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Jules Verne - I cinquecento milioni della Bégum

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JULES VERNE

I CINQUECENTO MILIONI DELLA BÉGUM

Disegni di Leon Benett

incisi da Ch. Barbant, Th. Hildibrand, Dumouza Copertina di Carlo Alberto Michelini

U. MURSIA & C. MILANO

TITOLO ORIGINALE DELL’OPERA

LES CINQ CENTS MILLIONS DE LA BEGUM (1879)

Traduzione integrale dal francese di Antonio Molina

Proprietà letteraria e artistica riservata Printed in Italy © Copyright 1969-1973 U. MURSIA &C. 982/AC/II - U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29

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INDICE PRESENTAZIONE ________________________________________5

I CINQUECENTO MILIONI DELLA BEGUM ______________ 8 Capitolo I ________________________________________________8

IL SIGNOR SHARP FA IL SUO INGRESSO _______________________ 8 Capitolo II_______________________________________________17

DUE COMPAGNI DI SCUOLA _________________________________ 17 Capitolo III ______________________________________________27

UNA NOTIZIA VARIA _______________________________________ 27 Capitolo IV ______________________________________________37

DIVISIONE IN DUE __________________________________________ 37 Capitolo V_______________________________________________48

LA CITTÀ DELL'ACCIAIO ____________________________________ 48 Capitolo VI ______________________________________________60

IL POZZO ALBRECHT _______________________________________ 60 Capitolo VII _____________________________________________70

IL COMPLESSO CENTRALE __________________________________ 70 Capitolo VIII ____________________________________________79

L'ANTRO DEL DRAGO _______________________________________ 79 Capitolo IX ______________________________________________92

«P. C.» _____________________________________________________ 92 Capitolo X______________________________________________102

UN ARTICOLO DELLA RIVISTA TEDESCA «UNSERE CENTURIE» 102 Capitolo XI _____________________________________________114

UNA CENA IN CASA DEL DOTTOR SARRASIN ________________ 114 Capitolo XII ____________________________________________120

IL CONSIGLIO _____________________________________________ 120 Capitolo XIII ___________________________________________129

MARCEL BRUCKMANN AL PROFESSOR SCHULTZE, STAHLSTADT.__________________________________________________________ 129

Capitolo XIV____________________________________________131 ASSETTO DI COMBATTIMENTO _____________________________ 131

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Capitolo XV ____________________________________________135 LA BORSA DI SAN FRANCISCO______________________________ 135

Capitolo XVI____________________________________________143 DUE FRANCESI CONTRO UNA CITTÀ ________________________ 143

Capitolo XVII ___________________________________________152 SPIEGAZIONI A FUCILATE __________________________________ 152

Capitolo XVIII __________________________________________159 LA MANDORLA DEL NOCCIOLO ____________________________ 159

Capitolo XIX____________________________________________166 UN AFFARE DI FAMIGLIA __________________________________ 166

Capitolo XX ____________________________________________170 CONCLUSIONE ____________________________________________ 170

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PRESENTAZIONE

I 500 milioni della Begum, scritto nel 1879, è un romanzo a sfondo scientifico e utopistico (anzi un messaggio sociale di Verne) che tratta della drammatica storia delle due fantastiche città contrapposte (France-Ville, la città umanitaria del futuro e Stahlstadt, la mostruosa città d'acciaio che appare al lettore d'oggi come il simbolo della minaccia atomica) e si rivela a livello politico e sociale.

Nel romanzo I 500 milioni della Begum l'inventiva dello scrittore prende lo spunto da alcune correnti filosofiche dell'epoca che precorrevano utopisticamente alcune istanze del socialismo, e crea un racconto a sfondo scientifico, ambientato nella seconda metà dell'800. La fantasia dell'autore ha dato vita a una sorta di città ideale, France-Ville, fondata sulla fratellanza e sulla giustizia sociale, da cui l'egoismo, la smania del potere, la malizia verso i propri simili e ogni altro sentimento degradante per l'uomo vengono rigorosamente banditi. Questa città ideale è opera del dottor Sarrasin, un medico francese, che venuto in possesso di un favolosa eredità ha generosamente impiegato l'enorme capitale per il miglioramento della condizione sociale e per il progresso scientifico.

Il dottor Sarrasin, una tempra d'uomo nobile e generoso, aliena da qualsiasi sentimento egoistico, è profondamente convinto della bontà della natura umana. Partendo da questa ottimistica concezione della vita, il medico francese non ha alcuna esitazione a sacrificare la sua fortuna per il bene comune. Ma la straordinaria eredità (i 500 milioni della Begum) deve essere spartita con il professor Schultze, un chimico tedesco, cui spetta metà dell'immenso patrimonio.

I sentimenti di costui sono esattamente l'opposto di quelli del medico francese: per la mente sconvolta del professore tedesco parole come civiltà, progresso, fratellanza, giustizia non hanno alcun senso: importante è che la razza germanica dimostri la sua supremazia sulla razza latina. Così a France-Ville, la città del benessere, si contrappone l'orrida Città d'Acciaio, una mostruosa

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fortezza dove si fabbricano armi perfette e congegni bellici terribili, destinati a fare dei tedeschi i padroni del mondo.

Verne ci dà una descrizione molto efficace e precisa di questo arsenale bellico e, cosa molto interessante, parlando di un'arma micidiale che il professor Schultze aveva inventato per distruggere France-Ville, precorre i tempi, e ci offre un'idea avveniristica di un satellite artificiale. Ma il militarismo prussiano, nonostante il suo straordinario apparato bellico e il suo capo animato da un odio cieco e bestiale, alla fine deve soccombere sconfitto dagli ideali umanitari di France-Ville e dei suoi animatori. La spaventosa Città d'Acciaio, Stahlstadt, diventa così un'operosa fabbrica al servizio della pace e del progresso.

Un romanzo contro il militarismo, dunque, e contro la cieca follia degli armamenti bellici. Ciò che maggiormente stupisce, insieme con la potenza della fantasia, è ancora una volta la capacità dello scrittore di anticipare i tempi, ha città d'acciaio, nella sua organizzazione e nelle sue finalità, sembra quasi preludere alla Germania nazista e giunge persino ad adombrare l'incubo della catastrofe nucleare. Ma Verne, nella sua concezione della vita e della storia, è sempre positivo, e anche qui assegna la vittoria al bene, agli ideali umanitari che alla fine si rivelano più forti delle armi e dell'odio.

Nonostante quel tanto di utopistico che colora il suo romanzo, egli ci offre dunque motivo di sperare; e noi ci auguriamo ch'egli si rivéli sempre un buon profeta, non solo nelle intuizioni scientifiche ma anche e soprattutto in quelle dì ordine umano e morale.

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JULES VERNE nacque a Nantes l'8 febbraio 1828. A undici anni,

tentato dallo spirito d'avventura, cercò di imbarcarsi clandestinamente sulla nave La Corolle, ma fu scoperto per tempo e ricondotto dal padre. A vent'anni si trasferì a Parigi per studiare legge, e nella capitale entrò in contatto con il miglior mondo intellettuale dell'epoca. Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre, dal quale venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari. Intraprese dapprima la carriera teatrale, scrivendo commedie e libretti d'opera; ma lo scarso successo lo costrinse nel 1856 a cercare un'occupazione più redditizia presso un agente di cambio a Parigi. Un anno dopo sposava Honorine Morel. Nel frattempo entrava in contatto con l'editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava il romanzo Cinque settimane in pallone.

La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato l'impiego, si dedicò esclusivamente alla letteratura e un anno dopo l'altro - in base a un contratto stipulato con l'editore Hetzel - venne via via pubblicando i romanzi che compongono l'imponente collana dei «Viaggi straordinari - I mondi conosciuti e sconosciuti» e che costituiscono il filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio al centro della Terrà, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe sotto i mari, L'isola misteriosa, Il giro del mondo in 80 giorni, Michele Strogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri più famosi. La sua opera completa comprende un'ottantina fra romanzi e racconti lunghi, e numerose altre opere di divulgazione storica e scientifica.

Con il successo era giunta anche l'agiatezza economica, e Verne, nel 1872, si stabilì definitivamente ad Amiens, dove continuò il suo lavoro di scrittore, conducendo, nonostante la celebrità acquistata, una vita semplice e metodica. La sua produzione letteraria ebbe termine solo poco prima della morte, sopravvenuta a settantasette anni, il 24 marzo 1905.

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I CINQUECENTO MILIONI DELLA BEGUM

CAPITOLO I

IL SIGNOR SHARP FA IL SUO INGRESSO

«QUESTI giornali inglesi sono veramente fatti bene!» pensò il buon dottore lasciandosi andare in una grossa poltrona di cuoio.

Il dottor Sarrasin aveva praticato in tutta la sua vita il monologo, che è una delle forme della distrazione.

Era un uomo sulla cinquantina, dai lineamenti fini, dagli occhi vivaci e limpidi sotto gli occhiali d'acciaio, dalla fisionomia insieme grave e amabile, una di quelle persone di cui si dice di primo acchito: ecco un brav'uomo. A quell'ora mattutina, benché il suo modo di vestire non rivelasse nessuna ricercatezza, il dottore si era già rasato e portava una cravatta bianca.

Sul tappeto, sui mobili della sua camera d'albergo, a Brighton, giacevano il «Times», il «Daily», il «Daily News». Suonavano appena le dieci, e il dottore aveva avuto il tempo di fare il giro della città, di visitare un ospedale, di tornare al suo albergo e di leggere nei principali giornali di Londra il resoconto in extenso di una monografia che egli aveva presentato due giorni prima al grande Congresso internazionale d'Igiene, sopra un «conta-globuli del sangue», di cui era l'inventore.

Davanti a lui, un vassoio, coperto d'una tovaglia bianca, conteneva una costoletta cotta a puntino, una chicchera di té fumante e alcune di quelle fette di pane tostato col burro che le cuoche inglesi fanno magnificamente, grazie ai panetti speciali preparati dai fornai.

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— Sì, — ripeteva — questi giornali del Regno Unito sono veramente fatti benissimo, non lo si può negare… Lo speech del vicepresidente, la risposta del dottor Cicogna di Napoli, gli sviluppi della mia monografia, tutto vi è afferrato al volo, preso sul fatto, fotografato.

«La parola è al dottor Sarrasin, di Douai. L'onorevole socio si esprime in francese: "I miei ascoltatori mi scuseranno" egli dice esordendo "se mi piglio questa libertà; ma essi comprendono certamente meglio la mia lingua di quanto io sappia parlare la loro…"»

«Cinque colonne in carattere piccolo!… Non so quale sia meglio fra il resoconto del "Times" e quello del "Telegraph"… Non si può essere più esatti e più precisi!»

Il dottor Sarrasin era a questo punto delle sue riflessioni, quando il maestro di cerimonia in persona - non si oserebbe dare un titolo minore ad un personaggio vestito così correttamente di nero - bussò all'uscio e domandò se «monsiu» era visibile…

«Monsiu» è un appellativo generico che gli inglesi si credono obbligati a dare a tutti i francesi indistintamente, nello stesso modo che crederebbero di mancare a tutte le regole della buona educazione non designando un italiano col titolo di «Signore» e un tedesco con quello di «Herr». Forse, del resto, hanno ragione. Quest'abitudine continuata ha incontestabilmente il vantaggio d'indicare immediatamente la nazionalità delle persone.

Il dottor Sarrasin aveva preso il biglietto di visita che gli veniva presentato. Abbastanza stupito di ricevere una visita in un paese in cui non conosceva nessuno, egli lo fu ancora di più quando lesse sul minuscolo quadratino di carta:

Sig. SHARP, solicitor, 93, Southampton rovo.

London.

Egli sapeva che un solicitor è l'equivalente inglese di un procuratore, o meglio un uomo di legge ibrido, una via di mezzo tra il notaio, il procuratore e l'avvocato - il procuratore d'una volta.

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«Che diavolo posso aver io a che fare col signor Sharp?» si domandò. «Mi sarei forse preparato senza pensarci qualche cattivo affare?…»

— Siete proprio sicuro che sia per me? — soggiunse. — Oh! yes, monsiu. — Ebbene! fate entrare. Il maestro di cerimonia introdusse un uomo ancora giovane che il

dottore, a prima vista, classificò nella gran famiglia delle «teste di morto». Le sue labbra sottili o meglio disseccate, i lunghi denti bianchi, le cavità delle tempie quasi a nudo sotto una pelle simile a pergamena, la tinta da mummia e gli occhietti grigi dallo sguardo insinuante gli davano incontestabili titoli a tale battesimo. Il suo scheletro spariva dai talloni alla nuca sotto un ulster-coal a grandi scacchi, e nella mano egli stringeva il manico d'una valigia di cuoio verniciato.

Questo personaggio entrò, salutò rapidamente, depose a terra la valigia ed il cappello, si sedette senza chiederne il permesso e disse:

— William Henry Sharp junior, socio dello studio Billows, Green, Sharp & Co… È proprio col dottor Sarrasin che ho l'onore?…

— Sì, signore. — François Sarrasin? — È effettivamente il mio nome. — Di Douai? — Douai è la mia residenza. — Vostro padre si chiamava Isidore Sarrasin? — Precisamente. — Diciamo dunque che si chiamava Isidore Sarrasin. Il signor Sharp estrasse di tasca un taccuino, lo consultò e

soggiunse: — Isidore Sarrasin è morto a Parigi nel 1857, VI circoscrizione,

via Taranne, numero 54, palazzo delle Scuole, ora demolito. — È vero — disse il dottore sempre più meravigliato. — Ma

vorreste spiegarmi?… — Il nome di sua madre era Julie Langévol — proseguì il signor

Sharp imperturbabile. — Ella era nativa di Bar-le-Duc, figlia di Bénédict Langévol, abitante nel vicolo Loriol, morto nel 1812, come

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risulta dai registri del municipio della detta città… Questi registri sono un'istituzione molto preziosa, signore, molto preziosa!… Hem!… hem! e sorella di Jean-Jacques Langévol, tamburo maggiore del 36° cavalleggeri…

— Vi confesso, — disse a questo punto il dottor Sarrasin, meravigliato da quella conoscenza approfondita della sua genealogia — che voi sembrate su questi diversi punti molto meglio informato di me. È vero che il nome di famiglia di mia nonna era Langévol, ma non so altro di lei.

— Ella lasciò verso il 1807 la città di Bar-le-Duc con vostro nonno, Jean Sarrasin, che aveva sposato nel 1799. Andarono entrambi a dimorare a Melun in qualità di lattonieri e vi rimasero fino al 1811, data della morte di Julie Langévol, maritata Sarrasin. Dal loro matrimonio non avevano avuto che un figlio, Isidore Sarrasin, vostro padre. Da questo momento, il filo è perduto, salvo per la data della sua morte, ritrovata a Parigi…

— Posso ricongiungere questo filo — disse il dottore, trascinato suo malgrado da quella precisione assolutamente matematica. — Mio nonno venne a stare a Parigi per l'educazione di suo figlio, destinato alla carriera medica. Egli morì, nel 1832, a Palaiseau, presso Versailles dove mio padre esercitava la sua professione e dove nacqui io stesso nel 1822.

— Siete il mio uomo — ripigliò il signor Sharp. — Non avete né fratelli né sorelle?…

— No! ero figlio unico, e mia madre è morta due anni dopo la mia nascita… Ma in sostanza, signore, vorreste dirmi?…

Il signor Sharp si alzò. — Sir Bryah Jowahir Mothooranath, — disse, pronunciando

questi nomi con il rispetto che ogni inglese professa per i titoli nobiliari, — sono lieto d'avervi scoperto e d'essere il primo a presentarvi i miei omaggi!

«Quest'uomo è pazzo» pensò il dottore. «È un caso frequente nelle "teste di morto".»

Il solicitor lesse questa diagnosi nei suoi occhi. — Non sono niente affatto pazzo — rispose con pacatezza. — Voi

siete, in questo momento, il solo erede conosciuto del titolo di

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baronetto, concesso, dietro presentazione del governatore generale della provincia di Bengala, a Jean-Jacques Langévol, naturalizzato suddito inglese nel 1819, vedovo della Begum Gokool, usufruttuario dei suoi beni, e morto nel 1841, lasciando un solo figlio, il quale è morto idiota e senza posterità, intestatario e incapace, nel 1869. La successione si elevava, trent'anni fa, a circa cinque milioni di lire sterline. Essa è rimasta sotto sequestro e tutela, e gli interessi sono stati capitalizzati quasi integralmente durante la vita del figlio mentecatto di Jean-Jacques Langévol. Questa successione è stata valutata nel 1870 alla cifra tonda di ventun milioni di lire sterline, ossia cinquecentoventicinque milioni di franchi. In esecuzione d'una sentenza del tribunale di Agra, confermata dalla corte di Delhi, omologata dal Consiglio privato, i beni immobili e mobili sono stati venduti, i valori realizzati, ed il totale è stato depositato presso la Banca d'Inghilterra. Esso è ora di cinquecentoventisette milioni di franchi, che voi potrete ritirare con semplice assegno, subito dopo aver dato le vostre prove genealogiche in Corte di Cancelleria, e sul quale posso fino d'oggi farvi anticipare dai signori Trollop, Smith & Co., banchieri, l'acconto che vorrete…

Il dottor Sarrasin era impietrito. Egli rimase un istante senza trovar parola. Poi, preso da un risveglio dello spirito critico, e non potendo accettare come un fatto concreto questo sogno da Mille e una notte, esclamò:

— Ma in sostanza, signore, quali prove mi date voi di questa storia, e come avete fatto a scoprirmi?

— Le prove sono qui — rispose il signor Sharp battendo sulla valigia di cuoio verniciato. — Quanto al modo con cui vi ho trovato, è naturalissimo. Sono cinque anni che vi cerco. Il ritrovare i parenti, o next of kin, come diciamo in diritto inglese, per le numerose successioni senza eredi che vengono registrate ogni anno nelle possessioni britanniche, è una specialità della nostra casa. Ora, per l'appunto, l'eredità della Begum Gokool ci occupa da un intero lustro. Abbiamo portato le nostre investigazioni dappertutto, passato in rassegna centinaia di famiglie Sarrasin senza trovare quella che discendeva da Isidore. Ero anzi giunto alla convinzione che non vivesse nessun altro Sarrasin in Francia, quando ieri mattina,

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leggendo nel «Daily News» il resoconto del Congresso d'Igiene, sono stato colpito trovandovi citato un dottore di questo nome che mi era sconosciuto. Ricorrendo subito alle mie note ed alle migliaia di rapporti manoscritti che abbiamo radunati circa questa successione, ho costatato con stupore che la città di Douai era sfuggita alla nostra attenzione. Quasi sicuro ormai di essere sulla buona traccia, ho preso il treno di Brighton, vi ho visto uscire dal Congresso e sono rimasto convinto. Voi siete il ritratto vivente del vostro prozio Langévol, come egli è rappresentato in una fotografia che noi possediamo, ricavata da una tela del pittore indiano Saranoni.

Il signor Sharp prese dal suo taccuino una fotografia e la consegnò al dottor Sarrasin. Quella fotografia rappresentava un uomo di alta statura con una barba splendida, un turbante con pennacchio ed una veste di broccato con galloni verdi, in quell'attitudine propria dei ritratti storici d'un generale supremo che scrive un ordine d'attacco guardando attentamente lo spettatore. In secondo piano si vedeva vagamente il fumo d'una battaglia e una carica di cavalleria.

— Questi documenti vi parleranno più chiaro — soggiunse il signor Sharp. — Ve li lascerò, e tornerò fra due ore, se vorrete permettermelo, a prendere i vostri ordini.

Così parlando, il signor Sharp estrasse dalla sua valigia verniciata sette o otto volumi di incartamenti, alcuni stampati, altri manoscritti, li depose sul tavolo ed uscì indietreggiando e mormorando:

— Sir Bryah Jowahir Mothooranath, ho l'onore di salutarvi. Tra credulo e scettico, il dottore prese gli incartamenti e cominciò

a sfogliarli. Un rapido esame bastò a dimostrargli che la storia era

perfettamente vera e dissipò tutti i suoi dubbi. Come esitare, per esempio, davanti a un documento stampato sotto questo titolo:

«Rapporto agli Onorevolissimi Lord del Consiglio privato della Regina, depositato il 5 gennaio 1870, concernente la successione vacante della Begum Gokool di Ragginahra, provincia del Bengala.

«Dati di fatto. Nella causa si tratta dei diritti di proprietà di certi mehals e di quarantatremila beegales di terra arabile, del complesso di diversi edifici, palazzi, stabilì d'affittare, villaggi, oggetti, mobili, tesori, armi, ecc., ecc., provenienti dalla successione della Begum

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Gokool di Ragginahra. Dalle istanze sottoposte successivamente al Tribunale civile di Agra e alla Corte superiore di Delhi, risulta che nel 1819, la Begum Gokool, vedova del rajah Luckmissur ed erede unica di grandi sostanze, sposò uno straniero, francese d'origine, chiamato Jean-Jacques Langévol. Questo straniero, dopo aver servito fino al 1815 nell'esercito francese, in cui aveva il grado di sott'ufficiale (tamburo maggiore) nel 36° cavalleggeri, s'imbarcò a Nantes, al momento del congedo dell'armata della Loira, in qualità di rappresentante dell'armatore di una nave mercantile. Egli giunse a Calcutta, passò nell'interno ed assunse in breve le funzioni di capitano istruttore nel piccolo esercito indigeno che il rajah Luckmissur era autorizzato a tenere. Da questo grado, egli non tardò a salire a quello di comandante supremo, e poco tempo dopo la morte del rajah, ottenne la mano della sua vedova. Diverse considerazioni di politica coloniale, e servizi importanti resi in una circostanza pericolosa agli europei di Agra da Jean-Jacques Langévol, che si era fatto naturalizzare suddito britannico, indussero il governatore generale della provincia del Bengala a chiedere ed ottenere per lo sposo della Begum il titolo di baronetto. La terra di Bryah Jowahir Mothooranath fu allora eretta in feudo. La Begum morì nel 1839, lasciando l'usufrutto dei suoi beni a Langévol, che la seguì due anni dopo nella tomba. Dal loro matrimonio non avevano avuto che un figlio in stato d'inferiorità mentale fin dall'infanzia, e che si dovette metter subito sotto tutela. I suoi beni sono stati fedelmente amministrati fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1869. Non vi sono eredi conosciuti di questa immensa successione. Il Tribunale di Agra e la Corte di Delhi avendone ordinata la vendita all'asta, su richiesta del governo locale agente in nome dello Stato, abbiamo l'onore di domandare ai Lord del Consiglio privato l'omologazione di queste sentenze, ecc., ecc.». Seguivano le firme.

Copie autenticate delle sentenze di Agra e di Delhi, degli atti di vendita, degli ordini dati per il deposito del capitale presso la Banca d'Inghilterra, un'esposizione delle ricerche fatte in Francia per ritrovare degli eredi di Langévol e tutto un cumulo imponente di documenti dello stesso genere, non permisero in breve la minima esitazione al dottor Sarrasin. Egli era propriamente e debitamente il

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next of kin e successore della Begum. Tra lui ed i 527 milioni depositati nelle casseforti della Banca, vi era soltanto una sottile sentenza formale, dietro semplice presentazione degli atti autentici di nascita e di morte!

Un simile colpo di fortuna era certo sufficiente per abbagliare lo spirito più placido, e il buon dottore non poté sottrarsi del tutto all'emozione che una certezza così inaspettata doveva causargli. Tuttavia la sua emozione fu breve, e si manifestò solo con una rapida passeggiata di alcuni minuti attraverso la camera. Egli riprese poi la padronanza di sé, si rimproverò come una debolezza questa febbre passeggera, e, lasciandosi andare nella sua poltrona, rimase qualche tempo assorto in meditazione.

Poi, ad un tratto, egli riprese a passeggiare in lungo e in largo. Ma questa volta i suoi occhi luccicavano di una limpida fiamma e si vedeva che un pensiero generoso e nobile si faceva strada nella sua mente. Egli lo accolse, lo accarezzò, lo vezzeggiò, e finalmente lo fece suo.

In quel momento, fu bussato alla porta. Il signor Sharp ritornava. — Vi chiedo scusa dei miei dubbi — gli disse cordialmente il

dottore. — Eccomi convinto, e vi sono obbligatissimo delle brighe che vi siete dato.

— Obbligato niente affatto… semplice affare… il mio mestiere… — rispose il signor Sharp. — Posso sperare che Sir Bryah resterà mio cliente?

— Questo s'intende. Rimetto tutta la faccenda nelle vostre mani… Vi chiederò soltanto di rinunciare a darmi questo titolo assurdo…

«Assurdo! Un titolo che vale ventun milioni di sterline!» diceva il viso del signor Sharp; ma egli era troppo buon cortigiano per non tradirsi.

— Come vi piacerà, siete voi il padrone — rispose. — Vado a riprendere il treno di Londra e ad aspettare i vostri ordini.

— Posso tenere questi documenti? — domandò il dottore. — Sicuramente, ne abbiamo copia. Il dottor Sarrasin, rimasto solo, sedette dinanzi alla sua scrivania,

prese un foglio di carta da lettera e scrisse quanto segue:

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«Brighton, 28 ottobre 1871. «Figlio caro, ci capita una fortuna enorme, colossale, pazzesca!

Non credermi colpito da alienazione mentale e leggi i due o tre documenti stampati che aggiungo a questa lettera. Vi vedrai chiaramente che io sono erede di un titolo di baronetto inglese o meglio indiano, e di un capitale che passa il mezzo miliardo di franchi, ora depositato presso la Banca d'Inghilterra. Non dubito, mio caro Octave, dei sentimenti con i quali tu riceverai questa notizia. Come me, comprenderai i nuovi impegni che una simile ricchezza ci impone, ed i pericoli che essa può far correre al nostro senno. È un'ora appena che sono al corrente del fatto, e già la preoccupazione d'una simile responsabilità soffoca a mezzo la gioia che, pensando a te, la certezza acquisita mi aveva dato in un primo tempo. Forse questo cambiamento sarà fatale ai nostri destini… Modesti pionieri della scienza, eravamo felici nella nostra oscurità. Lo saremo ancora? No, forse, a meno che… Ma non oso parlarti di un'idea che mi si è formata nella mente… a meno che questa stessa ricchezza non diventi nelle nostre mani un nuovo e potente apparecchio scientifico, uno strumento prodigioso di civiltà!… Ne riparleremo. Scrivimi, dimmi presto quale impressione ti causa questa gran notizia e incaricati di farla sapere a tua madre. Son sicuro che, da donna sensata, ella l'accoglierà con calma e tranquillità. Quanto a tua sorella, è ancora troppo giovane perché nulla di simile le faccia perdere la testa. Del resto, è già abbastanza solida la sua testolina, e se anche comprendesse tutte le conseguenze possibili della notizia che ti annuncio, sono sicuro che essa sarà di noi tutti quella che si turberà meno del mutamento della nostra condizione. Una buona stretta di mano a Marcel. Egli non è estraneo a nessuno dei miei progetti futuri.

«Il tuo affezionatissimo padre «FR. SARRASIN. «D. M. P.»

Messa questa lettera in una busta con le carte più importanti, indirizzata al «Signor Octave Sarrasin, allievo alla Scuola centrale delle Arti e Manifatture, 32, via del Re di Sicilia, Parigi» il dottore prese il cappello, indossò il soprabito e se ne andò al Congresso. Un quarto d'ora dopo, il brav'uomo non pensava nemmeno più ai suoi milioni.

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CAPITOLO II

DUE COMPAGNI DI SCUOLA

OCTAVE Sarrasin, figlio del dottore, non era quello che si può definire proprio un pigro. Egli non era né sciocco né di un'intelligenza superiore, né bello né brutto, né grande né piccolo, né bruno né biondo. Era castano e, in tutto, appartenente per nascita alla classe media. In collegio, otteneva generalmente un secondo premio e due o tre menzioni onorevoli. All'esame di maturità aveva avuta la nota «mediocre». Respinto una prima volta al concorso della Scuola centrale, egli era stato ammesso alla seconda prova col numero 127. Era di indole indecisa, uno di quegli spiriti che si contentano d'una certezza incompleta, che vivono sempre nel pressappoco, che passano attraverso la vita come raggi di luna. Questa specie di persone sono nelle mani del destino ciò che un turacciolo di sughero è sulla cresta di un'onda. A seconda che il vento soffi da nord o da mezzogiorno, sono spinti verso l'equatore o verso il polo. È il caso che decide della loro camera. Se il dottor Sarrasin non si fosse fatto qualche illusione sull'indole di suo figlio, forse avrebbe esitato prima di scrivergli la lettera che si è letta; ma un po' d'accecamento paterno è permesso anche agli spiriti più savi.

La fortuna aveva voluto che al principio della sua educazione, Octave cadesse sotto il dominio di una natura energica, la cui influenza un po' tirannica ma benefica gli si era imposta di viva forza. Al liceo Charlemagne, dove suo padre lo aveva mandato a terminare gli studi, Octave si era legato di stretta amicizia con uno dei suoi compagni, un alsaziano, Marcel Bruckmann, più giovane di lui di un anno, ma che lo aveva in breve soggiogato con il suo vigore fisico, intellettuale e morale.

Marcel Bruckmann, rimasto orfano a dodici anni, aveva ereditato una piccola rendita che bastava propriamente a pagare le spese del

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collegio. Senza Octave, che lo conduceva in vacanza in casa dei propri genitori, egli non avrebbe mai messo piede fuori delle mura del liceo.

Ne seguì che la famiglia del dottor Sarrasin fu in breve quella del giovane alsaziano. Natura sensibile, sotto un'apparente freddezza, egli comprese che tutta la sua vita doveva appartenere a quelle brave persone che gli facevano da padre e da madre. Egli fu indotto dunque naturalmente ad adorare il dottor Sarrasin, sua moglie e la graziosa e già seria bambina, i quali gli avevano aperto il cuore. Ma fu con fatti, non con parole, ch'egli provò loro la propria gratitudine. Egli pertanto si era assunto il compito piacevole di fare di Jeanne, che amava lo studio, una giovinetta assennata, uno spirito saldo e giudizioso, e nel medesimo tempo, d'Octave, un figlio degno del padre. Quest'ultima impresa, bisogna dirlo, il giovanotto la rendeva meno facile di sua sorella, già più matura del fratello, nonostante l'età. Ma Marcel si era ripromesso di riuscire nel suo duplice scopo.

Marcel Bruckmann era uno di quei campioni valorosi e abili che l'Alsazia è solita mandare ogni anno a combattere nella gran lotta parigina. Ancora fanciullo, si segnalava già per la solidità e l'elasticità dei muscoli e per la vivacità dell'intelligenza. Egli era tutto volontà e tutto coraggio al di dentro, come al di fuori era tagliato ad angoli retti. Fin dal collegio, lo tormentava un bisogno imperioso di primeggiare in tutto, alle parallele come a palla, al ginnasio nelle materie letterarie come nel laboratorio di chimica. Se fosse mancato un premio alla sua messe annuale, avrebbe creduto l'anno perduto. A vent'anni aveva un bel corpo agile e robusto, pieno di vita e d'azione, una macchina organica al massimo di tensione e di rendimento. La sua testa intelligente era già di quelle che fermano lo sguardo degli spiriti attenti. Entrato secondo nella Scuola centrale, nello stesso anno di Octave, era deciso a uscirne primo.

È del resto alla sua energia persistente e sovrabbondante per due uomini, che Octave aveva dovuto la propria ammissione. Per tutto un anno, Marcel lo aveva «tenuto sotto pressione», spinto al lavoro e obbligato per così dire alla riuscita. Egli provava per quella natura debole e vacillante un sentimento di pietà amichevole, simile a quello che un leone potrebbe concedere a un cagnolino. Gli piaceva

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rafforzare con l'eccesso della propria linfa quella pianta anemica e farla fruttificare accanto a sé.

La guerra del 1870 era venuta a sorprendere i due amici mentre facevano gli esami. Fin dal giorno successivo alla chiusura dei corsi, Marcel, pieno d'un dolore patriottico esasperato dalla minaccia che pesava sopra Strasburgo e l'Alsazia, era andato ad arruolarsi nel 31° battaglione di cacciatori a piedi. Subito Octave aveva seguito questo esempio.

Fianco a fianco, avevano fatto entrambi agli avamposti di Parigi la dura campagna dell'assedio. Marcel aveva ricevuto a Champigny una pallottola nel braccio destro, a Buzenval una spallina al braccio sinistro; Octave non aveva avuto né spallina, né ferita. A dire il vero non era colpa sua, poiché avevausempre seguito il suo amico sotto il fuoco. Rimaneva indietro al massimo sei metri. Ma quei sei metri erano tutto.

Dopo la pace e la ripresa dei lavori consueti, i due studenti abitavano insieme due camere attigue in un modesto albergo vicino alla scuola. Le disgrazie della Francia, la separazione dell'Alsazia e della Lorena avevano impresso al carattere di Marcel una maturità del tutto virile.

— Tocca alla gioventù francese — diceva — correggere le colpe dei suoi padri, e vi può riuscire soltanto col lavoro.

In piedi alle cinque, obbligava Octave a imitarlo. Se lo tirava dietro a scuola, e quando uscivano non lo lasciava mai. Tornavano a casa per dedicarsi allo studio, interrompendolo ogni tanto con una pipata e una chicchera di caffè. Andavano a letto alle dieci, col cuore soddisfatto, se non contento, e la mente ricca di nozioni. Una partita di biliardo ogni tanto, uno spettacolo ben scelto, un concerto del Conservatorio di quando in quando, una galoppata fino al bosco di Verrières, una passeggiata nella foresta, due volte la settimana un assalto di boxe o di scherma, ecco le loro distrazioni. Octave manifestava sì qualche volta delle velleità di ribellione, e dava un'occhiata di bramosia a distrazioni meno raccomandabili. Parlava di andare a render visita a Aristide Leroux, che «seguiva il corso di diritto» alla birreria Sain-Michel. Ma Marcel si beffava così

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aspramente di questi capricci, che il più delle volte non ne faceva nulla.

Il 29 ottobre 1871, verso le sette di sera, i due amici erano, secondo il solito, seduti l'uno accanto all'altro alla stessa tavola, sotto l'abat-jour di una lampada comune. Marcel era immerso corpo e anima in un problema, palpitante d'interesse, di geometria descrittiva applicata al taglio delle pietre. Octave procedeva con cura religiosa a preparare un litro di caffè, cosa disgraziatamente più importante per lui. Era uno dei rari lavori nei quali si lusingava di primeggiare, forse perché vi trovava l'occasione quotidiana di sfuggire per qualche minuto alla terribile necessità di allineare equazioni, di cui gli pareva che Marcel abusasse un tantino. Seduto in poltrona, egli faceva dunque passare a goccia a goccia l'acqua bollente attraverso uno spesso strato di moka, e questa felicità tranquilla avrebbe dovuto bastargli. Ma l'attività di Marcel gli pesava come un rimorso, e provava l'invincibile bisogno di turbarla con le sue chiacchiere.

— Faremmo bene a comperare una macchina per il caffè — disse ad un tratto. — Questo filtro antico e solenne non è più all'altezza della civiltà.

— Compera una macchina per il caffè! Questo t'impedirà forse di perdere un'ora tutte le sere in questa cucina — rispose Marcel.

E ritornò al suo problema. — Una vòlta ha per intradosso un'elissoide a tre assi diseguali. Sia

A B D E l'ellisse d'origine che contiene l'asse massimo oA = a, e l'asse intermedio oB. = b, mentre l'asse minimo (o, o c) è verticale ed eguale a c, il che rende la vòlta ribassata…

In quel momento fu bussato all'uscio. — Una lettera per il signor Octave Sarrasin, — disse il cameriere. Si può pensare se questa lieta diversione fosse bene accolta dal

giovane studente. — È di mio padre — disse Octave. — Riconosco la calligrafia…

Ecco quel che si dice una bella lettera, per lo meno, — aggiunse soppesando il pacco di carte.

Marcel sapeva come lui che il dottore era in Inghilterra. Il suo passaggio a Parigi, otto giorni prima, era anzi stato segnalato da una cena da Sardanapalo offerta ai due compagni in un ristorante del

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Palais-Royal, famoso un tempo, oggi passato di moda, ma che il dottor Sarrasin continuava a considerare come l'ultimo grido della raffinatezza parigina.

— Mi dirai se tuo padre ti parla del suo Congresso d'Igiene — disse Marcel. — Ha avuto una buona idea ad andarvi. Gli scienziati francesi sono troppo inclini a isolarsi.

E Marcel ripigliò il suo problema: — … L'estradosso sarà formato da un'elissoide simile alla prima,

avente il suo centro al disotto di o sulla verticale o. Dopo aver segnato i fuochi F1, F2, F3 delle tre ellissi principali, tracciamo l'ellisse e l'iperbole ausiliarie, i cui assi comuni…

Un grido di Octave gli fece alzare il capo. — Che c'è dunque? — domandò un po' preoccupato vedendo il

suo amico pallidissimo. — Leggi! — disse l'altro, sbalordito dalla notizia appena ricevuta.

Marcel prese la lettera, la lesse fino alla fine, la rilesse una seconda volta, diede un'occhiata ai documenti stampati che l'accompagnavano, e disse:

— È curiosa! Poi, riempì la pipa e l'accese metodicamente. Octave lo guardava

trasecolato. — Credi che sia vero?— gridò con voce soffocata. — Vero?… Evidentemente. Tuo padre ha troppo buon senso e

spirito scientifico per accettare storditamente una convinzione simile. Del resto ecco le prove, e in fondo è una cosa semplicissima.

Poiché la pipa era debitamente accesa, Marcel si rimise al lavoro. Octave rimaneva con le braccia penzoloni, incapace persino di finire il suo caffè, e tanto meno di mettere insieme due idee logiche. Pure, aveva bisogno di parlare per assicurarsi che non sognava.

— Ma… se è vero, è assolutamente sbalorditivo!… Sai che mezzo miliardo è una ricchezza enorme?

Marcel rialzò la testa e approvò: — Enorme è la parola. Non ce n'è forse una simile in Francia, e se

ne contano solo qualcuna negli Stati Uniti, cinque o sei appena in Inghilterra, in tutto quindici o venti al mondo.

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— E un titolo per giunta! — riprese Octave — un titolo di baronetto. Non che io abbia mai avuto l'ambizione d'averne uno, ma poiché la cosa capita, si può dire che è certamente più elegante che il chiamarsi semplicemente Sarrasin.

Marcel lanciò uno sbuffo di fumo e non proferì verbo. Quello sbuffo di fumo diceva chiaramente: «Puah!… puah!…».

— Certamente, — soggiunse Octave — non avrei mai voluto fare come tanti che attaccano una particella al loro nome o s'inventano un marchesato di cartapesta! Ma possedere un vero titolo, un titolo autentico, debitamente iscritto al «Peerage»1 di Gran Bretagna e d'Irlanda, senza alcun dubbio né confusione possibile, come si vede troppo spesso…

La pipa faceva sempre: «Puah!… puah!…». — Caro mio, hai un bel dire e fare, — riprese Octave con

convinzione — «il sangue è qualche cosa» come dicono gli inglesi! Egli si arrestò di botto davanti allo sguardo ironico di Marcel e

tornò ai milioni. — Ti ricordi — soggiunse — che Binomio, il nostro professore di

matematica, ripeteva tutti gli anni, nella sua prima lezione sulla numerazione, che mezzo miliardo è un numero troppo grande perché le forze dell'intelligenza umana possano averne solamente un'idea giusta, se non avessero a loro disposizione gli espedienti d'una rappresentazione grafica?… Non pensi che a un uomo, che versasse un franco ogni minuto, ci vorrebbero più di mille anni per pagare questa somma?… Ah! è veramente… strano il pensare che si è eredi di mezzo miliardo di franchi!

— Mezzo miliardo di franchi! — esclamò Marcel, scosso dalla parola più che non fosse stato dalla cosa. — Sai che cosa potreste farne di meglio? Darlo alla Francia per pagare il suo riscatto! Non ci vorrebbe che dieci volte tanto.

— Bada bene di non suggerire una simile idea a mio padre!… — esclamò Octave con il tono d'uomo spaventato. — Egli sarebbe capace di adottarla! Vedo già che rumina qualche progetto dei suoi!… Pazienza ancora un investimento in titoli di Stato, ma conserviamo almeno la rendita! 1 Elenco dei Pari. (N.d.T.)

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— Via, tu eri fatto, senza sospettarlo finora, per essere capitalista! — ribatté Marcel. — Qualcosa mi dice, mio povero Octave, che sarebbe stato meglio per te, se non per tuo padre, che è uno spirito retto e sensato, che questa grossa eredità fosse ridotta a proporzioni più modeste. Preferirei sapere che hai venticinquemila franchi di rendita da spartire con la tua brava sorellina, piuttosto che questa montagna d'oro!

E si mise al lavoro. Quanto ad Octave, gli era impossibile far qualcosa; e si agitò tanto

per la camera, che l'amico, un po' impazientito, finì con il dirgli: — Faresti meglio ad andare a prendere una boccata d'aria! È

evidente che non sei buono a nulla questa sera! — Hai ragione — rispose Octave affermando con gioia questa

specie di permesso d'abbandonare ogni lavoro. Ed afferrando il cappello, si precipitò giù per le scale e si trovò

nella via. Aveva appena fatto dieci passi, che si arrestò sotto un lampione a gas per rileggere la lettera del padre. Aveva bisogno d'assicurarsi di nuovo che era proprio sveglio.

— Mezzo miliardo!… Mezzo miliardo!… — ripeteva. — Fa almeno venticinque milioni di rendita!… Se anche mio padre non me ne desse che uno all'anno, come pensione, la metà di uno, il quarto di uno, sarei ancora felicissimo! Si fanno molte cose col denaro! Sono sicuro che saprei impiegarlo bene! Non sono imbecille, non è vero? Sono stato ammesso alla Scuola centrale!… E ho anche un titolo!… Saprò portarlo!

Si guardava, passando, nei vetri d'una bottega. — Avrò un palazzo, cavalli!… Ce ne sarà uno per Marcel. Dato

che sono ricco, è chiaro che sarà come se lo fosse anche lui. Come tutto arriva a proposito! Mezzo miliardo!… Baronetto!… È curioso, ora che è venuto, mi sembra che me lo aspettassi! Qualche cosa mi diceva che non dovevo rimaner sempre curvo sui libri e sulla carta da disegno!… In ogni caso, è un bel sogno.

Octave seguiva, ruminando queste idee, le arcate della via de Rivoli. Giunse ai Champs-Élisée, svoltò l'angolo della via Royale e sboccò sul viale. Un tempo, egli ne guardava le splendide vetrine con indifferenza, come cose futili e senza alcun peso nella sua vita. Ora

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vi si arrestò e pensò con viva gioia che tutti quei tesori gli sarebbero appartenuti quando lo avesse voluto.

«È per me» pensò «che le filatrici olandesi fanno prillare i loro fusi, che le filande di Elbeuf tessono i loro drappi più morbidi, che gli orologiai costruiscono i loro cronometri, che il lampadario del teatro dell'Opera versa le sue cascate di luce, che i violini stridono, che le cantanti si sfiatano! È per me che si allevano i purosangue nei maneggi, e che si illumina il Cafè Anglais!… Parigi è mia!… Tutto è mio!… Non viaggerò forse? Non andrò a visitare la mia baronia nell'India?… Potrei bene qualche giorno comperarmi una pagoda, con i bonzi e gli idoli d'avorio per giunta!… Avrò elefanti!… Darò la caccia alla tigre!… E che belle armi!… E che bella barca!… Una barca? ma no! un bello e buono yacht a vapore per condurmi dove vorrò, fermarmi e partire a mio capriccio!… A proposito di vapore, sono incaricato di dar la notizia a mia madre. Se partissi per Douai?… C'è la scuola… Oh! oh! la scuola! Si può farne a meno!… E Marcel? Bisogna avvertirlo. Gli manderò un telegramma. Egli capirà certamente che ho fretta di vedere mia madre e mia sorella in una simile occasione!».

Octave entrò in un ufficio telegrafico, avvertì l'amico che partiva e che sarebbe ritornato due giorni dopo. Poi, chiamò una carrozza e si fece trasportare alla stazione Nord.

Appena fu in carrozza ricominciò il suo sogno. Alle due del mattino, Octave suonava chiassosamente il

campanello della porta della casa paterna e materna - il campanello notturno - e metteva in scompiglio il tranquillo quartiere delle Aubettes.

— Chi dunque è ammalato? — si chiedevano le comari da una finestra all'altra.

— Il dottore non è in città! — gridò la vecchia domestica dal suo abbaino all'ultimo piano.

— Sono io, Octave!… Scendete ad aprirmi Franane! Dopo dieci minuti d'attesa, Octave riuscì a entrare in casa. Sua

madre e sua sorella Jeanne, scese precipitosamente in veste da camera, aspettavano la spiegazione di quella visita.

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La lettera del dottore, letta ad alta voce, diede in breve la chiave del mistero.

La signora Sarrasin rimase abbagliata un istante. Ella abbracciò il figlio e la figlia piangendo di gioia. Le sembrava che l'universo appartenesse a loro ormai, e che la sciagura non avrebbe osato più assalire dei giovani che possedevano alcune centinaia di milioni. Pure le donne si avvezzano assai più presto che gli uomini ai grandi colpi della sorte. La signora Sarrasin rilesse la lettera di suo marito, pensò che toccava a lui, in sostanza, decidere del suo destino e di quello dei figlioli, e la calma le rientrò nel cuore. Quanto a Jeanne, era felice della gioia della madre e del fratello, ma la sua immaginazione di tredicenne non sognava felicità più grande di quella della modesta casetta in cui la sua vita trascorreva dolcemente tra le lezioni dei suoi maestri e le carezze dei suoi genitori. Ella non vedeva bene in che cosa alcuni fasci di biglietti di banca potessero mutare la sua esistenza, e questa prospettiva non la turbò un istante.

La signora Sarrasin, maritata giovanissima ad un uomo tutto assorto nelle occupazioni silenziose dello scienziato di razza, rispettava la passione di suo marito che amava teneramente, senza tuttavia comprenderlo bene. Non potendo dividere le gioie che lo studio dava al dottor Sarrasin, ella si era talvolta sentita un po' sola accanto a quel lavoratore accanito, ed aveva per conseguenza concentrato sopra i due figlioli ogni speranza. Aveva sempre sognato per loro un avvenire splendido, immaginando che dovessero essere così più felici. Octave, ella non ne dubitava, era chiamato ai più alti destini. Dacché egli era entrato alla Scuola centrale, la modesta ed utile accademia di giovani ingegneri si era trasformata agli occhi suoi in un vivaio di uomini illustri. La sua unica inquietudine era che la modestia del loro patrimonio fosse un ostacolo, una difficoltà per lo meno alla carriera gloriosa di suo figlio, e nuocesse più tardi all'accasamento della figliola. Ora, ciò che ella aveva compreso della lettera del marito, è che le sue paure non avevano più alcuna ragione di essere. Perciò la sua soddisfazione fu intera.

La madre ed il figlio passarono una gran parte della notte a chiacchierare ed a fare progetti, mentre Jeanne, contentissima del

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presente, senza alcuna preoccupazione per l'avvenire, si era addormentata in una poltrona.

Pure, al momento di andarsi a riposare un pochino: — Non mi hai parlato di Marcel — disse la signora Sarrasin a suo

figlio. — Lo hai informato della lettera di tuo padre? Che ne ha detto?

— Oh! — rispose Octave — tu conosci Marcel! È più che un saggio: è uno stoico! Credo che sia stato spaventato per noi dell'enormità dell'eredità! Dico per noi; ma la sua inquietudine non risaliva fino a mio padre, il cui buon senso, diceva, ed il cui senno scientifico lo rassicuravano. Ma perdinci! per ciò che ti riguarda, mamma, ed anche per Jeanne, e per me soprattutto, non mi ha nascosto che avrebbe preferito un'eredità più modesta, venticinquemila lire di rendita.

— Marcel non aveva forse torto — rispose la signora Sarrasin guardando suo figlio. — Un'improvvisa ricchezza può diventare un gran pericolo per certe nature!

Jeanne si era svegliata. Aveva udito le ultime parole di sua madre. — Sai bene, mamma, — le disse fregandosi gli occhi e

dirigendosi verso la sua cameretta — sai bene che tu mi hai detto un giorno che Marcel aveva sempre ragione! Quanto a me, credo a tutto ciò che dice il nostro amico Marcel!

Ed avendo abbracciata la mamma, Jeanne si ritirò.

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CAPITOLO III

UNA NOTIZIA VARIA

ARRIVANDO alla quarta seduta del Congresso d'Igiene, il dottor Sarrasin poté notare che tutti i suoi colleghi lo accoglievano con segni di straordinario rispetto. Fino a quel momento, era molto se il nobilissimo lord Glandover, cavaliere della Giarrettiera, che aveva la presidenza nominale dell'assemblea, si era degnato d'accorgersi dell'esistenza del medico francese.

Quel lord era un personaggio augusto, il cui ruolo si limitava a dichiarar aperta o chiusa la seduta e a dare meccanicamente la parola agli oratori iscritti sopra una lista che gli veniva messa davanti. Teneva di solito la mano destra infilata nello scollo della giacca abbottonata, non già perché avesse fatto una caduta da cavallo, ma unicamente perché quella era la scomoda posizione con cui gli scultori inglesi raffiguravano nel bronzo molti uomini di Stato.

Un volto livido e glabro, chiazzato di macchie rosse, una parrucca di stoppa pretenziosamente rialzata a ciuffo sopra una fronte che avrebbe suonato a vuoto, completavano la testa più comicamente compassata, più pazzamente austera che si potesse vedere. Lord Glandover si muoveva tutto d'un pezzo, come se fosse stato di legno o di cartapesta. Perfino i suoi occhi sembravano non muoversi sotto le arcate orbitali se non ad intermittenze, come gli occhi delle bambole e dei manichini.

Alle prime presentazioni, il presidente del Congresso d'Igiene aveva rivolto al dottor Sarrasin un saluto protettore e condiscendente che avrebbe potuto tradursi così:

— Buon giorno, signor uomo da poco!… Siete voi che, per guadagnarvi la vostra vituccia, fate dei lavoretti su delle macchinette?… Bisogna che io abbia veramente la vista buona per

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vedere una creatura così lontana da me nella scala degli esseri!… Mettetevi all'ombra della Mia Signoria, ve lo permetto.

Questa volta, lord Glandover gli rivolse il più grazioso dei sorrisi e spinse la cortesia fino a mostrargli un sedile vuoto alla sua destra. D'altra parte, tutti i membri del Congresso si erano alzati.

Stupito da questi segni di un'attenzione eccezionalmente lusinghiera, e dicendo a se stesso che, pensandoci bene, il conta-globuli era senza dubbio sembrato ai suoi confratelli una scoperta più importante che non a prima vista, il dottor Sarrasin sedette al posto che gli veniva offerto.

Ma tutte le sue illusioni d'inventore se ne volarono via quando lord Glandover si curvò al suo orecchio con una contorsione tale delle vertebre cervicali che poteva risultarne un torcicollo violento per Sua Signoria:

— Ho saputo — disse — che siete un uomo ricchissimo. Mi si dice che «valete» ventun milioni di sterline!

Lord Glandover sembrava desolato d'aver potuto trattare con leggerezza l'equivalente in carne ed ossa d'un valore, in moneta, così importante. Tutta la sua attitudine diceva: «Perché non averci avvertiti?… Francamente non va bene! Esporre la gente a simili equivoci!».

Il dottor Sarrasin, che non credeva, in coscienza, di «valere» un soldo più che alle sedute precedenti, si domandava come mai la notizia avesse già potuto diffondersi, quando il dottor Ovidius, di Berlino, suo vicino di destra, gli disse con un sorriso falso:

— Eccovi ricco quanto i Rothschild!… Il «Daily Telegraph» dà la notizia!… Me ne rallegro tanto!

E gli consegnò un numero del giornale della mattina stessa. Vi si leggeva la «notizia varia» seguente, la cui redazione rivelava in modo palese l'autore:

«UN'EREDITÀ MOSTRUOSA. - La famosa successione vacante della Begum Gokool ha

finalmente trovato il suo legittimo erede grazie alle cure dello studio Billows, Green e Sharp, solicitors, 93, Southampton row, Londra. Il fortunato proprietario dei ventun milioni di lire sterline, ora depositati presso la Banca d'Inghilterra, è un medico francese,

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il dottor Sarrasin, di cui, tre giorni fa, abbiamo analizzata la bella monografia presentata al Congresso di Brighton. A forza di stenti, e passando per peripezie che potrebbero costituire da sole un vero romanzo, il signor Sharp è riuscito a stabilire, senza contestazione possibile, che il dottor Sarrasin è il solo discendente vivente di Jean-Jacques Langévol, baronetto, marito in seconde nozze della Begum Gokool. Questo soldato di ventura era, a quanto pare, nativo della piccola città francese di Bar-le-Duc. Non rimangono più da compiere, per l'entrata in possesso, che poche semplici formalità. La richiesta è già presentata alla Corte di Cancelleria. È un curioso susseguirsi di circostanze che ha accumulato sulla testa d'uno scienziato francese, insieme con un titolo britannico, i tesori ammucchiati da una lunga serie di rajahs indiani. La fortuna avrebbe potuto mostrarsi meno intelligente, e bisogna rallegrarsi che un capitale così grande cada in mani che sapranno farne buon uso».

Per un sentimento piuttosto curioso, il dottor Sarrasin fu indispettito nel veder resa pubblica la notizia. Non era solamente a causa dei fastidi che la sua esperienza delle cose umane gli faceva già prevedere, ma era umiliato per l'importanza che si pareva attribuire a quell'avvenimento. Gli sembrava che la sua personalità fosse rimpicciolita da tutta la cifra enorme del suo capitale. I suoi lavori, il suo merito personale - egli ne aveva il sentimento profondo - si trovavano già annegati in quell'oceano di oro e d'argento, anche agli occhi dei suoi confratelli. Essi non vedevano più in lui il ricercatore infaticabile, l'intelligenza superiore e agile, l'inventore geniale, vedevano il mezzo miliardo. Fosse egli anche stato un cretino delle Alpi, un ottentotto abbrutito, uno degli esemplari più degradati dell'umanità invece d'esserne uno dei rappresentanti superiori, il suo peso sarebbe stato lo stesso. Lord Glandover aveva detta la parola: egli «valeva» ormai ventun milioni di sterline, né più né meno.

Questa idea gli trafisse il cuore, e il Congresso, che guardava con una curiosità tutta scientifica com'era fatto un «semi miliardario», notò con stupore che la fisionomia del soggetto si velava di una specie di tristezza.

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Ma fu solo una debolezza passeggera. La grandezza dello scopo al quale aveva deciso di consacrare quella ricchezza insperata si ripresentò di colpo al pensiero del dottore e lo rasserenò. Egli aspettò la fine della lettura che stava facendo il dottor Stevenson di Glasgow sull'Educazione dei giovani idioti, e chiese la parola per una comunicazione.

Lord Glandover gliela concesse subito, anteponendolo persino al dottor Ovidius. Gliela avrebbe accordata anche se tutto il Congresso vi si fosse opposto, anche se tutti gli scienziati d'Europa avessero protestato insieme contro quel favoritismo! Ecco ciò che diceva eloquentemente il tono tutto speciale della voce del presidente.

— Signori, — disse il dottor Sarrasin — mi ero proposto di aspettare alcuni giorni ancora prima di informarvi della fortuna singolare che mi è toccata e delle conseguenze fortunate che questo caso può avere per la scienza. Ma, essendo il fatto diventato pubblico, vi potrebbe essere dell'affettazione a non metterlo subito sul suo vero terreno… Sì, signori, è vero che una grossa somma, una somma di molte centinaia di milioni al momento, depositata presso la Banca d'Inghilterra, tocca a me legittimamente. Ho bisogno di dirvi che non mi considero, in queste circostanze, altro che il depositario della scienza?… (Sensazione profonda.) Non è a me che questo capitale appartiene di diritto, è all'Umanità, al Progresso!… (Movimenti diversi. Esclamazioni. Applausi unanimi. Tutto il Congresso si alza in piedi, elettrizzato da questa dichiarazione.) Non applauditemi, signori. Non conosco un solo uomo di scienza, veramente degno di questo bel nome, che non avrebbe fatto al mio posto quello che voglio fare io. Chissà se qualcuno non penserà che, come in molte azioni umane, anche in questa vi è più amor proprio che sacrificio?… (No! No!) Poco importa del resto! Guardiamo solamente i risultati. Lo dichiaro dunque, definitivamente e senza riserva: il mezzo miliardo che il caso mette nelle mie mani non appartiene a me, appartiene alla scienza! Volete voi essere il Parlamento che assegnerà questo bilancio?… Io non ho una fiducia sufficiente nelle mie cognizioni per pretendere di disporre da padrone assoluto. Ve ne faccio giudici, e voi stessi deciderete il miglior uso

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che si possa fare di questo tesoro!… (Evviva. Agitazione profonda. Delirio generale.)

Il Congresso è in piedi. Alcuni membri, nella loro esaltazione, sono saliti sul tavolo. Il professore Turnbull, di Glasgow, sembra minacciato da un colpo apoplettico. Al dottor Cicogna, di Napoli, si è fermato il respiro. Solo lord Glandover conserva la calma dignitosa e serena che si addice al suo rango. È perfettamente convinto, del resto, che il dottor Sarrasin scherza piacevolmente, e non ha la minima intenzione di realizzare un programma così stravagante.

— Se mi è concesso, tuttavia, — riprese l'oratore, quando ebbe ottenuto un po' di silenzio — se mi è concesso di suggerire un progetto che sarebbe facile sviluppare e perfezionare, propongo il seguente.

Qui il Congresso, ritornato finalmente tranquillo, ascoltò con religiosa attenzione.

— Signori, fra le cause d'infermità, di miseria e di morte che ci circondano, bisogna contarne una, alla quale credo sia ragionevole dare una grande importanza: le condizioni igieniche deplorevoli nelle quali si trova la maggior parte degli uomini. Essi si ammucchiano in città, in abitazioni spesso prive d'aria e di luce, due fattori indispensabili per la vita. Questi agglomerati umani diventano talvolta veri focolai d'infezione. Quelli che non vi trovano la morte sono perlomeno danneggiati nella salute; la loro forza produttiva diminuisce, e la società perde così quei validi contributi che potrebbero essere applicati agli usi più preziosi. Perché, signori, non tentiamo il più potente mezzo di persuasione… l'esempio? Perché non riuniamo tutte le forze della nostra immaginazione per tracciare il piano d'una città modello su dati rigorosamente scientifici? (Sì! sì! è vero!) Perché non consacriamo il capitale di cui disponiamo per erigere questa città e offrirla al mondo come insegnamento pratico… (Sì! sì! Tumulto d'applausi.)

I membri del Congresso, presi da un accesso di follia contagiosa, si stringono la mano a vicenda, si gettano addosso al dottor Sarrasin, lo sollevano, lo portano in trionfo intorno alla sala.

— Signori, — riprese il dottore, quando ebbe potuto ricuperare il suo posto — questa città che già ognuno di noi vede con gli occhi

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dell'immaginazione, che fra qualche mese potrà essere una realtà, questa città della salute e del benessere, inviterà tutti i popoli a venirla a visitare, noi ne divulgheremo in tutte le lingue il piano e la descrizione, vi chiameremo le famiglie oneste che la povertà e la disoccupazione possono aver cacciato dai paesi sovrappopolati. Anche quelle - non stupitevi se vi penso - che la conquista straniera ha con crudele necessità costretto all'esilio, potranno trovare da noi l'utilizzazione della loro operosità, l'applicazione della loro intelligenza, e ci apporteranno quelle ricchezze morali, mille volte più preziose delle miniere d'oro e di diamanti. Là potremo avere grandi collegi in cui la gioventù, allevata secondo saggi principi, atti a sviluppare e ad equilibrare tutte le facoltà morali, fisiche ed intellettuali, potrà prepararci delle generazioni forti per l'avvenire!

Bisogna rinunciare a descrivere il tumulto entusiastico che seguì questa comunicazione. Gli applausi, gli evviva, gli «hip! hip!» si succedettero per più di un quarto d'ora.

Il dottor Sarrasin era appena riuscito a sedersi di nuovo che lord Glandover, curvandosi di nuovo verso di lui, mormorò al suo orecchio ammiccando:

— Buona speculazione!… Voi fate assegnamento sulla rendita della concessione, vero?… Affare sicuro, purché sia ben avviato e patrocinato da nomi scelti!… Tutti i convalescenti e i malati cronici vorranno abitare là!… Spero che mi terrete un buon lotto di terreno, vero?

Il povero dottore, ferito da quell'ostinazione a voler dare alle sue azioni un movente di cupidigia, questa volta stava per rispondere per le rime a Sua Signoria, quando udì il vice-presidente richiedere un voto di ringraziamento per acclamazione all'autore della filantropica proposta che era stata presentata all'assemblea.

— Sarebbe — disse — l'eterno onore del Congresso di Brighton essere il promotore di un'idea così sublime; per concepirla era necessaria la più alta intelligenza unita al più gran cuore ed alla generosità più inaudita… Eppure, ora che l'idea è suggerita, ci si meraviglia che non sia già stata messa in pratica! Quanti miliardi consumati in guerre pazze, quanti capitali dissipati in speculazioni ridicole avrebbero potuto essere consacrati ad un simile esperimento!

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L'oratore, terminando, chiedeva, per la nuova città, come giusto omaggio al suo fondatore, il nome di «Sarrasina».

La sua proposta era già acclamata, quando bisognò ritornare sul voto, per richiesta dello stesso dottor Sarrasin.

— No! — egli disse — il mio nome non ha nulla a che fare in questa iniziativa. Guardiamoci bene dal dare alla futura città uno di quei battesimi che, sotto pretesto di derivare dal greco o dal latino, danno alla cosa o all'essere che li porta un tono pedantesco. Sarà la Città del Benessere, ma io chiedo che il suo nome sia quello della mia patria, e che la chiamiamo France-Ville!

Non si poteva rifiutare al dottore questa soddisfazione che gli era dovuta.

France-Ville era ormai già fondata a parole; essa doveva, in grazia del processo verbale con cui si sarebbe chiusa la seduta, esistere anche sulla carta. Si passò immediatamente alla discussione degli articoli generali del progetto.

Ma sarà bene lasciare il Congresso a quest'occupazione pratica, così diversa dalle cure di solito riservate a tali assemblee, per seguire passo per passo, in uno dei suoi innumerevoli itinerari, la sorte della notizia varia pubblicata dal «Daily Telegraph».

Fin dalla sera del 29 ottobre, quel trafiletto, testualmente riprodotto dai giornali inglesi, cominciava a diffondersi in tutti gli angoli del Regno Unito. Appariva tra l'altro nella «Gazzetta di Hull» e figurava in testa alla seconda pagina in un numero di questo modesto giornale che il tre alberi Mary Queen, carico di carbone, portò il 1° novembre a Rotterdam.

Immediatamente tagliata dalle forbici diligenti del redattore capo e segretario unico dell'«Eco nederlandese» e tradotta nella lingua di Cuyp e di Potter, la notizia varia giunse, il 2 novembre, sulle ali del vapore, al «Memoriale di Brema». Là rivesti, senza mutare corpo, nuovi panni, e non tardò a vedersi stampata in tedesco. E perché non notare che il giornalista teutonico, dopo aver scritto dall'inizio della traduzione: Eine übergrosse Erbschaft, non temette di ricorrere a un sotterfugio meschino e di abusare della credulità dei suoi lettori aggiungendo fra parentesi: Corrispondenza speciale da Brighton?

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Comunque, diventato così tedesco per diritto d'annessione, l'aneddoto giunse alla redazione della solenne «Gazzetta del Nord», che gli diede un posto nella seconda colonna della terza pagina, accontentandosi di sopprimere il titolo, troppo ciarlatanesco per una persona così austera.

Dopo essere passato per queste successive trasformazioni, esso fece finalmente il suo ingresso, la sera del 3 novembre, fra le mani pesanti di un grosso domestico sassone, nello studio-salotto-sala da pranzo del signor professor Schultze, dell'Università di Jena.

Per quanto in alto si trovasse un simile personaggio nella scala degli esseri, egli non presentava a prima vista nulla di straordinario. Era un uomo di quarantacinque o quarantasei anni, di statura piuttosto massiccia; le spalle quadrate indicavano una costituzione robusta; la fronte era calva, ed i pochi capelli che gli erano rimasti sulla nuca e sulle tempie ricordavano la stoppa. Gli occhi erano azzurri, di quell'azzurro incerto che non tradisce mai il pensiero. Nessuna luce ne sfugge, eppure ci si sente un po' impacciati quando vi guardano. La bocca del professor Schultze era grande, munita di una di quelle doppie schiere di denti formidabili che non abbandonano mai la preda, chiusi in labbra sottili, il cui scopo principale doveva essere quello di numerare le parole che ne potevano uscire. Tutto ciò componeva un insieme inquietante e fastidioso per gli altri, ma il professore ne era visibilmente soddisfattissimo per se stesso.

Al rumore che fece il suo domestico, egli alzò gli occhi al camino, guardò l'ora a una bellissima pendola di Barbedienne, che faceva un singolare contrasto con i mobili volgari che la circondavano, e disse con voce aspra più ancora che rude:

— Le sei e cinquantacinque! Il mio giornale arriva alle sei e trenta al più tardi. Oggi me lo portate con venticinque minuti di ritardo. La prima volta che non sarà sul mio tavolo alle sei e trenta, lascerete il mio servizio alle otto.

— Il signore — chiese il domestico prima di ritirarsi — vuol desinare ora?

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— Sono le sei e cinquantacinque, ed io pranzo alle sette! Lo sapete da tre settimane che siete in casa mia! Ricordatevi pure che io non cambio mai un'ora e che non ripeto mai un ordine.

Il professore depose il giornale sull'orlo del tavolino e si rimise a scrivere una monografia che doveva essere pubblicata due giorni dopo negli «Annalen für Physiologie». Non vi è alcuna indiscrezione nel far sapere che quella monografia era intitolata:

Perché tutti i francesi sono colpiti in diverso grado da degenerazione ereditaria?

Mentre il professore proseguiva il suo lavoro, il desinare, composto d'un gran piatto di salsicce con contorno di cavoli, fiancheggiato da un gigantesco boccale di birra, era stato servito discretamente sopra un tavolino accanto al fuoco. Il professore depose la penna per consumare quel pasto che gustò più di quanto ci si sarebbe attesi da un uomo così serio. Poi suonò il campanello per avere il caffè, accese una grossa pipa di porcellana e si rimise al lavoro.

Era quasi mezzanotte, quando il professore firmò l'ultimo foglio e passò immediatamente nella sua camera da letto per prendervi il ben meritato riposo. Fu soltanto a letto che ruppe la fascia del giornale e ne cominciò la lettura, prima di addormentarsi. Nel momento in cui il sonno sembrava venire, l'attenzione del professore fu attirata da un nome straniero, quello di «Langévol», nella notizia varia relativa alla straordinaria eredità. Ma invano cercò di ricordarsi che cosa rievocava in lui quel nome, non vi riuscì. Dopo alcuni minuti consacrati a questa vana ricerca, gettò via il giornale, spense la candela e poco dopo russava sonoramente.

Tuttavia, per un fenomeno fisiologico che egli stesso aveva studiato e spiegato diffusamente, quel nome di Langévol perseguitò il professor Schultze perfino nei suoi sogni. Tanto che, macchinalmente, svegliandosi il mattino seguente, si trovò a ripeterlo.

All'improvviso, nel momento in cui stava per chiedere al suo orologio che ora fosse, egli fu illuminato da un subitaneo lampo. Gettandosi allora sul giornale, che trovò ai piedi del letto, lesse e rilesse molte volte di seguito, passandosi la mano sulla fronte come

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per concentrarvi le idee, la notizia che la sera prima per poco gli era passata inavvertita. La luce, evidentemente, si faceva nel suo cervello, poiché, senza nemmeno indossare la sua veste da camera a fiorami, corse al camino, staccò un piccolo ritratto in miniatura appeso accanto allo specchio, e, voltandolo, passò la manica sul cartone polveroso che ne formava il retro.

Il professore non si era ingannato. Dietro il ritratto, si leggeva questo nome scritto con un inchiostro giallastro, quasi cancellato da mezzo secolo:

«Thérèse Schultze eingehorene Langévol (Thérèse Schultze, nata Langévol).»

Quella stessa sera, il professore aveva preso il diretto per Londra.

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CAPITOLO IV

DIVISIONE IN DUE

IL 6 NOVEMBRE, alle sette del mattino, Herr Schultze giungeva alla stazione di Charing-Cross. A mezzogiorno, egli si presentava al numero 93, Southampton row, in una grande stanza divisa in due parti da un divisorio di legno - una per i signori scrivani, una per il pubblico - arredata con sei sedie, una tavola nera, innumerevoli contenitori verdi e un indirizzario. Due giovanotti, seduti davanti alla tavola, mangiavano tranquillamente la colazione di pane e formaggio tradizionale in tutti i paesi fra tutti gli scrivani.

— I signori Billows, Green e Sharp? — disse il professore nello stesso tono con il quale chiedeva il suo desinare.

— Il signor Sharp è nel suo studio. Nome? Pratica? — Il professor Schultze di Jena. Pratica Langévol. Il giovane scrivano mormorò queste notizie nel microfono d'un

tubo acustico e ricevette in risposta nell'auricolare una comunicazione che non stette a render pubblica. Essa poteva tradursi così:

— Al diavolo la pratica Langévol! Ancora un pazzo che crede di poter avanzare dei diritti!

Risposta del giovane scrivano: — È un uomo d'aspetto «rispettabile». Non ha l'aria piacevole, ma

non è certamente il primo venuto. Nuova esclamazione misteriosa. — E viene dalla Germania?… — Lo dice, perlomeno. Un sospiro passò attraverso il tubo. — Fate salire. — Secondo piano, la porta di fronte — disse ad alta voce lo

scrivano indicando un passaggio interno.

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Il professore penetrò nel corridoio, sali i due piani e si trovò davanti a una porta imbottita, su cui il nome del signor Sharp era scritto a lettere nere su un fondo d'ottone.

Questo personaggio era seduto davanti a una grande scrivania di mogano, in uno studio volgare con tappeto di feltro, sedie di cuoio e grandi schedari aperti. Egli si sollevò appena dalla sua poltrona, e, secondo l'abitudine cortese di chi lavora in un ufficio, si rimise a sfogliare dei documenti per cinque minuti, assumendo l'aria dell'uomo occupatissimo. Finalmente, voltandosi verso il professor Schultze, che gli si era messo vicino:

— Signore, — disse — vogliate spiegarmi brevemente che cosa vi conduce. Il mio tempo è limitatissimo, ed io non posso concedervi che pochissimi minuti.

Il professore sembrò sorridere, lasciando vedere che si preoccupava molto poco della natura di quell'accoglienza.

— Forse stimerete opportuno concedermi alcuni minuti supplementari, — disse — quando saprete il motivo che mi ha condotto.

— Parlate dunque, signore. — Si tratta della successione di Jean-Jacques Langévol, di Bar-le-

Duc, ed io sono il nipote di sua sorella maggiore, Thérèse Langévol, andata sposa nel 1792 a mio nonno, Martin Schultze, chirurgo nell'esercito di Brunswick e morto nel 1814. Sono possessore di tre lettere del mio prozio scritte a sua sorella, e di molte tradizioni del suo passaggio a casa, dopo la battaglia di Jena, senza contare i documenti debitamente legalizzati che stabiliscono la mia filiazione.

Inutile seguire il professor Schultze nelle spiegazioni che diede al signor Sharp. Fu, contro la sua abitudine, quasi prolisso. È vero ch'era il solo punto su cui era inesauribile. Infatti, si trattava per lui di dimostrare al signor Sharp, inglese, la necessità di far predominare la razza germanica su tutte le altre. Se persisteva nell'idea di reclamare quella successione, era soprattutto per strapparla a mani francesi, che non avrebbero potuto farne che un uso scorretto!… Ciò che detestava nel suo avversario, era soprattutto la sua nazionalità!… Davanti a un tedesco egli non avrebbe certamente insistito, ecc., ecc. Ma l'idea che un preteso scienziato, un francese, potesse impiegare quell'enorme

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capitale a servizio delle idee francesi, lo metteva fuori di sé, e lo obbligava a far valere i suoi diritti fino all'ultimo.

A prima vista, la connessione delle idee poteva non sembrare evidente tra quella digressione politica e la vistosa successione. Ma il signor Sharp era sufficientemente esperto in affari per intuire il rapporto superiore che vi era tra le aspirazioni nazionalistiche della razza germanica in generale e le aspirazioni particolari dell'individuo Schultze verso l'eredità della Begum. Esse erano, in fondo, dello stesso ordine.

Del resto, non vi era dubbio possibile. Per quanto umiliante potesse essere per un professore dell'Università di Jena l'aver rapporti di parentela con persone di razza inferiore, era evidente che un'ava francese aveva la sua parte di responsabilità nella fabbricazione di quel prodotto umano senza uguali. Solamente questa parentela di grado secondario rispetto a quella del dottor Sarrasin, non gli dava pure che diritti secondari alla detta successione. Il solicitor vide tuttavia la possibilità di sostenerle con una certa apparenza di legalità, ed in questa possibilità, egli ne intravide un'altra tutta a vantaggio di Billows, Green e Sharp; quella cioè di trasformare la pratica Langévol, che era già una bella pratica, in una causa magnifica, qualcosa di simile alla famosa «Yarndyce contro Yarndyce» di Dickens. Un orizzonte di carta bollata, di atti, di comparse d'ogni natura si presentò davanti agli occhi del legale. Oppure, il che era meglio, egli pensò ad un compromesso preparato da lui, Sharp, nell'interesse dei suoi due clienti, e che avrebbero portato a lui, Sharp, quasi altrettanto onore quanto profitto.

Frattanto, egli fece conoscere ad Herr Schultze i titoli del dottor Sarrasin e gli diede le prove che li avvaloravano. Inoltre insinuò che, se Billows, Green e Sharp s'incaricavano non di meno di trarre qualche vantaggio per il professore dall'apparenza dei diritti - «apparenze soltanto, mio caro signore, e che, temo, non resisterebbero in un buon processo» - che gli dava la sua parentela col dottore, egli contava che il senso così notevole della giustizia posseduto da tutti i tedeschi avrebbe ammesso che Billows, Green e Sharp avessero pure acquistato, in quell'occasione, diritti d'un ordine differente, ma molto più imperiosi, alla riconoscenza del professore.

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Costui era troppo intelligente per non comprendere la logica del ragionamento dell'uomo d'affari. Gli mise in proposito l'animo in pace, senza tuttavia precisar nulla. Il signor Sharp gli domandò garbatamente il permesso d'esaminare il suo affare con comodo e lo accompagnò con segnalati riguardi; egli non badava più ormai a quei minuti strettamente limitati di cui si diceva così avaro!

Herr Schultze si ritirò convinto di non aver alcun titolo sufficiente da far valere per l'eredità della Begum, ma persuaso tuttavia che una lotta tra la razza sassone e la razza latina, oltre all'esser sempre meritoria, non poteva, s'egli sapeva fare, che tornare a profitto della prima.

L'importante era sondare l'opinione del dottor Sarrasin. Un telegramma mandato immediatamente a Brighton, conduceva verso le cinque lo scienziato francese nello studio del solicitor.

Il dottor Sarrasin apprese, con una calma di cui il signor Sharp si meravigliò, l'incidente avvenuto. Alle prime parole del signor Sharp, egli dichiarò con molta lealtà che infatti si ricordava d'aver inteso parlare tradizionalmente, nella propria famiglia, d'una prozia allevata da una donna ricca e nobile, emigrata con lei, e che aveva preso marito in Germania. Egli non sapeva del resto né il nome, né il grado preciso di parentela di questa prozia.

Il signor Sharp era già ricorso alle sue schede accuratamente catalogate in alcuni contenitori che mostrò con compiacimento al dottore.

C'era là dentro - il signor Sharp non lo dissimulò - materia bastante per un processo, e i processi di questo genere possono facilmente tirare in lungo. A dir vero, non si era obbligati a fare alla parte avversaria la confessione della tradizione di famiglia che il dottor Sarrasin aveva confidato sinceramente al suo solicitor… ma c'erano quelle lettere di Jean-Jacques Langévol a sua sorella, delle quali aveva parlato Herr Schultze, e che costituivano una prova in suo favore. Prova debole veramente, priva di qualsiasi carattere legale, ma infine una prova… Altre prove sarebbero state senza dubbio riesumate dalla polvere degli archivi municipali. Forse addirittura la parte avversaria, in mancanza di documenti autentici, non avrebbe esitato a inventarne degli immaginari. Bisognava

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prevedere tutto! Chi sa mai se nuove investigazioni non avrebbero assegnato anzi a quella Thérèse Langévol, uscita improvvisamente di sotto terra, ed ai suoi rappresentanti presenti, diritti superiori a quelli del dottor Sarrasin?… Ad ogni modo, lunghi battibecchi, lunghe verifiche, soluzione lontana!… Le probabilità di vincer la causa erano grandi dalle due parti, si sarebbe potuto formare facilmente da ogni parte una società in accomandita per anticipare le spese di procedura ed esaurire tutti i mezzi giudici. Un processo celebre del medesimo genere era stato per ottantatré anni consecutivi in Corte di Cancelleria e non era terminato oltre che per mancanza di fondi: interessi e capitale, tutto vi si era consumato!… Inchieste, commissioni, trasporti, procedure, avrebbero richiesto un tempo infinito!… Fra dieci anni la causa avrebbe potuto essere ancora in discussione, e il mezzo miliardo sempre addormentato in Banca… Il dottor Sarrasin ascoltava quelle chiacchiere e si chiedeva quando mai si sarebbero fermate. Senza accettare come Vangelo tutto ciò che udiva, una specie di scoraggiamento s'impadroniva del suo animo. Come un viaggiatore curvo a prua d'una nave vede il porto in cui credeva di dover entrare allontanarsi, poi diventar meno distinto e finalmente sparire, egli diceva a se stesso che non era impossibile che quella ricchezza, poc'anzi così vicina e d'un impiego già pronto, finisse col passare allo stato gassoso e svanire!

— Insomma, che cosa devo fare? — domandò al solicitor. Che fare?… Hem!… Era difficile da stabilire. Più difficile ancora

da eseguire. Ma, infin dei conti, ogni cosa poteva ancora sistemarsi. Lui, Sharp, ne aveva la certezza. La giustizia inglese era un'ottima giustizia - un po' lenta, forse, ne conveniva - sì, decisamente un po' lenta, pede claudo… hem!… hem!… ma proprio per questo più sicura!… Certamente il dottor Sarrasin non poteva mancare entro alcuni anni di essere in possesso di quell'eredità, se tuttavia… hem!… hem!… i suoi titoli fossero stati sufficienti!…

Il dottore uscì dallo studio di Southampton row molto scosso nella propria fiducia e convinto che doveva o cacciarsi in una serie interminabile di processi, oppure rinunciare al suo sogno. Allora, pensando al suo bel progetto filantropico, egli non poteva trattenersi dal provarne un po' di rammarico.

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Frattanto, il signor Sharp mandò a chiamare il professor Schultze, il quale gli aveva lasciato il proprio indirizzo. Gli annunciò che il dottor Sarrasin non aveva mai sentito parlare di una Thérèse Langévol, contestava formalmente l'esistenza d'un ramo tedesco della famiglia e rifiutava qualsiasi transazione. Non rimaneva dunque al professore, s'egli credeva che i suoi diritti fossero ben fondati, che «adire le vie legali». Il signor Sharp, che metteva in questo incarico un disinteresse assoluto, una vera curiosità da amatore, non aveva certamente l'intenzione di dissuaderlo. Che poteva chiedere un solicitor se non un processo, dieci processi, trent'anni di processi, come la causa sembrava comportare? Lui, Sharp, personalmente ne era estasiato. Se non avesse temuto di fare al professor Schultze un'offerta sospetta da parte sua, egli avrebbe spinto il disinteresse fino ad indicargli uno dei suoi confratelli che egli avrebbe potuto incaricare dei suoi interessi… E certamente la scelta era importante! La carriera legale era diventata una vera strada maestra!… Gli avventurieri ed i briganti erano numerosissimi!… Egli doveva constatarlo col rossore alla fronte!…

— Se il dottore francese volesse venire ad un accomodamento, quanto costerebbe? — domandò il professore.

Uomo saggio, le parole non potevano stordirlo! Uomo pratico, andava dritto allo scopo senza perdere, per via, del tempo prezioso! Il signor Sharp fu un po' sconcertato da quel modo d'agire. Egli fece presente a Herr Schultze che gli affari non procedevano così in fretta; che non se ne poteva prevedere la fine quando si era al principio; che per indurre il signor Sarrasin a un accomodamento, bisognava tirar un po' in lungo le cose per non lasciargli capire che lui, Schultze, era già pronto ad una transazione.

— Ve ne prego, signore, — concluse — lasciatemi fare, rimettetevi a me e io rispondo di tutto.

— Anch'io, — rispose Schultze — ma gradirei sapere come regolarmi. Tuttavia, egli non poté, questa volta, far dire al signor Sharp a quale cifra il solicitor valutasse la riconoscenza sassone, e dovette lasciargli carta bianca.

Quando il dottor Sarrasin, richiamato sin dal giorno seguente dal signor Sharp, gli domandò tranquillamente se avesse qualche notizia

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seria da dargli, il solicitor, preoccupato da quella stessa tranquillità, lo informò che un attento esame lo aveva convinto che la cosa migliore forse sarebbe stata di troncare il male alla radice, e di proporre una transazione a quel nuovo pretendente. Era, il dottor Sarrasin doveva convenirne, un consiglio essenzialmente disinteressato e che pochissimi solicitors avrebbero dato al posto del signor Sharp! Ma egli impegnava il suo amor proprio nel sistemare rapidamente quella faccenda, che considerava con occhi quasi paterni.

Il dottor Sarrasin ascoltava quei consigli e li trovava relativamente saggi. Si era tanto abituato da qualche giorno all'idea di realizzare immediatamente il proprio sogno scientifico, che subordinava tutto a quel progetto. Aspettare dieci anni o un anno solo prima di poterlo eseguire sarebbe stato ormai per lui un crudele disinganno. Poco familiarizzato del resto con le questioni legali e finanziarie, e senza lasciarsi abbindolare dalle belle parole di mastro Sharp, egli avrebbe rinunciato volentieri a tutti i propri diritti per una bella somma pagata in contanti che gli permettesse di passare dalla teoria alla pratica. Anch'egli dunque diede carta bianca al signor Sharp e se ne andò.

Il solicitor aveva ottenuto quello che voleva. Era ben vero che un altro avrebbe forse ceduto, al suo posto, alla tentazione di avviare e di tirare in lungo delle procedure destinate a diventare, per il suo studio, una grossa rendita vitalizia. Ma il signor Sharp non era di quelli che fanno speculazioni a lunga scadenza. Gli si presentava il modo facile di fare in un colpo solo una messe abbondante, ed aveva deciso di non lasciarselo scappare. Il giorno seguente, egli scrisse al dottore lasciandogli intravedere che Herr Schultze non sarebbe stato forse del tutto contrario a un'idea d'accomodamento. Durante nuove visite fatte da lui, sia al dottor Sarrasin, sia a Herr Schultze, diceva alternativamente all'uno e all'altro che la parte avversaria non voleva assolutamente saperne, e che, per giunta, si parlava di un terzo candidato allettato dall'odore…

Quel gioco durò otto giorni. Tutto andava bene la mattina, e alla sera sorgeva improvvisamente un'obiezione imprevista che scompigliava tutto. Per il buon dottore non erano più che trappole, esitazioni, fluttuazioni. Il signor Sharp non poteva decidersi a tirar

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l'amo, tanto temeva che all'ultimo momento il pesce si dibattesse e spezzasse la lenza. Ma tante precauzioni erano, in questo caso, superflue. Fin dal primo giorno, come aveva detto, il dottor Sarrasin, che voleva anzitutto risparmiarsi i fastidi di un processo, era stato pronto a venire ad un accomodamento. Quando finalmente il signor Sharp credette che il momento psicologico, secondo l'espressione celebre, fosse arrivato, o che, nel suo linguaggio meno nobile, il suo cliente fosse «cotto al punto giusto», egli smascherò di colpo le proprie batterie e propose una transazione immediata.

Si presentava un uomo benefico, il banchiere Stilbing, che offriva di favorire la transazione fra le parti, di contare ad ognuna duecentocinquanta milioni e di prendere, a titolo di commissione, solo l'eccedenza del mezzo miliardo, ossia ventisette milioni.

Il dottor Sarrasin avrebbe abbracciato volentieri il signor Sharp quando venne a fargli quest'offerta che, in sostanza, gli sembrava ancora magnifica. Egli era pronto a firmare, non chiedeva che di firmare, e per giunta avrebbe dedicato statue d'oro al banchiere Stilbing, al solicitor Sharp, a tutta l'alta banca e a tutti gli avvocati del Regno Unito.

Gli atti erano redatti, i testimoni radunati, le macchine bollatrici di Somerset House pronte a entrare in funzione. Herr Schultze si era arreso. Messo dal detto Sharp con le spalle al muro, egli aveva potuto assicurarsi fremendo che, con un avversario meno facile del dottor Sarrasin, sarebbe rimasto certamente con le pive nel sacco. In breve la cosa fu finita. Contro loro mandato formale e accettazione d'una divisione uguale, i due eredi ricevettero ognuno un assegno di centomila lire sterline, pagabili a vista, e promesse di saldo definitivo, subito dopo il compimento delle formalità legali.

Così si concluse, a maggior gloria della superiorità anglo-sassone, quello stupefacente affare.

Si assicura che quella stessa sera, cenando al Cobden-Club col suo amico Stilbing, il dottor Sharp bevette un bicchiere di champagne alla salute del dottor Sarrasin, un altro alla salute del professor Schultze, e si lasciò andare, vuotando la bottiglia, ad esclamare indiscretamente:

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— Evviva!… Rule, Britannia!2… Non ci siamo che noi!… Per la verità il banchiere Stilbing considerava il suo ospite come

un povero diavolo che si era lasciato scappare per ventisette milioni un affare di cinquanta, e, in fondo, il professore pensava la stessa cosa, infatti, che lui, Herr Schultze, si sentiva costretto ad accettare qualsiasi accomodamento! E che cosa non si sarebbe potuto fare con un uomo come il dottor Sarrasin, un celtico, leggero, volubile, e certamente visionario?

Il professore aveva sentito parlare del progetto del suo rivale di fondare una città francese in condizioni di igiene morale e fisica atte a sviluppare tutte le qualità della razza e a formare giovani generazioni forti e coraggiose. Quell'impresa gli sembrava assurda, e, secondo lui, doveva fallire, come contraria alla legge del progresso che decretava la dissoluzione della razza latina, il suo asservimento della razza sassone, e in seguito la sua scomparsa totale dalla superficie del globo. Tuttavia questi risultati potevano essere tenuti in scacco se il programma del dottore aveva un inizio di realizzazione, e a maggior ragione se si poteva credere alla sua riuscita. Era dunque dovere di ogni sassone, nell'interesse dell'ordine generale e per obbedire a una legge ineluttabile, di annientare, se possibile, un'impresa così pazza. E nelle circostanze presenti, era chiaro che lui, Schultze, M. D. privat docent di chimica all'Università di Jena, conosciuto per i suoi numerosi lavori comparati sulle diverse razze umane - lavori nei quali era dimostrato che la razza germanica doveva assorbirle tutte - era chiaro infine che egli era particolarmente designato dalla gran forza costantemente creativa e distruttiva della natura, per annientare quei pigmei che le si ribellavano. Da tempo immemorabile era stato decretato che Thérèse Langévol avrebbe sposato Martin Schultze, e che un giorno trovandosi le due nazionalità l'una di fronte all'altra nelle persone del dottore francese e del professore tedesco, questo schiaccerebbe quello. Egli aveva già in mano una metà della ricchezza del dottore. Era lo strumento che gli era necessario.

2 Alla lettera: Governa, Britannia…, prime parole di un canto patriottico inglese che viene spesso menzionato per alludere all'imperialismo britannico. (N.d.T.)

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Del resto, questo progetto era del tutto secondario per Herr Schultze; esso non faceva che aggiungersi a quelli, molto più vasti, che egli concepiva per la distruzione di tutti i popoli che avessero rifiutato di fondersi con il popolo germanico e di riunirsi al Vaterland. Tuttavia volendo conoscere a fondo - ammesso che potessero avere un fondo - i piani del dottor Sarrasin, di cui era già il nemico implacabile, egli si fece ammettere al Congresso internazionale d'Igiene e ne frequentò assiduamente le sedute. Fu uscendo da quell'assemblea che alcuni membri, fra i quali si trovava anche il dottor Sarrasin, lo udirono un giorno fare questa dichiarazione: che contemporaneamente a France-Ville sarebbe sorta una città forte che non avrebbe lasciato sussistere quel formicaio assurdo e anormale.

— Spero — egli aggiunse — che l'esperimento che faremo servirà d'esempio al mondo!

Il buon dottor Sarrasin, per quanto fosse pieno d'amore per l'umanità, non aveva certo bisogno di imparare che non tutti i suoi simili meritavano il nome di filantropi. Egli prese debita nota di quelle parole del suo rivale, pensando, da uomo di buon senso, che nessuna minaccia dovesse essere trascurata. Qualche tempo dopo, scrivendo a Marcel per invitarlo a aiutarlo nella sua impresa, gli raccontò quest'incidente e gli fece un ritratto di Herr Schultze che fece pensare al giovane alsaziano che il buon dottore avrebbe avuto in lui un duro avversario. E siccome il dottore aggiungeva:

«Avremo bisogno di uomini forti ed energici, di scienziati operosi, non solo per costruire, ma per difendere», Marcel gli rispose:

«Se non posso darvi immediatamente il mio apporto per la fondazione della vostra città, fate tuttavia assegnamento sul mio aiuto in caso di necessità. Non perderò di vista un solo giorno questo Herr Schultze. Il fatto di essere alsaziano mi dà il diritto di occuparmi delle sue faccende. Vicino o lontano, vi sono totalmente devoto. Se, per un caso straordinario, rimaneste qualche mese o anche qualche anno senza udir parlare di me, non preoccupatevene. Da lontano come da vicino, non avrò che un pensiero: lavorare per voi, e per conseguenza, servire la Francia».

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CAPITOLO V

LA CITTÀ DELL'ACCIAIO

I LUOGHI e i tempi sono cambiati. Da cinque anni l'eredità della Begum è nelle mani dei due eredi, e la scena è trasportata ora negli Stati Uniti, nell'Oregon Meridionale, a dieci leghe dal litorale del Pacifico. Là si estende un distretto ancora incerto, mal delimitato fra le due potenze limitrofe, e che forma come una specie di Svizzera americana.

Svizzera, infatti, se non si considera che l'aspetto esteriore delle cose: i picchi scoscesi che si ergono verso il cielo, le valli profonde separate da lunghe catene di rilievi, l'aspetto grandioso e selvaggio di tutti i luoghi visti a volo d'uccello.

Ma questa falsa Svizzera, non è, come la Svizzera europea, dedita alle industrie pacifiche del pastore, della guida e dell'albergatore. È soltanto uno scenario alpestre, una crosta di rocce, terra e pini secolari, posata sopra un blocco di ferro e di carbon fossile.

Se il turista che si ferma in quelle solitudini, porge l'orecchio ai rumori della natura, non sente, come nei sentieri dell'Oberland, il mormorio armonioso della natura misto al gran silenzio della montagna. Ma percepisce in lontananza i sordi colpi del maglio e, sotto i suoi piedi, le detonazioni soffocate della polvere da sparo. Sembra che il suolo sia allestito come i retroscena di un teatro, che quelle rocce gigantesche risuonino vuote e che possano da un momento all'altro inabissarsi in profondità misteriose.

Le strade, asfaltate di cenere e di carbone, si svolgono sui fianchi delle montagne. Sotto i ciuffi d'erba giallognola, mucchietti di scorie di tutti i colori del prisma, brillano come occhi di basilisco. Qua e là un vecchio pozzo di miniera abbandonato, rovinato dalle piogge, ingombro di rovi, apre la sua gola spalancata, abisso senza fondo, simile al cratere di un vulcano spento. L'aria è impregnata di fumo e

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pesa come un mantello cupo sulla zona; non un uccello la traversa, anche gli insetti sembrano fuggirla, e a memoria d'uomo non vi si è vista mai una farfalla.

Falsa Svizzera! Al suo confine nord, là dove i contrafforti vengono a fondersi con la pianura, si apre, fra due catene di brulle colline, quello che si chiamava fino al 1871 il «deserto rosso», a causa del colore del suolo, tutto impregnato di ossidi di ferro e che ora si chiama Stahlfield, «il campo d'acciaio».

S'immagini un altipiano di cinque o sei leghe quadrate, con suolo sabbioso, disseminato di ciottoli, arido e desolato come il fondo di qualche antico mare interno. Per animare questa landa, per darle la vita ed il movimento, la natura non aveva fatto nulla; ma l'uomo ha spiegato all'improvviso un'energia ed un vigore impareggiabili.

Sulla pianura nuda e rocciosa, in cinque anni, sono sorti diciotto villaggi d'operai, con piccole case di legno uniformi e grigie, costruzioni prefabbricate fatte arrivare da Chicago e contenenti una numerosa popolazione di validi operai.

È al centro di quei villaggi, proprio ai piedi delle Coals-Butts, inesauribili montagne di carbone fossile, che sorge una massa cupa, colossale, bizzarra, un agglomerato di edifici regolari, in cui si aprono finestre simmetriche, coperti di tetti rossi, sormontati da una foresta di ciminiere cilindriche che vomitano dalle loro mille bocche torrenti continui di vapori fuligginosi. Il cielo ne è velato come da una cortina nera, sulla quale passano ad intervalli rapidi lampi rossi. Il vento porta un brontolio lontano, simile a quello del tuono o al fragore delle onde lunghe, ma più regolare e più grave.

Questo insieme è Stahlstadt, la Città dell'Acciaio, la città tedesca, la proprietà personale di Herr Schultze, l'ex professore di chimica di Jena, diventato, grazie ai milioni della Begum, il più gran industriale del ferro, e in particolare, il più gran fonditore di cannoni dei due mondi.

Egli ne fonde, infatti, di tutte le forme e d'ogni calibro, ad anima liscia e rigata, a culatta mobile e a culatta fissa, per la Russia e per la Turchia, per la Romania e per il Giappone, per l'Italia e per la Cina, ma soprattutto per la Germania.

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Grazie alla potenza d'un capitale enorme, uno stabilimento mostruoso, una vera città, che è nel medesimo tempo un'officina modello, è uscita da terra come per un colpo di bacchetta magica. Trentamila operai, per lo più tedeschi d'origine, sono venuti a raggrupparsi intorno ad essa ed a formarne i sobborghi. In pochi mesi i suoi prodotti hanno dovuto alla loro schiacciante superiorità una fama universale.

Il professore Schultze estrae il minerale di ferro ed il carbone dalle proprie miniere. Sul posto li trasforma in acciaio fuso. Sul posto, ne fa cannoni.

Ciò che nessuno dei suoi concorrenti può fare, egli riesce a compierlo. In Francia, si ottengono lingotti d'acciaio di quarantamila chilogrammi; in Inghilterra si è fabbricato un cannone di ferro battuto di cento tonnellate; ad Essen, il signor Krupp è riuscito a fondere dei blocchi d'acciaio di cinquecentomila chilogrammi; Herr Schultze non conosce limiti: chiedetegli un cannone d'un peso qualsiasi e di qualsivoglia potenza, ed egli vi darà quel cannone, lucente come un soldo da zecca, nei termini convenuti.

Certo che ve lo farà pagare! Pare che i duecentocinquanta milioni del 1871 non abbiano fatto che mettergli appetito.

Nell'industria pesante, come in ogni altra cosa, si è molto forti quando si può fare ciò che gli altri non possono. Non c'è che dire, non solo i cannoni di Herr Schultze raggiungono dimensioni senza precedenti, ma, se sono suscettibili di deteriorazioni con l'uso, non scoppiano mai. L'acciaio di Stahlstadt sembra dotato di proprietà speciali. Corrono in proposito leggende di leghe misteriose, di segreti chimici. Ciò che vi è di certo è che nessuno ne sa nulla.

Ciò che vi è pure di certo è che a Stahlstadt il segreto è conservato con gelosa premura.

In quell'angolo remoto dell'America settentrionale, circondato da deserti, isolato dal mondo da un bastione di montagne situate a cinquecento miglia dai piccoli agglomerati urbani più vicini, si cercherebbe invano qualche traccia di quella libertà che ha fondato la potenza della Repubblica degli Stati Uniti.

Giungendo sotto le muraglie di Stahlstadt, non cercate di valicare una delle porte massicce che tagliano di tratto in tratto la linea dei

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fossati e delle fortificazioni. La consegna più spietata vi respingerebbe; bisogna scendere in uno dei sobborghi. Entrerete nella Città dell'Acciaio solo avendo la formula magica, la parola d'ordine, o almeno un permesso debitamente timbrato, firmato e vistato.

Questo permesso, un giovane operaio che giungeva a Stahlstadt, una mattina di novembre, lo possedeva senza dubbio, poiché, dopo aver lasciato alla locanda una valigetta di cuoio logora, egli si diresse a piedi verso la porta più vicina del villaggio.

Era un giovanottone, di solida costituzione, vestito alla buona, alla maniera dei pionieri americani, con un camiciotto largo, una camicia di lana senza collo e pantaloni di velluto a coste cacciati entro grossi stivali. Portava calato sulla faccia un largo cappello di feltro, come per meglio nascondere la polvere di carbone di cui era insudiciata la sua pelle, e camminava con passo elastico, sfiocchettando nella barba scura.

Giunto alla sportello, quel giovanotto mostrò al capoposto un foglio stampato e fu subito ammesso.

— Il vostro ordine porta l'indirizzo del caporeparto Seligmann, sezione K, via IX, laboratorio 743 — disse il sottufficiale. — Dovete seguire soltanto il camminamento di ronda, alla vostra destra, fino al limite K, e presentarvi al portinaio… sapete il regolamento? Sarete espulso se entrate in un settore che non sia il vostro, — aggiunse mentre il nuovo venuto si allontanava.

Il giovane operaio seguì la direzione che gli era stata indicata e si avviò per il camminamento di ronda. A destra si apriva un fossato, sulla sponda del quale passeggiavano delle sentinelle. A sinistra, fra la larga via circolare e la massa degli edifici, si disegnava dapprima il doppio binario di una ferrovia di circonvallazione; poi sorgeva una seconda muraglia simile all'esterna: questa era la configurazione della Città dell'Acciaio.

Era quella di una circonferenza i cui settori, limitati a mo' di raggi da una linea fortificata, erano perfettamente indipendenti gli uni dagli altri, sebbene circondati da un muro e da un fossato comuni.

Il giovane operaio giunse poco dopo al limite K, posto all'estremità della via, in faccia ad una porta monumentale"

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sormontata dalla medesima lettera scolpita in pietra, e si presentò al portiere.

Questa volta, invece d'aver a che fare con un militare, si trovava in presenza di un invalido dalla gamba di legno e col petto coperto di medaglie.

L'invalido esaminò il foglio, vi appose un nuovo timbro e disse: — Sempre dritto, Nona via a sinistra. Il giovanotto superò quella seconda linea fortificata e si trovò

finalmente nel settore K. La via che sbucava dalla porta ne formava l'asse. Da ogni lato si allungavano ad angolo retto delle file di costruzioni uniformi.

Il fracasso delle macchine era allora assordante. Quegli edifici grigi in cui si aprivano migliaia di finestre, sembravano mostri viventi piuttosto che cose inerti. Ma il nuovo venuto era senza dubbio avvezzo a simile spettacolo, poiché non vi badò minimamente.

In cinque minuti egli ebbe trovata la via IX, il laboratorio 743, e giunse in un piccolo ufficio pieno di schedari e di registri, alla presenza del caporeparto Seligmann.

Questi prese il foglio timbrato di tutti i visti, lo verificò, e guardando il giovane operaio:

— Volete fare il puddellatore?… — domandò. — Mi sembrate molto giovane!

— L'età non conta — rispose l'altro. — Avrò presto ventisei anni, ed ho già puddellato per sette mesi… Se la cosa v'interessa, posso mostrarvi i certificati di presentazione con i quali sono stato assunto a New York dal capo del personale.

Il giovanotto parlava il tedesco non senza facilità, ma con un leggero accento che parve destare le diffidenze del caporeparto.

— Siete forse alsaziano? — gli domandò. — No, sono svizzero… di Sciaffusa. Eccovi tutte le mie carte in

piena regola. Estrasse da un portafoglio di cuoio e mostrò al caporeparto un

passaporto, un libretto e dei certificati.

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— Va bene. In fin dei conti, siete assunto e a me non rimane che indicarvi il vostro posto — soggiunse Seligmann rassicurato da quella presentazione di documenti ufficiali.

Scrisse in un registro il nome di Johann Schwartz, che copiò dal foglio di assunzione, consegnò al giovanotto una carta azzurra col suo nome portante il numero 57.938, ed aggiunse:

— Dovete essere alla porta K tutte le mattine alle sette, presentare questa carta che vi avrà permesso di superare la cinta esterna, prendere dalla rastrelliera della guardiola un gettone di presenza col vostro numero di matricola e mostrarmelo arrivando. Alle sette di sera, uscendo, lo gettate in una bussola messa alla porta del laboratorio che non è aperta se non in quel momento.

— Conosco il sistema… Si può abitare all'interno della cinta? — domandò Schwartz.

— No. Dovete procurarvi un'abitazione all'esterno, ma potrete mangiare alla cantina del laboratorio per un prezzo molto modico. Il vostro salario è di un dollaro al giorno all'inizio. Esso cresce d'un ventesimo al trimestre… L'espulsione è l'unica pena. È pronunciata da me in prima istanza, e dall'ingegnere in appello, per qualsiasi infrazione al regolamento… Cominciate oggi?

— Perché no? — Sarà solo una mezza giornata, — fece osservare il caporeparto

guidando Schwartz verso una galleria interna. Entrambi seguirono un largo corridoio, attraversarono un cortile

ed entrarono in un'ampia sala, simile, per le dimensioni come per la disposizione della leggera armatura, alla tettoia di una stazione di prima classe. Schwartz, misurandola in un'occhiata, non poté trattenere un atto di ammirazione professionale.

Da ogni lato di quella lunga sala, due ordini di enormi colonne cilindriche, grandi, in diametro e in altezza, come quelle di S. Pietro a Roma, si elevavano dal pavimento fino alla volta di vetro, che attraversavano da parte a parte. Erano le ciminiere di altrettanti forni da puddellaggio rivestiti in muratura alla base. Ce n'erano cinquanta per ogni fila.

Ad una delle estremità, alcune locomotive conducevano ad ogni istante treni di vagoni carichi di lingotti di ghisa che venivano ad

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alimentare i forni. All'altra estremità, treni di vagoni vuoti ricevevano e trasportavano via la ghisa trasformata in acciaio.

L'operazione del puddellaggio consiste esattamente nel compiere questa metamorfosi. Squadre di ciclopi seminudi, armati di un lungo raffio di ferro, vi si dedicavano alacremente.

I lingotti di ghisa, gettati in un forno foderato con un rivestimento di scorie, vi erano dapprima portati ad un'alta temperatura. Per ottenere del ferro, si sarebbe cominciato a rimescolare quella ghisa appena fosse diventata pastosa. Per ottenere dell'acciaio, questa lega di ferro e carbonio, così simile eppure tanto distinta per le sue proprietà dal suo congenere, si aspettava che la ghisa fosse fluida e si aveva cura di mantenere nei forni un calore più forte. Il puddellatore allora, con l'estremità del suo raffio, impastava e rotolava in tutti i sensi la massa metallica; la voltava e la rivoltava in mezzo alla fiamma; poi, nel momento preciso in cui essa raggiungeva, mescolandosi con le scorie, un certo grado di resistenza, la divideva in quattro palle o masselli spugnosi che consegnava ad uno ad uno agli aiutanti martellatori.

L'operazione proseguiva nell'asse stesso della sala. Davanti ad ogni forno e in sua corrispondenza un maglio, azionato dal vapore di una caldaia verticale sistemata nella stessa ciminiera, teneva impegnato un operaio fucinatore. Protetto dalla testa ai piedi da stivali e bracciali di latta e da uno spesso grembiule di cuoio, con una maschera in rete metallica, quel corazziere dell'industria afferrava con l'estremità delle sue lunghe tenaglie il massello incandescente e lo sottoponeva al maglio. Battuto e ribattuto sotto il peso di quell'enorme massa, esso espelleva come una spugna tutte le materie impure di cui era impregnato, fra una pioggia di scintille e di schegge.

Il corazziere lo rendeva poi agli aiutanti perché lo rimettessero nel forno, e per ribatterlo di nuovo, una volta riscaldato.

Nell'immensità di quella mostruosa fucina, era un movimento incessante, cascate infinite di cinghie, colpi sordi con accompagnamento di ruggiti continui, fuochi artificiali di scintille rosse, bagliori accecanti di forni scaldati a bianco. In mezzo a quei

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brontolii e a quei furori della materia domata, l'uomo sembrava quasi un fanciullo.

Pure, erano dei pezzi di giovanotti quei puddellatoti! Impastare a braccia tese, sotto una temperatura torrida, una pasta metallica di duecento chilogrammi, rimanere per molte ore con gli occhi fissi su quel ferro incandescente che acceca, è un regime terribile che logora un uomo in dieci anni.

Schwartz, come per mostrare al caporeparto che era capace di sopportarlo, si tolse il camiciotto e la camicia di lana, e, mostrando un torso da atleta, sul quale i muscoli disegnavano tutte le loro giunzioni, prese il raffio che uno dei puddellatori stava usando e cominciò a servirsene.

Vedendo che egli eseguiva benissimo il suo lavoro, il caporeparto non tardò a lasciarlo per rientrare nel proprio ufficio.

Il giovane operaio continuò, fino all'ora di cena, a puddellare la ghisa. Ma, sia che mettesse troppo ardore nel lavoro, sia che avesse trascurato quel mattino di prendere il pasto sostanzioso che richiede un simile impiego di forza fisica, apparve in breve stanco e sfinito. Sfinito al punto che il caposquadra se ne avvide.

— Voi non siete fatto per puddellare, ragazzo mio, — gli disse — e fareste meglio a chiedere subito un cambiamento di settore, che non vi sarà concesso più tardi.

Schwartz protestò. Non era che stanchezza passeggera! Egli poteva puddellare esattamente come qualsiasi altro!…

Il caposquadra ad ogni modo fece il suo rapporto, e il giovanotto fu immediatamente chiamato dall'ingegnere capo.

Costui esaminò le sue carte, scrollò il capo e gli domandò con tono da inquisitore:

— Eravate puddellatore a Brooklyn? Schwartz, abbassò gli occhi tutto confuso.

— Vedo bene che bisogna confessarlo — disse. — Ero addetto alla colata, ed è nella speranza d'aumentare il mio salario che ho voluto provare il puddellaggio!

— Siete tutti uguali! — rispose l'ingegnere stringendosi nelle spalle. — A venticinque anni pretendete di sapere quello che un

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uomo di trentacinque non fa che eccezionalmente!… Siete buon fonditore almeno?

— Ero da due mesi nella prima classe. — Avreste fatto meglio a restarvi, in tal caso! Qui, comincerete

con l'entrare nella terza. E potete stimarvi ancora fortunato che vi faciliti questo cambiamento di settore!

L'ingegnere scrisse alcune parole su un lasciapassare, mandò un telegramma e disse:

— Restituite il vostro gettone, uscite dalla divisione e andate direttamente al settore O, ufficio dell'ingegnere capo. È avvertito.

Le stesse formalità che avevano bloccato Schwartz alla porta del settore K lo accolsero al settore O. Là, come era avvenuto quel mattino, egli fu interrogato, accettato, indirizzato a un capo officina, il quale lo introdusse in una sala di fusione. Ma qui il lavoro era più silenzioso e più metodico.

— Non è che una piccola galleria per la fusione dei pezzi da 42 — gli disse il caporeparto. — Soltanto gli operai di prima classe sono ammessi nelle sale dove si gettano i grossi cannoni.

La «piccola» galleria aveva non meno di cinquanta metri di lunghezza, per sessantacinque di larghezza. In essa si dovevano, secondo Schwartz, riscaldare almeno seicento crogiuoli, in gruppi di quattro, di otto o di dodici, secondo le loro dimensioni, nei forni laterali.

Le forme destinate a ricevere l'acciaio fuso erano distese lungo l'asse della galleria, in fondo a un canale mediano. Da ogni lato del canale, una linea di binari portava una gru mobile che, muovendosi a volontà, veniva a operare là dove era necessario lo spostamento di quegli enormi pesi. Come nelle sale di puddellaggio, a un'estremità sbucava la ferrovia che portava i blocchi di acciaio fuso, all'altra quella che portava via i cannoni usciti dalla forma.

Accanto ad ogni forma, un uomo munito di un'asta di ferro sorvegliava la temperatura allo stato di fusione nei crogiuoli.

I procedimenti che Schwartz aveva visto mettere in opera altrove erano portati là ad un particolare grado di perfezione.

Venuto il momento di effettuare una colata, un campanello d'avvertimento dava il segnale a tutti i sorveglianti di fusione. Subito,

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con passo uguale, e rigorosamente misurato, alcuni operai della stessa statura, che reggevano sulle spalle una sbarra di ferro orizzontale, venivano a mettersi a due a due davanti ad ogni forno.

Un ufficiale munito di un fischietto, con in mano il cronometro a frazioni di secondo si portava presso la forma, adeguatamente piazzata vicino a tutti i forni in azione. Da ogni lato, dei condotti di terra refrattaria, coperti di lamiera, convergevano, scendendo in leggero pendio, fino ad un recipiente ad imbuto posto direttamente al disopra della forma. Il comandante dava un fischio. Subito, un crogiuolo, tolto dal fuoco mediante una tenaglia, veniva sospeso alla sbarra di ferro dei due operai, fermi davanti al primo forno. Il fischietto cominciava allora una serie di modulazioni, ed i due uomini iniziavano con regolarità a vuotare il contenuto del loro crogiuolo nel condotto corrispondente. Poi gettavano in un bacino il recipiente vuoto e ardente.

Senza interruzioni, a intervalli esattamente calcolati, affinché la colata fosse assolutamente regolare e costante, la squadra degli altri forni agiva successivamente negli stessi tempi.

La precisione era così straordinaria, che al decimo di secondo fissato dall'ultimo movimento, l'ultimo crogiuolo era vuoto e buttato nel bacino. Quella manovra perfetta sembrava più il risultato d'un meccanismo cieco che quello della collaborazione di cento volontà umane. Pure, una disciplina inflessibile, la forza dell'abitudine e la potenza di una battuta musicale erano i fattori che cooperavano alla realizzazione di questo miracolo.

Schwartz sembrava avere familiarità con un simile spettacolo. Fu ben presto accoppiato a un operaio della sua statura, provato in una colata poco importante e riconosciuto ottimo artigiano. Il suo caposquadra, alla fine della giornata, gli promise persino un rapido avanzamento.

Egli, frattanto, appena uscito, alle sette di sera, dal settore O e dalla cinta esterna, era andato a riprendere la sua valigia alla locanda. Seguì allora una delle vie esterne, e giungendo ben presto a un gruppo di abitazioni che aveva notato la mattina, trovò facilmente un alloggio in casa d'una brava donna che «riceveva pensionanti».

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Ma quel giovane operaio non fu visto andare, dopo cena, in cerca d'una birreria. Si chiuse nella propria camera, si tolse di tasca un frammento d'acciaio raccolto senza dubbio nella sala di puddellaggio, ed un frammento di terra da crogiuolo raccolto nel settore O; poi li esaminò con cura particolare, alla luce d'una lampada fumosa.

Prese quindi nella sua valigia un grosso quaderno rilegato in cartone, ne sfogliò le pagine piene di note, di formule e di calcoli, e scrisse quanto segue in buon francese, ma, per maggior precauzione, in una lingua cifrata nota a lui solo:

«10 novembre. — Stahlstadt. - Non vi è nulla di particolare nel sistema di puddellaggio, tranne, ben inteso, la scelta di due temperature diverse e relativamente basse per il primo e il secondo riscaldamento, secondo le regole determinate da Chernoff. Quanto alla colata, essa è fatta secondo il procedimento Krupp, ma con una sincronia di movimenti veramente meravigliosa. Questa precisione nella manovra è la gran forza tedesca. Essa procede dal sentimento musicale innato nella razza germanica. Gli inglesi non potranno mai raggiungere questa perfezione: manca loro l'orecchio, se non la disciplina. I francesi possono riuscirvi facilmente, infatti sono i primi ballerini del mondo. Fin qui dunque, nulla di misterioso nei successi così notevoli di questa fabbricazione. I campioni di minerale che ho raccolti nella montagna sono analoghi ai nostri ferri di buona qualità. I campioni di carbone sono certamente bellissimi e di qualità eminentemente metallurgica, ma non hanno nulla di anormale. Non vi è dubbio che il sistema di fabbricazione Schultze si preoccupi soprattutto di sbarazzare queste materie prime da qualsiasi miscuglio estraneo e che non le impieghi se non allo stato di purezza perfetta. Ma anche questo è un risultato facile da ottenere. Non rimane dunque, per essere in possesso di tutti gli elementi del problema, che determinare la composizione della terra refrattaria di cui sono fatti i crogiuoli e i condotti di colata. Raggiunto questo risultato e convenientemente istruite le nostre squadre di fonditori, non vedo perché non potremmo fare quello che si fa qui! Con tutto ciò, non ho ancora visto che due settori, e ce ne sono almeno ventiquattro, senza contare l'organismo centrale, il dipartimento dei piani e dei modelli,

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lo studio segreto! Che cosa si può tramare in quella caverna? Che cosa devono temere i nostri amici dopo le minacce formulate da Herr Schultze quando entrò in possesso della sua eredità?».

Formulati questi interrogativi, Schwartz, piuttosto stanco della sua giornata, si svestì, si infilò in un lettino scomodo quanto può esserlo un letto tedesco - il che è dir molto - accese una pipa e si mise a fumare leggendo un vecchio libro. Ma il suo pensiero sembrava lontano. Sulle sue labbra i piccoli getti di vapore profumato si succedevano in cadenza e seguivano questo ritmo:

— Peuh!… Peuh!… Peuh!… Peuh!… Egli finì col deporre il libro e rimase a lungo pensieroso, come

assorto nella soluzione d'un problema difficile. — Ah! — esclamò finalmente. — Quand'anche vi si immischiasse

il diavolo in persona, scoprirò il segreto di Herr Schultze, e soprattutto che cosa egli può meditare contro France-Ville!

Schwartz si addormentò pronunciando il nome del dottor Sarrasin; ma nel suo sonno fu il nome della piccola Jeanne, che gli tornò sulle labbra. Il ricordo della giovinetta era rimasto integro, benché Jeanne, da quando egli l'aveva lasciata, si fosse fatta una fanciulla. Questo fenomeno si spiega facilmente con le leggi comuni dell'associazione delle idee: l'idea del dottore racchiudeva quella di sua figlia, associazione per contiguità. Perciò, quando Schwartz, o piuttosto Marcel Bruckmann, si svegliò, avendo ancora in mente il nome di Jeanne, non se ne stupì e vide in questo fatto una nuova prova dell'eccellenza dei principi psicologici di Stuart Mill.

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CAPITOLO VI

IL POZZO ALBRECHT

LA SIGNORA BAUER, la brava donna che ospitava Marcel Bruckmann, svizzera di nascita, era la vedova di un minatore rimasto ucciso quattro anni prima in uno di quei cataclismi che fanno della vita del minatore una battaglia continua. La fabbrica le passava una piccola pensione annua di trenta dollari, a cui ella aggiungeva la scarsa rendita d'una camera ammobiliata e il salario che le portava tutte le domeniche il suo figlioletto Carl.

Benché avesse solo tredici anni, Carl era utilizzato nella miniera per chiudere e aprire, al passaggio dei vagoncini di carbone, uno di quegli sfiatatoi che sono indispensabili per la ventilazione delle gallerie, costringendo la corrente a seguire una determinata direzione. Siccome la casa tenuta in affitto da sua madre era troppo lontana dal pozzo Albrecht perché egli potesse ritornarvi tutte le sere, gli era stata data in aggiunta una piccola funzione notturna in fondo alla miniera stessa. Era incaricato di custodire e di strigliare sei cavalli nella loro scuderia sotterranea, mentre il palafreniere risaliva all'esterno.

La vita di Carl trascorreva dunque quasi tutta a cinquecento metri sotto la superficie terrestre. Di giorno, egli stava di guardia presso il suo sfiatatoio; di notte dormiva sulla paglia presso i suoi cavalli. La domenica mattina soltanto ritornava alla luce e poteva approfittare per alcune ore del patrimonio comune degli uomini: il sole, il cielo azzurro ed il sorriso materno.

Come si può immaginare, dopo una settimana simile, quando usciva dal pozzo non aveva precisamente l'aspetto d'un giovane robusto. Assomigliava piuttosto a uno gnomo dei racconti delle fate, ad uno spazzacamino o a un negro papua. Perciò la signora Bauer dedicava generalmente un'ora buona a ripulirlo a forza d'acqua calda

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e sapone. Poi, gli faceva indossare un bell'abito di grosso panno verde, fatto con un vecchio vestito paterno, che ella toglieva dalle profondità del suo grande armadio d'abete, e da quel momento fino alla sera, non si stancava di ammirare il suo figliolo trovandolo il più bello del mondo.

Spogliato del suo sedimento di carbone, Carl non era, in realtà, più brutto d'un altro. I suoi capelli biondi e serici, i suoi occhi azzurri e dolci, si addicevano alla sua carnagione di una bianchezza eccessiva; ma la sua corporatura era troppo gracile per la sua età. Quella vita senza sole lo rendeva anemico come una lattuga, ed è probabile che il conta-globuli del dottor Sarrasin, applicato al sangue del piccolo minatore, vi avrebbe rivelato una quantità del tutto insufficiente di globuli rossi.

Per natura, egli era un fanciullo silenzioso, flemmatico, tranquillo, con un tantino di quella fierezza che il senso del pericolo continuo, l'abitudine del lavoro regolare e la soddisfazione della difficoltà vinta danno a tutti i minatori senza eccezione.

La sua gran felicità era sedersi accanto a sua madre, alla tavola quadrata che occupava il centro del tinello, e di infilzare sopra un cartone una quantità di orribili insetti che egli portava dalle viscere della terra. L'atmosfera tiepida e uguale delle miniere ha la sua fauna particolare, poco nota ai naturalisti, così come le umide pareti di carbone hanno una loro flora strana di muschi verdastri, di funghi non descritti e di fiocchi amorfi. L'ingegnere Maulesmùele, appassionato di entomologia, lo aveva notato, ed aveva promesso uno scudo per ogni specie nuova di cui Carl avesse potuto portargli un campione. Prospettiva dorata, che aveva dapprima indotto il ragazzino a esplorare con cura tutti gli angoli della miniera, e che, a poco a poco, aveva fatto di lui un collezionista. Perciò, ora, egli cercava gli insetti per proprio conto.

Del resto, egli non limitava le sue simpatie ai ragni e agli onischi. Nella sua solitudine, manteneva relazioni intime con due pipistrelli e con un grosso topo campagnolo. Anzi, se si doveva credergli, quei tre animali erano le bestie più intelligenti e più amabili del mondo; ancora più spiritose dei suoi cavalli dai lunghi peli serici e dalla

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groppa lucente, di cui Carl tuttavia non parlava se non con ammirazione.

C'era Blair-Athol, soprattutto, il decano della scuderia, un vecchio filosofo, sceso da sei anni a cinquecento metri sotto il livello del mare, e che non aveva mai rivista la luce del giorno. Ormai era quasi cieco. Ma come conosceva bene il suo labirinto sotterraneo! Come sapeva girare a destra o a sinistra, tirando il suo vagone, senza mai sbagliarsi di un passo! Come si fermava a tempo davanti agli sfiatatoi per lasciare lo spazio necessario ad aprirli! Come nitriva amichevolmente mattina e sera, al minuto esatto in cui gli si doveva dar da mangiare! Ed era così buono, così carezzevole, così tenero!

— Vi assicuro, mamma, che mi dà veramente un bacio fregando la sua guancia contro la mia quando accosto la mia testa a lui, — diceva Carl. — Ed è comodissimo, sapete, che Blair-Athol abbia così un orologio in testa! Senza di lui non sapremmo, durante tutta la settimana, se sia notte o giorno, sera o mattina!

Così chiacchierava il ragazzo, e la signora Bauer lo ascoltava estasiata. Anch'ella amava Blair-Athol con tutto l'affetto che gli portava suo figlio, e non mancava, all'occasione, di mandargli un pezzo di zucchero. Che cosa mai non avrebbe dato per andar a vedere quel vecchio servitore che suo marito aveva conosciuto e per visitare nel medesimo tempo il luogo sinistro in cui il cadavere del povero Bauer, nero come l'inchiostro, carbonizzato dal grisù, era stato trovato dopo l'esplosione?… Ma le donne non sono ammesse nella miniera, e bisogna accontentarsi delle descrizioni continue che gliene faceva suo suo figlio.

Ah! lei la conosceva bene quella miniera, quel gran buco nero da cui suo marito non era ritornato! Quante volte aveva aspettato, presso quell'abisso spalancato, di diciotto piedi di diametro, seguito con lo sguardo, lungo la muratura, i vagonetti appesi al loro cavo e sospesi alle carrucole d'acciaio, visitato l'alta armatura esterna, i locali della macchina a vapore, la cabina del marcatore e tutto il resto! Quante volte si era scaldata al braciere sempre ardente di quell'enorme cesta di ferro su cui i minatori fanno asciugare i loro abiti uscendo dall'abisso, dove i fumatori impazienti accendono la pipa! Com'era familiare col chiasso e con l'operosità di quella porta infernale! I

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ricevitori, che staccano i vagoncini carichi di carbone, gli agganciatori, i cernitori, i lavatori, i meccanici, i fuochisti, ella li aveva tutti visti e rivisti all'opera!

Ciò che ella non aveva potuto vedere, e che pure vedeva con gli occhi del cuore, era ciò che accadeva quando la gabbia si era inabissata, portando con sé il grappolo umano d'operai, fra i quali una volta c'era suo marito, e ora il suo unico figlio!

Ella udiva le loro voci e le loro risate allontanarsi nella profondità, indebolirsi, poi cessare. Seguiva col pensiero quella gabbia che sprofondava nel tubo stretto e verticale a cinque, a seicento metri, - quattro volte l'altezza della grande piramide!… Ella la vedeva giungere finalmente al termine della, sua corsa, vedeva gli uomini affrettarsi a metter piede a terra!

Eccoli dispersi nella città sotterranea, piegando l'uno a destra, l'altro a sinistra; gli addetti ai carrelli ai loro vagoni; i minatori, armati del piccone di ferro, diretti verso il masso di carbone che si deve attaccare; i colmatori a sostituire con materiali solidi i tesori di carbone che sono stati estratti; i carpentieri a piantare le intelaiature che sorreggono le gallerie non murate; i cantonieri a riparare le massicciate e a porre i binari; i muratori a rinforzare le volte…

Una galleria centrale parte dal pozzo e raggiunge come un grande viale un altro pozzo lontano tre o quattro chilometri. Di là si diramano ad angoli retti delle gallerie secondarie, e sulle linee parallele, le gallerie di terzo ordine. Tra queste vie sorgono muraglie, pilastri formati dal carbone stesso o dalla roccia. Tutto ciò regolare, quadrato, solido, nero!…

E in questo dedalo di vie, uguali per larghezza e lunghezza, tutto un esercito di minatori seminudi che si agita, che chiacchiera, che lavora alla luce delle lampade di sicurezza!…

Ecco ciò che la signora Bauer s'immaginava spesso, quando era sola, pensierosa accanto al fuoco.

In quell'incrociarsi di gallerie, essa ne vedeva una soprattutto, una che conosceva meglio delle altre, di cui il suo piccolo Carl apriva e richiudeva lo sfiatatoio.

Venuta la sera, la squadra che faceva il servizio di giorno risaliva per essere sostituita da quella che faceva il servizio notturno. Ma il

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suo ragazzo non ripigliava posto nel vagonetto. Egli si recava alla scuderia, ritrovava il suo caro Blair-Athol, gli serviva la sua «cena» di avena e la sua provvista di fieno; poi mangiava a sua volta il modesto pasto freddo che gli veniva calato di lassù, giocava un momento col grosso topo, immobile ai suoi piedi, con i due pipistrelli che gli svolazzavano pesantemente intorno, e si addormentava sul letto di paglia.

Come sapeva bene tutto ciò la signora Bauer, e come comprendeva subito tutti i particolari che le dava Carl.

— Sapete, mamma, che cosa mi ha detto ieri il signor ingegner Maulesmülhe? Ha detto che se risponderò bene a tutte le domande sull'aritmetica che mi farà uno di questi giorni, mi prenderà per tenere la catena d'agrimensura, quando rileva delle piante nella miniera con la sua bussola. Pare che si debba aprire una galleria per raggiungere il pozzo Weber, e dovrà lavorare molto per raggiungere il punto giusto!

— Davvero! — esclamava la signora Bauer felicissima. — Il signor ingegner Maulesmülhe ha detto questo!

E si raffigurava già il suo ragazzo tener la catena lungo le gallerie, mentre l'ingegnere, col taccuino in mano, notava le cifre, e, con l'occhio fisso alla bussola, determinava la direzione della galleria.

— Disgraziatamente, — soggiunse Carl — non ho nessuno per spiegarmi quello che non capisco nella mia aritmetica, ed ho proprio paura di risponder male!

A questo punto Marcel, che fumava silenziosamente accanto al fuoco, come la sua qualità di pensionante della casa gliene dava il diritto, s'introdusse nella conversazione per dire al ragazzo:

— Se vuoi dirmi quello che ti preoccupa, potrei forse spiegartelo. — Voi? — disse la signora Bauer con un po' d'incredulità. — Senza dubbio — rispose Marcel. — Credete forse che io non

impari niente ai corsi serali che frequento regolarmente dopo cena? Il professore è contentissimo di me, e dice che potrei servire da istruttore!

Stabiliti quei principi, Marcel andò a prendere nella sua camera un quaderno di carta bianca, sedette accanto al ragazzo, gli domandò che cosa non capisse nel suo problema, e glielo spiegò con tanta

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chiarezza che Carl, meravigliato, non vi trovò più la minima difficoltà.

Da quel giorno, la signora Bauer ebbe maggior considerazione del suo pensionante, e Marcel prese ad amare il suo piccolo camerata.

Del resto, anche lui si mostrava un operaio esemplare, e non aveva tardato ad essere promosso prima alla seconda, poi alla prima classe. Tutte le mattine, alle sette, era alla porta O; tutte le sere, dopo cena, andava alla scuola fatta dall'ingegner Trubner. Geometria, algebra, disegno geometrico e tecnico, egli studiava tutto con uguale ardore, ed i suoi progressi erano così rapidi, che l'insegnante ne fu vivamente colpito. Due mesi dopo essere entrato alla fabbrica Schultze, il giovane operaio era già notato come una delle intelligenze più aperte, non solo del settore O, ma di tutta la Città dell'Acciaio. Un rapporto del suo superiore diretto, fatto alla fine del trimestre, portava questa menzione formale:

«Schwartz (Johann), 26 anni, operaio fonditore di prima classe. Devo segnalare questo giovanotto all'amministrazione centrale come assolutamente "straordinario" sotto il triplice rapporto delle cognizioni teoriche, dell'abilità pratica e dello spirito d'inventiva più caratteristico».

Ci volle però una circostanza straordinaria per finir di richiamare su Marcel l'attenzione dei suoi capi. Questa circostanza non mancò di verificarsi, come accade sempre presto o tardi: disgraziatamente, la cosa avvenne nelle condizioni più tragiche.

Una domenica mattina, Marcel, piuttosto stupito di udire suonare le dieci senza che il suo amico Carl fosse comparso, scese a domandare alla signora Bauer se conoscesse la ragione di quel ritardo. La trovò molto preoccupata. Carl avrebbe dovuto essere a casa da due ore almeno. Vedendo la sua ansia, Marcel si offrì d'andare in cerca di notizie e partì diretto al pozzo Albrecht.

Per via, egli incontrò molti minatori, e non mancò di domandar loro se avessero visto il ragazzo; poi, dopo aver ricevuta una risposta negativa ed aver scambiato con essi quel Glück auf! «buon'uscita!» che è il saluto dei minatori tedeschi, Marcel proseguì la sua passeggiata.

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Egli giunse così, verso le undici, al pozzo Albrecht. L'aspetto non era tumultuoso ed animato come durante la settimana. È molto se una giovane «modista» - è il nome che i minatori danno allegramente e per antifrasi alle cernitrici di carbone, - stava chiacchierando col marcatore che il suo dovere tratteneva, anche quel giorno di festa, all'ingresso del pozzo.

— Avete visto uscire il piccolo Carl Bauer, numero 41.902? — domandò Marcel a quel funzionario.

L'uomo consultò la sua lista e crollò il capo. — C'è forse un'altra uscita dalla miniera? — No, è la sola — rispose il marcatore. — Il taglio che deve

uscire al nord non è ancora finito. — Allora, il ragazzo è sotto? — Per forza, ed è effettivamente una cosa straordinaria, poiché la

domenica vi devono restare solo i cinque guardiani speciali. — Posso scendere per informarmi?… — Non senza permesso. — Può esservi qualche guaio — disse allora la «modista». — Non sono possibili guai la domenica! — Ma infine, — riprese Marcel — bisogna che sappia che cosa è

successo a quel ragazzo! — Rivolgetevi al caporeparto macchina, in quell'ufficio… se pure

ci si trova. Il caporeparto, che indossava il vestito della festa, con un collo di

camicia rigido come se fosse stato di ferro, si era fortunatamente fermato un po' di più per fare i suoi conti. Da uomo intelligente ed umano, egli condivise subito l'inquietudine di Marcel.

— Vedremo subito che cosa è successo — disse. E, dando ordine al meccanico di servizio di tenersi pronto a filare

del cavo, egli si preparò a scendere nella miniera col giovane operaio.

— Non avete degli apparecchi Galibert? — domandò costui. — Potrebbero essere utili…

— Avete ragione. Non si sa mai quello che accade in fondo al buco.

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Il caporeparto prese in un armadio due serbatoi di zinco, simili a quelli che i mercanti di «cocco» portano a Parigi sul dorso. Sono casse ad aria compressa, messe in comunicazione con le labbra mediante due tubi di gomma la cui estremità di corno vien posta fra i denti. Si riempiono mediante mantici speciali, fabbricati in modo da vuotarsi interamente. Col naso stretto in una molletta, si può, così muniti d'una provvista d'aria, penetrare impunemente nell'atmosfera più irrespirabile.

Terminati i preparativi, il caporeparto e Marcel entrarono nel vagonetto, il cavo prese a scorrere sulle carrucole, e la discesa cominciò. Illuminati da due piccole lampade elettriche, chiacchieravano entrambi sprofondando nelle viscere della terra.

— Per un uomo che non è della partita, siete abbastanza disinvolto — diceva il caporeparto. — Ho viste delle persone non riuscire a decidersi a scendere o rimanere accoccolate come conigli in fondo al vagonetto.

— Davvero? — rispose Marcel. — A me non fa nessuna paura. È vero che sono già sceso due o tre volte nelle miniere.

Si giunse in breve in fondo al pozzo. Un guardiano che si trovava al punto d'arrivo, non aveva visto il piccolo Carl.

Ci si diresse verso la scuderia; i cavalli vi erano soli e sembravano anzi annoiarsi. Così almeno si poteva argomentare dai nitriti di benvenuto con i quali Blair-Athol salutò quelle tre figure umane. Ad un chiodo era appeso il sacco di tela di Carl, e in un angolino, accanto ad una striglia, il suo libro d'aritmetica.

Marcel fece subito notare che la sua lanterna non era più là, nuova prova che il ragazzo doveva essere nella miniera.

— Può essere stato preso in una frana, — disse il caporeparto — ma è poco probabile! Che cosa sarebbe andato a fare nelle gallerie attive, di domenica?

— Oh! forse è andato a cercare degli insetti prima di uscire! — rispose il guardiano. — È una vera passione in lui!

Il mozzo di scuderia, che giungeva in quell'istante, confermò la supposizione. Aveva visto Carl partire prima delle sette con la sua lanterna.

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Restava soltanto da cominciare una ricerca regolare. Furono chiamati mediante il fischietto gli altri guardiani, ci si spartirono i vari compiti sopra una grande pianta della miniera, e ognuno munito della propria lampada, cominciò l'esplorazione delle gallerie di secondo e di terzo ordine che gli erano state assegnate.

In due ore, tutti i settori della miniera erano stati visitati, ed i sette uomini si trovavano al punto di partenza. In nessun luogo c'era la minima traccia di frana, ma in nessun luogo pure si era trovata la minima traccia di Carl. Il caporeparto, forse consigliato da un appetito crescente, era incline a ritenere che il ragazzo poteva essere passato senza essere notato e trovarsi semplicemente a casa; ma Marcel, convinto del contrario, insisté per fare nuove ricerche.

— Che cos'è questo? — disse mostrando sulla pianta un settore punteggiato, che, in mezzo alla precisione di particolari delle zone vicine sembrava quelle terrae ignotae che i geografi segnano ai confini dei continenti artici.

— È la zona temporaneamente abbandonata, a causa dell'assottigliamento dello strato sfruttabile — rispose il capo reparto.

— C'è una zona abbandonata?… Allora è là che bisogna cercare! — riprese Marcel con autorità che gli altri uomini subirono.

Non tardarono a raggiungere l'imboccatura delle gallerie, che dovevano infatti, a giudicare dall'aspetto viscido ed ammuffito delle loro pareti, essere state abbandonate da molti anni. Le seguivano già da qualche pezzo senza scoprire nulla di sospetto, quando Marcel, fermandoli, disse loro:

— Non vi sentite un po' appesantiti e la testa non vi fa forse male? — To'! è vero! — risposero i suoi compagni. — Quanto a me, — riprese Marcel — è un po' che mi sento

semistordito. Qui c'è sicuramente dell'anidride carbonica!… Volete permettermi d'accendere un fiammifero? — domandò al caporeparto.

— Accendetelo pure, figliolo. Marcel si tolse di tasca una piccola scatola di fiammiferi, ne

accese uno, ed abbassandosi, avvicinò a terra la fiammella. Essa si spense subito.

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— Ne ero sicuro… — disse. — Il gas, essendo più pesante dell'aria, rimane rasente il suolo… Non bisogna rimaner qui, parlo di quelli che non hanno apparecchi Galibert. Se volete, signore, noi continueremo da soli la ricerca.

Così convenute le cose, Marcel ed il caporeparto presero ognuno fra i denti il boccaglio del loro serbatoio d'aria, si strinsero le narici con la molletta e si inoltrarono in una serie di vecchie gallerie.

Un quarto d'ora più tardi, essi ne uscivano per rinnovare l'aria dei serbatoi; poi, effettuata questa operazione, ripartirono.

Alla terza ripresa, i loro sforzi furono finalmente coronati da successo. Un piccolo bagliore azzurrognolo, quello d'una lampada elettrica, si mostrò lontano nell'ombra. Essi vi corsero…

Al piede della muraglia umida, immobile e già freddo, giaceva il povero Carl. Le sue labbra azzurrognole, il suo viso congestionato, la mancanza di pulsazioni dicevano, con la sua posa, quanto era accaduto.

Egli aveva voluto raccogliere qualche cosa da terra, si era abbassato ed era stato letteralmente annegato nell'anidride carbonica.

Tutti gli sforzi per richiamarlo in vita furono inutili; la morte risaliva già a quattro o cinque ore. La sera successiva c'era una piccola tomba di più nel cimitero nuovo di Stahlstadt, e la signora Bauer, la povera donna, era vedova del suo ragazzo, come lo era di suo marito.

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CAPITOLO VII

IL COMPLESSO CENTRALE

UN BRILLANTE rapporto del dottor Echtemach, medico capo della sezione del pozzo Albrecht, aveva stabilito che la morte di Carl Bauer, n. 41.902, di tredici anni, «addetto agli sfiatatoi» nella galleria 228, era dovuta all'asfissia risultante dall'assorbimento tramite gli organi respiratori d'una gran quantità di anidride carbonica.

Un altro rapporto non meno brillante dell'ingegner Maulesmulhe aveva esposta la necessità di comprendere in un sistema di aerazione la zona B del piano XIV, le cui gallerie lasciavano traspirare gas venefico con una specie di distillazione lenta e continua.

Infine, una nota di quello stesso funzionario segnalava all'autorità competente l'atto generoso del capo reparto Rayer e del fonditore di prima classe Johann Schwartz.

Otto o dieci giorni più tardi, il giovane operaio, giungendo per prendere il suo gettone di presenza nella guardiola del custode, trovò appeso al chiodo un ordine stampato diretto a lui:

«Il nominato Schwartz si presenterà oggi alle dieci all'ufficio del direttore centrale. Complesso centrale, porta e via A. Tenuta d'uscita».

«Finalmente!…» pensò Marcel. «Ce n'è voluto del tempo, ma ora ci sono!»

Egli aveva ormai acquisito, nei discorsi con i suoi compagni e durante le passeggiate domenicali intorno a Stahlstadt, una conoscenza dell'organizzazione generale della città sufficiente per sapere che l'autorizzazione a entrare nel Complesso centrale non veniva data troppo facilmente. Vere leggende si erano diffuse a questo proposito. Si diceva che alcuni indiscreti, che avevano voluto introdursi di sorpresa nel recinto riservato, non erano più ricomparsi; che, prima di essere ammessi, gli operai e gli impiegati erano

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sottoposti a tutta una serie di cerimonie massoniche, obbligati a impegnarsi con i giuramenti più solenni di non rivelar nulla di ciò che vi accadeva, e spietatamente puniti con la morte da un tribunale segreto se violavano il giuramento… Una ferrovia sotterranea metteva quel santuario in comunicazione con la linea di circonvallazione… Alcuni treni notturni vi conducevano visitatori sconosciuti… Vi si tenevano talvolta dei consigli supremi ai quali partecipavano personaggi misteriosi che prendevano parte alle deliberazioni…

Senza dare a queste dicerie più fede di quanta ne meritavano, Marcel sapeva che erano, in sostanza, l'espressione popolare di un fatto vero: l'estrema difficoltà di penetrare nella divisione centrale. Di tutti gli operai che conosceva - ed egli aveva degli amici tanto fra i minatori del ferro quanto fra quelli del carbone, tra i raffinatori come fra gli addetti agli altiforni, fra i capi squadra e i carpentieri come tra i fabbri - non uno aveva mai superato la porta A.

Fu dunque con un senso di curiosità profonda e di piacere intimo che egli vi si presentò all'ora indicata. Ben presto poté rendersi conto che le precauzioni erano severissime.

Anzitutto, Marcel era aspettato. Due uomini che indossavano un'uniforme grigia, sciabola al fianco e rivoltella in cintura, erano nella guardiola del custode. Questa guardiola, come quella della suora portinaia di un convento di clausura, aveva due porte, una esterna, l'altra interna, che non si aprivano mai nel medesimo tempo.

Esaminato, vistato il lasciapassare, Marcel si vide, senza manifestare alcuna sorpresa, presentare un fazzoletto bianco, col quale i due accoliti in uniforme gli bendarono accuratamente gli occhi.

Poi, prendendolo sotto braccio, si misero in cammino con lui senza dire parola.

Dopo due o tremila passi, salirono una scala, una porta si aprì e si richiuse, e Marcel ebbe il permesso di togliersi la benda.

Si trovava allora in un locale semplicissimo, ammobiliato con alcune sedie, una lavagna e una grande tavola da disegno fornita di tutti gli strumenti necessari al disegno lineare. La luce entrava da alte finestre a vetri smerigliati.

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Quasi subito, due personaggi che parevano professori universitari entrarono nel locale.

— Siete indicato come soggetto fuori del comune — gli disse uno di loro. — Vi esamineremo per vedere se sia il caso di ammettervi alla divisione dei modelli. Siete disposto a rispondere alle nostre domande?

Marcel si dichiarò modestamente pronto alla prova. I due esaminatori gli fecero allora successivamente delle domande

sulla chimica, sulla geometria e sull'algebra. Il giovane operaio li soddisfece in tutto grazie alla chiarezza e alla precisione delle sue risposte. Le figure che egli disegnava con il gesso sulla lavagna erano nette, ben fatte, eleganti. Le equazioni si allineavano minute e fitte, in file eguali come le linee d'un reggimento scelto. Una delle sue dimostrazioni anzi fu così notevole e così nuova per i suoi giudici, che essi gliene espressero il loro stupore domandandogli dove l'avesse imparata.

— A Sciaffusa, al mio paese, a scuola. — Sembrate buon disegnatore.

— Era la mia maggior abilità. — L'istruzione che viene impartita in Svizzera è assolutamente

notevole! — disse uno degli esaminatori all'altro… — Vi lasceremo due ore per eseguire questo disegno — soggiunse poi consegnando al candidato lo spaccato di una macchina a vapore piuttosto complicata. — Se ve la caverete bene, sarete ammesso con la menzione: Perfettamente soddisfacente e fuori classe…

Rimasto solo, Marcel si mise all'opera con ardore. Quando i suoi giudici rientrarono, al termine del tempo concesso,

furono così meravigliati del suo disegno, che aggiunsero alla menzione promessa le parole: Non abbiamo altro disegnatore di ingegno simile.

Il giovane operaio fu allora ripreso dagli accoliti grigi e condotto con lo stesso cerimoniale, ossia con gli occhi bendati, all'ufficio del direttore generale.

— Voi siete presentato per uno dei lavoratori di disegno alla divisione dei modelli — gli disse quel personaggio. — Siete disposto a sottoporvi alle condizioni del regolamento?

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— Non le conosco, — disse Marcel — ma presumo che siano accettabili.

— Eccole: 1° Voi siete costretto, per tutta la durata del vostro rapporto di lavoro, a risiedere nella divisione stessa. Potete uscirne solo con un permesso speciale e assolutamente eccezionale. 2° Siete sottoposto al regime militare e dovete obbedienza assoluta, sotto le pene militari, ai vostri superiori. In compenso siete equiparato ai sottufficiali di un esercito attivo, e potete, grazie a regolare avanzamento, raggiungere i massimi gradi. 3° Voi promettete con giuramento di non rivelare mai a nessuno ciò che vedrete nella parte della divisione in cui sarete ammesso. 4° La vostra corrispondenza viene aperta dai vostri capi gerarchici, tanto all'uscita quanto all'ingresso, e deve essere limitata alla vostra famiglia.

«In poche parole, sono in prigione» pensò Marcel. Poi rispose molto semplicemente:

— Queste condizioni mi sembrano giuste e sono pronto a sottopormi.

— Bene. Alzate la mano… Prestate giuramento… Siete nominato disegnatore al quarto laboratorio… Vi sarà assegnato un alloggio, e per i pasti, avete qui una mensa di prim'ordine… Avete con voi i vostri bagagli?

— No, signore. Ignorando che cosa si volesse da me, li ho lasciati dalla signora presso la quale sono a pensione.

— Manderemo a prenderli, poiché non dovete più uscire dalla divisione. «Ho fatto bene» pensò Marcel «a scrivere i miei appunti in cifra!

Se me li avessero trovati!…» Prima della fine del giorno, Marcel era sistemato in una bella

cameretta, al quarto piano d'un edificio che dava su un ampio cortile, e aveva potuto farsi una prima idea della sua nuova vita.

Essa non pareva dover essere triste come aveva supposto all'inizio. I suoi compagni - fece la loro conoscenza al ristorante - erano in generale tranquilli e miti, come tutti gli uomini laboriosi. Per cercare di svagarsi un po' poiché l'allegria mancava in quella vita da automi, molti di loro avevano formato un'orchestra e tutte le sere suonavano della musica abbastanza buona. Una biblioteca e una sala

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di lettura offrivano allo spirito un aiuto prezioso dal lato scientifico, durante le poche ore d'ozio. Corsi speciali, tenuti da professori di grande valore, erano obbligatori per tutti gli impiegati, che venivano sottoposti inoltre a frequenti esami e concorsi. Ma la libertà, l'aria, mancavano in quella ristretta società. Era il collegio con molte severità in più e per adulti. L'atmosfera dell'ambiente non mancava dunque di pesare su quegli spiriti, per abituati che fossero a una disciplina di ferro.

L'inverno passò in quei lavori, ai quali Marcel si era consacrato anima e corpo. La sua assiduità, la perfezione dei suoi disegni, i progressi straordinari della sua istruzione, segnalati unanimemente da tutti gli insegnanti e da tutti gli esaminatori, gli avevano costituito in poco tempo, fra quegli uomini laboriosi, una relativa celebrità. Per consenso generale, egli era il disegnatore più abile, più geniale, più fecondo di risorse. Si presentava qualche difficoltà? Si ricorreva a lui. Gli stessi capi si rivolgevano alla sua esperienza col rispetto che il merito strappa sempre anche alla più violenta invidia.

Ma se il giovane aveva contato, entrando nella divisione dei modelli, di penetrare gli intimi segreti della Città dell'Acciaio, aveva sbagliato i conti.

La sua vita era chiusa entro una cinta di ferro di trecento metri di diametro che circondava il settore del Complesso centrale al quale egli era addetto. Intellettualmente, la sua attività poteva o doveva estendersi ai rami più lontani dell'industria metallurgica, in pratica, era limitata a disegni di macchine a vapore. Egli ne disegnava di tutte le dimensioni e di qualsiasi potenza, per qualsiasi altro tipo di industrie e di usi, per navi da guerra e per stamperie; ma non usciva da questa specialità. La sua divisione del lavoro, spinta al suo limite estremo, lo chiudeva come in una morsa.

Dopo quattro mesi passati nella sezione A, Marcel non ne sapeva più di prima sull'insieme delle costruzioni della Città dell'Acciaio. Tutt'al più aveva raccolto delle informazioni generiche sulla struttura di cui non era, - nonostante i suoi meriti, - che un ingranaggio quasi infimo. Egli sapeva che il centro della ragnatela rappresentata da Stahlstadt era la Torre del Toro, specie di costruzione ciclopica che dominava tutti gli edifici circostanti. Aveva saputo inoltre, sempre

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stando alle chiacchiere fantasiose della mensa, che l'abitazione personale di Herr Schultze si trovava alla base di questa torre, e che il famoso studio segreto ne occupava il centro. Si aggiungeva che quella sala a volta, a prova di qualsiasi incendio e corazzata internamente come lo è un monitor all'esterno, era chiusa da un sistema di porte d'acciaio con serrature mitragliatrici, degne della banca più sospettosa. L'opinione generale era del resto che Herr Schultze lavorasse alla realizzazione di una terribile macchina da guerra, di un effetto senza precedenti e destinata ad assicurare in breve alla Germania il dominio dell'universo.

Per sondare il mistero fino in fondo, Marcel aveva invano fatto passare nel suo cervello i piani più audaci di scalata e travestimento. Aveva dovuto confessare a se stesso che non avevano nulla di attuabile. Quelle file di muraglie tenebrose e massicce, illuminate da torrenti di luce, sorvegliate da sentinelle fedeli, avrebbero sempre opposto ai suoi sforzi un ostacolo insuperabile. Fosse anche riuscito a superarle, che cosa avrebbe visto? Particolari, sempre particolari; mai un insieme!

Non importa. Egli si era giurato di non cedere; non avrebbe ceduto. Se ci fossero voluti dieci anni di attesa, avrebbe aspettato dieci anni. Ma sarebbe suonata l'ora in cui quel segreto sarebbe diventato suo! Era necessario. France-Ville prosperava allora, città felice, le cui istituzioni benefiche favorivano la comunità e i singoli, mostrando un orizzonte nuovo ai popoli scoraggiati. Marcel non dubitava che, di fronte a un simile trionfo della razza latina, Schultze era più risoluto che mai a portare a compimento le sue minacce. La stessa Città dell'Acciaio e i lavori che essa aveva per scopo ne erano la prova.

Passarono così molti mesi. Un giorno, in marzo, Marcel aveva rinnovato per la millesima

volta questo giuramento d'Annibale, quando uno degli accoliti grigi lo informò che il direttore generale voleva parlargli.

— Ricevo da Herr Schultze, — gli disse quell'alto funzionario, — l'ordine di mandargli il nostro miglior disegnatore. Siete voi. Fate le vostre valigie per passare nel cerchio interno. Siete promosso al grado di tenente.

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Così, proprio nel momento in cui disperava quasi della riuscita, l'effetto logico e naturale d'un lavoro eroico gli procurava quell'ammissione tanto desiderata! Marcel ne fu così pieno di gioia, che non poté nascondere l'espressione di questo sentimento sulla sua fisionomia.

— Sono lieto di dovervi dare una così buona notizia, — soggiunse il direttore, — e non posso che consigliarvi di insistere nella via che seguite coraggiosamente. L'avvenire più promettente vi si apre. Andate, signore.

Finalmente, Marcel, dopo una prova così lunga, intravedeva la meta che si era prefisso di raggiungere!

Ammucchiare nella valigia tutti i suoi abiti, seguire gli uomini grigi, superare finalmente quell'ultima cinta, la cui unica entrata, aperta sulla sezione A, avrebbe potuto rimanergli preclusa per chissà quanto tempo ancora, tutto ciò fu questione di pochi minuti per Marcel.

Si trovava ai piedi di quell'inaccessibile Torre del Toro, di cui non aveva ancora visto altro che la sommità minacciosa, perduta lontano nelle nuvole.

Lo spettacolo che si stendeva innanzi a lui era certamente dei più imprevisti. Si immagini un uomo trasportato di colpo, senza transizioni, da uno stabilimento europeo, rumoroso e qualunque, nel cuore di una foresta vergine della zona torrida. Ecco la sorpresa che aspettava Marcel nel centro di Stahlstadt.

Senza tenere conto poi che una foresta vergine guadagna molto vista attraverso le descrizioni dei grandi scrittori, mentre il parco di Herr Schultze era il più curato dei giardini privati. Le palme più slanciate, i banani più frondosi, i cactus più obesi ne formavano i boschetti. Le liane si avvolgevano elegantemente ai fragili eucalipti, si drappeggiavano in festoni verdi o ricadevano in capigliature opulente. Le piante grasse più inverosimili fiorivano in piena terra. Gli ananas e i guaiavi maturavano accanto agli aranci. I colibrì e gli uccelli del paradiso sfoggiavano in libertà la ricchezza delle loro penne. Infine, la stessa temperatura era tropicale quanto la vegetazione.

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Marcel cercava con gli occhi le coperture di vetro, i caloriferi che producevano quel miracolo, e, stupito di non vedere che il cielo azzurro, rimase un istante stupefatto.

Poi si ricordò che vi era, non lontano da li, una miniera di carbone in combustione permanente, e comprese che Herr Schultze aveva ingegnosamente utilizzato quei tesori di calore sotterraneo per farsi inviare, mediante tubature metalliche, una temperatura costante da serra calda.

Ma questa spiegazione che balenò alla mente del giovane alsaziano, non impedì ai suoi occhi di essere abbagliati e affascinati dal verde delle aiole, e alle sue narici di aspirare con delizia gli aromi che riempivano l'atmosfera. Dopo sei mesi passati senza vedere un filo d'erba, si pigliava la rivincita. Un viale sabbioso lo condusse per una leggera salita ai piedi di una bella scalinata di marmo sormontata da un maestoso colonnato. Più indietro sorgeva la massa enorme di un grande edificio quadrato che costituiva il piedestallo della Torre del Toro. Sotto il peristilio, Marcel vide sette o otto domestici in livrea rossa e uno svizzero in tricorno e alabarda; notò fra le colonne alcuni ricchi candelabri di bronzo, e mentre saliva la scalinata, un leggero brontolio gli rivelò che la ferrovia sotterranea passava sotto i suoi piedi.

Marcel disse il suo nome e fu subito ammesso in un vestibolo che era un vero museo di scultura. Senza aver il tempo di fermarsi, egli attraversò una sala rossa e oro, poi una sala nera e oro, e giunse in una sala gialla e oro dove il domestico lo lasciò solo per cinque minuti. Finalmente fu introdotto in uno splendido studio verde e oro.

Herr Schultze in persona, che fumava una lunga pipa di terra cotta accanto a un boccale di birra, in mezzo a quel lusso faceva l'effetto di una macchia di fango su uno stivale di vernice.

Senza levarsi, senza nemmeno voltar la testa, il Re dell'Acciaio disse freddamente e semplicemente:

— Siete il disegnatore? — Sì, signore. — Ho visto alcuni dei vostri disegni. Sono fatti benissimo. Ma

non sapete fare che macchine a vapore? — Non mi è stato mai chiesto altro.

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— Conoscete un po' il settore della balistica? — L'ho studiato nei miei momenti d'ozio e per mio divertimento.

Questa risposta andò al cuore di Herr Schultze. Egli si degnò allora di guardare il suo dipendente.

— Dunque, siete in grado di disegnare un cannone con me?… Vedremo come ve la caverete!… Ah! farete fatica a sostituire quell'imbecille di Sohne, che si è ucciso stamattina maneggiando un sacchetto di dinamite!… Quell'animale avrebbe potuto farci saltare in aria tutti!

Bisogna confessarlo, questa mancanza di discrezione non sembrava troppo ripugnante in bocca di Herr Schultze!

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CAPITOLO VIII

L'ANTRO DEL DRAGO

IL LETTORE che ha seguito i progressi della fortuna del giovane alsaziano non sarà probabilmente sorpreso di trovarlo perfettamente inserito, dopo qualche settimana, nella vita intima di Herr Schultze. Entrambi erano diventati inseparabili. Lavori, pasti, passeggiate nel parco, lunghe pipe fumate accanto a enormi boccali di birra: facevano tutto in comune. Mai l'ex professore di Jena aveva trovato un collaboratore che gli andasse tanto a genio, che lo comprendesse, per così dire, a mezza parola, che sapesse realizzare così rapidamente i suoi dati teorici.

Marcel non era solamente valentissimo in tutti i rami del mestiere, era anche il più simpatico compagno, il lavoratore più assiduo, l'inventore più modestamente fecondo.

Herr Schultze ne era estasiato. Dieci volte al giorno si diceva in petto:

«Che scoperta! Che perla questo giovanotto!». La verità è che Marcel aveva afferrato alla prima occhiata il

carattere del suo terribile padrone. Aveva notato che la sua qualità principale era un egoismo immenso, onnivoro, manifestato esteriormente da una vanità feroce, e si era religiosamente dedicato a regolare di conseguenza la propria condotta di ogni momento.

In pochi giorni il giovane alsaziano aveva imparato così bene la diteggiatura speciale di quella tastiera che era riuscito a suonare Schultze come si suona un pianoforte. La sua tattica consisteva semplicemente nel mostrare per quanto era possibile il proprio merito, ma in modo da lasciar sempre all'altro un'occasione di affermare la propria superiorità. Per esempio, se terminava un disegno, lo faceva perfetto, meno un difetto facile da rilevare e da correggere, che l'ex professore segnalava subito con esaltazione.

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Se aveva qualche teoria nuova, cercava di farla nascere nella conversazione, in modo che Herr Schultze potesse credere d'averla trovata lui. Qualche volta andava più in là, dicendo per esempio:

— Ho tracciato il piano di quella nave a sperone staccabile, che mi avete chiesto.

— Io? — rispondeva Herr Schultze, che non aveva mai pensato a niente del genere.

— Ma si! L'avete dunque dimenticato?… Uno sperone che si stacca, lasciando nel fianco del nemico una torpedine a fuso, che scoppia dopo un intervallo di tre minuti!

— Non me ne ricordavo più. Ho tante idee per la testa! E Herr Schultze intascava coscienziosamente la paternità della

nuova invenzione. Forse, dopo tutto, egli era solo a metà zimbello di quella manovra.

È probabile, in fondo, che sentisse che Marcel era più forte di lui. Ma, per una di quelle misteriose fermentazioni che avvengono nel cervello umano, finiva facilmente con l'accontentarsi di «sembrare» superiore, e soprattutto di illudere il suo subordinato.

«Com'è stupido con tutto il suo spirito quel giovanotto!» pensava talvolta scoprendo silenziosamente in un riso muto le trentadue pedine da «domino» delle sue mascelle.

Del resto, la sua vanità aveva ben presto trovato una scala di compensazione. Egli solo al mondo poteva realizzare quella specie di sogni industriali!… Quei sogni non avevano valore se non per opera sua e per lui!…

Marcel, in fin dei conti, non era che uno degli ingranaggi dell'organismo che lui, Schultze, aveva saputo creare, ecc., ecc.

Con tutto ciò, non si sbottonava, come si dice. Dopo cinque mesi di soggiorno nella Torre del Toro, Marcel non sapeva gran che dei misteri del Complesso centrale. In verità, i suoi sospetti erano diventati delle quasi certezze. Egli era sempre più convinto che Stahlstadt nascondeva un segreto, e che Herr Schultze aveva ben altro intento, oltre quello del guadagno. La natura delle sue preoccupazioni, quella della sua stessa industria, rendevano infinitamente verosimile l'ipotesi che egli avesse inventato qualche nuovo congegno di guerra.

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Ma la spiegazione dell'enigma rimaneva sempre oscura. Marcel aveva finito con il pensare che non l'avrebbe ottenuta

senza una crisi. Non vedendola venire, si decise a provocarla. Era una sera, il 5 settembre, alla fine del pranzo. Un anno prima,

giorno più giorno meno, egli aveva ritrovato nel pozzo Albrecht il cadavere del suo amico Carl. Lontano, l'inverno così lungo e aspro di quella Svizzera americana copriva ancora tutta la campagna col suo mantello bianco. Ma nel parco di Stahlstadt, la temperatura era tiepida come in giugno, e la neve, scioltasi prima di toccare il suolo, si deponeva in rugiada invece di cadere a fiocchi.

— Queste salsicce con i cavoli salati erano deliziose, vero? — fece notare Herr Schultze che i milioni della Begum non avevano stancato del suo cibo favorito.

— Deliziose — rispose Marcel che ne mangiava eroicamente tutte le sere, sebbene avesse finito con il detestare quel piatto.

Le ribellioni del suo stomaco finirono per deciderlo a tentare la prova che meditava.

— Mi chiedo addirittura come mai i popoli, che non hanno né salsicce né cavoli salati né birra, possano tollerare l'esistenza! — soggiunse Herr Schultze con un sospiro.

— Per loro la vita deve essere un lungo supplizio — rispose Marcel. — Sarà veramente dar prova di umanità il riunirli al Vaterland.

— Eh! eh!… ci arriveremo… ci arriveremo! — esclamò il Re dell'Acciaio. — Eccoci già stabiliti nel cuore dell'America. Lasciateci pigliare un'isola o due nei dintorni del Giappone, e vedrete che salti sapremo fare intorno al globo!

Il cameriere aveva portato le pipe. Herr Schultze riempì la sua e l'accese. Marcel aveva scelto con premeditazione quel momento quotidiano di completa beatitudine.

— Devo dire — aggiunse dopo un istante — che non credo molto a questa conquista!

— Quale conquista? — domandò Herr Schultze che non pensava già più all'argomento della conversazione.

— La conquista del mondo per opera dei tedeschi. — Non credete alla conquista del mondo per opera dei tedeschi?

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— No. — Ah! beh, questa è grossa!… Sarei curioso di conoscere i motivi

di questo dubbio! — Semplicemente perché gli artiglieri francesi finiranno con il far

meglio e battervi. Gli svizzeri, miei compatrioti, che li conoscono bene, hanno l'idea fissa che «francese avvisato, è mezzo salvato». Il 1870 è una lezione che si ritorcerà contro quelli che l'hanno data. Nessuno ne dubita nel mio piccolo paese, signore, e se debbo dirvi tutto, è anche l'opinione dei più intelligenti in Inghilterra.

Marcel aveva pronunciato queste parole con un tono freddo, asciutto e assoluto che raddoppiò, se possibile, l'effetto che una bestemmia simile, proferita di punto in bianco, doveva produrre sul Re dell'Acciaio.

Herr Schultze ne rimase soffocato, sbalordito, annientato. Il sangue gli sali al viso con una violenza tale che il giovane temette d'essere andato troppo oltre. Vedendo tuttavia che la sua vittima, dopo aver corso il rischio di soffocare di rabbia, non moriva sul colpo, soggiunse:

— Sì, è spiacevole constatarlo, ma è proprio così. Se i vostri rivali non fanno più chiasso, fanno però progredire il lavoro. Credete dunque che non abbiano imparato nulla dopo la guerra? Mentre noi siamo ancora occupati scioccamente a aumentare il peso dei cannoni, state pur certo che essi preparano delle novità e che ce ne avvedremo alla prima occasione!

— Delle novità! delle novità! — balbettò Herr Schultze. — Ne prepariamo anche noi, signore!

— Ah! sì, belle cose! Rifacciamo in acciaio quello che i nostri predecessori hanno fatto in bronzo, ecco tutto! Raddoppiamo le proporzioni e la portata dei pezzi!

— Raddoppiamo!… — ripeté Herr Schultze con un tono che voleva dire: «Davvero! facciamo ben altro che raddoppiare!».

— Ma in fondo, — soggiunse Marcel — non siamo che plagiari. Guardate, volete che vi dica la verità? Ci manca la facoltà del genio. Noi non troviamo nulla, mentre i francesi trovano, statene certo!

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Herr Schultze aveva ripreso un po' di calma apparente. Tuttavia, il tremito delle labbra, il pallore che era seguito al rossore apoplettico del suo viso dicevano chiaramente i sentimenti che lo agitavano.

Bisogna arrivare a quel grado d'umiliazione? Chiamarsi Schultze, essere il padrone assoluto del più grande stabilimento e della prima fonderia di cannoni del mondo intero, vedere ai propri piedi i re ed i parlamentari, e sentirsi dire da un piccolo disegnatore svizzero che si manca di genialità, che si è al di sotto d'un artigliere francese!… E ciò quando si aveva accanto a sé, dietro lo spessore di un muro blindato, tanto da confondere mille volte quel birbante impudente, da chiudergli la bocca, da distruggere i suoi sciocchi argomenti? No, non era possibile sopportare un simile supplizio!

Herr Schultze si alzò con un movimento così brusco che spezzò la pipa. Poi guardando Marcel con occhi pieni d'ironia e stringendo i denti, gli disse, o meglio, gli sibilò queste parole:

— Seguitemi, signore, vi farò vedere se io, Herr Schultze, manco di genialità!

Marcel aveva giocato grosso, ma aveva vinto, grazie alla sorpresa prodotta da un linguaggio così audace e inaspettato, grazie alla violenza della rabbia che aveva provocato, dato che nell'ex professore la verità era più forte della prudenza. Schultze ardeva di svelare il proprio segreto, e, quasi suo malgrado, entrando nello studio, di cui richiuse con cura la porta, andò dritto verso la biblioteca e toccò un pannello. Immediatamente un'apertura nascosta da file di libri apparve nella muraglia. Era l'ingresso d'uno stretto passaggio che conduceva, con una scala di pietra, fino alla base della Torre del Toro.

Là fu aperta una porta di quercia mediante una chiavetta che non lasciava mai il padrone del luogo. Apparve una seconda porta chiusa da una serratura a combinazione sillabica, simile a quelle che servono per le casseforti. Herr Schultze compose la parola e aprì il pesante battente di ferro, munito nella parte interna di un complicato complesso di congegni esplosivi che Marcel, senza dubbio per curiosità professionale, avrebbe voluto esaminare. Ma la sua guida non gliene lasciò il tempo.

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Entrambi si trovavano allora davanti a una terza porta, senza serratura visibile, che si aprì con una semplice spinta, data, beninteso, secondo regole determinate.

Superata quella triplice trincea, Herr Schultze ed il suo compagno dovettero salire i duecento gradini di una scala di ferro, e giunsero in cima alla Torre del Toro, da dove si dominava tutta la città di Stahlstadt.

Su quella torre di granito, la cui solidità era a tutta prova, si arrotondava una specie di casamatta, in cui erano aperte molte feritoie. In mezzo alla casamatta si allungava un cannone d'acciaio.

— Ecco! — disse il professore, che non aveva detto una parola durante il tragitto.

Era il più grosso pezzo d'assedio che Marcel avesse mai visto. Doveva pesare almeno trecentomila chilogrammi, e si caricava per la culatta. Il diametro della sua bocca misurava un metro e mezzo. Montato su un affusto d'acciaio e muovendosi su guide del medesimo metallo, avrebbe potuto essere manovrato da un fanciullo, tanto i movimenti ne erano resi facili grazie a un sistema di ingranaggi. Una molla compensatrice, sistemata sul retro dell'affusto, aveva l'effetto di annullare il rinculo, o almeno di produrre una reazione rigorosamente uguale, e di rimettere automaticamente il pezzo, dopo ogni colpo, nella posizione primitiva.

— E qual è la potenza di perforamento di questo pezzo? — domandò Marcel, che non poté trattenersi dall'ammirare un simile congegno.

— A ventimila metri, con un proiettile pieno, trapassiamo una lastra di quaranta pollici con la stessa facilità che se fosse di burro!

— Qual è la sua portata dunque? — La sua portata! — esclamò Schultze che si entusiasmava. —

Ah! voi dicevate poco fa che il nostro genio imitatore non aveva ottenuto nient'altro che il raddoppiamento della portata dei cannoni odierni! Ebbene, con questo cannone, sono in grado di mandare, con precisione sufficiente, un proiettile alla distanza di dieci leghe.

— Dieci leghe! — esclamò Marcel. — Dieci leghe! Quale nuova polvere adoperate, dunque?

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— Oh! posso dirvi tutto ormai! — rispose Herr Schultze con uno strano tono. — Non vi è più nessun inconveniente a svelarvi i miei segreti! La polvere pirica ha fatto il suo tempo. Quella di cui mi servo io è il fulmicotone, la cui potenza d'espansione è quattro volte superiore a quella della polvere comune, potenza che io quintuplo ancora mescolandovi gli otto decimi del suo peso di nitrato di potassio!

— Ma, — fece osservare Marcel — nessun pezzo, nemmeno se fatto del miglior acciaio, potrà resistere alla deflagrazione di questo pirossilo! Il vostro cannone, dopo tre, quattro, cinque colpi, sarà deteriorato e messo fuori uso!

— Tirasse un solo colpo, quel colpo basterebbe! — Costerebbe caro! — Un milione, dato che quello è appunto il costo del pezzo! — Un colpo d'un milione!… — Che importa, se può distruggere un miliardo! — Un miliardo! — esclamò Marcel. Tuttavia, egli si trattenne per non lasciar scoppiare l'orrore misto

ad ammirazione che gli ispirava quel prodigioso agente di distruzione. Poi, aggiunse:

— È certamente un pezzo d'artiglieria meraviglioso e stupefacente, ma che, nonostante tutti i suoi meriti, giustifica assolutamente la mia tesi: perfezionamenti, imitazione, nessuna invenzione!

— Nessuna invenzione! — rispose Herr Schultze con un'alzata di spalle. — Vi ripeto che non ho più segreti per voi. Venite dunque!

Il Re dell'Acciaio e il suo compagno, lasciando allora la casamatta, ridiscesero al piano inferiore, che era messo in comunicazione con la piattaforma per mezzo di ascensori idraulici. Là si vedevano numerosi oggetti oblunghi, di forma cilindrica, che a distanza avrebbero potuto essere presi per altri cannoni smontati.

— Ecco i nostri obici — disse Herr Schultze. Questa volta fu costretto a riconoscere che quei congegni non

assomigliavano a nulla di quanto conosceva. Erano enormi tubi di due metri di lunghezza e di un metro e dieci di diametro, rivestiti esternamente di una camicia di piombo in grado di adattarsi alle

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rigature del pezzo, chiusi nella parte posteriore mediante una lastra d'acciaio fissata con bulloni, e in quella anteriore da una punta d'acciaio ogivale munita di un bottone a percussione.

Qual era la natura particolare di quegli obici? Nulla nel loro aspetto poteva indicarlo. Si presentiva solamente che dovevano contenere nei loro fianchi una capacità esplosiva terribile, che avrebbe superato tutto quanto si era mai fatto in quel genere.

— Non indovinate? — domandò Herr Schultze vedendo Marcel rimanere silenzioso.

— In fede mia, no, signore! Perché un obice così lungo e così pesante, almeno in apparenza?

— L'apparenza inganna — rispose Herr Schultze — ed il peso non differisce sensibilmente da quello che avrebbe un obice comune dello stesso calibro… Andiamo, bisogna dirvi tutto!.. Obice-razzo in vetro, rivestito di legno di quercia, carico, a settantadue atmosfere di pressione interna, di anidride carbonica liquida. La caduta determina l'esplosione dell'involucro e il ritorno del liquido allo stato gassoso. Conseguenza: un freddo di circa 100° sotto zero in tutta la zona circostante, contemporaneamente miscuglio di un enorme volume di anidride carbonica con l'atmosfera dell'ambiente. Ogni essere vivente che si trova in un raggio di trenta metri dal centro dell'esplosione è nello stesso tempo congelato ed asfissiato. Dico trenta metri per prendere una base di calcolo, ma l'azione si estende con ogni probabilità molto più lontano, forse a cento o duecento metri di raggio! Circostanza più utile ancora, poiché l'anidride carbonica rimane a lungo negli strati inferiori dell'atmosfera a causa del suo peso, che è maggiore di quello dell'aria, la zona pericolosa conserva le sue proprietà settiche molte ore dopo l'esplosione, e qualsiasi essere che tenti di penetrarvi perisce infallibilmente. È una cannonata a effetto insieme istantaneo e durevole!… Perciò, col mio sistema, niente feriti, solo morti!

Herr Schultze provava un evidente piacere nello sviluppare i pregi della sua invenzione. Gli era tornato il buon umore, era rosso d'orgoglio e mostrava tutti i denti.

— Immaginatevi — aggiunse — un numero adeguato di questi miei cannoni diretti contro una città assediata! Supponiamo un pezzo

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per ogni ettaro di superficie, ossia, per una città di mille ettari, cento batterie di dieci pezzi piazzate opportunamente. Immaginiamo poi tutti i pezzi in posizione, ognuno con il tiro regolato, un'atmosfera tranquilla e favorevole, infine il segnale generale dato da un comando elettrico. In un minuto, non rimarrà un essere vivente su una superficie di mille ettari! Un vero e proprio oceano di anidride carbonica avrà sommerso la città! É un'idea che mi è venuta l'anno scorso leggendo il rapporto medico sulla morte accidentale di un piccolo minatore del pozzo Albrecht! Ne avevo avuto, è vero, l'ispirazione iniziale a Napoli, quando visitai la Grotta del Cane.3

Ma è stato necessario quell'ultimo fatto per dare al mio pensiero la spinta definitiva. Comprendete bene il principio, vero? Un oceano artificiale di anidride carbonica pura! Ora, un quinto di questo gas basta a render l'aria irrespirabile.

Marcel non diceva parola. Era veramente ridotto al silenzio. Herr Schultze sentì così bene il proprio trionfo, che non volle abusarne.

— Vi è solo un particolare che mi secca, — disse. — Quale? — domandò Marcel. — Non sono riuscito a sopprimere il rumore dell'esplosione. Ciò

fa assomigliare troppo la mia cannonata alle volgari cannonate. Pensate un po' a che cosa succederebbe se riuscissi a ottenere un tiro silenzioso! Questa morte improvvisa, che colpirebbe senza rumore centomila uomini in una volta, in una notte tranquilla, serena!

L'ideale incantevole che evocava, rese Herr Schultze tutto pensoso, e forse la sua fantasticheria, che non era se non un'immersione profonda in un bagno di vanità, si sarebbe prolungata per un pezzo, se Marcel non l'avesse interrotta con questa osservazione:

— Benissimo, signore, benissimo! ma mille cannoni di questo genere richiedono molto tempo e molto denaro.

3 La Grotta del Cane, nei dintorni di Napoli, deve il suo nome alla curiosa proprietà posseduta dalla sua atmosfera di asfissiare un cane o un altro qualsiasi quadrupede di gambe corte, senza alcun danno per un uomo in piedi, proprietà dovuta a uno strato di anidride carbonica di sessanta centimetri circa tenuto a livello del suolo dal suo peso specifico. (N.d.A.)

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— Il denaro?… Ne abbiamo quanto ne vogliamo! Il tempo?… Il tempo è nostro!

E, in verità, quel tedesco, l'ultimo della sua scuola, credeva a quanto diceva!

— Sia pure — rispose Marcel. — Il vostro obice, carico di anidride carbonica, non è totalmente nuovo, poiché deriva dai proiettili asfissianti conosciuti già da molti anni; ma può riuscire straordinariamente distruttore, non lo nego. Soltanto…

— Soltanto?… — È relativamente leggero per il suo volume, e se deve colpire a

dieci leghe!… — È fatto per andare soltanto a due leghe — rispose Herr

Schultze sorridendo. — Ma, — aggiunse mostrando un altro obice — ecco un proiettile di ghisa. Questo è pieno, e contiene cento piccoli cannoni disposti simmetricamente, incastrati gli uni negli altri come i tubi di un cannocchiale, e che, dopo essere stati lanciati come proiettili, ridiventano cannoni per vomitare a loro volta dei piccoli obici carichi di materiale incendiario. È come una batteria che lancia nello spazio e che può portare l'incendio e la morte su tutta una città, coprendola di una pioggia di fuochi inestinguibili! Ha il peso necessario per superare le dieci leghe di cui ho parlato! E fra poco ne sarà fatta l'esperienza in modo tale che gli increduli potranno toccare con mano centomila cadaveri che saranno le sue vittime!

Le pedine da «domino» brillavano in quel momento di uno splendore così insopportabile nella bocca di Herr Schultze che Marcel ebbe una gran voglia di spezzarne una dozzina. Ebbe tuttavia la forza di contenersi ancora. Non era ancora terminato quanto doveva udire.

Infatti, Herr Schultze soggiunse: — Fra breve vi sarà un'esperienza decisiva! — Come? Dove?… — esclamò Marcel. — Vi ho detto che, fra poco, sarà fatta un'esperienza decisiva!

Come? Con uno di questi obici che supererà la catena dei Cascade-Mounts, lanciato dal mio cannone della piattaforma!… Dove? Su una città da cui ci separano dieci leghe al massimo, che non si aspetta certamente questo scoppio di folgore e che, se anche se lo aspettasse,

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non ne potrebbe evitare i fulminanti risultati! Siamo al 5 settembre!… Ebbene, il 13, alle undici e quarantacinque minuti della sera, France-Ville scomparirà dal suolo americano! L'incendio di Sodoma avrà avuto il suo corrispondente! Il professor Schultze avrà anche lui scatenato tutti i fuochi del cielo!

Questa volta, a tale inattesa dichiarazione, tutto il sangue di Marcel gli affluì al cuore! Per fortuna, Herr Schultze non notò ciò che gli succedeva.

— Ecco! — riprese a dire con la massima disinvoltura. — Qui facciamo il contrario di ciò che fanno i fondatori di France-Ville! Noi cerchiamo il segreto di abbreviare la vita degli uomini, mentre essi cercano il mezzo di prolungarla. Ma la loro opera è condannata, ed è dalla morte, seminata da noi, che deve nascere la vita. Pure, tutto ha il suo scopo nella natura, e il dottor Sarrasin, fondando una città isolata, ha messo senza sospettarlo a mia disposizione il più splendido campo d'esperimento.

Marcel non poteva credere a quanto udiva. — Ma, — disse con una voce il cui tremito involontario parve

attirare per un istante l'attenzione del Re dell'Acciaio — gli abitanti di France-Ville non vi hanno fatto nulla, signore! Voi non avete, che io sappia, nessun motivo per attaccar briga con loro!

— Caro mio, — rispose Herr Schultze — nel vostro cervello, bene organizzato sotto altri aspetti, c'è un fondo di idee celtiche che vi nuocerebbero molto se doveste vivere un pezzo! Il diritto, il bene, il male, sono cose puramente relative e totalmente convenzionali. Di assoluto vi sono solo le grandi leggi naturali. La legge di concorrenza vitale lo è tanto quanto quella della gravitazione. Volervisi sottrarre, è insensato; adattarvisi ed agire come essa ci indica, è ragionevole e saggio, ed ecco perché io distruggerò la città del dottor Sarrasin. Grazie al mio cannone, i miei cinquantamila tedeschi trionferanno facilmente dei centomila sognatori che formano laggiù un gruppo condannato a perire.

Marcel, comprendendo l'inutilità di stare a discutere con Herr Schultze, tacque.

Lasciarono entrambi la camera degli obici, le cui porte a segreto furono richiuse, e ridiscesero nella sala da pranzo.

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Con l'aria più naturale del mondo, Herr Schultze riportò il suo boccale di birra alla bocca, suonò un campanello, si fece dare un'altra pipa per sostituire quella che aveva rotto, e rivolgendosi al domestico:

— Arminius e Sigimer sono di là? — domandò. — Sì, signore. — Dite loro di tenersi a portata della mia voce. Quando il domestico ebbe lasciata la sala da pranzo, il Re

dell'Acciaio, volgendosi verso Marcel, lo guardò bene in faccia. Questi non abbassò gli occhi sotto quello sguardo che aveva preso

una durezza metallica. — Davvero, — disse — attuerete questo progetto? — Davvero. Io conosco, con l'approssimazione di un decimo di

secondo in longitudine e in latitudine, la situazione di France-Ville, ed il 13 settembre, alle undici e quarantacinque pomeridiane, essa avrà finito d'esistere.

— Avreste dovuto tenere questo piano assolutamente segreto! — Mio caro, — rispose Herr Schultze, — decisamente voi non

sarete mai logico. Ciò mi fa rimpiangere meno che dobbiate morire giovane.

Marcel, a queste ultime parole, si era alzato. — Come! non avete compreso, — aggiunse freddamente Herr

Schultze — che non parlo mai dei miei piani se non davanti a coloro che non potranno più ripeterli?

Suonò ancora il campanello. Arminius e Sigimer, due giganti, apparvero sulla porta della sala.

— Avete voluto conoscere il mio segreto, — disse Herr Schultze, — ora lo conoscete!… Vi rimane soltanto di morire.

Marcel non rispose. — Siete troppo intelligente — soggiunse Herr Schultze — per

immaginare che io vi possa lasciar vivere ora che sapete come comportarvi in base ai miei progetti. Sarebbe una leggerezza imperdonabile, sarei illogico. La grandezza del mio scopo mi proibisce di comprometterne la riuscita per una considerazione d'un valore relativo così minimo come la vita di un uomo, anche di un uomo come voi, mio caro, di cui stimo in modo particolare la buona

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organizzazione mentale. Perciò sono veramente dispiaciuto che un piccolo impeto d'amor proprio mi abbia trascinato troppo lontano e mi metta ora nella necessità di sopprimervi. Ma dovete comprendere che, davanti agli interessi ai quali mi sono consacrato, non è più questione di sentimento. Posso ben dirvelo, è per aver penetrato il mio segreto che il vostro predecessore Sohne è morto, e non per lo scoppio d'un sacco di dinamite!… La regola è assoluta, bisogna che sia inflessibile! Io non posso mutarvi nulla.

Marcel guardava Herr Schultze. Comprese, dal timbro della sua voce, dall'ostinazione bestiale di quella testa calva, che era perduto. Perciò non si diede nemmeno la briga di protestare.

— Quando morirò e di quale morte? — domandò. — Non preoccupatevi per questo particolare — rispose

tranquillamente Herr Schultze. — Morirete, ma senza soffrire. Una mattina non vi sveglierete più, ecco tutto.

Ad un cenno del Re dell'Acciaio, Marcel si vide condotto via e consegnato nella sua camera, la cui porta rimase sotto la sorveglianza dei due giganti.

Ma quando fu solo, pensò, fremendo d'angoscia e di collera, al dottore, a tutti i suoi cari, a tutti i suoi compatrioti, a tutti quelli che amava!

«La morte che mi aspetta non è nulla», pensò. «Ma il pericolo che li minaccia, come scongiurarlo?»

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CAPITOLO IX

«P. C.»4

LA SITUAZIONE, infatti, era gravissima. Che cosa poteva fare Marcel, le cui ore di vita erano ormai contate, e che vedeva forse giungere la sua ultima notte con il tramonto?

Egli non dormì un istante - non per paura di non svegliarsi più, come aveva detto Herr Schultze - ma perché il suo pensiero non riusciva a lasciare France-Ville sotto il colpo di quell'imminente catastrofe!

«Che cosa tentare?» si ripeteva. «Distruggere quel cannone? Far saltare la torre che lo porta? E come lo potrei? Fuggire! fuggire, quando la mia camera è custodita da quei due colossi! E poi, se anche riuscissi a lasciare Stahlstadt prima della fatale data del 13 settembre, come potrei impedire?… Ma sì! Non potendo salvare la nostra cara città potrei almeno salvare i suoi abitanti, giungere fino a loro, gridare: Fuggite! fuggite senza indugio! Siete minacciati di morire per fuoco e ferro! Fuggite tutti!»

Poi, le idee di Marcel seguivano un altro filone. «Quel miserabile Schultze!» pensava. «Ammettendo anche che

abbia esagerati gli effetti distruttori del suo obice, e che non possa coprire col suo fuoco inestinguibile l'intera città, rimane certo che può incendiarne una grande parte con un colpo solo! È un arnese spaventoso quello che egli ha inventato, e, nonostante la distanza che separa le due città, quel formidabile cannone saprà bene mandarvi il suo proiettile! Una velocità iniziale venti volte superiore alla velocità ottenuta finora! Diecimila metri pressappoco, due leghe e mezza al secondo! Ma è quasi il terzo della velocità di translazione della terra sulla sua orbita! È mai possibile?… Sì, sì!… Se il suo cannone non scoppia al primo colpo! E non scoppierà poiché è fatto di un metallo 4 Abbreviazione di: per congedo. (N.d.T.)

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la cui resistenza allo scoppio è quasi infinita! Quella canaglia conosce esattissimamente la situazione di France-Ville! Senza uscire dal suo antro, punterà il suo cannone con precisione matematica, e, come ha detto, l'obice andrà a cadere nel centro stesso della città! Come prevenirne i disgraziati abitanti?»

Marcel non aveva chiuso occhio quando riapparve il giorno. Egli allora lasciò il Ietto sul quale era rimasto sdraiato invano durante tutta quella insonnia febbrile.

«Suvvia» pensò «sarà per la prossima notte! Quel carnefice, che vuole risparmiarmi la sofferenza, aspetterà senza dubbio che il sonno, avendo avuto la meglio sull'inquietudine, si sia impadronito di me! E allora!… Ma quale morte mi riserva dunque? Vuole forse uccidermi con qualche inalazione d'acido prussico mentre dormirò? Introdurrà nella mia camera quell'anidride carbonica che possiede a volontà? O non adopererà piuttosto tale gas allo stato liquido, così come lo mette nei suoi obici di vetro, e il cui repentino ritorno allo stato gassoso determinerà un freddo di 100°! E il giorno successivo, al posto di "me", di questo corpo vigoroso, ben formato, pieno di vita, si ritroverebbe soltanto una mummia rinsecchita, congelata, raggrinzita!… Ah! miserabile! Ebbene, mi si secchi il cuore, se è necessario, mi si congeli la vita in quella insopportabile temperatura, ma i miei amici, il dottor Sarrasin, la sua famiglia, Jeanne, la mia piccola Jeanne, siano salvi! Oh! per questo bisogna che fugga… Dunque fuggirò!»

Pronunciando quest'ultima parola, Marcel, con un movimento istintivo, benché dovesse credersi chiuso nella sua camera, aveva messa la mano sulla maniglia della porta.

Con sua gran meraviglia la porta si aprì ed egli poté scendere come al solito nel giardino dove soleva passeggiare.

«Ah» pensò «sono prigioniero nel Complesso centrale, ma non lo sono nella mia camera! È già qualche cosa!»

Solamente, appena Marcel fu fuori, si avvide che, benché libero in apparenza, non avrebbe potuto più fare un passo senza essere scortato dai due personaggi che rispondevano ai nomi storici, o meglio preistorici, di Arminius e di Sigimer.

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Più d'una volta si era già domandato, incontrandoli sul suo cammino, quale potesse essere la funzione di quei due colossi in casacca grigia, dal collo taurino, dai bicipiti erculei, dai volti rossi ispidi di baffi folti e di favoriti cespugliosi!

La loro funzione ora la conosceva. Erano i boia di Herr Schultze, e provvisoriamente le sue guardie del corpo personali.

Quei due giganti lo sorvegliavano a vista, dormivano davanti alla porta della sua camera, e lo seguivano se usciva nel parco. Un armamentario formidabile di rivoltelle e di pugnali, aggiunto alla loro uniforme, accentuava ancor di più quella sorveglianza.

Inoltre, erano muti come pesci. Marcel, a scopo diplomatico, aveva voluto entrare in conversazione con loro, ma non aveva ottenuto in risposta che sguardi feroci. Perfino l'offerta di un bicchiere di birra, che egli aveva qualche ragione di credere irresistibile, era rimasta infruttuosa. Dopo quindici ore d'osservazione, egli conosceva loro un solo vizio, uno solo, la pipa, che si prendevano la libertà di fumare seguendolo. Quest'unico vizio, Marcel avrebbe potuto utilizzarlo a vantaggio della propria salvezza? Non lo sapeva, non poteva ancora immaginarlo, ma aveva giurato a se stesso di fuggire, e non doveva trascurare nulla di quanto poteva favorire la sua fuga.

Ora, la cosa stringeva. Solamente, come fare? Al minimo indizio di ribellione o di fuga, Marcel era sicuro di

ricevere due pallottole nella testa. Ammettendo anche che non riuscissero a colpirlo, egli si trovava al centro d'una triplice linea fortificata, circondata da una triplice schiera di sentinelle.

Secondo la sua abitudine, l'ex allievo della Scuola centrale si era proposto il problema matematicamente.

«Sia dato un uomo guardato a vista da due pezzi di guardia senza scrupoli, individualmente più forti di lui, e inoltre armati fino ai denti. Quest'uomo deve, prima di tutto, sfuggire alla vigilanza dei suoi aguzzini. Fatto ciò, gli rimane da uscire da una piazzaforte, i cui ingressi sono tutti rigorosamente sorvegliati…»

Cento volte, Marcel ruminò questo doppio problema, cento volte ne trovò impossibile la soluzione.

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Alla fine, fu l'estrema gravità della situazione a dare alle sue facoltà d'invenzione la spinta suprema? Fu solo il caso che produsse la scoperta? Sarebbe difficile dirlo.

Fatto sta che il giorno seguente, mentre Marcel passeggiava nel parco, i suoi occhi si arrestarono, all'orlo di un'aiola, su un arbusto, il cui aspetto lo colpì.

Era una pianta poco appariscente, erbacea, a foglie alterne, ovali, aguzze e germinate, con grandi fiori rossi a forma di campanule monopetale e sorrette da un peduncolo assillare.

Marcel, che si era sempre occupato di botanica solo da dilettante, credette però di riconoscere in quell'arbusto la fisionomia caratteristica della famiglia delle solanacee. A caso ne colse una fogliolina e la masticò leggermente proseguendo la sua passeggiata.

Non si era ingannato. Un appesantimento di tutte le membra, accompagnato da un inizio di nausea, lo avvertì ben presto che aveva sotto mano un laboratorio naturale di belladonna, ossia del più attivo dei narcotici.

Sempre passeggiando, giunse al laghetto artificiale che si stendeva verso il sud del parco per andare ad alimentare, a una delle estremità, una cascatella copiata piuttosto pedissequamente da quella del Bois de Boulogne.

«E dove va a scaricarsi l'acqua di questa cascata?» si domandò Marcel.

Dapprima si scaricava nel letto di un fiumiciattolo che, dopo aver descritto una dozzina di curve, scompariva alla cinta del parco.

Là doveva dunque esserci uno sfioratore, e molto probabilmente il fiumicello sfuggiva riempiendolo attraverso uno dei canali sotterranei che andavano a bagnare la pianura fuori di Stahlstadt.

Marcel vi intravide una porta d'uscita. Non era certamente un portone, ma era una porta.

«E se il canale fosse sbarrato da delle grate di ferro?» obiettò la voce della prudenza.

«Chi non risica non rosica! Le lime non sono state inventate per limare i turaccioli, e ce ne sono di ottime nel laboratorio!» rispose un'altra voce ironica, quella che detta le risoluzioni ardite.

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In due minuti, la decisione di Marcel fu presa. Un'idea - che cosa vuol mai dire un'idea! - gli era venuta, idea irrealizzabile, forse, ma che egli avrebbe tentato di attuare, se la morte non lo avesse colto prima.

Ritornò allora facendo finta di nulla verso l'arbusto dai fiori rossi, ne staccò due o tre foglie, comportandosi in modo che i suoi due guardiani non potessero fare a meno di vederlo.

Poi, una volta tornato nella propria camera, egli fece, sempre ostentatamente, seccare quelle foglie davanti al fuoco, le rotolò fra le mani per schiacciarle, e le mescolò al suo tabacco.

Durante i sei giorni successivi, Marcel, con gran sorpresa, si svegliò ogni mattina. Herr Schultze, che egli non vedeva più, che non incontrava mai nelle sue passeggiate, aveva forse rinunciato al piano di disfarsi di lui? No, senza dubbio, più di quanto avesse rinunciato al piano di distruggere la città del dottor Sarrasin.

Marcel approfittò dunque di quella concessione di vita che gli veniva fatta, e rinnovò ogni giorno la sua manovra. Aveva cura, ben inteso, di non fumare la belladonna, e a questo scopo aveva due pacchi di tabacco, uno per suo uso personale, l'altro per la sua manipolazione quotidiana. Il suo scopo era semplicemente di destare la curiosità di Arminius e di Sigimer. Da incalliti fumatori quali erano, quei due bruti dovevano ben presto finir col notare l'arbusto di cui egli coglieva le foglie, e imitare la sua operazione per provare anch'essi il gusto che quel miscuglio comunicava al tabacco.

Il calcolo era giusto, e il risultato previsto avvenne per così dire meccanicamente.

Il sesto giorno - era il giorno prima del fatale 13 settembre - Marcel, guardando con la coda dell'occhio dietro di sé, ebbe la soddisfazione di vedere i suoi guardiani fare la loro piccola provvista di foglie verdi.

Un'ora più tardi, si assicurò che le facevano disseccare al calore del fuoco, le rotolavano nelle loro grosse mani callose e le mescolavano al tabacco. Pareva anzi che se ne leccassero le dita in anticipo!

Marcel dunque si proponeva soltanto di addormentare Arminius e Sigimer? No. Non bastava sfuggire alla loro sorveglianza. Bisognava

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anche trovare la possibilità di passare per il canale, attraverso l'acqua che vi si versava, anche se quel canale fosse stato lungo molti chilometri. Ora, questo mezzo, Marcel lo aveva escogitato. Aveva, è vero, nove probabilità su dieci di morire, ma il sacrificio della sua vita, già condannata, era già fatto da un pezzo.

Venne la sera, e, con la sera, l'ora della cena, poi l'ora dell'ultima passeggiata. L'inseparabile trio prese la via del parco.

Senza esitare, senza perdere un minuto, Marcel si diresse deliberatamente verso un edificio che sorgeva in un boschetto e che non era altro che il laboratorio dei modelli. Scelse una panca un po' in disparte, riempì la sua pipa e cominciò a fumarla.

Subito Arminius e Sigimer, che tenevano pronte le loro pipe, si sedettero sulla panca vicina e cominciarono ad aspirare enormi boccate.

L'effetto del narcotico non si fece aspettare. Non erano ancora passati cinque minuti, che i due massicci teutoni

sbadigliavano e si stiravano a tutto spiano come orsi in gabbia. Un velo oscurò i loro occhi; le orecchie presero a ronzare; i loro volti passarono dal rosso chiaro al rosso ciliegia; le braccia caddero inerti; le teste si rovesciarono indietro sulla spalliera della panca.

Le pipe rotolarono a terra. Alla fine, un doppio concerto di sonoro russare venne a unirsi in

cadenza al cinguettio degli uccelli che un'estate perpetua tratteneva nel parco di Stahlstadt.

Marcel non aspettava che questo momento. Con quale impazienza si può comprendere, poiché la sera successiva, alle undici e quarantacinque, France-Ville, condannata da Herr Schultze, avrebbe cessato di esistere.

Marcel si era precipitato nel laboratorio dei modelli. Quella grande sala conteneva tutto un museo. Modelli di macchine idrauliche, locomotive, macchine a vapore, locomobili, pompe di sentina, turbine, perforatrici, motori marini, scafi di nave, v'era là per molti milioni di capolavori. Erano i modelli di legno di tutto quanto avevano fabbricato gli stabilimenti Schultze dalla fondazione, e si può bene immaginare che non mancavano i modelli di cannoni, di torpedini o di obici.

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La notte era buia, e per conseguenza propizia all'ardito progetto che il giovane alsaziano si proponeva di mettere in atto. Preparando il suo ultimo piano d'evasione, voleva contemporaneamente distruggere il museo dei modelli di Stahlstadt. Ah! se avesse potuto distruggere anche, insieme con la casamatta e il cannone che essa conteneva, l'enorme ed indistruttibile Torre del Toro! Ma non bisognava pensarci.

Prima cura di Marcel fu di prendere una piccola sega d'acciaio, adatta a segare il ferro, che era appesa a una delle rastrelliere di arnesi, e di cacciarsela in tasca. Poi, accendendo un fiammifero estratto dalla sua scatola, senza che la sua mano esitasse un istante accese il fuoco in un angolo della sala dove erano ammucchiate delle cartelle di schizzi e dei leggeri modelli di legno d'abete.

Poi uscì. Un istante dopo, l'incendio, alimentato da tutte quelle materie

combustibili, gettava fiamme immense attraverso le finestre della sala. Subito suonava la campana dell'allarme, un contatto metteva in azione i campanelli elettrici dei diversi quartieri di Stahlstadt, ed i pompieri, trascinando le loro macchine a vapore, accorrevano da tutte le parti.

Contemporaneamente appariva Herr Schultze, la cui presenza doveva incoraggiare tutti quegli operai.

In pochi minuti, le caldaie a vapore erano state messe in pressione, e le potenti pompe funzionavano con rapidità. Esse versavano un diluvio d'acqua sui muri e perfino sul tetto del museo dei modelli. Ma il fuoco, più forte di quell'acqua che, per così dire, evaporava al suo contatto invece di spegnerlo, attaccò in breve tutte le parti dell'edificio nello stesso tempo. In cinque minuti aveva raggiunta un'intensità tale che si doveva rinunciare ad ogni speranza di padroneggiarlo. Lo spettacolo di quell'incendio era grandioso e terribile.

Marcel, rannicchiato in un angolo, non perdeva di vista Herr Schultze, che spingeva i suoi uomini come all'attacco d'una città. Ma non era nemmeno da pensare di salvare il salvabile. Il museo dei modelli era isolato nel parco, ed era certo ormai che sarebbe andato tutto quanto in cenere.

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In quel momento, Herr Schultze, vedendo che non si sarebbe potuto salvar nulla dell'edificio, fece udire queste parole pronunciate con voce di tuono:

— Diecimila dollari a chi salverà il modello n. 3175, chiuso sotto la vetrina centrale!

Era precisamente il modello del famoso cannone perfezionato da Schultze, e più prezioso per lui di qualsiasi altro oggetto chiuso nel museo.

Ma, per salvare quel modello, bisognava gettarsi sotto una pioggia di fuoco, attraverso un'atmosfera di fumo nero che doveva essere irrespirabile. Di dieci probabilità, ce n'erano nove di restarvi! Perciò, nonostante l'allettamento dei diecimila dollari, nessuno rispondeva all'appello di Herr Schultze.

Allora un uomo si presentò. Era Marcel. — Andrò io, — disse. — Voi! — esclamò Herr Schultze. — Io! — Questo non vi salverà, sappiatelo, dalla sentenza di morte

pronunciata contro di voi. — Non ho la pretesa di sottrarmici, ma di strappare alla

distruzione quel prezioso modello! — Va' dunque, — rispose Herr Schultze — e ti giuro che, se

riesci, i diecimila dollari saranno fedelmente consegnati ai tuoi eredi. — Ci conto, — rispose Marcel. Erano stati portati molti di quegli apparecchi Galibert, sempre

pronti in caso d'incendio, che permettono di penetrare negli ambienti più irrespirabili. Marcel se ne era già servito quando aveva tentato di strappare alla morte il piccolo Carl, il figlio della signora Bauer.

Uno di quegli apparecchi, carico d'aria ad una pressione di molte atmosfere, gli fu subito messo sulle spalle. Fissata la molletta al suo naso, messo il boccaglio del tubo in bocca, egli si slanciò in mezzo al fumo.

«Finalmente!» pensò. «Nel serbatoio ho aria per un quarto d'ora!… Dio voglia che basti!»

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Come ci si può ben immaginare Marcel non pensava minimamente a salvare il modello del cannone Schultze. Egli non fece che attraversare, con pericolo della vita, la sala piena di fumo, sotto una pioggia di tizzoni accesi, di travi calcinate, che, per miracolo, non lo colpirono, e nel momento in cui il tetto crollava in mezzo ad un fuoco d'artificio di scintille che il vento portava fino alle nuvole, usciva da una porta opposta che si apriva sul parco.

Correre verso il fiumicello, scenderne l'argine fino allo sfioratore sconosciuto che lo avrebbe condotto fuori di Stahlstadt, tuffarvisi senza esitazione, fu per Marcel cosa di pochi secondi.

Una rapida corrente lo spinse allora in una massa d'acqua che misurava sette o otto piedi di profondità. Non aveva bisogno di dirigersi, perché la corrente lo guidava come se egli avesse tenuto in mano il filo d'Arianna. Si avvide quasi subito che era entrato in uno stretto canale, una specie di tubo, che il sovrappiù del fiume riempiva interamente.

«Qual è la lunghezza di questo tubo?» si chiese Marcel. «Tutto dipende da ciò! Se non lo avrò superato fra un quarto d'ora, l'aria mi mancherà, e io sarò perduto!»

Marcel aveva conservato tutto il suo sangue freddo. Da dieci minuti la corrente lo spingeva a quel modo, quando urtò contro un ostacolo.

Era una grata di ferro, montata su cardini, che chiudeva il canale. «Dovevo temerlo!» pensò semplicemente Marcel. E senza perdere un secondo, estrasse di tasca la lima, e cominciò a

segare il catenaccio al limite della bocchetta della serratura. Dopo cinque minuti di lavoro non aveva ancora staccato il

catenaccio; la grata rimaneva ostinatamente chiusa. Già Marcel respirava con difficoltà. L'aria, molto rarefatta nel serbatoio, gli giungeva in quantità insufficiente. Dei ronzii agli orecchi, il sangue agli occhi, la congestione che lo pigliava alla testa, tutto indicava che un'imminente asfissia stava per fulminarlo! Egli resisteva tuttavia, tratteneva il respiro per consumare la minor quantità possibile di quell'ossigeno che i suoi polmoni non potevano trovare in quell'ambiente!… ma il catenaccio non cedeva, sebbene

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profondamente intaccato! In quel momento, la lima gli sfuggì di mano.

«Dio non può essere contro di me!» pensò. E scrollando la grata con tutte e due le mani, lo fece con

quell'energia che dà l'istinto supremo della conservazione. La grata si aprì. Il catenaccio era spezzato, e la corrente trascinò il

disgraziato Marcel, quasi completamente soffocato, e che si sforzava di aspirare le ultime molecole d'aria del serbatoio!

Il giorno seguente, quando gli uomini di Herr Schultze penetrarono nell'edificio completamente divorato dall'incendio, non trovarono né fra i rottami né in mezzo alle ceneri, nessun avanzo d'essere umano. Era dunque certo che il coraggioso operaio era rimasto vittima del proprio sacrificio. Ciò non meravigliava quelli che lo avevano conosciuto nelle sale dell'officina.

Il modello tanto prezioso non era dunque stato salvato, ma l'uomo che possedeva i segreti del Re dell'Acciaio era morto.

«Il Cielo può testimoniare come volevo risparmiargli di soffrire» pensò bonariamente Herr Schultze! «Ad ogni modo, è un'economia di diecimila dollari!»

E questa fu tutta l'orazione funebre per il giovane alsaziano!

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CAPITOLO X

UN ARTICOLO DELLA RIVISTA TEDESCA «UNSERE CENTURIE»

UN MESE prima del periodo nel quale si verificavano gli avvenimenti che sono stati narrati qui sopra, una rivista dalla copertina color salmone, intitolata «Unsere Centurie» (Il nostro secolo), pubblicava l'articolo seguente a proposito di France-Ville, articolo che fu apprezzato particolarmente dagli schizzinosi dell'impero germanico, forse perché non pretendeva di studiare quella città se non dal punto di vista esclusivamente materiale.

«Abbiamo già informato i nostri lettori del fenomeno straordinario che si è prodotto sulla costa occidentale degli Stati Uniti. La grande repubblica americana, grazie alla considerevole percentuale di emigranti che fa parte della sua popolazione, con le sue sorprese non finisce mai di far stupire il mondo. Ma l'ultima e la più singolare è veramente quella di una città chiamata France-Ville, di cui non esisteva neppure l'idea cinque anni fa, e che oggi è fiorente e giunta di colpo al più alto grado di prosperità.

«Questa meravigliosa città è sorta come per incantesimo sulla riva balsamica del Pacifico. Non staremo ad esaminare se, come si assicura, il piano e l'idea primitiva di questa impresa appartengano a un francese, il dottor Sarrasin. La cosa è possibile, poiché questo medico può vantarsi di una lontana parentela con il nostro illustre Re dell'Acciaio. Anzi, sia detto en passant, si aggiunge che la captazione di una grande eredità, che spettava legittimamente a Herr Schultze, non sia stata estranea alla fondazione di France-Ville. Dappertutto, dove si fa un po' di bene nel mondo, si può essere certi di trovare un seme germanico; è una verità che, all'occasione, siamo orgogliosi di constatare. Ma comunque, noi dobbiamo ai nostri lettori particolari precisi ed autentici sulla fioritura spontanea d'una città modello.

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«Non se ne cerchi il nome sulla carta. Nemmeno il grande atlante in trecentosettantotto volumi in-folio del nostro eminente Tuchtigmann, dove sono indicati con esattezza rigorosa tutti i cespugli e gruppi d'alberi dell'antico e del nuovo mondo, nemmeno questo monumento generoso della scienza geografica applicata all'arte dell'artigliere porta ancora la minima traccia di France-Ville. Là dove oggi sorge la nuova città, ancora cinque anni or sono si stendeva una landa deserta. È il punto esatto indicato sulla carta dal 43° 11' 3" di latitudine nord, e dal 124° 41' 17" di longitudine ovest da Greenwich. È, come si vede, sulla costa dell'oceano Pacifico e ai piedi della catena secondaria delle montagne Rocciose che ha ricevuto il nome di Cascade-Mounts, a venti leghe a nord del capo Bianco, Stato dell'Oregon, America Settentrionale.

«Era stata ricercata con cura la località più rigogliosa e scelta fra un gran numero di altri luoghi favorevoli. Fra le ragioni che ne hanno determinata la scelta, si fa valere specialmente la latitudine temperata nell'emisfero nord, che è sempre stata la più importante per la civilizzazione terrestre; la sua posizione in mezzo a una repubblica federale e in uno Stato ancora nuovo, il che ha permesso di farsi garantire temporaneamente la propria indipendenza e diritti analoghi a quelli che possiede in Europa il principato di Monaco, a patto di rientrare dopo un certo numero di anni nell'Unione; la sua situazione sull'Oceano, che diventa sempre più la via maestra del globo; la natura accidentata, fertile e eminentemente salubre del suolo; la vicinanza di una catena di montagne che blocca contemporaneamente i venti del nord, del mezzogiorno e dell'est, lasciando alla brezza del Pacifico la cura di rinnovare l'atmosfera della città; la presenza di un piccolo fiume, la cui acqua fresca, dolce, leggera, ossigenata da frequenti cascate e dalla rapidità del suo corso, arriva perfettamente pura al mare; infine, un porto naturale, molto facilmente ampliabile con dighe e formato da un lungo promontorio ricurvo a uncino.

«Ci limitiamo a indicare alcuni dei vantaggi secondari: prossimità di belle cave di marmo e di pietra, giacimenti di caolino e perfino tracce di pepite aurifere. In realtà quest'ultimo particolare per poco non ha fatto abbandonare il territorio: i fondatori della città temevano

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che la febbre dell'oro potesse interporsi a ostacolare i loro piani. Ma, fortunatamente, le pepite erano piccole e rare.

«La scelta del territorio, sebbene determinata soltanto da studi seri e profondi, non aveva richiesto che pochi giorni, e non erano state necessarie speciali spedizioni. La scienza del globo è oramai abbastanza progredita perché si possa, senza uscire dal proprio studio, ottenere notizie esatte e precise sulle regioni più lontane.

«Stabilito questo punto, due commissari del comitato promotore si sono imbarcati a Liverpool sul primo piroscafo in partenza, sono arrivati in undici giorni a New York, e sette giorni più tardi a San Francisco, dove hanno noleggiato uno steamer, che dieci ore dopo li depositava nella località designata.

«Accordarsi con il governo dell'Oregon, ottenere una concessione di terra estendentesi dalla riva del mare alla cresta dei Cascade-Mounts, per una larghezza di quattro leghe, liquidare, con alcune migliaia di dollari, una mezza dozzina di piantatori che avevano su quelle terre diritti reali o supposti, tutto ciò non ha richiesto più d'un mese.

«Nel gennaio 1872, il territorio era già riconosciuto, misurato, delimitato, scandagliato, e un esercito di ventimila coolies cinesi, sotto la direzione di cinquecento capimastri e ingegneri europei, era all'opera. Manifesti affissi in tutto lo Stato di California, un vagone-pubblicitario aggiunto in permanenza al rapido che parte tutte le mattine da San Francisco per attraversare il continente americano, e una pubblicità quotidiana sui ventitré giornali di quella città, erano bastati per assicurare il reclutamento degli operai. Era persino stato inutile adottare grandi mezzi in una pubblicità su larga scala, mediante lettere gigantesche scolpite sulle cime delle montagne Rocciose, che una compagnia aveva offerto a prezzi ridotti. Bisogna anche dire che l'affluenza dei coolies cinesi nell'America Occidentale stava portando in quel momento un grave turbamento sul mercato dei salari. Molti Stati avevano dovuto ricorrere, per proteggere i mezzi d'esistenza dei loro propri abitanti e per impedire violenze sanguinose, a un'espulsione in massa di quei disgraziati. La fondazione di France-Ville venne a proposito per impedir loro di morire. La loro rimunerazione uniforme venne fissata in un dollaro al

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giorno, che doveva essere loro pagato solo dopo il compimento dei lavori, e in viveri in natura, distribuiti dall'amministrazione municipale. Si evitarono così i disordini e le speculazioni sfrontate che disonorano troppo spesso questi grandi spostamenti di popolazione. Il prodotto dei lavori veniva depositato tutte le settimane, alla presenza di delegati, presso la grande Banca di San Francisco, e ogni codile doveva impegnarsi, riscuotendo, a non tornare più. Precauzione indispensabile per sbarazzarsi di una popolazione gialla, che avrebbe certamente modificato, in modo piuttosto spiacevole, il tipo ed il genio della nuova città. Poiché i fondatori oltre tutto si erano riservati il diritto di accordare o di rifiutare il permesso di soggiorno, l'applicazione della legge è stata relativamente facile.

«La prima grande impresa è stata la costruzione di una ferrovia che congiunge il territorio della nuova città con il tronco del Pacific-Railroad, e arriva fino alla città di Sacramento. Si ebbe cura di evitare qualsiasi rivolgimento di terra o scavo di profonde trincee che avrebbero potuto esercitare sulla salubrità un'influenza dannosa. Questi lavori e quelli del porto furono portati avanti con attività straordinaria. Fino dal mese d'aprile, il primo treno diretto da New York conduceva nella stazione di France-Ville i membri del comitato, fino a quel giorno rimasti in Europa.

«Frattanto, erano stati stabiliti i piani generali della città, i particolari delle abitazioni e dei monumenti pubblici.

«Non mancavano certamente i materiali: fin dalle prime notizie del progetto, l'industria americana si era affrettata ad inondare le banchine di France-Ville di tutti gli elementi immaginabili di costruzione. I fondatori non avevano che l'imbarazzo della scelta. Essi decisero che la pietra viva sarebbe stata riservata agli edifici pubblici e alla ornamentazione generale, mentre le case sarebbero state fatte di mattoni. Beninteso, non di quei mattoni fatti grossolanamente con un blocco di terra cotta più o meno bene, ma mattoni leggeri, perfettamente regolari per forma, peso e densità, forati in lunghezza da una serie di fori cilindrici e paralleli. Questi buchi, corrispondenti l'uno all'altro, dovevano formare nello spessore di tutti i muri dei condotti aperti alle due estremità, e permettere così

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all'aria di circolare liberamente nell'involucro esterno delle case come nei tramezzi interni.5 Questa disposizione aveva contemporaneamente il prezioso vantaggio di smorzare i suoni e di procurare ad ogni appartamento un'indipendenza assoluta.

«Il comitato non pretendeva, del resto, d'imporre ai costruttori un solo tipo di casa. Era anzi avverso a questa uniformità insipida che stanca; si era accontentato di formulare un certo numero di regole fisse alle quali gli architetti dovevano conformarsi:

«"1. Ogni casa sarà isolata in uno spazio di terreno piantato ad alberi, erbe e fiori. Essa apparterrà ad una sola famiglia.

«"2. Nessuna casa avrà più di tre piani; l'aria e la luce non devono essere accaparrate dagli uni a danno degli altri.

«"3. Tutte le case avranno la facciata arretrata di dieci metri rispetto alla via, da cui saranno separate da un'inferriata alta tanto da potervisi appoggiare. Lo spazio fra l'inferriata e la facciata sarà sistemato a giardino.

«"4. I muri saranno fatti di mattoni tubolari brevettati, conformi al modello. È lasciata ampia libertà agli architetti circa l'ornamentazione.

«"5. I tetti saranno a terrazza, leggermente inclinati nei quattro sensi, coperti di bitume, circondati da una balaustrata alta abbastanza da rendere impossibili gli accidenti, ed incanalati accuratamente per lo scolo immediato delle acque piovane.

«"6. Tutte le case saranno costruite su fondamenta a volta, aperte da tutti i lati, e formanti sotto il primo piano d'abitazione un seminterrato d'aerazione e nel medesimo tempo un porticato. Le tubazioni d'acqua e gli scarichi saranno scoperti, applicati al pilastro centrale della volta, in modo che sia sempre facile verificarne lo stato e, in caso d'incendio, avere immediatamente l'acqua necessaria. L'area di questo porticato, elevato di cinque o sei centimetri sul piano stradale, sarà debitamente cosparsa di sabbia.

5 Queste prescrizioni, come il concetto generale del Benessere, sono dovute all'opera dello scienziato dottor Benjamin Ward Richardson, membro della Società reale londinese (N.d.A.)

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Una porta e una scala speciale metteranno il porticato in comunicazione diretta con le cucine o dispense, e tutte le operazioni domestiche si potranno effettuare lì senza turbare la vista o l'olfatto.

«"7. Le cucine, dispense o dipendenze saranno, contrariamente all'uso solito, poste al piano superiore e in comunicazione con la terrazza, che ne diventerà così un ampio annesso all'aria aperta. Un ascensore, mosso da una forza meccanica che sarà, come la luce artificiale e l'acqua, fornita agli abitanti a prezzo ridotto, permetterà facilmente il trasporto di ogni peso a questo piano.

«"8. La disposizione degli appartamenti è lasciata al capriccio individuale. Ma due pericolosi elementi di malattia, veri nidi di miasmi e laboratori di veleni, sono assolutamente vietati: i tappeti e le tappezzerie di carta dipinta. I pavimenti in legno, artisticamente costruiti con legni pregiati disposti a mosaico da abili ebanisti, avrebbero tutto da perdere se nascosti sotto le stoffe di lana di dubbia pulizia. Quanto alle pareti, rivestite di mattoni verniciati, offrono agli occhi lo splendore e la varietà degli appartamenti interni di Pompei, con un lusso di colori e di durata che la carta dipinta, carica dei suoi mille sottili veleni, non ha mai potuto ottenere. Si lavano come si lavano gli specchi e i vetri, come si fregano i pavimenti e i soffitti. Non un germe di malattia può mettervisi in imboscata.

«"9. Ogni camera da letto è separata dal bagno. Non si raccomanderà mai abbastanza di fare questo locale, dove trascorriamo un terzo della vita, in modo che sia il più aerato e nel medesimo tempo il più semplice. Questa stanza deve servire unicamente al sonno: quattro seggiole, un letto di ferro, munito di un saccone traforato e di un materasso di lana battuto frequentemente, sono i soli mobili necessari. I piumini, i copripiedi imbottiti e simili, potenti alleati delle malattie epidemiche, ne sono naturalmente esclusi. Delle buone coperte di lana, leggere e calde, facili a lavare, bastano ampiamente a sostituirli. Senza proscrivere formalmente le cortine e le tende, si deve consigliare almeno di scegliere fra stoffe che possano venire lavate di frequente.

«"10. Ogni stanza ha il suo camino che funziona, secondo i gusti, a fuoco di legna o di carbone, ma a ogni camino corrisponde una bocca d'aria esterna. Quanto al fumo, invece d'essere espulso dai

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tetti, si immette in condotti sotterranei che lo convogliano in forni speciali, disposti, a spese della città, dietro le case, in ragione di un forno ogni duecento abitanti. Là, viene spogliato delle particelle di carbone che porta con sé, e scaricato allo stato incolore a una altezza di trentacinque metri nell'atmosfera".

«Ecco le dieci regole fisse imposte per la costruzione di ogni abitazione privata.

«Le disposizioni generali sono studiate con altrettanta cura. «Anzitutto, il piano della città è essenzialmente semplice e

regolare, in modo da potersi adattare a tutti gli sviluppi. Le vie, che si incrociano a angoli retti, sono tracciate a distinte uguali, di larghezza uniforme, piantate con alberi e designate da numeri d'ordine.

«Ogni mezzo chilometro, la via, più larga d'un terzo, prende il nome di viale, e presenta su uno dei lati una trincea allo scoperto per i tram e le metropolitane. Ad ogni incrocio, è riservato un giardino pubblico adorno di belle copie di capolavori di scultura, nell'attesa che gli artisti di France-Ville abbiano prodotto delle opere originali degne di sostituirle.

«Tutte le industrie e tutti i commerci sono liberi. «Per ottenere il diritto di residenza a France-Ville è necessario e

sufficiente dare delle buone referenze, essere capace di esercitare una professione utile o liberale, nell'industria, nelle scienze o nelle arti, ed obbligarsi ad osservare le leggi della città. Le esistenze oziose non vi sarebbero tollerate.

«Gli edifici pubblici sono già numerosi. I più importanti sono la cattedrale, un certo numero di chiese minori, i musei, le biblioteche, le scuole ed i ginnasi, costruiti con un lusso e una intelligenza delle convenienze igieniche degni veramente di una grande città.

«Inutile dire che i fanciulli sono obbligati, fin dall'età di quattro anni, ad applicarsi agli esercizi intellettuali e fisici, gli unici che possono sviluppare le loro forze cerebrali e muscolari. Vengono abituati tutti a una pulizia così rigorosa, che considerano una macchia sui loro semplici abiti come un vero disonore.

«Il punto della pulizia individuale e collettiva è, del resto, la preoccupazione principale dei fondatori di France-Ville. Pulire, pulire incessantemente, distruggere e annullare appena si sono

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formati i miasmi che vengono emanati costantemente da un agglomerato urbano, ecco l'opera principale del governo centrale. A questo scopo gli scarichi delle fogne sono centralizzati fuori della città, trattati con procedimenti che ne permettono la condensazione ed il trasporto quotidiano nelle campagne.

«L'acqua scorre a fiotti dappertutto. Le vie, pavimentate in legno bituminato, e i marciapiedi di pietra sono lucenti come il pavimento di un cortile olandese. I mercati alimentari sono oggetto di una sorveglianza incessante, e pene severe sono applicate ai negozianti che osano speculare sulla salute pubblica. Un negoziante che vende un uovo guasto, carne avariata, un litro di latte sofisticato, è semplicemente trattato, come merita, da avvelenatore. Questa pulizia sanitaria, così necessaria e tanto delicata, è affidata a uomini sperimentati, veri specialisti, istruiti a questo scopo negli istituti magistrali.

«La loro giurisdizione si estende fino alle lavanderie, tutte molto importanti, fornite di macchine a vapore, di essiccatoi artificiali e soprattutto di camere di disinfezione. Nessun pezzo di biancheria intima ritorna al suo proprietario senza essere stato veramente ripulito a fondo, e si ha gran cura di non confondere mai la biancheria di una famiglia con quella di un'altra. Questa semplice precauzione è di effetto incalcolabile.

«Gli ospedali sono poco numerosi, poiché il sistema dell'assistenza a domicilio è generale, e sono riservati agli stranieri senza casa e a qualche caso eccezionale. Non occorre quasi aggiungere che l'idea di costruire come ospedale un edificio più grande di tutti gli altri, e di ammucchiare nel medesimo focolaio d'infezione sette o ottocento malati, non è potuta venire ai fondatori della città modello. Invece di cercare, con una strana aberrazione, di riunire sistematicamente più pazienti, si pensa, al contrario, solamente a isolarli. È loro interesse individuale, come quello del pubblico. In ogni casa, anzi, si raccomanda di tenere possibilmente il malato in un appartamento separato. Gli ospedali sono costruzioni eccezionali e ristrette, da utilizzarsi temporaneamente per qualche caso urgente.

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«Venti, trenta malati al massimo possono trovarsi - ognuno nella sua stanza privata - concentrati in leggere costruzioni fatte di legno d'abete, e che vengono bruciate regolarmente tutti gli anni per rinnovarle. Questi ambulatori, prefabbricati secondo un modello speciale, hanno inoltre il vantaggio di poter essere trasportati a volontà in questo o quel punto della città, secondo i bisogni, e moltiplicati secondo la necessità.

«Un'innovazione ingegnosa, connessa con questo servizio, è quella di un corpo di infermiere sperimentate, addestrate particolarmente a questo mestiere del tutto speciale, e tenute a disposizione del pubblico dall'amministrazione centrale. Queste donne, scelte con discernimento, sono gli ausiliari più preziosi e più devoti per i medici. Esse portano in seno alle famiglie le cognizioni pratiche, tanto necessarie e che così spesso mancano nel momento del pericolo, e hanno la missione di impedire la propagazione della malattia nel medesimo tempo che curano un malato.

«Non si finirebbe mai se si volesse enumerare tutti i perfezionamenti igienici che i fondatori della nuova città hanno inaugurato. Ogni cittadino riceve al suo arrivo un opuscolo, in cui in linguaggio semplice e chiaro sono esposti i principi più importanti di una vita regolare secondo i dettami della scienza.

«Egli vi impara che l'equilibrio perfetto di tutte le funzioni è una necessità della salute; che il lavoro e il riposo sono egualmente indispensabili ai suoi organi; che la fatica è necessaria al suo cervello quanto ai suoi muscoli; che i nove decimi delle malattie sono dovuti al contagio trasmesso dall'aria o dagli alimenti. Egli non sarebbe dunque mai abbastanza in grado di circondare la sua casa e la sua persona di «quarantene» sanitarie. Evitare l'uso dei veleni eccitanti, praticare gli esercizi fisici, compiere coscienziosamente ogni giorno un dato lavoro, bere della buona acqua pura, mangiare carni e verdure sane e preparate semplicemente, dormire regolarmente sette o otto ore ogni notte, ecco l'A B C della salute.

«Partiti dai primi principi posti dai fondatori, siamo venuti insensibilmente a parlare di questa città singolare come di una città compiuta. E infatti, una volta costruite le prime case, le altre sono uscite da terra come per incantesimo. Bisogna aver visitato il Far-

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West per rendersi conto di queste infiorescenze urbane. Ancora deserto nel mese di gennaio 1872, il luogo scelto contava già seimila case nel 1873. Ne possedeva novemila e tutti gli edifici erano completi nel 1874.

«Bisogna dire che la speculazione ha avuto la sua parte in questo successo inaudito. Costruite ih grande su terreni immensi e inizialmente senza valore, le case erano cedute a prezzi mitissimi e affittate a condizioni modestissime. L'assenza di ogni tassa, l'indipendenza politica di quel piccolo territorio isolato, l'attrattiva della novità, la dolcezza del clima, hanno contribuito a farvi convergere gli emigrati. Nel momento attuale, France-Ville conta circa centomila abitanti.

«Quello che è più importante e che solo può interessarci, è che l'esperimento sanitario è dei più soddisfacenti. Mentre la mortalità annua, nelle città più favorite della vecchia Europa o del Nuovo Mondo, non è scesa mai sensibilmente al di sotto del tre per cento, a France-Ville la media di questi cinque anni non è che dell'uno e mezzo. E bisogna dire che questa cifra è ingrossata da una piccola epidemia di febbre paludosa che ha segnalato la prima campagna. Quella dell'anno scorso, presa isolatamente, non è che di uno e un quarto. Circostanza più importante ancora: salvo poche eccezioni, tutte le morti ora registrate sono dovute a malattie specifiche e per la maggior parte ereditarie. Le malattie accidentali sono state, a loro volta, infinitamente più rare, più limitate e meno pericolose che in nessun altro luogo. Quanto alle epidemie propriamente dette, non se ne sono viste.

«Sarà interessante seguire lo svolgimento di questo tentativo. Sarà curioso soprattutto ricercare se l'influenza d'un regime così scientifico per tutta la durata d'una generazione, e a maggior ragione di molte generazioni, non possa smorzare le predisposizioni morbose ereditarie.

«"Non è certamente strano lo sperarlo" ha scritto uno dei fondatori di questo stupefacente agglomerato, "e in questo caso, quale sarebbe la grandezza del risultato! Gli uomini che vivono fino a novanta o cento anni, che muoiono solo di vecchiaia come la maggior parte degli animali, come le piante! "»

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«Un tale sogno è veramente seducente! «Se ci è permesso, tuttavia, di esprimere la nostra opinione

sincera, noi non abbiamo molta fiducia nella definitiva riuscita dell'esperimento. Vi scorgiamo un vizio originale e probabilmente fatale, che è il fatto che si trovi nelle mani di un comitato dove l'elemento latino domina e da cui l'elemento germanico è stato sistematicamente escluso. Questo è un sintomo spiacevole. Dacché mondo è mondo, non si è fatto nulla di durevole se non dalla Germania, e nulla di definitivo si farà senza di lei. I fondatori di France-Ville potranno sgombrare il terreno, chiarire qualche punto particolare; ma non è su questo punto dell'America, bensì sulle sponde della Siria che vedremo sorgere un giorno la vera città modello».

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CAPITOLO XI

UNA CENA IN CASA DEL DOTTOR SARRASIN

IL 13 SETTEMBRE - solamente poche ore prima del momento fissato da Herr Schultze per la distruzione di France-Ville - né il governatore né alcuno degli abitanti sospettavano ancora lo spaventoso pericolo che li minacciava.

Erano le sette di sera. Nascosta in fitte macchie di oleandri e di tamarindi, la città si

allungava graziosamente ai piedi dei Cascade-Mounts e offriva i suoi moli di marmo alle onde brevi del Pacifico, che venivano ad accarezzarli senza rumore. Le vie, innaffiate con cura, rinfrescate dalla brezza, offrivano agli occhi lo spettacolo più ridente e animato. Gli alberi che le ombreggiavano mormoravano dolcemente; i tappeti erbosi erano verdeggianti; i fiori delle aiole, riaprendo le corolle, esalavano tutti insieme i loro profumi. Le case sorridevano, tranquille e civettuole nel loro candore. L'aria era tiepida, il cielo azzurro come il mare, che si vedeva scintillare all'estremità dei lunghi viali.

Un viaggiatore, giungendo nella città, sarebbe stato colpito dall'aspetto sano degli abitanti, dall'attività che regnava nelle vie. Proprio allora era l'orario di chiusura delle accademie di musica, di pittura, di scultura, della biblioteca, che erano riunite nello stesso quartiere e dove ottime scuole pubbliche erano divise in sezioni poco numerose, il che permetteva a ogni allievo di usufruire totalmente delle lezioni. La folla, uscendo da quegli edifici, provocò per alcuni istanti un certo ingombro, ma nessuna esclamazione d'impazienza, nessun grido si fece udire. L'aspetto generale era tutto di calma e di soddisfazione.

Non al centro della città, ma sulla sponda del Pacifico la famiglia Sarrasin aveva fatto costruire la sua dimora. Colà, fin dall'inizio -

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poiché quella casa fu costruita tra le prime - era venuto a stabilirsi definitivamente il dottor Sarrasin con sua moglie e sua figlia Jeanne.

Octave, milionario improvvisato, aveva voluto rimanere a Parigi, ma non aveva più Marcel a fargli da mentore.

I due amici si erano praticamente perduti di vista dal tempo in cui abitavano insieme nella via del Re di Sicilia. Quando il dottore era emigrato con sua moglie e sua figlia sulla costa dell'Oregon, Octave era rimasto padrone di se stesso. Era stato in breve trascinato molto lontano dalla scuola, dove suo padre aveva voluto fargli continuare gli studi, ed era stato bocciato all'ultimo esame, da cui il suo amico era uscito promosso a pieni voti.

Fino a quel momento Marcel era stato la bussola del povero Octave, incapace di guidarsi da sé. Quando il giovane alsaziano fu partito, il suo compagno d'infanzia finì a poco a poco col fare a Parigi quella che viene definita una vita in carrozza e cavalli. La frase era, nel presente caso, tanto più giusta in quanto la sua esistenza si svolgeva per lo più sull'alta cassetta di un enorme coach a quattro cavalli, sempre in viaggio fra il viale Marigny, dove egli aveva preso un quartierino, e i diversi campi di corsa dei dintorni. Octave Sarrasin che, tre mesi prima, sapeva appena reggersi in sella sui cavalli di maneggio che noleggiava all'ora, era diventato uno degli uomini più profondamente versati in Francia nei misteri dell'ippologia. La sua erudizione egli la doveva ad un groom inglese che aveva preso al suo servizio e che lo dominava interamente con l'estensione delle sue cognizioni speciali.

I sarti, i sellai ed i calzolai si dividevano le sue mattine. Le sue serate appartenevano ai piccoli teatri ed alle sale d'un circolo, nuovo fiammante, che si era aperto all'angolo della via Tronchet, e che Octave aveva scelto perché la gente che vi trovava rendeva al suo denaro un omaggio che i suoi soli meriti non avevano incontrato altrove. Quella società gli sembrava l'ideale della distinzione. Cosa particolare, la lista, sontuosamente incorniciata, che figurava nella sala d'aspetto, non portava che nomi stranieri. I titoli vi abbondavano, e ci si sarebbe potuti credere, almeno enumerandoli, nell'anticamera d'un collegio araldico. Ma se si penetrava più a fondo, si credeva piuttosto di trovarsi ad un'esposizione vivente di

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etnologia. Tutti i grossi nasi e tutti i coloriti biliosi dei due mondi sembravano essersi dati appuntamento là. Erano vestiti lussuosamente quei personaggi cosmopoliti, benché un gusto marcato per le stoffe chiare rivelasse l'eterna aspirazione delle razze gialla o nera verso il colore dei «visi pallidi».

Octave Sarrasin pareva un giovane dio in mezzo a quei bipedi. Si citavano le sue parole, si copiavano le sue cravatte, si accettavano i suoi giudizi come articoli di fede. E lui, inebriato da quell'incenso, non si accorgeva di perdere regolarmente tutto il suo denaro al baccarà e alle corse. Forse certi membri del club, nella loro qualità d'orientali, credevano d'aver dei diritti all'eredità della Begum. Ad ogni modo, sapevano attirarla nelle loro tasche con un moviménto lento, ma continuo.

In questa esistenza nuova, i vincoli che legavano Octave a Marcel Bruckmann si erano presto allentati. Solo ogni tanto i due compagni scambiavano una lettera. Che cosa ci poteva essere di comune tra l'infaticabile lavoratore, occupato solo a spingere la propria intelligenza ad un grado superiore di cultura e di forza, ed il bel giovanotto tutto gonfio della propria opulenza, con lo spirito pieno delle storielle di club e di scuderia?

È noto come Marcel lasciasse Parigi, dapprima per osservare le imprese di Herr Schultze, che aveva fondato Stahlstadt, una rivale di France-Ville, sul medesimo terreno indipendente degli Stati Uniti, poi, per entrare al servizio del Re dell'Acciaio.

Per due anni, Octave condusse questa vita inutile e dissipata. Infine lo prese la noia per quelle cose vuote, ed un bel giorno, dopo essersi divorato qualche milione, raggiunse suo padre, il che lo salvò da una rovina disastrosa, ancor più morale che fisica. Al momento dunque egli abitava a France-Ville nella casa del dottore.

Sua sorella Jeanne, perlomeno a giudicare dall'apparenza, era allora una bellissima ragazza di diciannove anni, alla quale il soggiorno di quattro anni nella nuova patria aveva dato tutte le qualità americane aggiunte a tutte le grazie francesi. Sua madre diceva talvolta che ella non aveva mai sospettato, prima d'averla per compagna di ogni momento, il fascino dell'intimità assoluta.

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Quanto alla signora Sarrasin, dopo il ritorno del figliol prodigo, il suo delfino, il figlio primogenito delle sue speranze, era anch'essa felice quanto si può esserlo quaggiù, poiché si associava a tutto il bene che suo marito poteva fare e che faceva, grazie al suo immenso patrimonio.

Quella sera, il dottor Sarrasin aveva invitato a cena due suoi intimi amici, il colonnello Hendon, un vecchio mutilato della guerra di secessione, che aveva lasciato un braccio a Pittsburg ed un orecchio a Seven-Oaks, ma che ad ogni modo faceva la sua partita agli scacchi quanto un altro e il signor Lentz, direttore generale dell'insegnamento nella nuova città.

La conversazione verteva sui progetti dell'amministrazione della città, sui risultati già ottenuti nelle istituzioni pubbliche di ogni natura, istituti, ospedali, casse di mutuo soccorso.

Il signor Lentz, secondo il programma del dottore, nel quale l'insegnamento religioso non era stato dimenticato, aveva fondato varie scuole primarie in cui le cure del maestro tendevano a sviluppare lo spirito del fanciullo sottoponendolo ad una ginnastica intellettuale calcolata in modo da seguire l'evoluzione naturale delle sue facoltà. Gli veniva insegnato ad amare una scienza prima di infarcirgliene la testa, evitando quel sapere che, secondo Montaigne, «galleggia alla superficie del cervello», non scende in profondità, non rende né più saggio, né migliore. Più tardi, un'intelligenza ben preparata avrebbe saputo lei stessa scegliersi la propria via e seguirla con profitto.

Le cure igieniche erano di importanza fondamentale in una educazione così ben ordinata. Infatti l'uomo, corpo e spirito, deve essere parimenti sicuro di questi due servitori; se uno manca, egli ne soffre, e lo spirito da solo soccomberebbe ben presto.

A quell'epoca France-Ville aveva raggiunto il più alto grado di prosperità, non solo materiale, ma intellettuale. Nei congressi che vi si tenevano, si riunivano i più illustri scienziati dei due mondi. Artisti, pittori, scultori, musicisti, attirati dalla reputazione di quella città, vi affluivano. Sotto tali maestri studiavano i giovani abitanti di France-Ville, che promettevano di rendere famoso un giorno quell'angolo di terra americana. Era dunque possibile prevedere che

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quella nuova Atene d'origine francese sarebbe diventata in poco tempo la prima delle metropoli.

Bisogna anche dire che l'educazione militare degli allievi si faceva nei licei insieme con l'educazione civile. Uscendone, i giovani conoscevano, oltre al maneggio delle armi, i primi elementi di strategia e di tattica.

Perciò il colonnello Hendon, quando si fu su quell'argomento, dichiarò che egli era contentissimo di tutte le sue reclute.

— Esse sono — disse — già avvezze alle marce forzate, alla fatica, a tutti gli esercizi fisici. Il nostro esercito è composto da tutti i cittadini, e tutti, il giorno in cui sarà necessario, saranno soldati agguerriti e disciplinati.

France-Ville era nei migliori rapporti con tutti gli Stati vicini, poiché essa aveva colto tutte le occasioni di essere loro utile; ma l'ingratitudine parla così forte nelle questioni d'interesse, che il dottore ed i suoi amici non avevano perduta di vista la massima: Aiutati, che il cielo ti aiuta! e volevano contare solo sulle loro forze.

Si era alla fine del pranzo; dopo le frutta, secondo l'abitudine anglosassone che era prevalsa, le signore avevano lasciato la tavola.

Il dottor Sarrasin, Octave, il colonnello Hendon ed il signor Lentz continuavano la conversazione iniziata ed affrontavano le più alte questioni di economia politica, quando un domestico entrò e consegnò al dottore il giornale.

Era il «New-York Herald». Questo serissimo giornale si era sempre mostrato estremamente favorevole alla fondazione, poi allo sviluppo di France-Ville, ed i notabili della città avevano l'abitudine di cercare nelle sue colonne le variazioni possibili dell'opinione pubblica negli Stati Uniti rispetto a loro. Quel nucleo di gente felice, libera, indipendente su quel piccolo territorio neutro, aveva suscitato molti invidiosi, e se gli abitanti di France-Ville avevano in America partigiani per difenderli, c'erano pure nemici per attaccarli. In ogni caso, il «New-York Herald» stava dalla loro parte, e non cessava di dar loro prove di ammirazione e di stima.

Il dottor Sarrasin, continuando a chiacchierare, aveva lacerata la fascia del giornale e gettato macchinalmente gli occhi sul primo articolo.

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Quale fu il suo stupore gettando un'occhiata sulle poche righe seguenti, che egli lesse prima a bassa voce, poi a voce alta con grande sorpresa e profonda indignazione dei suoi amici:

«New York, 8 settembre. — Un violento attentato contro il diritto delle genti sta per compiersi. Apprendiamo da fonte certa che formidabili armamenti si fanno a Stahlstadt allo scopo d'assalire e di distruggere France-Ville, la città d'origine francese. Non sappiamo se gli Stati Uniti potranno e dovranno intervenire in questa lotta che metterà ancora alle prese le razze latina e sassone, ma denunciamo agli onesti questo odioso abuso della forza. France-Ville non perda un'ora per mettersi in stato di difesa, ecc...».

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CAPITOLO XII

IL CONSIGLIO

NON ERA UN SEGRETO l'odio del Re dell'Acciaio per l'opera del dottor Sarrasin. Si sapeva che egli era venuto a costruire città contro città; ma da ciò a buttarsi addosso ad una città pacifica, a distruggere con un colpo di mano, bisognava credere che ci fosse un bel salto. Pure, l'articolo del «New-York Herald» era chiaro. I corrispondenti di questo potente giornale avevano scoperto i piani di Herr Schultze, e - essi lo dicevano - non c'era un'ora da perdere!

Il buon dottore rimase da principio confuso. Come tutti gli animi onesti, egli si ostinava quanto più poteva a non credere al male. Gli pareva impossibile che si potesse spingere la perversità fino a voler distruggere senza motivo o per pura boria una città che in certo qual modo era patrimonio comune dell'umanità.

— Pensate dunque che la nostra media di mortalità non sarà quest'anno che dell'1,25%! — esclamò ingenuamente — che non abbiamo un ragazzo di dieci anni che non sappia leggere, che non si è commesso né un omicidio, né un furto dalla fondazione di France-Ville! E alcuni barbari verrebbero a distruggere ai suoi inizi un esperimento così felice! No! Io non posso ammettere che un chimico, che uno scienziato, fosse cento volte tedesco, ne sia capace!

Pure, bisognò arrendersi alle testimonianze di un giornale devoto all'opera del dottore, e prendere immediati provvedimenti. Passato il primo momento di abbattimento, il dottor Sarrasin, ridiventato padrone di se stesso, si rivolse ai suoi amici:

— Signori, — disse — voi siete membri del Consiglio civico, e spetta a voi quanto a me prendere tutte le precauzioni necessarie per la salvezza della città. Che cosa dobbiamo fare prima di tutto?

— C'è possibilità di sistemazione pacifica? — chiese il signor Lentz. — Si può evitare la guerra in modo onorevole?

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— È impossibile — rispose Octave. — Evidentemente Herr Schultze la vuole ad ogni costo. Il suo odio non transigerà!

— E sia! — esclamò il dottore. — Disporremo le cose in modo da essere in grado di rispondergli. Colonnello, credete che ci sia un mezzo di resistere ai cannoni di Stahlstadt?

— Qualsiasi forza umana può essere efficacemente combattuta da un'altra forza umana, — rispose il colonnello Hendon — ma non bisogna pensare a difenderci con gli stessi mezzi e le stesse armi di cui si servirà Herr Schultze per assalirci. La costruzione di strumenti di guerra adatti a lottare contro i suoi richiederebbe un tempo lunghissimo, e io non so, del resto, se riusciremmo a fabbricarli, poiché ci mancano gli stabilimenti specializzati. Ci rimane dunque una sola possibilità di salvezza: impedire al nemico di giungere fino a noi e rendere impossibile l'investimento.

— Convocherò immediatamente il Consiglio — disse il dottor Sarrasin. Il dottore precedette gli ospiti nel suo studio.

Era una stanza arredata semplicemente, tre pareti della quale erano coperte di scaffali carichi di libri, mentre la quarta presentava, al di sotto di alcuni quadri e di oggetti d'arte, una fila di padiglioni numerati simili a cornetti acustici.

— Grazie al telefono, — disse — a France-Ville possiamo tenere consiglio rimanendo ognuno a casa propria.

Il dottore toccò un campanello segnalatore, che comunicò istantaneamente la sua chiamata nelle case di tutti i membri del Consiglio. In meno di tre minuti la parola «presente!» portata successivamente da ogni filo di comunicazione, annunciò che il Consiglio era riunito per deliberare.

Il dottore si mise allora davanti al microfono del suo apparecchio, agitò un campanello e disse:

— La seduta è aperta… La parola è al mio onorevole amico, colonnello Hendon, per fare al Consiglio civico una comunicazione della massima gravità.

Il colonnello si mise a sua volta davanti al telefono, e dopo aver letto l'articolo del «New-York Herald», domandò che fossero prese immediatamente le prime precauzioni.

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Egli aveva appena concluso, quando il numero 6 gli domandò se riteneva possibile la difesa della città anche nel caso che i mezzi sui quali egli contava per impedire al nemico d'avvicinarsi non fossero riusciti a nulla.

Il colonnello Hendon rispose affermativamente. La domanda e la risposta erano giunte istantaneamente ad ogni membro invisibile del Consiglio, così come le spiegazioni che le avevano precedute.

Il numero 7 domandò quanto tempo, secondo lui, avevano gli abitanti di France-Ville per prepararsi.

Il colonnello non lo sapeva, ma bisognava agire come se dovessero essere aggrediti entro quindici giorni.

Il numero 2: — Conviene aspettare l'assalto o credete preferibile prevenirlo?

— Bisogna far di tutto per prevenirlo, — rispose il colonnello — e se veniamo minacciati con uno sbarco, far saltar in aria le navi di Herr Schultze con le nostre torpedini.

Dietro questa proposta, il dottor Sarrasin propose di chiamare a consiglio i chimici più noti, come pure gli ufficiali d'artiglieria più sperimentati, e d'affidare loro la cura di esaminare i piani che il colonnello Hendon avrebbe sottoposto al loro esame.

Domanda del numero 1: — Qual è la somma necessaria per cominciare immediatamente i

lavori di difesa? — Bisognerebbe poter disporre di quindici o venti milioni di

dollari. Il numero 4: — Propongo di convocare immediatamente l'assemblea generale di cittadini.

Il presidente Sarrasin: — Metto ai voti la proposta. Due colpi di campanello, suonati in ogni telefono, annunciarono

che era accettata all'unanimità. Erano le otto e mezzo. Il Consiglio civico era durato meno di

diciotto minuti e non aveva disturbato nessuno. L'assemblea popolare fu convocata con un mezzo altrettanto

semplice e quasi altrettanto spiccio. Non appena il dottor Sarrasin ebbe comunicato il voto del Consiglio al palazzo municipale, sempre mediante il telefono, una soneria elettrica si mise in movimento in cima a ognuna delle colonne poste nei duecentottanta crocevia della

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città. Quelle colonne erano sormontate da quadranti luminosi le cui lancette, mosse dall'elettricità, si erano subito arrestate sulle otto e mezzo, ora della convocazione.

Tutti gli abitanti, avvertiti contemporaneamente da quella rumorosa chiamata che si prolungò per più d'un quarto d'ora, si affrettarono ad uscire o ad alzare il capo verso il quadrante più vicino, e notando che un dovere nazionale li chiamava al palazzo comunale, si affrettarono a recarvisi.

All'ora indicata, ossia in meno di quarantacinque minuti, l'assemblea era riunita al completo. Il dottor Sarrasin era già al posto d'onore, circondato da tutto il Consiglio. Il colonnello Hendon aspettava, ai piedi della tribuna, che gli venisse data la parola.

La maggior parte dei cittadini conosceva già la notizia che motivava l'adunanza. Infatti, la discussione del Consiglio civico, stenografata automaticamente dal telefono del palazzo comunale, era stata immediatamente mandata ai giornali, che ne avevano fatto oggetto di un'edizione speciale affissa ai muri sotto forma di manifesto.

La sala municipale era un'immensa navata dal tetto di vetro, dove l'aria circolava liberamente, e nella quale la luce cadeva a fiotti da un tubo di gas che seguiva i costoloni della volta.

La folla era in piedi, tranquilla, poco rumorosa. I visi erano allegri. La salute generale buona, l'abitudine a una vita occupata e regolare e la coscienza della propria forza mettevano ognuno al di sopra di qualsiasi emozione disordinata di paura o di collera.

Il colonnello sali sulla tribuna. Là, con parole sobrie e forti, senza ornamenti inutili, né pose

oratorie - il linguaggio di chi, sapendo ciò che dice, enuncia chiaramente le cose perché le comprende bene - il colonnello Hendon narrò l'odio inveterato di Herr Schultze contro la Francia, contro Sarrasin e la sua opera, i preparativi formidabili annunciati dal «New-York Herald», destinati a distruggere France-Ville e i suoi abitanti.

«Spettava a loro scegliere il partito che ritenevano il migliore», proseguì. «Molte persone senza coraggio e senza patriottismo avrebbero forse preferito cedere il terreno e lasciare che gli

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aggressori si impadronissero della loro nuova patria. Ma il colonnello era sicuro anticipatamente che proposte così pusillanimi non avrebbero trovato eco fra i suoi concittadini. Gli uomini che avevano saputo comprendere la grandezza dello scopo perseguito dai fondatori della città modello, gli uomini che avevano saputo accettarne le leggi, erano necessariamente uomini di cuore e d'intelligenza. Rappresentanti sinceri e militanti del progresso, essi avrebbero voluto far di tutto per salvare quella città incomparabile, monumento glorioso innalzato all'arte di migliorare il destino dell'uomo! Il loro dovere era dunque di dare la vita per la causa che rappresentavano.»

Una immensa salva d'applausi accolse questa perorazione. Molti oratori appoggiarono la mozione del colonnello Hendon. Poiché il dottore Sarrasin aveva fatta valere la necessità di

costituire senza indugio un Consiglio di difesa, incaricato di prendere tutte le misure urgenti, circondandosi del segreto indispensabile alle operazioni militari, la proposta fu accettata.

Nella stessa seduta, un membro del Consiglio civico suggerì la convenienza di votare un credito provvisorio di cinque milioni di dollari, destinati ai primi lavori. Tutte le mani si alzarono per ratificare la misura.

Alle dieci e venticinque, il meeting era terminato, e gli abitanti di France-Ville, avendo nominati dei capi, stavano per ritirarsi, quando avvenne un incidente inatteso.

La tribuna, libera da un istante, era stata occupata da uno sconosciuto dall'aspetto più bizzarro.

Quell'uomo era apparso là come per magia. Il suo volto energico portava i segni di una spaventosa eccitazione, ma la sua attitudine era serena e risoluta. I suoi abiti, semincollati al corpo ed ancora macchiati di mota, la fronte insanguinata, dicevano ch'egli aveva attraversato prove terribili.

Alla sua vista, tutti si erano arrestati. Con un gesto imperioso, lo sconosciuto aveva comandato a tutti l'immobilità ed il silenzio.

Chi era? Da dove veniva? Nessuno, nemmeno il dottor Sarrasin, pensò di domandarglielo.

Del resto, si seppe ben presto chi fosse.

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— Sono fuggito da Stahlstadt — disse. — Herr Schultze mi aveva condannato a morte. Dio ha permesso che giungessi fino a voi in tempo per tentare di salvarvi. Qui, io non sono uno sconosciuto per tutti. Il mio venerato maestro, il dottor Sarrasin, potrà dirvi, spero, che, nonostante l'aspetto che mi rende irriconoscibile anche per lui, si può avere un po' di fiducia in Marcel Bruckmann!

— Marcel! — avevano esclamato insieme il dottore ed Octave. Entrambi stavano per precipitarsi verso di lui…

Un nuovo gesto li arrestò. Era Marcel, infatti, miracolosamente salvato. Dopo aver forzata la

grata del canale, nel momento in cui cadeva quasi asfissiato, la corrente lo aveva trascinato come un corpo senza vita. Ma, fortunatamente, quella grata chiudeva la cinta esterna di Stahlstadt, e due minuti dopo, Marcel era gettato al di fuori, sull'argine del fiume, libero finalmente, se fosse tornato alla vita!

Per lunghe ore, il coraggioso giovanotto era rimasto sdraiato senza conoscenza, in mezzo a quella buia notte, in quella campagna deserta, lontano da qualsiasi soccorso.

Quando aveva ripreso i sensi, albeggiava. Allora si era ricordato!… Grazie a Dio, era dunque finalmente fuori della maledetta Stahlstadt! Non era più prigioniero. Tutto il suo pensiero si rivolse al dottor Sarrasin, ai suoi amici, ai suoi concittadini!

— Loro! loro! — gridò allora. Con un supremo sforzo, Marcel riuscì ad alzarsi in piedi. Dieci leghe lo separavano da France-Ville, dieci leghe da

percorrere senza ferrovia, senza carrozza, senza cavallo, attraverso quella campagna che era come abbandonata intorno alla truce Città dell'Acciaio. Quelle dieci leghe, egli le superò senza un istante di riposo, ed alle dieci e un quarto giungeva alle prime case della città del dottor Sarrasin.

I manifesti che coprivano i muri lo informarono di tutto. Egli comprese che gli abitanti erano al corrente del pericolo che li minacciava, ma comprese pure che non sapevano né quanto immediato fosse quel pericolo, né soprattutto di quale strana natura fosse.

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La catastrofe premeditata da Herr Schultze doveva avvenire quella sera, alle undici e quarantacinque… Erano le dieci ed un quarto.

Rimaneva da fare un ultimo sforzo. Marcel attraversò la città d'un balzo, e alle dieci e venticinque, nel momento in cui l'assemblea stava per ritirarsi, egli saliva sulla tribuna.

— Non è fra un mese, amici miei, — esclamò — e nemmeno fra otto giorni, che il primo pericolo vi può toccare! Entro un'ora, una catastrofe senza precedenti, una pioggia di ferro e di fuoco cadrà sulla vostra città. Una macchina infernale, e che ha una portata di dieci leghe è, mentre vi parlo, puntata contro di essa. Io l'ho vista. Le donne ed i fanciulli cerchino dunque un riparo in fondo alle cantine che presentano qualche garanzia di solidità, oppure escano subito dalla città per cercare un rifugio nella montagna! Gli uomini validi si preparino a combattere il fuoco con tutti i mezzi possibili! Il fuoco, ecco per il momento il vostro solo nemico! Né eserciti, né soldati marciano contro di voi; l'avversario che vi minaccia ha sdegnato i mezzi d'attacco ordinari. Se i piani, se i calcoli d'un uomo, la cui potenza per il male vi è nota, si avvereranno, se Herr Schultze non si è ingannato per la prima volta, l'incendio scoppierà in cento punti contemporaneamente all'improvviso in France-Ville! Sarà su cento punti differenti che bisognerà far fronte fra poco alle fiamme! Qualsiasi cosa accada, è la popolazione che bisogna salvare anzitutto, poiché, in sostanza se le vostre case, i vostri monumenti, l'intera città dovessero essere distrutti, l'oro ed il tempo potranno ricostruirli!

In Europa, si sarebbe preso Marcel per un pazzo; ma non in America dove nessuno avrebbe osato negare i miracoli della scienza, anche i più inattesi. Si ascoltò il giovane ingegnere, e, per consiglio del dottor Sarrasin, gli si credette.

La folla, soggiogata più ancora dall'accento dell'oratore che dalle sue parole, gli obbedì senza nemmeno pensare di discuterle. Il dottore rispondeva di Marcel Bruckmann; ciò bastava.

Furono dati immediatamente ordini, e alcuni messaggeri partirono in tutte le direzioni per andar a portarli.

Allora gli abitanti della città, gli uni, rientrando nelle loro case, discesero nelle cantine rassegnati a subire gli orrori d'un bombardamento; gli altri, a piedi, a cavallo, in carrozza, si recarono

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nell'aperta campagna e salirono le falde iniziali dei Cascade-Mounts. Nel frattempo e in tutta fretta, gli uomini validi radunavano sulla piazza principale ed in alcuni punti indicati dal dottore tutto ciò che poteva servire a combattere il fuoco, ossia acqua, terra, sabbia.

Frattanto, nella sala delle riunioni, la deliberazione continuava allo stato di dialogo.

Ma sembrava allora che Marcel fosse ossessionato da un'idea che non lasciava posto a nessun'altra nel suo cervello. Non parlava più, e le sue labbra mormoravano queste sole parole:

— Alle undici e quarantacinque! È possibile che quello Schultze maledetto possa avere la meglio su di noi mediante la sua esecrabile invenzione?…

All'improvviso, Marcel estrasse di tasca un taccuino. Fece il gesto di chi domanda il silenzio, e con la matita tracciò con mano febbrile alcune cifre su una delle pagine del taccuino. Allora fu vista a poco a poco la sua fronte rischiararsi, la sua faccia diventare raggiante:

— Ah! amici miei! — esclamò, — amici miei! O queste cifre sono menzognere, oppure tutto ciò che noi temiamo svanirà come un incubo davanti all'evidenza d'un problema di balistica di cui cercavo invano la soluzione!

Herr Schultze si è ingannato! Il pericolo di cui egli ci minaccia non è che un sogno! Per questa volta, la sua scienza ha sbagliato! Nulla di quanto egli ha annunciato si avvererà, può avverarsi! Il suo formidabile obice passerà al di sopra di France-Ville senza toccarla, e se ci rimane ancora qualche cosa da temere, è per l'avvenire!

Che cosa voleva dire Marcel? Non si poteva comprendere! Ma allora, il giovane alsaziano espose i risultati del calcolo che

egli aveva finalmente risolto. La sua voce chiara e vibrante dedusse la sua dimostrazione in modo da renderla intelleggibile anche per gli ignoranti. Era luce che seguiva le tenebre, la calma che seguiva l'angoscia. Non solo il proiettile non avrebbe colpito la città del dottore, ma non avrebbe colpito un bel niente. Era destinato a perdersi nello spazio!

Il dottore Sarrasin approvava col gesto l'esposizione dei calcoli di Marcel, quando, all'improvviso, puntando il dito verso il quadrante luminoso della sala:

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— Fra tre minuti, — disse — sapremo chi dei due fra Schultze o Marcel Bruckmann ha ragione! Ad ogni modo, amici miei, non rimpiangiamo nessuna delle precauzioni prese e non trascuriamo nulla di ciò che può far fallire le invenzioni del nostro nemico. Se il suo colpo deve andare a vuoto, come Marcel ce ne ha dato la speranza, non sarà l'ultimo! L'odio di Schultze non potrebbe darsi per vinto ed arrestarsi dinanzi ad uno scacco!

— Venite! — esclamò Marcel. E tutti lo seguirono sulla piazza principale. I tre minuti passarono. Suonarono le undici e quarantacinque

all'orologio!… Quattro secondi dopo una massa nera passava negli alti strati del

cielo, e, rapida come il pensiero, si perdeva molto al di là della città con un sibilo sinistro.

— Buon viaggio! — esclamò Marcel scoppiando a ridere. — Con quella velocità iniziale, l'obice di Herr Schultze, che ha superato ormai i limiti dell'atmosfera, non può più ricadere sul suolo terrestre!

Due minuti più tardi si udiva una detonazione simile ad un rumore sordo che si sarebbe detto uscisse dalle viscere della terra!

Era il rombo del cannone della Torre del Toro, e quel rombo giungeva con un ritardo di centotredici secondi sul proiettile che si spostava con una velocità di centocinquanta leghe al minuto.

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CAPITOLO XIII

MARCEL BRUCKMANN AL PROFESSOR SCHULTZE, STAHLSTADT.

«France-Ville, 14 settembre. «MI SEMBRA doveroso informare il Re dell'Acciaio che ho

superato assai felicemente, l'altro ieri sera, la frontiera dei suoi possedimenti, preferendo la mia salvezza a quella del modello del cannone Schultze.

«Facendovi i miei addii, mancherei a tutti i miei doveri se non vi facessi conoscere, a mia volta, i miei segreti; ma siate tranquillo, non ne pagherete la conoscenza con la vita.

«Non mi chiamo Schwartz, e non sono svizzero. Sono alsaziano, ed il mio nome è Marcel Bruckmann. Sono un ingegnere discreto, se devo credere a voi, ma, anzitutto, sono francese. Voi vi siete fatto nemico implacabile del mio paese, dei miei amici, della mia famiglia; voi nutrivate odiosi progetti contro tutto ciò che amo; io ho osato tutto, ho fatto di tutto per conoscerli! Farò di tutto per farli fallire.

«Mi affretto a farvi sapere che il vostro primo colpo non è andato a segno e che la vostra meta, grazie a Dio, non è stata raggiunta, e non poteva esserlo! Il vostro cannone è ad ogni modo un cannone meraviglioso, ma i proiettili che lancia con una carica simile di polvere, e quelli che potrebbe lanciare, non faranno mai male a nessuno! Essi non cadranno mai da nessuna parte; lo avevo presunto, ed è oggi, a vostra maggior gloria, un fatto certo che Herr Schultze ha inventato un cannone terribile… assolutamente innocuo.

«È dunque con piacere che apprenderete che abbiamo visto il vostro obice troppo perfezionato passare ieri sera, alle undici, quarantacinque minuti e quattro secondi, sopra la nostra città. Si dirigeva verso ovest, procedendo nel vuoto, e continuerà a gravitare così fino alla fine dei secoli. Un proiettile, animato da una velocità iniziale venti volte superiore alla velocità consueta ossia diecimila metri al secondo, non può più "cadere"! Il suo movimento di

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traslazione, combinato con l'attrazione terrestre, ne fa un corpo mobile destinato a ruotare sempre intorno al nostro globo.

«Non avreste dovuto ignorarlo. «Spero, inoltre, che il cannone della Torre del Toro sia

assolutamente deteriorato da questo primo esperimento; ma non è pagar troppo caro, duecentomila dollari, il piacere d'aver dotato il mondo planetario d'un nuovo astro, e la terra d'un secondo satellite.

MARCEL BRUCKMANN.»

Un espresso partì immediatamente da France-Ville per Stahlstadt.

Si perdonerà a Marcel di non aver potuto privarsi della soddisfazione di far giungere senza indugio questa lettera a Herr Schultze.

Marcel aveva infatti ragione quando diceva che il famoso obice, animato da quella velocità e che procedeva al di sopra dello strato atmosferico terrestre, non sarebbe più caduto sulla superficie della terra, aveva ragione pure quando sperava che, sotto quell'enorme carica di pirossilo, il cannone della Torre del Toro dovesse essere fuori uso.

Fu un'amara delusione per Herr Schultze, uno scacco terribile al suo indomabile amor proprio, il ricevere quella lettera. Leggendola, egli diventò livido, e dopo averla letta, la testa gli cadde sul petto come se avesse ricevuto un colpo di mazza. Egli non uscì da quello stato di prostrazione se non dopo un quarto d'ora, ma con quale collera! Solo Arminius e Sigimer avrebbero potuto dire quali ne furono gli scoppi!

Ma, Herr Schultze non era uomo da confessarsi vinto. Era una lotta senza tregua che si stava per impegnare tra lui e Marcel. Non gli rimanevano forse i suoi obici carichi di anidride carbonica liquida, che cannoni meno potenti, ma più pratici avrebbero potuto lanciare a breve distanza?

Calmatosi con uno sforzo improvviso, il Re dell'Acciaio era entrato nel suo studio ed aveva ripreso il lavoro.

Era evidente che France-Ville, più minacciata che mai, non doveva trascurar nulla per mettersi in stato di difesa.

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CAPITOLO XIV

ASSETTO DI COMBATTIMENTO

SE IL PERICOLO non era più imminente, era sempre grave. Marcel comunicò al dottor Sarrasin ed ai suoi amici tutto ciò che sapeva dei preparativi di Herr Schultze e delle sue macchine di distruzione. Fin dal giorno seguente il Consiglio di difesa, al quale egli prese parte, prese a discutere un piano di resistenza e lavorò a prepararne l'esecuzione.

In tutto questo Marcel fu validamente secondato da Octave che trovò moralmente mutato, ed a tutto suo vantaggio.

Quali furono le risoluzioni prese? Nessuno ne conobbe i particolari. Solo i principi generali furono sistematicamente comunicati alla stampa e diffusi tra il pubblico. Non era difficile riconoscervi la mano pratica di Marcel.

— In ogni difesa, — si diceva nella città — il gran problema sta nel conoscer bene le forze del nemico e nell'adattare il sistema di resistenza a queste forze. Senza dubbio i cannoni di Herr Schultze sono formidabili, ma per altro è meglio avere di fronte questi cannoni, di cui si conosce il numero, il calibro, la portata e gli effetti, piuttosto che dover lottare contro macchine sconosciute.

Tutto stava nell'impedire l'assalto della città, sia per terra, sia per mare.

Il Consiglio di difesa studiava attentamente questo problema ed il giorno in cui un manifesto annunciò che esso era risolto, nessuno ne dubitò. I cittadini accorsero a proporsi in massa per eseguire i lavori necessari. Nessun impiego che dovesse contribuire all'opera della difesa fu disdegnato; uomini di tutte le età, di tutte le condizioni, si facevano semplici operai in quella circostanza. Il lavoro procedeva rapidamente ed allegramente. Provviste di viveri sufficienti per due anni furono immagazzinate nella città; il carbone ed il ferro giunsero

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pure in grandi quantità: il ferro, materia prima dell'armamento; il carbone, riserva di calore e di energia, indispensabili alla lotta.

Ma nello stesso tempo in cui il carbone ed il ferro si ammucchiavano sulle piazze, mucchi giganteschi di sacchi di farina e di pezzi di carne affumicata, forme di formaggio, montagne di conserve alimentari e di legumi secchi si accumulavano nei mercati trasformati in magazzini. Greggi numerosi erano chiusi nei giardini che facevano di France-Ville una enorme aiola.

Infine, quando fu pubblicato il decreto di mobilitazione di tutti gli uomini in grado di portar le armi, l'entusiasmo che lo accolse dimostrò ancora una volta le ottime disposizioni di quei soldati-cittadini.

Equipaggiati semplicemente di giubbotti di lana, pantaloni di tela e stivali alle caviglie, con un buon cappello di cuoio bollito, armati di fucili Werder, essi eseguivano le manovre nei viali.

Schiere di coolies rimovevano la terra, scavavano fossati, costruivano trincee e ridotte su tutti i punti favorevoli. La fusione dei cannoni era cominciata e fu portata avanti con alacrità. Una circostanza favorevolissima a quei lavori era che si poterono utilizzare i molti forni fumivori che la città possedeva e che fu facile trasformare in forni di fonderia.

In mezzo a quel movimento incessante Marcel si mostrava infaticabile. Era dappertutto, e dappertutto all'altezza del suo compito. Se si presentava una difficoltà teorica o pratica, egli sapeva risolverla immediatamente. Al bisogno, si rimboccava le maniche dimostrando metodi spicci e una notevole abilità manuale. Perciò la sua autorità veniva accettata senza mormorii, e i suoi ordini venivano eseguiti puntualmente.

Vicino a lui, Octave faceva del suo meglio. Se, da principio, si era proposto di adornare la propria uniforme di galloni d'oro, vi rinunciò, comprendendo che, per cominciare, non doveva essere altro che un soldato semplice. Perciò si schierò nel battaglione che gli fu assegnato e seppe comportarvisi da soldato modello. A quanti vollero dapprima compiangerlo:

— A ognuno secondo i suoi meriti — rispose. — Forse non avrei saputo comandare!… Almeno imparerò a obbedire!

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Una notizia — falsa è vero — venne all'improvviso a dare ai lavori di difesa un impulso ancora maggiore. Herr Schultze, a quanto si diceva, cercava di trattare con alcune compagnie marittime per il trasporto dei suoi cannoni. Da quel momento le notizie del tipo «serpente di mare» si succedettero tutti i giorni. Una volta era la flotta schultziana che si dirigeva verso France-Ville, un'altra era la linea ferroviaria di Sacramento che era stata tagliata da ulani caduti, a quanto pare, dal cielo.

Ma quelle dicerie, subito smentite, erano inventate da cronisti che non sapevano più cosa dire allo scopo di alimentare la curiosità dei lettori. La verità è che Stahlstadt non dava segno di vita.

Quel silenzio, assoluto, pur lasciando a Marcel il tempo di completare i lavori di difesa, lo preoccupava un poco nei suoi rari momenti di riposo.

«Che il furfante abbia cambiato le sue batterie e mi prepari qualche nuovo tiro nel suo solito modo?» talvolta si domandava.

Ma il piano, sia di arrestare le navi nemiche, sia di impedire l'assalto, prometteva di rispondere a tutto, e Marcel, nei suoi momenti d'inquietudine, raddoppiava ancora d'operosità.

Il suo unico piacere e il suo unico riposo, dopo una giornata di intenso lavoro, era la rapida ora che passava tutte le sere nella sala della signora Sarrasin.

Il dottore aveva voluto, fin dai primi giorni, che egli venisse abitualmente a cenare in casa sua, salvo il caso in cui ne fosse impedito da un altro impegno; ma, per un curioso fenomeno, il caso di un impegno tanto allettante da far rinunciare Marcel a questo privilegio non si era ancora presentato. L'eterna partita di scacchi del dottore col colonnello Hendon non offriva tuttavia un interesse tanto palpitante da spiegare questa assiduità. Bisogna dunque pensare che un altro fascino agisse su Marcel, e forse se ne potrà sospettare la natura, benché, certamente, egli stesso non la sospettasse nemmeno, osservando l'interesse che sembravano avere per lui le chiacchiere serali con la signora Sarrasin e la signorina Jeanne, quando erano seduti tutti e tre accanto alla grande tavola sulla quale le due coraggiose donne preparavano ciò che poteva essere necessario al futuro servizio delle ambulanze.

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— Forse quei nuovi bulloni d'acciaio saranno migliori di quelli di cui ci avete mostrato il disegno? — domandava Jeanne che s'interessava a tutti i lavori della difesa.

— Senza dubbio, signorina, — rispondeva Marcel. — Ah! ne sono felicissima! Ma quante fatiche e quante ricerche

rappresenta il minimo particolare industriale!… Mi dicevate che il genio ha scavato ieri altri cinquecento metri di fossati? È molto, vero?

— Ma no, non è nemmeno abbastanza! Andando di questo passo, non avremo finito la recinzione per la fine del mese.

— Vorrei vederla finita e che quegli orribili schultziani arrivassero! Gli uomini sono ben felici di poter agire e di rendersi utili. In questo modo l'attesa è meno lunga per loro che per noi, che non siamo buone a nulla.

— Buone a nulla! — esclamava vivacemente Marcel di solito calmo — buone a nulla! E per chi dunque, secondo voi, queste brave persone, che hanno lasciato tutto per diventare soldati, per chi lavorano, se non per rendere sicuri il riposo e la felicità delle loro madri, delle loro mogli, delle loro fidanzate? Di dove viene l'ardore di tutti, se non da voi, e a chi farete risalire questo amore per il sacrificio, se non…

A queste parole, Marcel, un po' confuso, si arrestò. La signorina Jeanne non insistette, e fu la buona signora Sarrasin che dovette chiudere la discussione, dicendo al giovanotto che l'amore del dovere bastava senza dubbio a spiegare lo zelo della maggior parte.

E quando Marcel, richiamato dal dovere inesorabile, obbligato ad andare a finire un progetto o un preventivo, si toglieva con rammarico a quei piacevoli colloqui, portava con sé l'incrollabile risoluzione di salvare France-Ville e tutti i suoi abitanti.

Egli non si aspettava per nulla ciò che stava per accadere, eppure era la conseguenza naturale, ineluttabile di quello stato di cose contro natura, di quella concentrazione del tutto in uno solo, che era la legge fondamentale della Città dell'Acciaio.

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CAPITOLO XV

LA BORSA DI SAN FRANCISCO

LA BORSA di San Francisco, espressione condensata e in un certo senso algebrico di un immenso movimento industriale e commerciale, è una delle più animate e delle più strane del mondo. Per una conseguenza naturale della posizione geografica della capitale della California, essa ha carattere cosmopolita, che è uno dei suoi tratti più evidenti. Sotto i suoi portici di bel granito rosso, il sassone dai capelli biondi, dalla statura alta, cammina accanto al celto dal colorito pallido, dai capelli più scuri, dalle membra più elastiche e più fini. Il negro v'incontra il finnico e l'indiano. Il polinesiano vi vede con meraviglia il groenlandiano. Il cinese dagli occhi a mandorla, dal codino intrecciato con cura, vi lotta d'astuzia con il giapponese, suo nemico storico. Tutte le lingue, tutti i dialetti, tutti i gerghi vi si urtano come in una Babele moderna.

L'apertura delle contrattazioni del 12 ottobre, a quella Borsa unica al mondo, non presentò nulla di straordinario. Quando furono vicine le undici, furono visti i principali agenti di cambio e commissari avvicinarsi allegramente o con serietà, a seconda delle rispettive indoli, scambiarsi strette di mano, dirigersi verso il bar e preludiare, con libagioni propiziatorie, alle operazioni della giornata. Essi andarono, ad uno ad uno, ad aprire la porticina di rame delle caselle numerate che ricevono, nel vestibolo, la posta degli abbonati, ne estrassero enormi pacchi di lettere e le scorsero con occhio distratto.

Ben presto si formarono le prime quotazioni del giorno, mentre la folla affaccendata aumentava insensibilmente. Un leggero brusio sorse dai gruppi sempre più numerosi.

I telegrammi cominciarono allora a piovere da tutte le parti del globo. Non passava minuto senza che un modulo telegrafico, letto con voce stentorea in mezzo a quella tempesta fonica, venisse ad

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aggiungersi sulla parete nord alla collezione dei telegrammi affissi dai valletti della Borsa.

L'intensità del movimento cresceva di minuto in minuto. I commessi entravano correndo, ripartivano, si precipitavano verso l'ufficio telegrafico, portavano risposte. Tutti i taccuini venivano aperti, annotati, cancellati, lacerati.

Una specie di pazzia contagiosa sembrava essersi impadronita della folla, quando, verso la una, qualche cosa di misterioso sembrò passare come un brivido attraverso quei gruppi agitati.

Una notizia stupefacente, inaspettata, incredibile, era stata portata allora da uno dei soci della Banca del Far-West e circolava con la rapidità del lampo.

Gli uni dicevano: — Che scherzo!… È una manovra! Come si può accettare uno

sproposito simile? — Eh! eh! — dicevano gli altri — non c'è fumo senza arrosto! — Forse che si fallisce in una situazione come quella? — Si fallisce in tutte le situazioni! — Ma, signore, soltanto gli immobili e il macchinario

rappresentano più di ottanta milioni di dollari! — esclamava uno. — Senza contare le ghise e gli acciai, le provviste e i manufatti!

— replicava un altro. — Perdinci! lo dicevo bene, io! Schultze vale novanta milioni di

dollari, e m'incarico di realizzarli quando si vorrà sul suo attivo! — Infine, come spiegate questa sospensione di pagamenti? — Non me la spiego affatto!… Non ci credo! — Come se queste cose non capitassero tutti i giorni e alle ditte

ritenute più solide! — Stahlstadt non è una ditta, è una città! — In fin dei conti, è impossibile che abbia chiuso! Si formerà

certamente una società che riprenderà i suoi affari! — Ma perché mai dunque Schultze non l'ha formata prima di

lasciarsi protestare? — Appunto, signore, è così assurdo, che non regge nemmeno

l'esame! È puramente e semplicemente una notizia falsa, messa in

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giro probabilmente da Nash, che ha un gran bisogno di un rialzo degli acciai!

— Nient'affatto una notizia falsa! Non solamente Schultze è fallito, ma è fuggito!

— Eh! via! — Fuggito, signore. Il telegramma che lo dice è stato affisso or

ora. Una enorme ondata rotolò verso il tabellone dei telegrammi. L'ultimo modulo si esprimeva in questi termini:

«New York, ore 12 e 10 minuti. — Central-Bank. Stabilimenti Stahlstadt. Pagamenti sospesi. Passivo conosciuto: 47 milioni di dollari. Schultze scomparso».

Questa volta non si poteva più dubitare, per quanto la notizia fosse sorprendente, e cominciarono le ipotesi.

Alle due, le liste di fallimenti secondari, provocati da quello di Herr Schultze, cominciarono a inondare la piazza. La Mining-Bank di New York era quella che perdeva di più; la società Westerley e figlio, di Chicago, si trovava implicata per sette milioni di dollari; la società Milwaukee, di Buffalo, per cinque milioni; la Banca Industriale, di San Francisco, per un milione e mezzo; seguiva la massa delle società di terz'ordine.

D'altra parte, e senza aspettare queste notizie, i contraccolpi naturali dell'avvenimento si scatenavano con furore.

Il mercato di San Francisco, così pesante il mattino, a detta degli esperti, non lo era certamente alle due! Che sussulti! Che rialzi! Che scatenarsi sfrenato della speculazione!

Rialzo degli acciai, che salgono di minuto in minuto! Rialzo dei carboni! Rialzo delle azioni di tutte le fonderie dell'Unione americana! Rialzo dei manufatti d'ogni genere dell'industria del ferro! Rialzo pure dei terreni di France-Ville. Caduti a zero, scomparsi dal listino fin dal momento della dichiarazione di guerra, essi si trovarono richiesti a centottanta dollari l'acro! Fin dalla stessa sera le agenzie di informazione furono prese d'assalto. Ma l'«Herald» come la «Tribune», l'«Alta» come «il Guardian», l'«Echo» come il «Globe», ebbero un bel riportare a caratteri cubitali le misere informazioni che avevano potuto raccogliere; queste informazioni si riducevano, in sostanza, quasi a nulla.

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Tutto ciò che si sapeva è che, il 5 settembre, una tratta di otto milioni di dollari, accettata da Herr Schultze, traente Jackson, Elder & Co. di Buffalo, era presentata a Schring, Strauss & Co., banchieri del Re dell'Acciaio a New York, e che questi signori avevano notato che l'avere del loro cliente era insufficiente per far fronte a quell'enorme pagamento, e lo avevano immediatamente avvertito per telegrafo della cosa, senza riceverne risposta; che allora erano ricorsi ai loro libri ed avevano notato con stupore che, da tredici giorni, non era loro pervenuto né una lettera né un valore da Stahlstadt; che a datare da quel momento le tratte e gli assegni firmati da Herr Schultze sulla loro cassa, si erano accumulati quotidianamente, per subire la sorte comune e ritornare al loro luogo d'origine con la scritta «no effects» (niente fondi).

Per quattro giorni le richieste di notizie, i telegrammi preoccupati, le domande furibonde, erano piovute da una parte sulla banca, dall'altra su Stahlstadt.

Finalmente, era giunta una risposta decisiva. «Herr Schultze scomparso dal 17 settembre» diceva il

telegramma. «Nessuno può dare il minimo schiarimento su questo mistero. Egli non ha lasciato ordini, e le casse di settore sono vuote.»

Da quel momento non era più stato possibile nascondere la verità. Alcuni creditori principali si erano impauriti ed avevano depositato i loro effetti al Tribunale di commercio. Il fallimento si era divulgato in poche ore con la rapidità della folgore, trascinandosi dietro il suo corteo di rovine secondarie. Il 13 ottobre, a mezzogiorno, il totale conosciuto dei crediti era di quarantasette milioni di dollari. Tutto faceva prevedere che, con i crediti complementari, il passivo sarebbe ammontato a circa sessanta milioni.

Ecco quanto si sapeva e quello che tutti i giornali raccontavano, con maggiori o minori amplificazioni. Naturalmente, tutti annunciavano per il giorno seguente le notizie inedite e sensazionali.

Infatti, non ce n'era uno che, fin dal primo momento, non avesse mandato i suoi corrispondenti sulla via di Stahlstadt.

Fin dalla sera del 14 ottobre, la Città dell'Acciaio era stata investita da un vero esercito di reporters, col taccuino aperto e la matita in mano. Ma quell'esercito venne a rompersi come un'ondata

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contro la cinta esterna di Stahlstadt. La consegna era sempre mantenuta, ed i reporters ebbero un bel mettere in opera tutti i mezzi possibili di seduzione: fu loro impossibile il farla trasgredire.

Poterono, tuttavia, constatare che gli operai non sapevano nulla, e che nulla era mutato nell'andamento della loro sezione. I capireparto avevano soltanto annunciato la sera prima, per ordine superiore, che non c'erano più fondi nelle casse particolari, che non erano giunte istruzioni dal Complesso Centrale, e che per conseguenza i lavori sarebbero stati sospesi il sabato seguente, salvo avviso contrario.

Tutto ciò, invece di chiarire la situazione, non faceva che complicarla. Che Herr Schultze fosse scomparso da circa un mese, nessuno ne dubitava, ma quali fossero la causa e la portata di quella scomparsa, nessuno lo sapeva. Un vago presentimento che il misterioso personaggio dovesse ricomparire da un momento all'altro, dominava ancora oscuramente le inquietudini.

Negli stabilimenti, per i primi giorni, i lavori erano proseguiti come al solito, in virtù della velocità acquisita. Ognuno aveva continuato il proprio compito parziale nell'orizzonte limitato della propria sezione; le casse particolari avevano pagati i salari tutti i sabati, la cassa principale aveva fatto fronte, fino a quel giorno, alle necessità locali. Ma l'accentramento a Stahlstadt era spinto ad un grado troppo alto di perfezione; il padrone s'era riservata una sovrintendenza troppo assoluta di tutti gli affari e la sua assenza doveva produrre, in brevissimo tempo, un arresto forzato della macchina. È così che dal 17 settembre, giorno in cui, per la prima volta, il Re dell'Acciaio aveva firmato degli ordini, fino al 13 ottobre, in cui la notizia della sospensione dei pagamenti era scoppiata come una folgore, migliaia di lettere, - un gran numero contenevano certamente dei valori considerevoli, - passate dalla posta di Stahlstadt, erano state depositate nella cassetta del Complesso centrale, e, senza dubbio, erano giunte nello studio di Herr Schultze. Ma egli solo si riservava il diritto di aprirle, di annotarle con un segno di matita rossa e di trasmetterne il contenuto al cassiere principale.

I funzionari più importanti degli stabilimenti non avrebbero mai nemmeno pensato a uscire dalle loro mansioni normali. Investiti di

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fronte ai loro subordinati di un potere quasi assoluto, essi erano tutti, rispetto a Herr Schultze, (e perfino alla sua memoria) come altrettanti automi senza autorità, senza iniziativa, senza voce in capitolo. Ognuno dunque si era rincantucciato nella stretta responsabilità del proprio mandato, aveva aspettato, temporeggiato, aveva «guardato precipitare» gli avvenimenti.

Finalmente, gli avvenimenti erano precipitati. La bizzarra situazione si era protratta fino al momento in cui le principali società interessate, improvvisamente allarmate, avevano telegrafato, sollecitata una risposta, reclamato, protestato e finalmente preso le loro precauzioni legali. C'era voluto del tempo per giungere a questo punto. Nessuno poteva indursi a sospettare che una prosperità così notoria avesse i piedi d'argilla. Ma il fatto era ormai evidente: Herr Schultze si era sottratto ai suoi creditori.

È tutto ciò che i reporters poterono sapere. Lo stesso famoso Meiklejohn, noto per essere riuscito ad ottenere delle confessioni politiche dal presidente Grant, l'uomo più taciturno del suo secolo, l'infaticabile Blunderbuss, famoso per avere per primo, lui, semplice corrispondente del «World», annunciato allo zar l'importante notizia della capitolazione di Plewna, questi grandi uomini del giornalismo non erano stati questa volta più fortunati dei loro confratelli. Erano costretti a confessare a se stessi che la «Tribune» ed il «World» non avrebbero potuto ancora dir l'ultima parola del fallimento Schultze.

Ciò che faceva di quella catastrofe industriale un avvenimento quasi unico, era la situazione bizzarra di Stahlstadt, quello stato di città indipendente ed isolata che non permetteva nessuna inchiesta regolare e legale. La firma di Herr Schultze era, è vero, protestata a New York, ed i suoi creditori avevano tutte le ragioni di credere che l'attivo rappresentato dagli stabilimenti potesse bastare in una certa misura a indennizzarli. Ma a quale tribunale rivolgersi per ottenerne il sequestro? Stahlstadt era rimasta un territorio speciale, non ancora classificato, in cui tutto apparteneva a Herr Schultze. Se almeno egli avesse lasciato un rappresentante, un consiglio di amministrazione, un sostituto! Ma nulla, nemmeno un tribunale, nemmeno un consiglio giudiziario! Egli solo era il re, il giudice supremo, il generalissimo, il notaio, l'avvocato, il tribunale di commercio della

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sua città. Egli aveva fatto della propria persona l'ideale dell'accentramento, perciò, lui assente, ci si trovava in faccia al nulla puro e semplice, e tutto quell'edificio formidabile crollava come un castello di carte.

In qualsiasi altra situazione, i creditori avrebbero potuto formare un sindacato, sostituirsi a Herr Schultze, portar la mano sul suo attivo, impadronirsi della direzione degli affari. Stando a tutte le apparenze, avrebbero riconosciuto che non mancava, per far funzionare la macchina, che un po' di denaro forse, ed un potere regolatore.

Ma nulla di tutto ciò era possibile. Mancava lo strumento legale per fare questa sostituzione; tutti erano arrestati da una barriera morale più insuperabile, se possibile, delle cinte di mura erette intorno alla Città dell'Acciaio. I disgraziati creditori vedevano le garanzie del loro credito, e si trovavano nell'impossibilità di valersene.

Tutto ciò che poterono fare fu di riunirsi in assemblea generale, di mettersi d'accordo, e di rivolgere al Congresso una petizione per chiedergli che patrocinasse la loro causa, facesse propri gl'interessi dei suoi connazionali, pronunciasse l'annessione di Stahlstadt al territorio americano e facesse rientrare così quella creazione mostruosa nel diritto comune della civiltà. Molti membri del Congresso erano personalmente interessati nell'affare; la petizione, per molti aspetti, seduceva il carattere americano, e si aveva ragione di credere che sarebbe stata coronata da una piena riuscita. Disgraziatamente, il Congresso non era riunito, e si dovevano temere lunghi indugi prima che la cosa gli potesse essere sottoposta.

Frattanto, tutto si era arrestato a Stahlstadt, e i forni si spegnevano ad uno ad uno.

Anche la costernazione era profonda in quella popolazione di diecimila famiglie che vivevano sugli stabilimenti. Ma che fare? Continuare il lavoro nella speranza di un salario che avrebbe impiegato forse sei mesi a venire, e che forse non sarebbe stato mai pagato? Nessuno lo consigliava. A che cosa lavorare, del resto? La sorgente delle commissioni si era esaurita insieme con le altre. Tutti i clienti di Herr Schultze aspettavano, per riprendere le loro relazioni,

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la soluzione legale. I capi di sezione, ingegneri e capireparto, privi di ordini, non potevano agire.

Vi furono riunioni, incontri, discorsi, progetti; ma non si stabilì alcun piano definitivo, perché non ce n'erano di possibili. La disoccupazione trascinò ben presto con sé un corteo di miserie, di disperazioni e di vizi. Vuota l'officina, la bettola si riempiva; per ogni camino che aveva cessato di fumare nell'officina, fu vista sorgere una bettola nei villaggi circostanti.

I più prudenti fra gli operai, i più previdenti, quelli che avevano saputo prevedere i giorni difficili e risparmiare un gruzzoletto, si affrettarono a fuggire con armi e bagagli, gli utensili, la biancheria, cara al cuore della massaia, e i fanciulli paffuti, che andavano in estasi allo spettacolo del mondo che si rivelava loro attraverso la portiera del vagone. Essi partirono, si sparpagliarono ai quattro angoli dell'orizzonte, trovarono in breve uno a est, questo a sud, quell'altro a nord, un'altra officina, un'altra incudine, un altro focolare…

Ma per uno, per dieci che potevano realizzare questo sogno, quanti ce n'erano che la miseria inchiodava alla gleba! Quelli rimasero, con l'occhio infossato ed il cuore pieno d'amarezza!

Rimasero, vendendo i loro poveri cenci a quel nugolo d'uccelli da preda con viso umano che si abbatte per istinto su tutti i grandi disastri, ridotti in pochi giorni agli espedienti supremi, privi in breve di credito come di salario, di speranza come di lavoro, e vedendo allungarsi dinanzi a loro un avvenire di miseria buio quanto l'inverno che stava per cominciare!

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CAPITOLO XVI

DUE FRANCESI CONTRO UNA CITTÀ

QUANDO la notizia della scomparsa di Schultze giunse a France-Ville, la prima parola di Marcel era stata:

— Se non fosse che un'astuzia di guerra? Senza dubbio, riflettendoci, egli si era certo detto che i risultati di

una simile astuzia sarebbero stati così gravi per Stahlstadt che a fil di logica l'ipotesi era inammissibile. Ma aveva pure pensato che l'odio non ragiona, e che l'odio esasperato di un uomo come Herr Schultze doveva, in un dato momento, renderlo capace di sacrificare qualsiasi cosa alla sua passione. In ogni caso, tuttavia, bisognava stare sul chi vive.

Su sua richiesta, il Consiglio di difesa redasse immediatamente un proclama per esortare gli abitanti a stare in guardia contro le notizie false seminate dal nemico allo scopo d'addormentare la loro vigilanza.

I lavori e le esercitazioni, portati avanti con più ardore che mai, sottolinearono la risposta che France-Ville ritenne conveniente rivolgere a ciò che poteva essere, alla fin fine, una manovra di Herr Schultze. Ma i particolari, veri o falsi, narrati dai giornali di San Francisco, di Chicago e di New York, le conseguenze finanziarie e commerciali della catastrofe di Stahlstadt, tutto questo complesso di prove inafferrabili, singolarmente senza forza e nell'insieme così potenti, non permise più il dubbio.

Un bel mattino, la città del dottore si svegliò definitivamente salva, come un dormiente che sfugge a un cattivo sogno per il semplice fatto del suo risveglio. Sì! France-Ville era evidentemente fuori pericolo senza colpo ferire, e fu Marcel, giunto a una convinzione assoluta, a dargliene la notizia con tutti i mezzi di pubblicità di cui disponeva.

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Fu allora un moto generale di distensione e di gioia, un'aria di festa, un immenso sospiro di sollievo. Tutti si stringevano le mani, si rallegravano, si invitavano a desinare. Le donne si mostravano in eleganti e freschi abiti, gli uomini interrompevano momentaneamente le esercitazioni, le manovre e i lavori. Tutti erano rassicurati, soddisfatti, raggianti. La si sarebbe detta una città di convalescenti.

Ma il più contento di tutti era incontestabilmente il dottor Sarrasin. Il degno uomo si sentiva responsabile della sorte di tutti coloro che erano venuti fiduciosi a stabilirsi sul suo territorio e a mettersi sotto la sua protezione. Da un mese, la paura di averli trascinati verso la rovina, lui che si era adoperato per la realizzazione della loro felicità, non gli aveva lasciato un momento di riposo. Finalmente si sentiva sollevato da una terribile preoccupazione e respirava liberamente.

Eppure, il pericolo comune aveva unito più intimamente tutti i cittadini. In ogni classe, tutti si erano avvicinati di più, si erano riconosciuti fratelli, animati da sentimenti simili, mossi dagli stessi interessi. Ognuno aveva sentito agitarsi nel cuore un essere nuovo. La «patria» era nata ormai per gli abitanti di France-Ville. Si era temuto, si era sofferto per lei, si era sentito meglio quanto la si amava.

I risultati materiali dei preparativi di difesa riuscirono pure di gran vantaggio per la città. Si era imparato a conoscere le proprie forze. In futuro non sarebbero più stati costretti a improvvisarle. Si era più sicuri di sé. In ogni evenienza, sarebbero stati pronti.

Infine, mai la sorte dell'opera del dottor Sarrasin si era annunciata così brillante. E, cosa rara, nessuno si mostrò ingrato verso Marcel. Benché la salvezza di tutti non fosse stata opera sua, ringraziamenti pubblici furono votati al giovane ingegnere come organizzatore della difesa, a colui alla cui devozione la città sarebbe stata debitrice della propria salvezza, se i piani di Herr Schultze fossero stati messi in atto.

Marcel, tuttavia, non trovava che il suo compito fosse terminato. Il mistero che circondava Stahlstadt poteva nascondere ancora un pericolo, pensava. Egli non si sarebbe ritenuto soddisfatto se non

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dopo aver fatto luce assoluta in mezzo alle tenebre che avvolgevano ancora la Città dell'Acciaio.

Risolvette dunque di tornare a Stahlstadt e di non arretrare davanti a nulla per avere l'ultima parola dei suoi ultimi segreti.

Il dottor Sarrasin tentò si di mostrargli tutta la difficoltà dell'impresa, irta forse di pericoli: che egli voleva compiere una specie di discesa agli inferi, che poteva trovare chissà quali abissi nascosti sotto ogni passo… Herr Schultze, quale egli stesso glielo aveva dipinto, non era uomo da scomparire impunemente per gli altri, da seppellirsi sotto le rovine di tutte le proprie speranze… Si era in diritto di temere tutto dall'ultimo pensiero d'un uomo simile… Esso non poteva rammentare altro che l'agonia terribile del pescecane!…

— Appunto perché credo, caro dottore, che tutto ciò che immaginate sia possibile, — gli rispose Marcel — mi sento in dovere di recarmi a Stahlstadt. È una bomba della quale tocca a me strappare la miccia prima che scoppi, e vi chiederò anzi il permesso di condurre Octave con me.

— Octave! — esclamò il dottore. — Sì! Ormai è un bravo ragazzo sul quale si può fare

assegnamento, e vi assicuro che questa passeggiata gli farà bene! — Dio vi protegga dunque entrambi! — rispose il vecchio

commosso abbracciandolo. La mattina seguente, una carrozza, dopo aver attraversato i

villaggi abbandonati, deponeva Marcel e Octave alla porta di Stahlstadt. Entrambi erano ben equipaggiati, ben armati, ed assolutamente decisi a non ritornare senza aver chiarito quel cupo mistero.

Camminavano l'uno accanto all'altro sulla via di circonvallazione esterna che faceva il giro delle fortificazioni, e la verità, di cui Marcel si era ostinato a dubitare fino a quel momento, gli si presentava ora davanti.

Gli stabilimenti erano completamente fermi, era evidente. Da quella via che percorreva con Octave, sotto il cielo nero, senza una stella, egli avrebbe scorto, una volta, la luce del gas, il bagliore della baionetta di una sentinella, mille segni di vita ormai assentì. Le

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finestre illuminate dei settori sarebbero apparse scintillanti; ma ora tutto era buio e muto. La morte soltanto sembrava aleggiare sopra la città, le cui alte ciminiere si ergevano all'orizzonte come scheletri. I passi di Marcel e del suo compagno sul selciato risuonavano nel vuoto. La solitudine e la desolazione erano tali che Octave non poté trattenersi dal dire:

— È strano, non ho mai sentito un silenzio simile a questo! Sembra di essere in un cimitero!

Erano le sette quando Marcel e Octave giunsero sull'orlo del fossato, di fronte alla porta principale di Stahlstadt. Nessun essere vivente appariva sulla cresta della muraglia, e, delle sentinelle, che una volta vi si vedevano a intervalli regolari, come tanti pioli umani, non rimaneva più la minima traccia. Il ponte levatoio era sollevato e lasciava davanti alla porta un abisso largo cinque o sei metri.

Ci volle più d'un'ora per riuscire a fissare un pezzo di cavo lanciandolo con tutta la forza a una delle putrelle. Tuttavia, dopo molte fatiche, Marcel vi riuscì, e Octave, appendendovisi, poté sollevarsi a forza di braccia fino alla copertura della porta. Marcel gli passò allora ad una ad una le armi e le munizioni, poi prese a sua volta la stessa via.

Rimase allora solo da gettare il cavo dall'altra parte della muraglia, calare tutti gli impedimenta, così come erano stati tirati su, e finalmente lasciarsi scivolare in basso.

I due giovanotti si trovarono allora sul camminamento di ronda che Marcel si ricordava di aver seguito il primo giorno del suo ingresso a Stahlstadt. Dappertutto regnavano la solitudine ed il silenzio più assoluto. Davanti a loro si ergeva, nera e muta, la massa imponente degli edifici, che dalle mille finestre a vetri sembravano guardare quegli intrusi come per dir loro:

— Andatevene!… Non avete nulla a che fare circa i nostri segreti. Marcel e Octave si consultarono.

— La cosa migliore è attaccare la porta O che conosco — disse Marcel.

Si diressero verso ovest e giunsero ben presto davanti all'arco monumentale che portava sul frontone la lettera O. I due massicci battenti di quercia, a grossi chiodi d'acciaio, erano chiusi. Marcel si

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avvicinò, picchiò più volte con un ciotolo che aveva raccolto sulla strada.

L'eco soltanto gli rispose. — Su! Al lavoro! — gridò a Octave. Bisognò ricominciare il faticoso lavoro di lanciare la corda al di

sopra della porta, per incontrare un ostacolo a cui essa potesse aggrapparsi saldamente. Fu difficile, ma finalmente Marcel e Octave riuscirono a superare la muraglia e si trovarono nell'asse del settore O.

— Bene! — esclamò Octave — a che servono tante fatiche? La nostra situazione è migliorata davvero! Valicato un muro, ce ne troviamo un altro davanti!

— Silenzio nelle file! — rispose Marcel. — Ecco appunto il mio vecchio laboratorio. Non mi dispiacerà rivederlo e prendervi certi utensili dei quali avremo certamente bisogno, senza dimenticare qualche sacchetto di dinamite.

Era la galleria di fusione dove il giovane alsaziano era stato ammesso al suo arrivo agli stabilimenti. Com'era lugubre, ora, con i suoi forni spenti, i suoi binari arrugginiti, le sue gru polverose che alzavano nell'aria le loro grandi braccia sconsolate, simili a tante forche! Tutto ciò dava un brivido di freddo, e Marcel sentiva la necessità d'una diversione.

— Ecco un laboratorio che ti interesserà di più, — disse a Octave procedendo sulla via che portava alla cantina.

Octave fece un cenno di assenso, che diventò poi di soddisfazione quando vide, schierato in battaglia sopra un'asse di legno, un reggimento di bottiglie rosse, gialle e verdi. Alcune scatole di conserve mostravano pure il loro involucro di latta con l'etichetta delle migliori fabbriche. C'era di che fare una colazione il cui bisogno, del resto, si faceva sentire. Vennero dunque disposte le posate sul banco di stagno, e i due giovanotti ripresero forze per continuare la spedizione.

Marcel, mentre mangiava, pensava a quanto doveva fare. Scalare la muraglia del Complesso centrale era impensabile. Quella muraglia era prodigiosamente alta, isolata da tutte le altre costruzioni, senza una sporgenza alla quale poter attaccare una corda. Per trovarne la

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porta, - porta probabilmente unica, — sarebbe stato necessario percorrere tutti i settori, e non era cosa facile. Rimaneva l'uso della dinamite, sempre molto dubbio, poiché sembrava impossibile che Herr Schultze fosse scomparso senza disseminare di tranelli il terreno che abbandonava, senza opporre delle contromine alle mine che quelli che avessero voluto impadronirsi di Stahlstadt non avrebbero mancato di predisporre. Ma nulla di tutto ciò era tale da far indietreggiare Marcel.

Vedendo Octave ristorato e riposato, Marcel si diresse con lui verso l'estremità della via che formava l'asse del settore, fino ai piedi della grande muraglia di pietra viva.

— Che ne diresti di una mina piantata là dentro? — domandò. — Sarà molto faticoso, ma non siamo dei fannulloni! — rispose

Octave pronto a tentare tutto. Cominciò il lavoro. Si dovette scalzare la base della muraglia,

introdurre una leva nell'interstizio fra due pietre, staccarne una, e finalmente aprire molti piccoli condotti paralleli. Alle dieci tutto era finito, i candelotti di dinamite erano sistemati, e fu accesa la miccia.

Marcel sapeva che sarebbe durata cinque minuti, e poiché aveva notato che la cantina, situata in un sotterraneo, formava un vero e proprio scantinato a volta, venne a rifugiarvisi con Octave.

All'improvviso l'edificio e anche la cantina furono scrollati come per effetto di un terremoto. Una detonazione formidabile, pari a quella di tre o quattro batterie di cannoni sparate contemporaneamente, lacerò l'aria, seguendo da vicino la scossa. Poi, dopo due o tre secondi, una valanga di rottami proiettati da tutte le parti ricadde al suolo.

Fu, per alcuni istanti, un rotolare continuo di tetti sfondati, di travi scricchiolanti, di muri crollanti, in mezzo a limpide cascate di vetri rotti.

Finalmente quell'orribile baccano cessò. Octave e Marcel allora lasciarono il loro riparo.

Per quanto fosse avvezzo ai prodigiosi effetti delle materie esplosive, Marcel fu meravigliato dei risultati che notò. Una metà del settore era saltata in aria, e le muraglie smantellate di tutti i laboratori vicino al Complesso centrale assomigliavano a quelle di una città

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bombardata. Da tutte le parti i mucchi di rottami, i pezzi di vetro e di gesso coprivano il suolo, mentre nuvole di polvere, ricadenti lentamente dal cielo verso cui l'esplosione le aveva gettate, si stendevano, come neve, su tutte quelle rovine.

Marcel e Octave corsero alla muraglia interna. Anch'essa era distrutta per una larghezza di quindici o venti metri, e dall'altra parte della breccia l'ex disegnatore del Complesso centrale vide la corte, a lui ben nota, dove aveva trascorso tante ore monotone.

Dal momento che quella corte non era più custodita, il cancello di ferro che la circondava non era invalicabile… Esso fu in breve superato.

Dappertutto lo stesso silenzio. Marcel passò in rivista i laboratori dove un tempo i suoi camerati

ammiravano i suoi disegni. In un angolo trovò, mezzo abbozzato sul suo tavolo da disegno, il progetto di macchina a vapore che aveva cominciato, quando un ordine di Herr Schultze lo aveva chiamato al parco. Nella sala di lettura rivide i giornali e i libri familiari.

Ogni cosa aveva conservato l'aspetto di un movimento sospeso, di una vita interrotta bruscamente.

I due giovani arrivarono al limite interno del Complesso centrale, e si trovarono poco dopo ai piedi della muraglia che doveva, a quanto credeva Marcel, separarli dal parco.

— Dobbiamo far saltare anche quei sassi lì? — domandò Octave. — Forse… ma, per entrare, potremmo prima cercare una porta

che un semplice petardo potrebbe far saltare. Entrambi si misero a girare intorno al parco seguendo la muraglia.

Ogni tanto erano costretti ad allungare il cammino, a fare un giro intorno a un corpo d'edificio che se ne staccava come uno sperone, o a scavalcare un cancello. Ma non lo perdevano mai di vista, e furono in breve ricompensati delle loro pene. Una porticina, bassa e stretta, che interrompeva la muraglia, apparve ai loro occhi.

In due minuti Octave ebbe praticato un buco con un trapano attraverso le assi di quercia. Marcel, applicando subito l'occhio a quell'apertura, notò, con viva soddisfazione, che dall'altra parte si stendeva il parco tropicale con la sua verzura eterna e la sua temperatura primaverile.

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— Ancora una porta da far saltare e saremo nella fortezza! — disse al compagno.

— Un petardo per queste quattro tavole — rispose Octave — sarebbe troppo onore!

E cominciò ad assalire la porta a gran colpi di piccone. L'aveva appena scossa, quando si udì stridere una serratura interna sotto lo sforzo d'una chiave e due catenacci scorrere nelle loro guide.

La porta si aprì a mezzo trattenuta all'interno da una grossa catena. — Wer da? (Chi va là) — chiese una voce rauca.

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CAPITOLO XVII

SPIEGAZIONI A FUCILATE

I DUE GIOVANOTTI non si aspettavano minimamente una domanda del genere. Ne rimasero effettivamente più meravigliati di quanto sarebbero stati per una fucilata.

Di tutte le ipotesi che Marcel aveva immaginate circa quella città addormentata, la sola che non gli si fosse presentata alla mente era questa: un essere vivente che gli domandasse conto tranquillamente della sua visita. La sua impresa, quasi legittima, se si ammetteva che Stahlstadt fosse assolutamente deserta, rivestiva un aspetto totalmente diverso dal momento che la città aveva ancora degli abitanti. Quello che non era altro, nel primo caso, che una specie di investigazione archeologica, diventava, nel secondo, un attacco a mano armata con effrazione.

Tutte queste idee si presentarono alla mente di Marcel con tanta forza che egli rimase dapprima come colpito da mutismo.

— Wer da? — ripeté la voce con un po' d'impazienza. L'impazienza non era, evidentemente, del tutto fuori posto. Superare, per giungere a quella porta, ostacoli tanto diversi, scalare muraglie e far saltare in aria interi quartieri di città, e tutto ciò per non trovare una risposta quando vi si domanda semplicemente: Chi va là? era certamente una cosa sorprendente.

Mezzo minuto bastò a Marcel per rendersi conto della falsità della sua posizione, e subito, parlando in tedesco:

— Amico o nemico, a vostra scelta! — rispose. — Domando di parlare a Herr Schultze.

Non aveva finito queste parole, che attraverso la porta semiaperta si udì un'esclamazione di sorpresa:

— Ach!

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E, attraverso l'apertura, Marcel poté scorgere un pezzetto di fedina rossa, un baffo irto, un occhio inebetito, che riconobbe subito. Il tutto apparteneva a Sigimer, sua ex guardia del corpo.

— Johann Schwartz! — esclamò il gigante con meraviglia mista a gioia. — Johann Schwartz!

Il ritorno inaspettato del suo prigioniero sembrava stupirlo quasi quanto aveva dovuto fare la sua scomparsa misteriosa.

— Posso parlare a Herr Schultze? — ripete Marcel vedendo che non riceveva altra risposta all'infuori di quell'esclamazione.

Sigimer scrollò il capo. — Niente ordini! — disse. — Non entrare qui senza ordine! — Potete almeno far sapere a Herr Schultze che sono qui e che

desidero parlargli? — Herr Schultze non è qui! Herr Schultze partito! — rispose il

gigante con una sfumatura di tristezza. — Ma dov'è? Quando tornerà? — Non so! Consegna non cambiata! Nessuno entrare senza

ordine! Queste frasi spezzate furono tutto ciò che Marcel poté ottenere da Sigimer, il quale a tutte le domande oppose un'ostinazione bestiale. Octave finì con l'impazientirsi.

— A che serve domandare il permesso d'entrare? — disse. — È molto più semplice prenderselo!

E si scagliò contro la porta per tentare di forzarla. Ma la catena resistette, e una spinta, più forte della sua, ebbe ben presto richiuso il battente, i cui due catenacci furono successivamente tirati.

— Bisogna che siano in molti dietro questa porta! — esclamò Octave piuttosto umiliato da quel risultato.

Accostò l'occhio al buco fatto dal trapano, e quasi subito gettò un grido di sorpresa:

— C'è un secondo gigante! — Arminius! — rispose Marcel. E guardò a sua volta attraverso il buco del trapano. — Sì! è Arminius, il collega di Sigimer! Ad un tratto, un'altra voce, che sembrava venire dal cielo, fece

alzare la testa a Marcel.

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— Wer da? — diceva la voce. Questa volta, era quella di Arminius.

La testa del guardiano emergeva dalla cresta della muraglia, che doveva aver raggirato mediante una scala.

— Via, lo sapete bene, Arminius! — rispose Marcel. — Volete aprire, sì o no?

Non aveva terminato queste parole che la canna di un fucile apparve al di sopra della cresta del muro. Si udì uno sparo, e una palla venne a sfiorare l'ala del cappello di Octave.

— Ebbene, ecco per risponderti! — esclamò Marcel, che introducendo un candelotto di dinamite sotto la porta la fece volare in schegge.

Appena fatta la breccia, Marcel e Octave, con la carabina in pugno e il coltello fra i denti, si slanciarono nel parco.

Addossata al muro lesionato dall'esplosione, che avevano superato, c'era ancora una scala, e ai piedi di tale scala si vedevano delle tracce di sangue. Ma né Sigimer né Arminius erano là per difendere il passaggio.

I giardini si aprivano davanti ai due assediano in tutto lo splendore della loro vegetazione. Octave era meravigliato.

— È magnifico!… — disse. — Ma attenzione!… Avanziamo in ordine sparso!… Quei mangiatori di crauti potrebbero benissimo essersi nascosti dietro i cespugli!

Octave e Marcel si separarono e, seguendo ognuno uno dei lati del viale che si apriva dinanzi a loro, avanzarono con prudenza, d'albero in albero, di ostacolo in ostacolo, secondo i principi della strategia individuale più elementare.

La precauzione era saggia. Non avevano fatto cento passi, che un secondo sparo si fece udire. Una palla fece saltare in schegge la corteccia d'un albero che Marcel aveva appena lasciato.

— Non facciamo sciocchezze!… Pancia a terra! — disse Octave a bassa voce.

E, unendo l'esempio alle parole, avanzò sulle ginocchia e sui gomiti fino ad un cespuglio spinoso che si trovava sull'orlo dello spiazzo, in mezzo al quale sorgeva la Torre del Toro. Marcel, che non aveva seguito abbastanza prontamente quel consiglio, fu preso di

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mira da una terza fucilata, e non ebbe che il tempo di gettarsi dietro il tronco d'una palma per evitarne una quarta.

— Fortunatamente quegli animali tirano come reclute! — gridò Octave al compagno, lontano da lui una trentina di passi.

— Zitto! — rispose Marcel con gli occhi oltre che con le labbra. — Vedi il fumo che esce da quella finestra, al pianterreno?… È là che si sono imboscati quei delinquenti!… Ma voglio giocar loro un bel tiro!

In un batter d'occhio Marcel tagliò, dietro il cespuglio, una pertica di lunghezza adatta; poi, togliendosi il giubbotto, lo sistemò su quel bastone, in cima al quale mise il proprio cappello, e fabbricò in quel modo un fantoccio discreto. Lo piantò allora al posto che egli occupava, in modo da lasciare visibili il cappello e le due maniche, e scivolando verso Octave, gli mormorò all'orecchio:

— Divertiti di qui tirando verso la finestra, ora dal tuo posto, ora dal mio! Io li prenderò alle spalle!

E Marcel, lasciando che Octave facesse fucilate, si insinuò silenziosamente fra le macchie che circondavano lo spiazzo.

Passò un quarto d'ora, durante il quale furono scambiate una ventina di palle senza risultato.

Il giubbotto di Marcel e il suo cappello erano letteralmente crivellati; ma, personalmente, egli non ne sentiva alcun male. Quanto alle persiane del pianterreno, la carabina di Octave le aveva ridotte in briciole.

Ad un tratto il fuoco cessò, e Octave udì distintamente questo grido soffocato:

— Aiuto!… L'ho preso!… Lasciare il riparo, slanciarsi allo scoperto nello spiazzo, montare

all'assalto della finestra, fu per Octave cosa di mezzo minuto. Un istante dopo piombava nella sala.

Sul tappeto, allacciati come due serpenti, Marcel e Sigimer lottavano disperatamente. Sorpreso dall'assalto improvviso del suo avversario, che aveva aperto all'improvviso una porta interna, il gigante non aveva potuto far uso delle armi. Ma la sua forza erculea ne faceva un terribile avversario, e, sebbene a terra, non aveva

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perduto la speranza di riprendere il sopravvento. Marcel, dal canto suo, mostrava un vigore e un'agilità notevoli.

La lotta sarebbe finita necessariamente con la morte di uno dei due combattenti, se l'intervento di Octave non fosse sopraggiunto in tempo opportuno per produrre un risultato meno tragico. Sigimer, preso per le due braccia e disarmato, fu legato in modo da non poter fare più nessun movimento.

— E l'altro? — domandò Octave. Marcel mostrò, in fondo al locale, un divano sul quale Arminius

giaceva tutto sanguinante. — Ha ricevuto una palla? — domandò Octave. — Sì, — rispose Marcel. Poi Marcel si avvicinò a Arminius. — Morto! — disse. — In fede mia, il furfante se l'è meritato! — esclamò Octave. — Eccoci padroni della piazza! — rispose Marcel. —

Procederemo a una visita accurata. Prima di tutto lo studio di Herr Schultze!

Dalla sala d'aspetto, dove si era appena verificato l'ultimo atto dell'assedio, i due giovani seguirono la fila di stanze che conduceva al santuario del Re dell'Acciaio.

Octave andava in estasi davanti a tutti quegli splendori. Marcel sorrideva guardandolo e apriva ad una ad una le porte che

incontrava dinanzi a sé fino alla sala verde e oro. Si aspettava sì di trovarsi delle novità, ma nulla di tanto bizzarro

quanto lo spettacolo che si offerse ai suoi occhi. Si sarebbe detto che l'ufficio centrale delle poste di New York o di Parigi, improvvisamente svaligiato, fosse stato gettato alla rinfusa in quella sala. Da ogni parte lettere e pacchi sigillati, sulla scrivania, sui mobili, sul tappeto. Si affondava fino a mezza gamba in quell'inondazione. Tutta la corrispondenza finanziaria, industriale e personale di Herr Schultze, accumulata di giorno in giorno nella cassetta esterna del parco, e fedelmente ritirata da Arminius e Sigimer, era là nello studio del padrone.

Quante domande, sofferenze, attese ansiose, miserie, lacrime, rinchiuse in quei plichi muti all'indirizzo di Herr Schultze! E senza

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dubbio quanti milioni, anche, in cartamoneta, in assegni, in mandati e ordini d'ogni genere!… Tutto ciò dormiva là, immobilizzato dall'assenza della sola mano che avesse il diritto di rompere quelle buste fragili, ma inviolabili.

— Ora si tratta — disse Marcel — di trovare la porta segreta del laboratorio!

Egli cominciò dunque a togliere tutti i libri dalla biblioteca. Invano; non riuscì a scoprire il passaggio mascherato che aveva attraversato un giorno in compagnia di Herr Schultze. Inutilmente scrollò ad uno ad uno tutti i pannelli, e, armandosi di un'asta di ferro che prese dal camino, li fece saltare uno dopo l'altro! Invano sondò la muraglia nella speranza d'udirla suonare a vuoto! In breve fu evidente che Herr Schultze, preoccupato di non essere più il solo a possedere il segreto della porta del suo laboratorio, l'aveva soppressa. Ma necessariamente aveva dovuto farne aprire un'altra.

— Dov'è?… — si domandava Marcel. — Non può essere che qui, poiché Arminius e Sigimer hanno portato qui le lettere! È dunque in questa sala che Herr Schultze ha continuato a stare dopo la mia partenza! Conosco abbastanza le sue abitudini, e so che, facendo murare il vecchio passaggio, avrà voluto averne un altro alla sua portata, al riparo dagli sguardi indiscreti!… Forse una botola sotto il tappeto?

Il tappeto non mostrava alcuna traccia di taglio; tuttavia fu schiodato e sollevato. Il pavimento, esaminato attentamente, non presentava nulla di sospetto.

— Chi ti dice che l'apertura sia in questa camera? — domandò Octave.

— Ne sono assolutamente sicuro! — rispose Marcel. — Allora non ci rimane che esplorare il soffitto, — fece Octave

salendo su una seggiola. Sua intenzione era di arrampicarsi fin sul lampadario e di sondare

tutto intorno al rosone centrale a colpi di calcio di fucile. Ma Octave aveva appena afferrato il candelabro dorato, che con

sua gran meraviglia lo vide abbassarsi sotto la sua mano. Il soffitto si rovesciò indietro e lasciò scoperto un grande buco, dal quale scese automaticamente fino al pavimento una leggera scala d'acciaio.

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Era come un invito a salire. — Andiamo dunque! Eccoci! — disse tranquillamente Marcel; e

si slanciò subito su per la scala, seguito da vicino dal suo compagno.

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CAPITOLO XVIII

LA MANDORLA DEL NOCCIOLO

LA SCALA d'acciaio era appesa per l'ultimo gradino al pavimento di un'ampia sala circolare, senza comunicazioni con l'esterno. Quella sala sarebbe stata immersa nella più assoluta oscurità, se un'abbagliante luce candida non fosse filtrata attraverso lo spesso vetro di un finestrino rotondo, incastrato nel centro del pavimento di quercia. Lo si sarebbe detto il disco lunare nel momento in cui, in opposizione con il sole, appare in tutta la sua purezza.

Il silenzio era assoluto all'interno di quelle mura sorde e cieche, che non potevano né vedere né udire. I due giovanotti si credettero nell'anticamera di una cappella funebre.

Marcel, prima di andare a sporgersi al di sopra del vetro scintillante, ebbe un attimo d'esitazione. Stava per toccare la meta! Da quel luogo, non poteva dubitarne, sarebbe balzato fuori l'impenetrabile segreto che egli era venuto a cercare a Stahlstadt!

Ma la sua esitazione non durò che un istante. Octave e lui andarono ad inginocchiarsi vicino al disco e chinarono la testa in modo da poter esplorare in tutte le sue parti la stanza posta sotto di loro.

Uno spettacolo orribile quanto inaspettato si offerse ai loro sguardi.

Quel disco di vetro, biconvesso a mo' di lente, attraverso il quale gli oggetti esaminati venivano ingranditi smisuratamente.

Là sotto c'era il laboratorio segreto di Herr Schultze. L'intensa luce che usciva attraverso il disco, come se fosse stato il meccanismo diottrico di un faro, proveniva da una doppia lampada elettrica, che ardeva ancora nella sua campana vuota d'aria, che la corrente voltaica di una potente pila non aveva cessato di alimentare. In mezzo alla stanza, in quell'atmosfera abbagliante, una forma umana,

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enormemente ingrandita dalla rifrazione della lente - una specie di sfinge del deserto libico - era seduta in un'immobilità marmorea.

Intorno a quello spettro, schegge di obice tappezzavano il suolo. Nessun dubbio!… Era Herr Schultze, riconoscibile dallo

spaventoso rictus della sua mandibola, dai denti scintillanti, ma un Herr Schultze gigantesco che lo scoppio di uno dei suoi terribili congegni aveva contemporaneamente asfissiato e congelato sotto l'azione di un freddo terribile!

Il Re dell'Acciaio era seduto davanti alla sua scrivania, con in mano una penna da gigante, grande come una lancia, e sembrava scrivere ancora! Se non fosse stato per lo sguardo atono delle pupille dilatate, per l'immobilità della bocca, lo si sarebbe creduto vivo. Come quei mammut che si trovano sepolti nei ghiacci delle regioni polari, quel cadavere era là, da un mese, nascosto a tutti gli occhi. Intorno a lui tutto era ancora gelato, i reagenti nelle loro provette, l'acqua nei suoi recipienti, il mercurio nella sua bacinella!

Marcel, nonostante l'orrore di quello spettacolo, ebbe un moto di soddisfazione pensando quanto fosse fortunato d'aver potuto osservare dall'esterno l'interno di quel laboratorio, poiché certamente Octave e lui sarebbero stati colpiti da morte entrandovi.

Come dunque era avvenuto quell'orribile incidente? Marcel lo indovinò senza fatica quando ebbe notato che i frammenti di obice sparsi sul pavimento non erano altro che pezzetti di vetro. Ora, l'involucro interno che conteneva l'anidride carbonica liquida nei proiettili asfissianti di Herr Schultze, a causa della formidabile pressione che doveva sopportare, era fatto di quel vetro temperato che ha dieci o dodici volte la resistenza del vetro comune; ma uno dei difetti di questo prodotto, ancora del tutto nuovo, è che, per effetto di un'azione molecolare misteriosa, a volte scoppia improvvisamente, senza una ragione apparente. È quanto probabilmente era accaduto. Forse anzi la pressione interna aveva provocato più inevitabilmente ancora lo scoppio dell'obice che era stato deposto nel laboratorio. L'anidride carbonica, decompressa repentinamente, aveva determinato allora, ritornando allo stato gassoso, uno spaventoso abbassamento della temperatura ambiente.

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Il fatto è che l'effetto aveva dovuto essere fulminante. Herr Schultze, sorpreso dalla morte nell'attitudine che aveva al momento dell'esplosione, si era istantaneamente mummificato in mezzo a un freddo di 100° sotto zero.

Una circostanza soprattutto attirò l'attenzione di Marcel, ed è che il Re dell'Acciaio era stato colpito mentre scriveva.

Ora, che cosa scriveva su quel foglio di carta, con quella penna che la sua mano teneva ancora? Poteva essere interessante raccogliere l'ultimo pensiero, conoscere l'ultima parola d'un uomo simile.

Ma come procurarsi quella carta? Non bisognava pensare nemmeno un istante a spezzare il disco luminoso per scendere nel laboratorio. L'anidride carbonica, raccolta sotto una spaventosa pressione, avrebbe fatto irruzione al di fuori, e asfissiato qualsiasi essere vivente avvolto nei suoi vapori irrespirabili. Sarebbe stato correre verso una morte certa, ed evidentemente i rischi erano sproporzionati ai vantaggi che si potevano trarre dal possesso di quella carta.

Pure, se non era possibile prendere al cadavere di Herr Schultze le ultime righe tracciate dalla sua mano, era probabile che si sarebbe potuto decifrarle, ingrandite come dovevano essere dalla rifrazione della lente. Il disco non era forse là, con i raggi poderosi che faceva convergere su tutti gli oggetti chiusi in quel laboratorio, così potentemente illuminato dalla doppia lampada elettrica?

Marcel conosceva la scrittura di Herr Schultze, e, dopo alcuni tentativi, riuscì a leggere le righe seguenti.

Come tutto quello che Herr Schultze aveva scritto, era più un ordine che delle istruzioni.

«Ordine a B. K. R. Z. di anticipare di quindici giorni la spedizione progettata contro France-Ville. — Appena ricevuto quest'ordine, eseguire le misure prese da me. — Bisogna che l'esperimento, questa volta, sia fulminante e completo. — Non mutare sillaba a quanto ho deciso. — Voglio che fra quindici giorni France-Ville sia una città morta, e che nessuno dei suoi abitanti sopravviva. — Mi occorre una Pompei moderna, che sia nel

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medesimo tempo il terrore e lo stupore del mondo intero. — I miei ordini ben eseguiti renderanno tale risultato inevitabile.

«Mi manderete i cadaveri del dottor Sarrasin e di Marcel Bruckmann. — Voglio vederli e averli.

«SCHULTZ…»

La firma era incompiuta: vi mancavano l'e finale e il solito svolazzo.

Marcel e Octave rimasero dapprima muti e immobili davanti a quello strano spettacolo, davanti a quella specie di evocazione d'un genio malefico, che aveva del fantastico.

Ma alla fine bisognò strapparsi alla lugubre scena. I due amici, molto emozionati, lasciarono dunque la sala posta sopra il laboratorio.

Là, in quella tomba in cui sarebbe regnata l'oscurità più completa quando la lampada si fosse spenta per mancanza di corrente elettrica, il cadavere del Re dell'Acciaio doveva rimanere solo, disseccato come una di quelle mummie dei faraoni che venti secoli non hanno potuto ridurre in polvere!…

Un'ora più tardi, dopo aver sciolto Sigimer, molto imbarazzato per la libertà che gli veniva resa, Octave e Marcel lasciavano Stahlstadt per riprendere la via di France-Ville, dove rientravano la sera stessa.

Il dottor Sarrasin lavorava nel proprio studio quando gli fu annunciato il ritorno dei due giovani.

— Entrino! — esclamò — entrino, subito! La sua prima parola vedendoli entrambi fu:

— Ebbene? — Dottore, — rispose Marcel — le notizie che vi portiamo da

Stahlstadt vi metteranno l'animo in pace, e per un pezzo. Herr Schultze non è più! Herr Schultze è morto!

— Morto! — esclamò il dottor Sarrasin. Il buon dottore rimase pensoso per un po' davanti a Marcel, senza

aggiungere parola. — Mio povero figliolo, — gli disse quando si fu rimesso — sappi

che questa notizia che dovrebbe rallegrarmi poiché allontana da noi quello che io detesto di più, la guerra, e la guerra più ingiusta, la meno motivata! sappi che mi ha, contro ogni ragione, stretto il cuore!

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Ah! Perché quell'uomo dalle potenti facoltà si era fatto nostro nemico? Perché soprattutto non ha messo le sue rare qualità intellettuali a servizio del bene? Quante forze perdute, il cui impiego sarebbe stato utile, se si fosse potuto associarle alle nostre e dare loro uno scopo comune! Ecco ciò che per prima cosa mi ha colpito, quando mi hai detto: «Herr Schultze è morto». Ma ora raccontami, amico mio, quello che sai di questa fine inaspettata.

— Herr Schultze — riprese Marcel — ha trovato la morte nel misterioso laboratorio che con abilità diabolica aveva saputo rendere inaccessibile da vivo. Nessuno tranne lui ne conosceva l'esistenza, e nessuno, per conseguenza, avrebbe potuto penetrarvi, nemmeno per prestargli aiuto. Egli è dunque rimasto vittima di quell'incredibile concentrazione di tutte le forze raccolte nelle sue mani, sulla quale aveva fatto assegnamento, a torto, per essere egli solo la chiave di tutta la sua opera, e quella concentrazione, all'ora stabilita da Dio, si è all'improvviso rivolta contro di lui e contro il suo scopo!

— Non poteva essere altrimenti! — rispose il dottor Sarrasin. — Herr Schultze era partito da un principio assolutamente errato. Infatti, il miglior governo non è forse quello in cui il capo, dopo la morte, può essere sostituito più facilmente, e che continua a funzionare precisamente perché i suoi meccanismi non hanno nulla di segreto?

— Vedrete, dottore, — rispose Marcel — che ciò che è accaduto a Stahlstadt è la dimostrazione, ipso facto, di quanto avete detto. Ho trovato Herr Schultze seduto davanti alla sua scrivania, punto centrale da cui partivano tutti gli ordini ai quali obbediva la Città dell'Acciaio, senza che uno solo sia stato mai discusso. La morte gli aveva lasciata l'attitudine e le apparenze della vita a tal punto che per un istante ho creduto che quello spettro stesse per parlarmi!.. Ma l'inventore è stato martire della propria invenzione! È stato fulminato da uno di quegli obici che dovevano distruggere la nostra città! La sua arma gli si è spezzata in mano nel momento in cui tracciava l'ultima lettera di un ordine di sterminio! Ascoltate!

E Marcel lesse ad alta voce le terribili righe vergate dalla mano di Herr Schultze, di cui aveva preso copia. Poi, aggiunse:

— Ciò che del resto mi avrebbe provato ancor meglio che Herr Schultze era morto, se avessi potuto dubitarne più a lungo, è che tutto

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aveva cessato di vivere intorno a lui! Che tutto aveva cessato di respirare in Stahlstadt! Come nel palazzo della Bella addormentata nel Bosco, il sonno aveva sospeso tutte le vie, arrestato tutti i movimenti! La paralisi del padrone aveva paralizzato nello stesso tempo i servitori, e si era estesa persino agli strumenti!

— Sì, — rispose il dottor Sarrasin — è stata la giustizia di Dio! È volendo precipitare oltre misura il suo attacco contro di noi, è forzando le molle della sua azione, che Herr Schultze ha dovuto soccombere!

— Già, — rispose Marcel — ma ora, dottore, non pensiamo più al passato e dedichiamoci interamente al presente. Morto Herr Schultze, se ciò significa la pace per noi, significa anche la rovina per il meraviglioso stabilimento che egli aveva creato, e per ora, è il fallimento. Alcune imprudenze, colossali come tutto ciò che il Re dell'Acciaio immaginava, hanno scavato dieci abissi. Accecato, da una parte, dai suoi trionfi, dall'altra dalla sua passione contro la Francia e contro voi, egli ha fornito immensi armamenti, senza prendere garanzie sufficienti, a tutto ciò che poteva essere nostro nemico. Ciononostante, e benché il pagamento della maggior parte dei suoi crediti possa farsi aspettare un pezzo, credo che una mano salda potrebbe rimettere Stahlstadt in piedi e far volgere al bene le forze accumulate per il male. Herr Schultze non ha che un erede possibile, dottore, e questo erede siete voi. Non bisogna lasciar perire la sua opera; si crede troppo, in questo mondo, che vi sia solo del vantaggio da ricavare dalla distruzione di una forza rivale. Non è così, e voi mi concederete, spero, che al contrario bisogna salvare da questo immenso naufragio tutto ciò che può servire al bene dell'umanità. Ora, sono pronto a dedicarmi interamente a questo compito.

— Marcel ha ragione, — rispose Octave stringendo la mano dell'amico — ed eccomi pronto a lavorare ai suoi ordini, se mio padre vi acconsente.

— Vi approvo, figlioli cari, — disse il dottor Sarrasin. — Sì, Marcel, i capitali non ci mancheranno, e grazie a te avremo, in Stahlstadt risorta, un tale arsenale di strumenti che nessuno al mondo penserà più ad attaccarci! E, essendo contemporaneamente i più forti,

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cercheremo di essere anche i più giusti, faremo amare i benefici della pace e della giustizia a tutti coloro che ci circondano. Ah! Marcel, che bei sogni! E quando sento che per mezzo tuo e con te potrò vederne compiuta una parte, mi domando perché… si! perché non ho due figli!… perché non sei il fratello di Octave!… A noi tre riuniti, nulla sarebbe sembrato impossibile!…

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CAPITOLO XIX

UN AFFARE DI FAMIGLIA

FORSE nel corso di questo racconto non si è parlato abbastanza degli affari personali di coloro che ne sono gli eroi. Ragione di più perché ci sia concesso di ritornarvi e di pensare finalmente a loro per loro stessi.

Il buon dottore, bisogna dirlo, non apparteneva così totalmente alla collettività, all'umanità, che l'individuo sparisse per lui, anche quando si slanciava in pieno ideale. Egli fu dunque colpito dal pallore improvviso che aveva coperto il viso di Marcel alle sue ultime parole. I suoi occhi cercarono di leggere in quelli del giovane il significato nascosto di quell'improvvisa commozione. Il silenzio del vecchio medico interrogava il silenzio del giovane ingegnere e aspettava forse che questi lo rompesse; ma Marcel, ridiventato padrone di sé con un violento sforzo di volontà, non aveva tardato a ritrovare tutto il suo sangue freddo. Il suo colorito era ritornato normale, e il suo atteggiamento non era più che quello di un uomo che aspetta il seguito di un colloquio incominciato.

Il dottor Sarrasin, un po' spazientito forse per quel pronto rimettersi di Marcel, si accostò al suo giovane amico; poi, con un gesto familiare alla sua professione di medico, s'impadronì del suo braccio e lo tenne come avrebbe fatto con un malato di cui avesse voluto tastare il polso discretamente o distrattamente.

Marcel aveva lasciato fare senza rendersi conto esattamente dell'intenzione del dottore, e siccome non apriva bocca:

— Mio buon Marcel, — gli disse il suo vecchio amico — riprenderemo più tardi il nostro colloquio sui futuri destini di Stahlstadt. Ma non è proibito, anche quando ci consacriamo al miglioramento della sorte comune, di occuparci anche della sorte delle persone amate, di coloro che ci toccano più da vicino. Ebbene,

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credo venuto il momento di raccontarti ciò che una giovinetta, di cui ti dirò il nome fra poco, rispondeva, qualche tempo fa, a suo padre e a sua madre, ai quali, per la ventesima volta in un anno, ella era stata chiesta in matrimonio. Le domande erano generalmente di quelle che le più schizzinose avrebbero avuto il diritto d'accogliere, eppure la giovinetta rispondeva no, e sempre no!

A questo punto, Marcel, con un movimento un po' brusco, liberò il suo braccio rimasto fino allora nella mano del dottore. Ma, sia che questi si sentisse sufficientemente informato circa la salute del suo paziente, sia che non si fosse accorto che il giovanotto gli aveva tolto contemporaneamente il suo braccio e la sua fiducia, continuò il racconto senza mostrare di avvedersi di quel piccolo incidente.

— «Ma infine» diceva sua madre alla giovinetta di cui ti parlo «dicci almeno le ragioni di questi continui rifiuti. Educazione, ricchezza, situazione onorevole, doti fisiche, tutto ti si è presentato! Perché questi no così risoluti, così saldi, così pronti, a domande che non ti dai nemmeno la briga d'esaminare? Sei meno perentoria di solito!».

«Davanti a questa preghiera di sua madre, la giovinetta si decise finalmente a parlare, e allora, poiché ha un animo limpido e un cuore retto, una volta risoluta a rompere il silenzio, ecco che cosa disse:

«"Vi rispondo no con la stessa sincerità con cui vi risponderei sì, cara mamma, se questo si fosse veramente pronto a uscire dal mio cuore. Penso, come voi, che molti dei partiti che mi offrite sono sotto diversi aspetti accettabilissimi; ma oltre a immaginarmi che tutte queste domande si rivolgono molto più a quello che è considerato il migliore, ossia il più ricco partito della città, che alla mia persona, e che solo quest'idea non potrebbe darmi la voglia di rispondere di sì, oserò dirvi, dato che lo volete, che nessuna di queste domande è quella che io aspettavo, quella che aspetto ancora; e aggiungerò che, disgraziatamente, quella che io aspetto potrà farsi aspettare per molto tempo, se mai arriverà!"

«"Come! signorina," disse la madre stupefatta "voi…". «Non finì la frase, non sapendo come terminarla, e nel suo

imbarazzo rivolse al marito degli sguardi che imploravano visibilmente aiuto e soccorso.

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«Ma sia che non volesse intromettersi in quella questione, sia che trovasse necessario che si facesse un po' più di luce fra la madre e la figlia prima d'intervenire, il marito non parve comprendere, tanto che la povera fanciulla, rossa di imbarazzo e forse anche per un po' di collera, prese improvvisamente la decisione di andare fino in fondo.

«"Vi ho detto, cara mamma," riprese "che la domanda che speravo potrebbe farsi aspettare un pezzo e che potrebbe anche non venire mai. Aggiungo che questo ritardo, fosse anche indefinito, non potrebbe né stupirmi né ferirmi. Ho la disgrazia di essere, a quanto si dice, ricchissima; colui che dovrebbe fare questa domanda è poverissimo; perciò egli non la fa, e ha ragione. Tocca a lui aspettare…".

«"E perché invece non tocca a noi andargli incontro?" disse la madre, volendo fare arrestare sulle labbra della figlia le parole che temeva di udire.

«Fu allora che il marito intervenne. «"Mia cara amica," disse prendendo affettuosamente le mani di

sua moglie "non impunemente una madre, così giustamente ascoltata da sua figlia come siete voi, elenca davanti a lei, dal momento in cui ella è al mondo o pressappoco, le lodi di un bello e bravo giovanotto che fa quasi parte della nostra famiglia, che fa notare a tutti la sua fermezza di carattere, e che applaudisce a quanto dice suo marito quando egli ha occasione di vantarne a sua volta l'intelligenza fuori del comune, quando si parla con tenerezza delle mille prove d'affetto che ne ha ricevuto! Se quella che vedeva quel giovane, distinto fra tutti da suo padre e da sua madre, non lo avesse notato a sua volta, avrebbe mancato a tutti i suoi doveri! ".

«"Ah! babbo!" esclamò allora la giovinetta gettandosi fra le braccia della madre per nascondervi il turbamento. "Se mi avevate compresa, perché avermi costretta a parlare?".

«"Perché?" fece il padre. "Ma per aver la gioia di udirti, piccina mia, per essere ancora più certo che non mi sbagliavo, per poterti finalmente dire, e farti dire da tua madre, che approviamo la via presa dal tuo cuore, che la tua scelta colma i nostri voti, e che, per risparmiare all'uomo povero e altero di cui si tratta di fare una domanda alla quale la sua delicatezza ripugna, quella domanda gliela

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farò io, sì! la farò, perché ho letto nel suo cuore come nel tuo! Sii dunque tranquilla! Alla prima buona occasione che si presenterà, mi permetterò di domandare a Marcel se per caso non gli piacerebbe di diventare mio genero!…"»

Preso alla sprovvista da quella brusca perorazione, Marcel si era rizzato in piedi come se fosse stato spinto da una molla. Octave gli aveva silenziosamente stretto la mano, mentre il dottor Sarrasin gli apriva le braccia. Il giovane alsaziano era pallido come un morto. Ma questo è uno degli aspetti che assume la felicità, negli animi forti, quando si entra senza aver gridato: attenzione!…

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CAPITOLO XX

CONCLUSIONE

FRANCE-VILLE, libera da qualsiasi inquietudine, in pace con tutti i suoi vicini, ben amministrata, felice, grazie alla saggezza dei suoi abitanti, è in piena prosperità. La sua felicità, così giustamente meritata, non le procura invidiosi, e la sua forza impone il rispetto ai più battaglieri.

La Città dell'Acciaio non era che uno stabilimento formidabile, un temuto meccanismo di distruzione nella mano di ferro di Herr Schultze; ma grazie a Marcel Bruckmann, la sua liquidazione è avvenuta senza danni per nessuno, e Stahlstadt è diventata un centro di produzione commerciale per tutte le industrie utili.

Marcel è, da un anno, il felicissimo sposo di Jeanne, e la nascita d'un piccino ha aumentata la loro felicità.

Quanto a Octave, egli si è messo bravamente sotto gli ordini di suo cognato e lo seconda con tutti i suoi sforzi. Sua sorella sta per sposarlo ora ad una sua amica, molto graziosa del resto, le cui qualità di buon senso e di criterio assicureranno suo marito contro qualsiasi ricaduta.

I voti del dottore e di sua moglie si sono dunque compiuti, e, per dir tutto, essi sarebbero al colmo della felicità, e anche della gloria, se la gloria fosse mai entrata minimamente nel programma delle loro oneste ambizioni.

Si può dunque assicurare fin d'ora che l'avvenire appartiene agli sforzi del dottor Sarrasin e di Marcel Bruckmann, e che l'esempio di France-Ville e di Stahlstadt, stabilimento e città modello, non sarà perduto per le generazioni future.