco rientrasse ignaro in ufficio. Così fece. Tornammo al mio garage, prendemmo tutto il ma-teriale, lo caricammo in due macchine perché non entrava in una sola e tornammo al parcheggio, questa volta avevamo baffi e pizzetto finto ed eravamo vestiti da veri uomini d’affari, in modo che chiunque ci avesse visto avrebbe creduto che stavamo facendo uno scherzo a un collega; sarebbe stata quella la nostra spiegazione per un eventuale curioso ab-bastanza ficcanaso da venirci a chiedere qualcosa. Parcheggiammo le macchine in doppia fila, vicinissime a quella del ricco, e il più velocemente possibile montai alla portiera il dispositivo che collegava le quattro granante da soft air, modello MK2, piene di pallini. Mi ero cronometrato in garage, ci mettevo tra i trenta e i qua-ranta secondi. Nel frattempo Nero d’Avola riempiva attentamente il Suv. Non sembrava più nervoso, la concentrazione l’aveva rapito, non parlava, sudava e agiva, era un ottimo compagno, mi fidavo. Quando finii con il dispositivo aiutai Nero d’Avola a riempire il Suv. Con la co-da dell’occhio vidi che si avvicinava una giovane e attraente mamma, di quelle che si tengono in forma e si truccano bene, di quelle che han-no tanta voglia di scopare, di quelle che spesso hanno qualcosa di rifat-to, di quelle che io chiamo “porno-mamma”. La zozza spingeva un pas-seggino griffato Fendi con la classica tenuta da passeggiatina pomeri-diana nel parco: scarpe con tacco, gonna stretta, una camicetta con i bottoni così tesi nelle asole che sembrava stessero per essere sparati da una fionda, occhialoni da sole D&G e rossetto bordeaux. Andai verso di lei. «Ehi, ma che state facendo a quella macchina?» «Stia tranquilla signora, è di un nostro amico, gli è nata una bambina ieri e gli stiamo facendo un augurio un po’ particolare, sa, per noi è co-me un fratello e ora ci sentiamo zii». La signora si fece una risata coprendosi i labbroni con delle mani fre-sche di manicure. Mi guardò con tenerezza, forse pensando a una bam-bina appena nata, e io risposi a quello sguardo con un’erezione, me la

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sarei scopata volentieri là nel parcheggio. Lei girò i tacchi dicendo: «Fate gli auguri al vostro amico». «Lo faremo, buona giornata signora». Rimettendomi al lavoro presi un appunto mentale: “Spararsi una sega pensando di sbattermi la porno-mamma nel parcheggio, in pubblico e con il passeggino lì accanto mentre il figlioletto piange disperato”. Nero d’Avola aveva quasi terminato, io stavo sudando ancora freddo per la tensione, ma nessun altro sembrava interessato a noi. Finimmo di riempire il Suv, risalimmo nelle macchine, ci levammo i travestimenti e, dopo aver comprato dei tramezzini, ci rimettemmo al punto d’osservazione in attesa che uscisse il ricco. L’adrenalina che mi aveva pompato in corpo si stava esaurendo, iniziavo a rilassarmi, avevamo superato la parte più difficile e pericolosa del piano, ora volevo solo godermi il momento del successo senza ritrovarmi a pensare: “Se ci beccano ci facciamo un bel processo, forse la galera, cazzo, ci facciamo non so quanti mesi di fottuta galera, ma ne vale la pena?” Entro poche ore avrei saputo se valeva la pena rischiare, ma ero già si-curo che la risposta fosse sì. Era quasi ora, il ricco di lì a poco sarebbe uscito dall’ufficio per andare dall’amante. Io e Nero d’Avola ci sedemmo a un tavolino esterno di un bar dal quale si vedeva benissimo il parcheggio, non ci eravamo mai stati perché da lì l’uscita degli uffici era nascosta, ma ormai l’unico o-biettivo che ci era rimasto era goderci lo spettacolo. Ordinammo due birre e le scolammo in silenzio, eravamo assorti nell’osservazione del Suv pieno come una zampogna. Avevamo fatto qualcosa di geniale, ori-ginale e rischioso. Io ero in attesa, combattuto tra la voglia di assistere al coronamento della mia ultima intuizione e la speranza che tutto an-dasse secondo le previsioni. Eccolo. Il ricco sbucò da dietro un edificio dirigendosi con passo sicuro e disin-volto verso il Suv. Era ancora troppo lontano e non si era reso conto di nulla. Io e Nero d’Avola ci guardammo, nelle nostre iridi nuotavano intesa ed eccitazione. Una sorsata di birra, la fiamma che accendeva una sigaretta. Il tempo si fermò, i suoni sembrarono attutiti. “Signore e Signori, inizia lo spettacolo”. La nostra preda sembrava ancora ignara, poi dalla sua mimica corporea capimmo che aveva visto qualcosa d’insolito nel Suv, anche qualche passante lo aveva notato divertito.

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La macchina era piena zeppa di palloncini di tutti i colori. Il nostro obiettivo non sapeva cosa pensare. Dentro di lui combattevano incredulità e inquietudine. Un’auto stracolma di palloncini colorati fa-rebbe sorridere chiunque, ma se la macchina è tua e hai sempre avuto le chiavi in mano è difficile restare calmi. Il ricco accelerò il passo, coprì gli ultimi metri di corsa. Arrivato davanti al Suv scosse la testa, allargò le braccia, guardò con più attenzione all’interno e fu allora che lesse su ogni palloncino la scritta: “Il mondo non è dei ricchi. Il mondo non è di nessuno”. Nero d’Avola trattenne una risata, io un sorriso di soddisfazione. La nostra preda continuò a scuotere la testa, si guardò intorno spaesato. Stava vivendo uno dei momenti meno comprensibili della sua vita. Do-po aver indugiato in modo patetico, con la sudorazione che s’intravedeva sotto le maniche della camicia, decise di fare il gesto che l’avrebbe segnato. Aprì la portiera del suo lussuosissimo Suv, non notò il filo di nylon che fece saltare le sicure di tutte e quattro le granate da soft air. Cinque lunghissimi ed eccitanti secondi durante i quali la no-stra preda, ancora disorientata, iniziò a levare i palloncini dalla sua car-rozza. Io buttai la sigaretta ormai finita sul marciapiede, lui afferrò un palloncino rosso per buttarlo via e in quel momento le granate esplose-ro. In una frazione di secondo migliaia di pallini di plastica partirono in tutte le direzioni facendo esplodere i palloncini pieni di vernice di tutti i colori. Una cazzo di bomba colorata che devastò gli interni del Suv e la nostra preda. Il ricco cascò a terra, urlò e rimase immobile. Un’opera d’arte contemporanea. Sentii un’erezione gonfiarmi le mutande. Io e Nero d’Avola sorridemmo e facemmo “cin cin” con le birre. Mi sentii ancora una volta vivo. Nero d’Avola trattenne a forza le risate. La gente che ebbe la fortuna di assistere alla scena rise, mormorò e ri-chiamò l’attenzione sullo spettacolo. Sarebbe stata una cosa che avreb-bero raccontato ai figli, ai nipoti, agli amici, alle mogli e alle fidanzate. Seduto a un tavolino vicino al nostro, un ragazzo aveva visto una cosa in più rispetto a tutti gli altri, aveva notato me e Nero d’Avola che face-vamo “cin cin”.

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3 Euforico e svuotato mi sentivo un dio, anzi, mi sentivo Dio, e senza aver messo neanche una pizza nel proiettore. Con Nero d’Avola ci era-vamo accordati per andare a prendere una birra con i nostri amici. Subi-to dopo il colpo tornai a casa con infinita calma assaporando l’atmosfera che mi circondava, sentivo attorno a me il profumo del suc-cesso. Avevo realizzato un colpo fantastico, avevo poggiato un’altra pietra fondamentale per il mio progetto riuscendo a destabilizzare per un momento l’ordine sociale con un’azione originale, imprevedibile e scioccante. Avevo appena cavalcato sulla cresta di un’onda inebriante e ora volevo trovarne un’altra da domare subito. Questo era il mio pro-blema, sentivo un fardello che iniziava già a pesarmi sulle spalle, non riuscivo a calmarmi, volevo sempre di più. Prima di arrivare a casa mi fermai al supermercato e comprai una botti-glia di J&B, forse fu quello il momento in cui cominciai a bere; per ca-rità non ero astemio, mi ero ubriacato più di una volta, ma non avevo mai bevuto tanto regolarmente. Forse mi trovai con la bottiglia in mano per provare a prevenire e poi a lenire ciò che non ero riuscito a control-lare, il dolore. Il dolore che quel maledetto fardello si diffondeva in me con il suo pe-so. Arrivai a casa e bevendo mi tuffai nell’affascinante ritualità del ba-gno, come solo io so fare. L’acqua bollente, le candele accese e una buona dose di J&B, mi con-vinsero a non agitarmi e dibattermi come un forsennato per cercare di portare avanti il progetto, avevo fatto già molto e in poco tempo, potevo rilassarmi un po’ e aspettare che mi colpisse un nuovo lampo di genio, com’era successo per il colpo dei palloncini. Arrivai al pub e, parcheggiando, vidi che un tizio mi fissava da una macchina appostata là davanti, lo fissai di rimando e quello non distolse lo sguardo. Entrando vidi che Nero d’Avola era già seduto con un paio di amici, salutai tutti calorosamente e, sfruttando un momento in cui la musica era alta e gli altri erano distratti, chiesi a Nero d’Avola se avesse

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notato il tipo di fuori. Mi rispose che entrando non aveva visto nessuno ma, uscendo da casa, aveva notato uno in una macchina verde che lo fissava. La macchina poteva essere benissimo la stessa che stava ora davanti al pub. M’innervosii, stavo pensando di uscire e andare ad af-frontare quel testa di cazzo, ero alticcio da ore e non mi sarei creato nessun problema di educata incertezza. Ma in quel momento soprag-giunsero al tavolo altri tre amici, che con il loro buonumore delirante riuscirono a distrarre me e Nero d’Avola. Ordinammo da bere, ci met-temmo a scherzare, chiacchierare, ma soprattutto ci concentrammo quando Marco iniziò a distribuire le carte, era il solito gioco, tre poste per uno, chi perdeva la mano pagava una posta, l’ultimo che rimaneva quella sera non pagava e, ovviamente, coglieva la palla al balzo ordi-nando fino a ubriacarsi. Mentre giocavo continuavo a tenere d’occhio il locale e mi sembrò di vedere, seduto solo a un tavolo, con una Coca-Cola davanti al naso, il testa di cazzo che mi aveva squadrato dalla macchina. Non avevo la certezza assoluta che fosse lui perché c’erano dei riflessi sui finestrini, quindi chiesi conferma a Nero d’Avola con uno sguardo e un movimen-to della testa verso il tavolo. Nero d’Avola mi capì al volo, si girò, poi annuì verso di me, aveva uno sguardo interrogativo, ma io non mi feci nessuna domanda, agii d’impulso. Mi alzai e raggiunsi il tavolo della testa di cazzo, quello se ne accorse, fece per alzarsi io gli gettai addosso la Coca-Cola, lo afferrai per il colletto della camicia, gli diedi una testa-ta sulla fronte, quello si dimenò facendo cadere il tavolino, stavo per dargliene un’altra ma mi sentii afferrare da dietro. Era Nero d’Avola che mi trascinò fuori di forza e io mi portai dietro la testa di cazzo sen-za mollare la presa sul suo colletto neanche per un secondo. Appena superammo la porta del pub, Nero d’Avola mi lasciò e io scattai ancora, incurante del pubblico che si era formato attorno a me, lo spinsi con forza verso un muretto, feci per caricarlo ma inciampai, cadendo lo af-ferrai, trascinandolo a terra con me. Mi ritrovai per terra sopra di lui e a denti stretti, da una distanza di mezzo centimetro dal suo naso, dissi: «Che cazzo vuoi da noi?». Credo che qualsiasi risposta mi avesse dato sarebbe terminata con la sua testa sbattuta ripetutamente sull’asfalto e la faccia ridotta a un ham-burger. Avevo perso il controllo, la cosa non mi piaceva ma m’inebriava. Per fortuna Nero d’Avola aveva mantenuto la calma, mi conosceva e sapeva bene che non m’incazzo mai, ma se succede diven-

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to pericoloso. Prima che la testa di cazzo potesse rispondere mi sentii di nuovo preso di forza da Nero d’Avola che ci divise e ci spinse dietro al muretto, in un punto discreto rispetto agli occhi dei curiosi. Mi sentii ridicolo nel momento in cui notai che, oltre al mio amico, anche la testa di cazzo era rimasta calma, con un irritante sorrisetto sarcastico che non si scuciva dalla bocca. Io avevo troppo alcool in corpo e troppa ira nelle vene, Nero d’Avola lo sapeva e prese in mano le redini della situazione, mi diede fastidio ma mi stava scoppiando la testa e lo lasciai fare. «Allora che cazzo vuoi da noi? Perché ci segui?» chiese Nero d’Avola con un tono da mafioso molto appropriato alla situazione «Oggi stavate seduti in un bar al centro, anch’io ero là ma voi guarda-vate fissi da una parte, poi in quel punto sono esplosi un sacco di pal-loncini pieni di vernice, una figata pazzesca. Subito dopo vi ho visti fare un brindisi e mi è venuto il sospetto che ne sapevate qualcosa. Og-gi non avevo un cazzo da fare e ho seguito lui quando vi siete salutati, – indicò Nero d’Avola – sono arrivato fin qua e ho rivisto anche te, – in-dicò me – volevo solo chiedervi se eravate stati voi, farvi i complimenti e chiedervi come avete fatto a fare uno scherzo così geniale; ma vista la tua reazione mi viene il dubbio che forse mi dovevo fare gli affari miei, forse mi sono sbagliato e non c’entrate nulla coi palloncini, o c’entrate ma non avete più voglia di scherzare». Guardai Nero d’Avola, né io né lui sapevamo che fare con quella testa di cazzo, che cosa dirgli, cosa inventarci. Dovevamo prendere tempo, ed è quello che feci. «Senti Sherlock Holmes, ora non sono proprio dell’umore adatto. Fac-ciamo così, te ne vai affanculo e noi ci rivediamo qua fra tre giorni. Ok?» Lui non era stupido e capì che non era una negoziazione. «Ok Tyson, ci rivediamo qua fra tre giorni. Ah, questo è tuo?» Comparve nella sua mano come per magia il mio portafogli, vidi rosso, incazzato di nuovo, forse più di prima, scattai verso di lui pronto a rifa-re a botte. «Ridammelo testa di cazzo! Ma quando me l’hai preso?!» urlai. Nero d’Avola si mise subito in mezzo per evitare che ricominciassi. «Te lo spiego fra tre giorni, Tyson» rispose, e se ne andò zoppicando appena. Io e Nero d’Avola rientrammo nel pub, offrimmo una giustificazione

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credibile per l’accaduto e ordinai da bere qualcosa di forte. La mattina dopo, col solito mal di testa da post-sbronza, uscii per fare colazione, comprai il giornale e trovai nella cronaca cittadina un breve trafiletto sull’esplosione di palloncini. L’articolo era talmente breve che non aveva neanche un titolo, stava in una colonnina con altre vicende di cronaca secondarie. Ma in quel momento non me ne fregava molto, ero soddisfatto, la mia opera d’arte era ufficialmente pubblica. Corsi in of-ficina da Nero d’Avola che sorrise, gonfiò il petto e mi abbracciò come se avessi segnato un punto nella finale di qualche competizione mon-diale. Una bella soddisfazione, fu un momento toccante. Poi tornammo al problema del momento: come affrontare la testa di cazzo. Per due sere consecutive avrei lavorato al cinema, fu una manna dal cielo perché mi permise di stare da solo, al buio. In quel luogo magico che è la cabina di proiezione riuscii a fare chiarezza dentro di me per capire cosa volevo dal progetto, ma soprattutto cosa voleva il progetto da me. Scrissi, cancellai, riscrissi. Lavorai senza interruzione per due giorni, all’inizio erano pensieri e consigli su quello che stavo creando, ancora non sapevo per chi lo stessi facendo, ma poco dopo l’avrei capi-to. Era nato come un promemoria per me stesso, si trasformò in una breve raccolta di idee e memorie per i posteri, ma alla fine prese la sua forma definitiva e sbocciò come “Il Manuale”. Quando lo stampai mi ritrovai in mano un libricino in apparenza inno-cuo di una dozzina di pagine, aveva le dimensioni di un’agendina ta-scabile. Diviso in due parti: la prima era teorica e spiegava cosa fosse “il Progetto”, la seconda illustrava come si doveva agire per realizzarlo. Lo guardavo ammirato, non avevo la sensazione di averlo scritto io, il suo contenuto così chiaro e perfetto sembrava opera di qualcosa di su-periore che mi aveva scelto come incubatrice e levatrice. Ora c’era ordine nel Progetto e in me. Avevo appena teorizzato una nuova tipologia di terrorismo, se vogliamo la forma più sottile. Era ter-rorismo sociale, indiscriminato, fantasioso, incontrollabile e imprevedi-bile, non uccideva, non terrorizzava, ma disorientava e destabilizzava dall’interno il sistema. Nella seconda parte del Manuale, quella più tecnica, c’era scritto come il Progetto si sarebbe diffuso ovunque grazie a un altro concetto caro al terrorismo: le cellule. Ogni cellula indipendente e scollegata dalle altre, in modo che il morbo sociale che avremmo diffuso non sarebbe stato

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arginabile dagli organi di controllo. Le uniche regole che ogni cellula doveva seguire erano scritte sul Manuale. Ecco i punti principali: - Accogliere senza condizioni le regole e l’ideologia del Progetto spo-sandone la causa. - Ogni componente deve far parte di una sola cellula. - Ogni cellula deve essere composta da non più di sei elementi per po-tersi coordinare velocemente. - Ogni cellula è composta da pari, non esistono capi. - I componenti di ogni cellula devono avere un nome in codice in modo da complicare la vita ai controllori dell’ordine sociale. - Ogni componente di ogni cellula deve avere delle capacità o delle co-noscenze utili alla realizzazione delle Punizioni. - Nessun componente di una cellula deve parlare o si deve vantare in pubblico delle punizioni. - Ogni componente di ogni cellula deve aver letto l’Apocalisse di Gio-vanni Evangelista. Non sapevo ancora come avrei diffuso il Manuale per dare vita ad altre cellule, chiesi consiglio a una bottiglia di J&B, presenza sempre più costante nella mia vita. Subito dopo mi rilassai e compresi che mi sa-rebbe venuto in mente il modo migliore. Salvai tutto su una penna usb per darla a Nero d’Avola e avere un suo giudizio. Il motivo per il quale volevo il suo parere era legato al fatto che mi a-veva seguito da subito dimostrandosi fedele e fidato, dandomi tutto quello che mi serviva per portare a termine le Punizioni. Non so perché l’aveva fatto visto che i rischi erano molti, per non parlare della fatica e del tempo speso e da spendere. Forse era matto come un cavallo. Inol-tre, spesso, non filtrava bene con il cervello quello che diceva, garan-tendomi così un giudizio sincero sul Manuale. Mi rigirai ancora tra le mani quello scritto tanto piccolo quanto rivolu-zionario e mi sentii forte, avevo tra le dita il potere di distruggere la società e l’avevo creato io, solo io. Non mi ero ancora reso conto di essere Dio. Sarei stato il Figlio di Dio. Ora ero il suo Profeta.

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Sono tutto. Sono Io. Arrivammo all’appuntamento con il testa di cazzo con un’ora di antici-po e pronti ad aspettare, ma lui era già lì. Nero d’Avola era vagamente preoccupato, io incuriosito. Non sapevo che intenzioni avesse ma di certo faceva sul serio. Era determinato e forse fu in quel momento che iniziò a piacermi. Anzi no, continuava a starmi sulle palle. Saremmo stati duri e io avrei ripreso in mano le redini della situazione. Ero deciso a non farmi trascinare ancora dalla rabbia, non volevo perdere il con-trollo. La testa di cazzo ci vide arrivare e ci salutò con un cenno della mano, noi lo guardammo senza salutarlo, procedemmo verso di lui con passo deciso e atteggiamento intimidatorio. La sua calma sembrava indistrut-tibile. «Ti senti furbo, un duro, uno che non ha paura di nulla eh?» «Sì». La risposta mi strappò un sorriso, devo ammetterlo. Devo anche am-mettere che quella testa di cazzo m’incuriosiva sempre di più e questa sensazione mi piaceva sempre di meno. FINE ANTEPRIMA.Continua...