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L’INDIVIDUO NELLA CITTÀ* I. La nostra ricerca parte dalla distinzione stabilita da Louis Dumont tra due forme opposte d’individuo: l’indivi- duo fuori dal mondo e l’individuo nel mondo.' Il modello del primo è il “rinunciante” indiano, che per costituirsi nella sua indipendenza e nella sua unicità deve escludersi da tutti i le- gami sociali, staccarsi dalla vita come la si vive quaggiù. In In- dia. lo sviluppo spirituale dell’individuo ha come condizione la rinuncia al mondo, la rottura con tutte le istituzioni che formano la trama dell’esistenza collettiva, l’abbandono della comunità alla quale si appartiene e il ritiro in un luogo di soli- tudine, definito dalla sua distanza nei confronti degli altri, della loro condotta e del loro sistemi di valori. Secondo il mo- dello indiano, lo sviluppo dell’individuo non si verifica nel- l'ambito della sua vita sociale, ma implica che ne sia uscito. Il secondo modello è l’uomo moderno, l’individuo che af- ferma e vive la sua individualità, intesa come un valore all’in- temo stesso del mondo, l’individuo mondano: ciascuno di noi. Com’è nato questo secondo tipo di individualità? Per Louis Dumont è derivato e dipende dal primo. Secondo lui, quando * Nella traduzione inglese di James Lawler, questo testo è stato presen- tato alla Lurcy Lecture dell’Università di Chicago, nel 1986. La versione francese pubblicata nel volume Sur l'indwidu, Paris 1987, pp. 20-37, è stata completata di note per la presente edizione. 1. Louis Dumont, Homo hìerarchicus. Essai sur le système des castes, Pa- ris 1977; Homo Mqualis. Genèse et épanouissement de l’idéologie économi- que, Paris 1977. 187

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I. La nostra ricerca parte dalla distinzione stabilita da Louis Dumont tra due forme opposte d’individuo: l’indivi­duo fuori dal mondo e l’individuo nel mondo.' Il modello del primo è il “rinunciante” indiano, che per costituirsi nella sua indipendenza e nella sua unicità deve escludersi da tutti i le­gami sociali, staccarsi dalla vita come la si vive quaggiù. In In­dia. lo sviluppo spirituale dell’individuo ha come condizione la rinuncia al mondo, la rottura con tutte le istituzioni che formano la trama dell’esistenza collettiva, l’abbandono della comunità alla quale si appartiene e il ritiro in un luogo di soli­tudine, definito dalla sua distanza nei confronti degli altri, della loro condotta e del loro sistemi di valori. Secondo il mo­dello indiano, lo sviluppo dell’individuo non si verifica nel­l'ambito della sua vita sociale, ma implica che ne sia uscito.

Il secondo modello è l’uomo moderno, l’individuo che af­ferma e vive la sua individualità, intesa come un valore all’in- temo stesso del mondo, l’individuo mondano: ciascuno di noi.

Com’è nato questo secondo tipo di individualità? Per Louis Dumont è derivato e dipende dal primo. Secondo lui, quando

* Nella traduzione inglese di James Lawler, questo testo è stato presen­tato alla Lurcy Lecture dell’Università di Chicago, nel 1986. La versione francese pubblicata nel volume Sur l'indwidu, Paris 1987, pp. 20-37, è stata completata di note per la presente edizione.

1. Louis Dumont, H om o hìerarchicus. Essai sur le systèm e des castes, Pa­ris 1977; H om o M qualis. G enèse et épanouissem ent d e l ’idéologie économ i- que, Paris 1977.

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in una società tradizionale appaiono i primi germi di indivi­dualismo, ciò avviene sempre in opposizione con questa so­cietà e sotto la forma di un individuo fuori dal mondo. Questo sarebbe stato il corso della storia in Occidente. A partire dal­l’epoca ellenistica il Saggio, come ideale di uomo, si definisce in opposizione alla vita mondana: accedere alla saggezza signi­fica rinunciare al mondo, staccarsene. In questo senso e su questo piano, il cristianesimo dei primi secoli non rappresenta una rottura con il pensiero pagano, ma una continuità, in cui però si sposta l’accento: l’individuo cristiano esiste nella sua relazione con Dio e per mezzo di essa, vale a dire, fondamen­talmente, attraverso il suo orientamento estraneo al mondo, la svalutazione dell’esistenza umana e dei suoi valori.

A tappe successive - e Louis Dumont nei suoi Saggi sull’in­dividualismo marca le tappe fondamentali di questo cammino - la vita mondana sarà a poco a poco contaminata dall’ele­mento extramondano, che penetrerà progressivamente in tut­to il campo sociale, fino a invaderlo. “La vita nel mondo”, scrive Dumont, “sarà concepita come capace di conformarsi interamente al valore supremo, l’individuo fuori dal mondo sarà diventato il moderno individuo dentro il mondo. Ecco la prova storica della straordinaria potenza della disposizione iniziale.”"

Louis Dumont ha elaborato questa concezione, rigorosa e sistematica, delle condizioni che consentono all’individuo di emergere, liberandosi, attraverso la pratica della rinuncia, dalle costrizioni sociali, studiando una civiltà particolare, quella dell’India antica, e l’ha dapprima applicata solo alle so­cietà che definisce gerarchiche, quelle cioè che comportano un sistema di caste, in cui ciascuno non possiede una realtà se non in funzione del tutto e in rapporto a esso, dato che l’esse­re umano è interamente definito dal posto che occupa nell’in­sieme sociale e dalla sua posizione in una scala di statuti sepa-

2. Essais sur l'individualism e, Paris 1983. Il capitolo “De l’individu hors du monde à Tindividu dans le monde” (pp. 63-67) era comparso in L e Dé- hal, 15.1981.

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rati e interdipendenti. Ma, proseguendo, Louis Dumont ha esteso la sua concezione a tutte le società, ivi comprese quelle occidentali, e ne ha fatto una teoria generale della nascita del- Tindividuo e dello sviluppo deU’indi\ddualismo.

IL È la validità di questa spiegazione generale che voglia­mo mettere alla prova, esaminando come si presentano le co­se nella Grecia arcaica e classica, la Grecia delle città, tra l’vill e il IV secolo a.C.

ILI. Prima di tutto s’impongono due generi di osser\'azio- ni. Le prime riguardano la religione e la società greche anti­che, le seconde la nozione stessa d’individuo.

D politeismo greco è una religione intra-mondana. Non soltanto gli dèi sono presenti e agiscono nel mondo, ma gli at­ti cultuali tendono a integrare i fedeli nell’ordine cosmico e sociale cui presiedono le potenze divine; sono i molteplici aspetti di quest’ordine che corrispondono alle differenti mo­dalità del sacro. Non c’è posto, in questo sistema, per il per­sonaggio del rinunciante. Quelli che vi si avvicinano maggior­mente, e che noi chiamiamo gli “orfici”, sono rimasti per tutta l’antichità dei marginali, senza-mai costituire, nell’ambito del­la religione, una setta propriamente detta, e neppure un gruppo religioso ben definito, suscettibile di apportare al cul­to ufficiale un complemento, una dimensione supplementare, introducendovi una prospettiva di salvezza.

D’altra parte la società greca non è di tipo gerarchico, ma ugualitario. La città definisce il gruppo di quelli che la com­pongono situandoli sullo stesso piano orizzontale; chi non ha accesso a questo piano si trova fuori dalla città e fuori dalla so­cietà, al limite anche fuori dall’umanità, come lo schiavo. Ogni individuo, se è cittadino, è però in linea di principio adatto ad adempiere a tutte le funzioni sociali, con le loro implicazioni religiose. Non c’è casta sacerdotale, come non c’è casta guer­riera: ogni cittadino, così come è atto alla guerra, è qualificato (a meno che non sia colpito da una contaminazione) per com­piere il rituale del sacrificio, in casa sua o in nome di un grup­

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po più allargato, se il suo statuto di magistrato lo autorizza. In questo senso, il cittadino della polis classica, più che all’Aowo hierarchicus di Dumont, si apparenta aH’̂ owo aequalis.

Ecco perché, paragonando sacrificio indiano e sacrificio greco dal punto di vista del ruolo dell’individuo in ciascuno di essi, dopo aver notato che nel caso del rinunciante indiano l’individuo, per esistere, deve avere reciso tutti i legami di so­lidarietà che in precedenza lo cosrituivano attraverso il lega­me con gli altri, la società, il mondo e se stesso, e anche aUe sue azioni attraverso il desiderio, in passato ho scritto; “In Grecia, il sacrificante in quanto tale resta fortemente incluso nei diversi gruppi domestici, civili, politici, nel nome dei qua­li sacrifica. Questa integrazione nella comunità persino nel­l’attività religiosa conferisce ai progressi deH’individualismo un tono assai differente: essi si producono all’interno del qua­dro sociale, in cui l’individuo, quando comincia a emergere, appare non come rinunciante ma come soggetto di diritto, agente politico, persona privata in seno alla sua famiglia o nella cerchia dei suoi amici”.’

n.2. Secondo ordine di osservazioni. Che significano indivi­duo e individualismo? In h e solici de soi, Michel Foucault distin­gue sotto questi vocaboli tre cose distinte, che possono essere as­sociate, ma i cui legami non sono né costanti né necessari;’

a) il posto riconosciuto all’individuo singolo e il suo grado d’indipendenza in rapporto al gruppo di cui è membro e alle istituzioni che lo reggono;

b) la valorizzazione della vita privata in rapporto alle atti­vità pubbliche;

c) l’intensità dei rapporti intersoggettivi e di tutte le prad- che attraverso le quali l’individuo prende se stesso, nelle sue

3. Lezione inaugurale al Collège de France. 5 dicembre 1975, pubblica­ta sotto il titolo “Religion grecque, religions antiques”, in Religions, histoi- res. ranom , Paris 1979, p. 26.

4. M. Foucault, L e son a d e so i (H istoire d e la sexualité, t. Ili), Paris 1984 (tr. it. La cura d i sé. Storia della sessualità, voi. Ili, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 45-46).

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varie dimensioni, come oggetto della sua preoccupazione e delle sue cure; il modo in cui orienta e dirige verso se stesso il suo sforzo d’osservazione, di riflessione e di analisi: cura di sé e anche lavoro di sé su di sé, formazione di sé attraverso tutte le tecniche mentali d’attenzione a se stesso, d’esame di co­scienza, di messa aUa prova, riscontro, chiarimento ed espres­sione di sé.

E evidente che questi tre sensi non si sovrappongono. In un’aristocrazia militare, il guerriero si afferma come un indi­viduo a parte nella singolarità del suo coraggio eccezionale; non si preoccupa affatto né della sua vita privata né di un la­voro su di sé attraverso l’autoanalisi. Inversamente, l’intensità dei rapporti intersoggettivi può andare di pari passo con una dequalificazione dei valori della vita privata e persino con un rifiuto dell’individualismo, come nella vita monacale. Da par­te mia, e in una prospettiva di antropologia storica, proporrò una classificazione un po’ diversa, di cui riconosco volentieri che comporta un elemento di arbitrarietà, ma che, per il mio argomento, permette di chiarire i problemi:

a) l’individuo in senso stretto; il suo posto, il suo ruolo nel suo gruppo o nei suoi gruppi; il valore che gli è riconosciuto; il margine di manovra che gli viene lasciato e la sua relativa autonomia in rapporto al suo inquadramento professionale;

b) il soggetto; quando l’individuo, esprimendosi in prima persona, parlando a nome proprio, enuncia alcuni tratti che fanno di lui un essere particolare;

c) r “Io”, la persona; l’insieme delle pratiche e degli atteg­giamenti psicologici che darmo al soggetto una dimensione d’interiorità e di unicità, che lo costituiscono al suo interno co­me un essere reale, originale, unico, un individuo singolare la cui autentica natura risiede tutta intera nel segreto della sua vi­ta interiore, nel cuore di un’intimità cui nessuno al di fuori di lui può avere accesso, poiché si definisce come coscienza di sé.

Se, per far meglio comprendere questi tre piani e le loro differenze, azzardassi una comparazione con dei generi lette­rari, direi, molto schematicamente, che all’individuo dovreb­be corrispondere la biografia, dato che — in opposizione alla

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narrazione epica o storica - è centrata sulla vita di un perso­naggio singolo; al soggetto dovrebbe corrispondere l’autobio­grafia o il libro di memorie, quando l’individuo racconta per­sonalmente la carriera della sua vita; e all’Io corrispondereb­bero le confessioni, i diari intimi, in cui la vita interiore, la persona particolare costituita dal soggetto, nella sua comples­sità e nella sua ricchezza psicologica, e nella sua relativa inco­municabilità, formano la materia dello scritto. I Greci di epo­ca classica conoscevano certe forme di biografia e di autobio­grafia. Arnaldo Momigliano, ancora di recente, ne ha seguito l’evoluzione per concludere che è da lì che ha avuto origine la nostra idea dell’individuahtà e del carattere di una persona.’ In cambio, nella Grecia classica ed ellenistica, non solo non esistono confessioni né diari intimi — sarebbe impensabile — ma, come osservava G. Misch e come conferma Momigliano, la caratterizzazione dell’individuo nell’autobiografia greca ignora “l’intimità dell’Io”.

III. Cominciamo dall’individuo. Per definire la sua presen­za in Grecia, esistono tre vie d’accesso: 1 ) l’individuo valoriz­zato come tale, nella sua singolarità; 2) l’individuo e la sua sfera personale: il dominio del privato; 3) l’emergere dell’in­dividuo nelle isrituzioni sociali che, per il loro stesso funzio­namento, sono arrivate a procurargh, fin dall’epoca classica, un fK)sto centrale.

n i .l . Prenderò in considerazione due esempi di indmdui “fuori dal comune” in epoca arcaica: l’eroe guerriero, Achil­le, e il mago ispirato, l’uomo divino: Ermotimo, Epimenide, Empedocle.

Più che il suo statuto e i suoi titoh nel corpo sociale, ciò

5. “Marcel Mauss e il problema della persona”, in G li uomini, la società, la av iltà. Uno studio intorno a ll’opera d i M arcel Mauss, Pisa 1985; “Ancient Biography and thè Study of Religion in thè Roman Empire”, A nnali della Scuola norm ale superiore d i Pisa, serie III, voi. XV, fase. 2, 1985; ripreso in On Pagans, ]ew s and Christians, Wesleyan University Press. Middletown 1987, pp. 159-177.

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che caratterizza un eroe sono la singolarità del suo destino, il prestigio eccezionale delle sue imprese, la conquista di una gloria che è tutta sua e la sopravvivenza della sua fama nella memoria collettiva attraverso i secoli. Gh uomini comuni scompaiono, dopo la morte, nell’oblio tenebroso dell’Ade; svaniscono, nonumnov. sono gh “anonimi”, i “senza nome”. Solo l’individuo eroico, accettando di affrontare la morte nel fiore della sua giovinezza, vede il suo nome perpetuarsi glo­rioso di generazione in generazione: la sua figura singolare ri­mane iscritta per sempre al centro della vita comune. Per questo, ha dovuto isolarsi, persino opporsi al gruppo dei suoi, separarsi dai suoi eguali e dai suoi capi; è appunto il ca­so di Achille. Ma questa distanza non fa di lui un rinunciante, che abbandona la vita mondana: al contrario, spingendo sino all’estremo hmite la logica di una vita umana votata a un idea­le guerriero, egli porta i valori mondani e le pratiche sociali del combattente al di là di loro stesse. L’eroe apporta alle nor­me abituali e ai costumi del gruppo, attraverso lo strenuo ri­gore della sua biografia, il suo rifiuto del compromesso, la sua esigenza di perfezione persino nella morte, una dimensione nuova, instaurando una forma di onore e di eccellenza che vanno oltre l’onore e l’eccellenza ordinari. L’eroe conferisce ai valori vitali e alle virtù sociali proprie di questo mondo, ma sublimati e trasformati dalla prova della morte, uno splendo­re, una maestà e una solidità di cui sono sprovvisti nel corso normale della vita e che li sottraggono alla distruzione che mi­naccia ogni cosa su questa terra. Ma è il corpo sociale stesso a riconoscere questa solidità, questo splendore e questa mae­stà, a farli propri e ad assicurare loro, nelle istituzioni, onore e continuità.

I maghi. Anche loro sono individui a parte, che si distin­guono dai comuni mortali per il loro genere di vita, il loro re­gime e i loro poteri eccezionali. Praticano esercizi che non oso definire “spirituali": controllo della respirazione - con­centrazione del soffio animato per purificarlo, staccarlo dal corpo, liberarlo e farlo partire per un viaggio nell’aldilà - re­miniscenza delle vite precedenti - uscita dal ciclo delle rein­

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carna2Ìoni successive. Sono uomini divini, theoiandres, che già da vivi si elevano daUa condizione mortale allo statuto di esseri perenni. Non sono dei rinuncianti, anche se sulla loro scia nascerà una corrente di pensiero i cui adepti si propor­ranno di fuggire da quaggiù. Al contrario, proprio in ragione della loro singolarità e della distanza che li tiene lontani dal gruppo, questi personaggi occuperanno nel VII e VI secolo, in periodi di crisi, un ruolo paragonabile a quello dei nomoteti, i legislatori come Solone, per purificare la comunità dalle sue contaminazioni, calmare le sedizioni, arbitrare i conflitti, pro­mulgare regolamenti istituzionali e religiosi. Per regolare gli affari pubblici, le città hanno bisogno di ricorrere a questi in­dividui “fuori dal comune”.

ni.2. Lm sfera d el privato. A partire dalle forme più arcai­che della città, alla fine del secolo Vili e già in Omero, si dise­gnano correlativamente, l’uno in dipendenza dell’altro e arti­colandosi vicendevolmente, i campi di ciò che attiene al co­mune e al pubblico e di ciò che attiene al particolare e all’in­dividuale: to koinort e lo idion. Il comune abbraccia tutte le attività e tutte le pratiche che devono essere condivise, vale a dire che non devono essere privilegio esclusivo di nessuno, né indi\iduo né gruppo nobiliare, e alle quali bisogna prendere parte per essere cittadino; il privato è ciò che non deve essere condiviso e che riguarda solo l’individuo.

C’è una storia delle configurazioni del comune e del pro­prio e delle loro rispettive frontiere. A Sparta l’educazione dei giovani e i banchetti restano, sotto la forma AeWagoge e dei sissizi, dei pasti consumati obbligatoriamente insieme, collegati alla sfera del comune; sono attività civiche. Ad Ate­ne, dove l’emergere di un piano puramente politico, nella città, si verifica a un livello d’astrazione più rigoroso (in que­sto senso il politico è la messa in comune del potere di co­mandare, di deliberare e decidere e di giudicare, per divider­lo tra tutti i cittadini), la sfera del privato, quella che riguarda ciascuno per se stesso, collegherà alla vita domestica l’educa­zione dei ragazzi e i banchetti, ai quali ciascuno invita gli

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ospiti che desidera. Il gruppo dei parenti e dei famigliari cir­coscrive una zona in cui i rapporti privati tra individui po­tranno svilupparsi, prendere più rilievo e acquisire una tona­lità affettiva più intima. Il symposion, vale a dire l’uso, diffuso a partire dal VI secolo, di riunirsi a casa propria dopo il pasto per bere insieme, chiacchierare, divertirsi, stare allegri tra uo­mini, con amici e cortigiane, e cantare elegie sotto il patrona­to di Dioniso, Afrodite ed Eros, marca l’apparizione nella vita sociale di un commercio interpersonale più libero e selettivo, che tiene conto dell’individualità di ciascuno e ha come sco­po un piacere, purché controllato e condiviso nel rispetto della legge del “bere bene”. Come scrive Florence Dupont: “Per Tuomo-cittadino privato, il banchetto è il luogo e il mez­zo di accedere al piacere e alla gioia, parallelamente all’assem­blea, che sarà il luogo e il mezzo di accedere alla libertà e al potere per l’uomo-cittadino pubblico”.'’

Le pratiche e i monumenti funerari testimoniano dell’im­portanza maggiore che la sfera privata, con i suoi legami affet­tivi che uniscono un individuo ai suoi amici e parenti, acquisi­sce di fronte alla sfera pubblica. Sino alla fine del VI secolo, in Attica, le tombe sono generalmente individuah e prolungano l’ideologia dell’individuo eroico, nella sua singolarità. La stele porta il nome del defunto e si rivolge indistintamente a tutti i passanti. L’immagine scolpita o dipinta, esattamente come il kouros funerario che sovrasta la tomba, raffigura il morto nel­la sua bellezza giovanile, come rappresentante esemplare dei valori e delle virtù sociali che ha incarnato. A partire dall’ulti­mo quarto del V secolo, accanto e al di fuori dei funerali pub­blici celebrati in onore di coloro che sono caduti in battaglia per la patria, in cui l’individualità del defunto è come som­mersa nella gloria comune della città, si stabilisce l’uso di tombe famigliari; le stele funerarie associano ormai i morti e i viventi della famiglia; gli epitaffi celebrano i sentimenti perso­nali di affetto, rimpianto e stima tra marito e moglie, genitori e figli.

6. F. Dupont, L e Plaisir et la lot, Paris 1977, p. 25.

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III.3. Ma lasciamo la sfera privata ed entriamo nel campo pubblico, dove vediamo una serie di istituzioni che hanno fat­to emergere nel loro ambito l’individuo, in alcuni dei suoi aspetti. Prenderemo due esempi; il primo concerne le istitu­zioni religiose, il secondo il diritto.

Accanto alla religione civica esistono i misteri, come quelli di Eieusi. La loro celebrazione è, beninteso, posta sotto il pa­tronato ufficiale della città, ma sono aperti a chiunque parli greco, straniero o ateniese, donna o uomo, schiavo o libero. La partecipazione alle cerimonie fino all’iniziazione completa dipende dalla decisione presa da ciascuno, non dal suo statu­to sociale, dalla sua funzione nel gruppo. In più, ciò che un iniziato si attende dalla sua iniziazione (o “intronizzazione”) è una sorte migliore per sé, come individuo, nell’aldilà. Libera decisione, dunque, per accedere aH’iniziazione, e singolarità, quando se ne esce, di un destino postumo al quale gli altri non possono pretendere; tutta\'ia, una volta terminate le ceri­monie e ottenuta la consacrazione, niente, nelle sue abitudini, nel suo modo di vivere, nella sua pratica religiosa o nel suo comportamento sociale, distingue l’iniziato da ciò che era pri­ma o da chi non è iniziato; semplicemente, ha ottenuto una specie di assicurazione interiore, si è modificato dentro di sé in senso religioso, grazie alla familiarità con le due dee che ha acquisito. Dal punto di vista sociale è rimasto lo stesso, è identico. La promozione individuale dell’iniziato ai misteri non fa di lui in alcun momento un individuo fuori dal mondo, staccato dalla vita di quaggiù e dai suoi legami civici.

Altra manifestazione di individualismo religioso: a partire, sembra, dal V secolo, si vedono sorgere gruppi religiosi nati dall’iniziativa di qualcuno che li ha fondati, che riuniscono at­torno al fondatore, in un santuario privato, consacrato a una divinità, degli adepti desiderosi di riservarsi il pri\dlegio di ce­lebrare tra loro un culto particolare, allo scopo - come dice Aristotele - di “sacrificare insieme e frequentarsi”.̂ I fedeli sono dei synousiasiai, dei coassociati che formano una piccola

7. Aristotele, Etica nicom achea, 1160 a.

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comunità religiosa chiusa e amano ritrovarsi nella pratica di una devozione dove ciascuno, per partecipare, deve aver fatto domanda ed essere stato personalmente cooptato dagli altri membri del gruppo.

Scegliendosi il proprio dio per offrirgli una forma di devo­zione pardcolare, come se il dio stesso venisse scelto dalla co­munità dei fedeli, l’individuo fa il suo ingresso nell’organizza­zione di culto, ma il posto che vi occupa non lo mette né fuori dal mondo né fuori dalla società. La sua comparsa marca, in opposizione ai ruoli religiosi predeterminati e quasi program­mati dallo statuto civico di ciascuno, lo sviluppo nella vita re­ligiosa di rapporti più duttili e più liberi tra i singoli individui, e la creazione, nella sfera religiosa, di una nuova forma di as­sociazione, attinente a quella che si può definire una “socia­lità selettiva”.

Ma è soprattutto attraverso lo sviluppo del diritto che si vedrà emergere l’individuo nel cuore delle istituzioni pubbli­che. Due esempi: il diritto criminale e il testamento.

Nei crimini di sangue, il passaggio dal prediritto al diritto, dalla vendetta con le sue procedure di compensazione e di ar­bitrato all’istituzione dei tribunali, fa nascere l’idea dell’indivi­duo criminale: da allora, è l’individuo che appare come sog­getto del delitto e oggetto del giudizio. C’è una frattura tra la concezione pregiuridica del crimine, visto come un miasma, una contaminazione contagiosa e collettiva, e la nozione di colpa eleborata dal diritto, che è quella di un singolo indivi­duo e comporta gradi corrispondenti a tribunali differenti, a seconda che il crimine sia “giustificato”, che sia stato commes­so “involontariamente” oppure “volontariamente” e “con pre­meditazione”. In effetti, nell’istituzione giudiziaria è l’indivi­duo che è chiamato in causa, nel rapporto più o meno stretto che intrattiene col suo atto criminale. Questa storia giuridica ha una contropartita morale, implica le nozioni di responsabi­lità, di colpevolezza personale, di merito e ha anche una con- tropanita psicologica, giacché si pone il problema delle condi­zioni, della costrizione, della spontaneità o del progetto deli­berato che hanno influenzato la decisione di un soggetto, e an­

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che quello delle cause e dei moventi dell’azione. Questi pro­blemi troveranno un’eco nella tragedia attica del v secolo: uno dei tratti che caratterizzano questo genere letterario è l’inter­rogazione costante sull’individuo agente, sul soggetto umano davanti alla sua azione e sui rapporti tra l’eroe del dramma, nella sua singolarità, e ciò che ha fatto o deciso, che comunque va al di là di lui, benché sia lui a portarne la responsabilità.

Un altro testimone della promozione sociale dell’individuo è il testamento, di cui Louis Gemet ha finemente analizzato le condizioni e le modalità di comparsa.* All’inizio, l’adozione tra vivi non concerne l’individuo in quanto tale; si tratta, per un capofamiglia, se non ha figli, di adottare neUa sua vecchiaia un parente o un congiunto, perché la sua casa non rimanga vuota e il suo patrimonio non venga disperso tra i rami collate­rali della famiglia. L’usanza dell’adozione testamentaria si in­scrive nella stessa linea; è sempre della casa che si tratta, per as­sicurarne la conservazione; è Voikos che è in causa, non l’indi­viduo. In compenso, quando, a partire dal III secolo, stavolta nel prolungamento della donazione a motivo di morte, si isti­tuisce la pratica del testamento propriamente detto, questo è diventato una cosa strettamente individuale, che permette la libera trasmissione dei beni, secondo la volontà, formulata per iscritto e che va rispettata, di un soggetto particolare, che è pa­drone di decidere su tutto quello che possiede. Tra l’individuo e la sua ricchezza, di qualsiasi genere essa sia, patrimonio e be­ni acquistati, mobili e immobili, il legame è ormai esclusivo e diretto: a ogni individuo appartengono dei beni in proprio.

IV. I l soggetto. L’impiego della prima persona, in un testo, può avere sensi molto diversi, a seconda della natura del do­cumento e della forma dell’enunciato: editto o proclamazione del sovrano, epitaffio funerario, invocazione del poeta che si mette personalmente in scena all’inizio o nel corso del suo canto, in quanto ispirato dalle Muse o detentore di una verità

8. L. Gemei, “La loi de Solon sur le testament", Droit et Sociétc dam la G rèceancienne, Paris 1955, pp. I2 I-I49 .

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rivelata, racconto storico a un certo punto del quale l’autore interviene in persona per dare la sua opinione, difesa e giusti­ficazione di sé nei discorsi “autobiografici” di oratori come Demostene e Isocrate.

Il discorso in cui il soggetto si esprime in prima persona non costituisce quindi una categoria ben delimitata e di por­tata univoca; lo prendo comunque in considerazione, nel caso della Grecia, perché corrisponde a un genere di poesia - so­stanzialmente, la lirica - in cui l’autore, con l’uso della prima persona, conferisce all’/o un aspetto di particolare confiden­za, esprimendo la sensibilità che gli è propria e attribuendogli la portata generale di un modello, di un “topos” letterario. Facendo delle loro emozioni personali e deUa loro affettività del momento il tema principale della comunicazione con il lo­ro pubblico di amici, concittadini, hetairoi, i poeti lirici con­feriscono una forma verbale precisa e una maggiore consi­stenza a quella parte di noi, segreta e sfumata, che è Tintimo, la soggettività personale. Formulate nella lingua del discorso poetico, le emozioni che ognuno di noi prova individualmen­te nel suo intimo prendono corpo e acquisiscono una sorta di realtà oggettiva. Bisogna andare oltre. Affermata, cantata ed esaltata, la soggetti\ntà del poeta mette in discussione le nor­me stabilite e i valori socialmente riconosciuti, imponendosi come pietra di paragone di ciò che, per l’individuo, costitui­sce il bello e il brutto, il bene e il male, la felicità e l’infelicità. La natura dell’uomo è diversa, osserva Archiloco; ognuno si rallegra per cose diverse da quelle che fanno contento un al­tro.’ E Saffo gli fa eco: “Per me la più bella cosa del mondo è, per ciascuno, quello che ama”.'” Dunque, relatività dei valori comunemente ammessi. E al soggetto, all’individuo, in ciò che prova personalmente e che costituisce la materia del suo canto, che tocca, in definitiva, il ruolo di criterio dei valori.

E necessario segnalare un altro tratto: l’apparizione, accanto ai cicli del tempo cosmico e dell’ordine del tempo socializzato.

9. Archiloco, fr. 36 Lasserre.10. Saffo, fr. 16 Voigt.

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e in contrapposizione a essi, del tempo così come è vissuto sog­gettivamente dall’individuo: un tempo instabile, mutevole, che viene subito nei suoi sconvolgimenti repentini, nei suoi capricci imprevedibili e nella sua angosciante irreversibilità, e che porta sempre alla vecchiaia e alla morte. Il soggetto fa esperienza, dentro di sé, di questo tempo personale, sotto la forma del rim­pianto, della nostalgia, dell’attesa, della speranza e della soffe­renza, del ricordo delle gioie perdute e delle presenze scompar­se. Nella lirica greca, il soggetto si dimostra e si esprime come quella parte dell’individuo sulla quale l’individuo stesso non ha potere, che lo lascia disarmato, passivo e impotente, e che tutta­via è in lui la vita stessa, quella che canta: la sua vita.

IV I. L’Io. Beninteso, i Greci arcaici e classici h^ no un’e­sperienza del loro io e della loro persona, come anche del loro corpo, ma questa esperienza è organizzata diversamente dalla nostra. L’io non è delimitato né unificato: è un campo aperto di forze molteplici, come dice H. Frankel." Soprattutto, que­sta esperienza è orientata verso l’esterno, non verso l’interno di sé; l’individuo si cerca e si trova negli altri, in quegli spec­chi riflettenti la sua immagine che sono per lui tutti i suoi alter ego - genitori, figli, amici. Come scrive James Redfield, a pro­posito dell’eroe dell’epica: “Non è, ai suoi propri occhi, che lo specchio che gli altri gli presentano”.'̂ Pertanto l’individuo si proietta e si oggettiva in ciò che compie effettivamente, in ciò che realizza: attività o opere che gli permettono di coglier­si. non in potenza, ma in atto, energeia, e che non sono mai nella sua coscienza.” Non c’è introspezione; il soggetto non

11. Hermann Frankel, Dichtung und Philosophte Je s friihen G riechen- lum s, Miinchen 1962 (tr. it. Poesia e filosofia della G recia arcaica. Il Mulino, Bologna 1997, p. 131); cfr. anche Bruno Snell, Die Entdeckung des G eistes, Hamburg 1955 (tr. it. La cultura greca e le origini d el pensiero europeo, Ei­naudi, Torino 1963, pp. 9-17).

12. J . Redfield, “Le scntimeni homérique du Moi", L e G enre hum ain, 12, 1985 (“Les usages de la nature”), p. 104.

13. Cfr. J.-P. Vemant, “Catégories de l'action et de l’agent en Grèce an­cienne”, Langue, discours, société. Pour É m ile Benoenisle, Paris 1975; ripre­so in Religions, histoires, raisons. Paris 1974, pp. 85-95.

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costituisce un mondo interiore chiuso, in cui deve penetrare per ritrovarsi, o meglio scoprirsi. 11 soggetto è estroverso; così come l’occhio non si vede da sé, l'individuo, per concepirsi, guarda all’altrove, al di fuori. La sua coscienza di sé non è ri­flessiva, ripiegamento su se stessa, chiusura aH’intemo, faccia a faccia con la sua propria persona: è esistenziale. L’esistenza viene prima, rispetto alla coscienza di esistere. Come è stato spesso notato, il cogito ergo sum, “penso dunque sono”, non ha alcun senso per un greco.

14. Cfr. Richard Sorabji, “Body and Soni in Aristotle”, nella raccoha A rticlei on A ristotle, a cura di J . Barnes, M. Schofield, R. Sorabji. IV, Lon­don 1979, pp. 42-64, in particolare il paragrafo 4, intitolato “The contrast with Descartes"; Charles H. Kahn, “Sensation and consciousness in Aristo- tle’s Psychology”, tbtdem , pp. 1-31. C. Kahn sottolinea “la mancanza totale del senso cartesiano di una radicale e necessaria incompatibilità tra pensie­ro e coscienza, da una parte, ed estensione fisica, dall'altra”; Jacques Brun- schvig, “Aristote et l’effet Perrichon", Hnmmage à Fernand A lquié: La Pas- siort de la ratson. Paris 1983, pp. 361-377. L’autore scrive, a p. 375: “Si sten­ta ad ammettere che Aristotele abbia potuto pensare, come psicologo e mo­ralista, che l’effettiva essenza di colui che produce può ben essere sia Tolle­ra stessa (fosse pure in un senso soltanto) e che l'opera di Socrate, secondo l’espressione di Michele di Efeso, non sia ‘nient’altro che Socrate stesso in atto’. La mia opera (ma anche il mio amico, il mio debitore, mio figlio, il mio riflesso, la mia ombra) può certo essere (fualcosa d i me. la mia proiezio­ne. l’espressione di me, la mia oggettivazione o la mia ‘estraneazione’; appa­re assurdo e primitivo dire che essa sono io. che sono là dove essa è, che essa è il mio essere. (...] Il mio rapporto con me stesso non è equiparabile a nes­sun altro rapporto che io possa avere con un oggetto qualsiasi: tutto ciò che per me è oggetto, p>er principio è altro da me. Suggerirò, per finire, che qui ci sia una sorta di ostacolo epistemologico (diciamo 'cartesiano', per farla breve) di cui bisogna sbarazziirsi, se si vuole capire un certo numero di pen­sieri greci. Sarebbe interessante, sotto più di un aspetto, individuare le trac­ce, nel pensiero greco, di una sorta di cogito paradossale che si potrebbe formulare così: mi vedo (nella mia opera o in un'altra delle proiezioni di me stesso precedentemente enumerate), dunque sono: e sono là dove mi vedo; io sono questa proiezione di me che vedo".

Cfr., nello stesso senso, Gilbert Romeyer Derbey. “L’àme est en quelque fagon tous les ètres (Aristotele. D e anim a, T 8,431 b 21 )", Elenchos. Rivista d i studi sul pensiero antico. V ili, 1987, Fase. 2, pp. 364-380. “Se l’anima è l’essere cui si dà il mondo”, conclude G.R. Derbey, “ciò che importa sapere è come l’anima si dà a se stessa. Questo problema della soggettività non è presente come tale in Aristotele; nondimeno, un’indicazione del libro L della M etafisica è in grado di chiarirci questo punto. Il pensiero divino è, come si sa. un ‘pensiero del pensiero’, il che equivale a dire che il nous divi­no è l’oggetto di se stesso e si pensa direttamente da sé. Al contrario, la sen-

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Esisto perché ho delle mani, dei piedi, dei sentimenti, per­ché cammino, corro, vedo e sento; faccio tutto questo e so di farlo.” Ma non penso mai alla mia coscienza attraverso la co­scienza che ho di essa. La mia coscienza è tutta aggrappata al­l’esterno: ho coscienza di vedere un certo oggetto, di udire un certo suono, di soffrire un determinato dolore. Il mondo del­l’individuo non ha assunto la forma di una coscienza di sé, di un universo interiore che definisca, nella sua radicale origina­lità, la persona di ciascuno. Bernard Groethuysen riassume questo statuto particolare della persona antica in una formula, al tempo stesso lapidaria e provocatoria, dicendo che la co­scienza di sé è il concepimento in sé di un egli, non di un /o.‘*

IV. 2. Mi si dirà: che fate di quei testi in cui Platone scrive; “Ciò che costituisce ciascuno di noi non è altro che l’anima

sazione o la conoscenza dell'uomo sono ‘sempre di un altro (aetallou)' e ‘di se stesso in sttpraggiunta’. L’anima si acquisisce dunque da sé in più, per so­prammercato. se così si può dire, e questa acquisizione non può realizzarsi se non per mezzo dell’acquisizione di un altro essere, per mezzo dell’ap­prendimento del mondo. In breve, l'anima non può essere se stessa che es­sendo, in qualche modo, tutti gli altri esseri. [...] Se il pensiero divino è pensiero di sé solo, il pensiero dell’uomo è pensiero di sé e delle cose, o piuttosto di sé a proposito delle cose; l’anima non è ciò che sarà in Cartesio, una m em pura et ahstracla, o che era già addirittura in Plotino, ciò che si scopre ‘togliendo tutto’. È quindi furtivamente che la coscienza s’insinua nella fìlosotìa; siamo effettivamente sulla via che porta al canesianesimo, tuttavia su questa via lo Stagirita non ha fatto un solo passo". Sottolineando il mutamento intellettuale che ha rappresentato, nel campo della visione e della percezione in generale, la D iottrica di Cartesio, Gérard Simon nota che ‘di conseguenza la sensazione cessa di essere precostituita, un possibile offerto dal mondo in attesa dell'agente capace di attualizzarla. Il problema dell’appercezione non può più, ormai, essere risolto per preterizione, né il suo posto può essere occupato dalla cascata di facoltà che a poco a poco elaboravano fino alla completa intellezione un sensibile già esistente in po­tenza nelle cose. E diventato impiossibile trattare la percezione in terza per­sona: l’anima diviene, per la prima volta, un soggetto per eccellenza" (“Derrière le miroir". L e Temps de la réflexion, II, 1981, p. 328).

15. Cfr. Aristotele. Etica nicom achea, 1170 a 29-32: “[...] chi vede ha sensazione di vedere e chi ode di udire e chi cammina di camminare e pari- menti negli altri casi v’è qualcosa che ha sensazione che noi siamo in atti­vità, cosicché abbiamo sensazione di aver sensazione e intendiamo d’inten­dere; ma il sentire e l’intendere significano che esistiamo" (tr. A. Plebe).

16, B. G roethuysen, A nthropologie philosophi^ue, Paris 1952, p. 61.

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[...]; l’essenza che in realtà è ciascuno di noi. e che chiamiamo l’anima immortale, va, dopo la morte, a raggiungere gli altri dèi” {Leggi, XII, 959 a-b)? Nel Fedone, Socrate, sul punto di morire, si rivolge ai suoi amici in questi termini: “Ciò che io sono è questo Socrate che vi sta parlando {ego cim i houtos Sokrates) [...] non quell’altro che vedrete morto tra poco tem­po” (Fedone, 115 c). E, conversando con Alcibiade, il Socrate platonico così interpella chi gli sta di fronte: “Quando Socra­te dialoga con Alcibiade, non è alla tua faccia che parla, ma ad Alcibiade stesso, e quell’Alcibiade è l’anima” (Alcibiade, 130 c).

Il problema qui sembra risolto. Ciò che sono Socrate e Al­cibiade, ciò che è ogni individuo, è l’anima, la psuche. Sappia­mo come è comparsa quest’anima, che dopo la morte se ne va a raggiungere l’aldilà divino: ha avuto origine dai maghi di cui ho parlato prima, i quali, rifiutando l’idea tradizionale della psuche come doppio del morto, spiettro senza forza, ombra evanescente svanita nell’Ade, cercavano, mediante le loro pratiche di concentrazione e purificazione del respiro, di ra­dunare l’anima sparsa in tutte le parti del corpo, perché fosse possibile, una volta che fosse isolata e unificata, staccarla dal corpo a piacimento, per viaggiare nell’aldilà. La concezione platonica di un’anima che è Socrate trova il suo punto di par­tenza, la sua “disposizione iniziale”, in questi esercizi di usci­ta dal corpo, di fuga fuori dal mondo, di evasione verso il di­vino, che mirano a una ricerca della salvezza che passa per la rinuncia alla vita terrena.

Tutto questo è vero; occorre però precisare un punto es­senziale. La psuche è sì Socrate, ma non l’“Io” Socrate, il So­crate psicologico. In ciascuno di noi, la psuche è un’entità im­personale o sovrapersonale: è /'anima in me, piuttosto che la mia anima. In primo luogo perché quest’anima si definisce mediante la sua radicale opposizione al corpo e a tutto ciò che si ricollega a esso, e di conseguenza esclude tutto ciò che in noi attiene alle particolarità individuali e alle limitazioni proprie dell’esistenza fisica. In secondo luogo perché questa psuche in noi è un daimon, un essere divino, una potenza so­

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prannaturale il cui posto e la cui funzione, nell’universo, ol­trepassano la nostra persona singola. Il numero di anime pre­senti nel cosmo è fissato una volta per tutte e resta lo stesso in eterno; ce no sono tante quanti sono gli astri. Ogni uomo, quindi, trova alla sua nascita un’anima che era già lì fin dall’o­rigine del mondo, che non è in alcun modo sua particolare e che, dopo la sua morte, andrà a incarnarsi in un altro uomo, o in un animale, o in una pianta, se non è giunta, nella sua ulti­ma vita, a rendersi così pura da poter raggiungere nel cielo l’astro cui è legata.

L’anima immortale non esprime, nell’uomo, la sua psicolo­gia particolare, ma piuttosto l’aspirazione del soggetto indivi­duale a fondersi nel tutto, a reintegrarsi nell’ordine cosmico generale.”

Beninteso, questa psuche ha già preso in Platone e pren­derà in seguito un contenuto più propriamente personale; ma questa apertura verso la dimensione psicologica si realizza at­traverso le pratiche mentali inaugurate nella città e orientate verso il mondo di quaggiù.

Prendiamo l’esempio della memoria. Gli esercizi di memo­ria dei maghi o dei pitagorici non mirano a recuperare il tem­po personale, il tempo fugace dei ricordi personali di ciascu­no, come fanno i lirici, né a stabilire un ordine del tempo, co­me faranno gli storici, ma alla reminiscenza della serie com­pleta di tutte le vite anteriori fin dall’inizio, per “unire la fine al principio” e sfuggire al ciclo delle reincarnazioni. Questa memoria è lo strumento che permette di uscire dal tempo, non di costruirlo. Sono i sofisti, che creano una mnemotecni­ca totalmente utilitaristica, è Aristotele, che ricollega la me­moria alla parte sensibile dell’anima, che ne faranno un ele­mento del soggetto umano e della sua psicologia.**

Ma soprattutto - cosa che sarà decisiva per conferire al-

17. Cfr. J.-P. Vemam, “Aspects de la personne dans la religion grec- que”, M ythe et Pensée chez les G recs, Paris 1971 (tr. it. M ito e pensiero pres­so iG reci, Einaudi, Torino 1978, pp. 361-382).

18. “Aspects mythiques de la mémoire et du temps”, ibidem , pp. 93- 146.

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l’Io, neUa sua interiorità, consistenza e complessità - sono tutti i comportamenti che metteranno in contatto l’anima dai- mon, l’anima divina, immortale e sovrapersonale, con le altre parti dell’anima, legate al corpo, alle necessità e ai piaceri: il thumos e Ycpithumia. Questo rapporto dell’anima noetica e impersonale con il resto ha un orientamento; si tratta di sotto­mettere l’inferiore al superiore per realizzare, all’interno di sé, uno stato di libertà analogo a quello del cittadino nella città. Perché l’uomo sia padrone di se stesso, deve dominare quella parte appassionata e piena di desiderio che i lirici esal­tavano, abbandonandovisi. Attraverso l’osservazione di sé, gli esercizi e le prove che impone a se stesso, come pure per mez­zo dell’esempio altrui, l’uomo deve trovare gli appigli che gli permettano di dominarsi, come con\iene a un uomo libero, il cui ideale è di non essere, in società, lo schiavo di nessuno, né di se stesso né di altri.

Questa continua pratica di askesis morale nasce, si svilup­pa e ha senso unicamente nell’ambito della città; l’allenamen­to alla virtù e l’educazione civica che prepara alla vita dell’uo­mo libero vanno di pari passo. Come scrive giustamente Mi­chel Foucault, “’Vaskesis morale fa parte della paideia dell’uo­mo libero, che ha un ruolo da svolgere nella città e in rappor­to agli altri; non deve utilizzare procedimenti distinti”.

Persino quando, con gli stoici, questo ascetismo, che mira al tempo stesso a rendere l’uomo padrone di se stesso e libero rispetto agli altri, avrà acquisito, nei primi secoli della nostra era, una relativa indipendenza in quanto esercizio su di sé, quando le tecniche di ascolto e di controllo di sé, come le prove autoimposte, l’esame di coscienza, la rievocazione di tutti i fatti della giornata, tenderanno a formare i procedi­menti specifici di una “cura di sé” che sfoci non più soltanto nel dominio degli appetiti e delle passioni, ma anche nel “go­dimento di sé", senza desiderio e senza turbamento - si è sempre all’interno del mondo e della società.

19. M. Foucault, L'Usage des plaistrs (H istoire de la sexualité, t. II). Paris 1984 (tr. it. L’uso d ei piaceri. Stona della sessualità, voi. II. p. 81 ).

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Parlando di Marc’Aurelio e di quella specie di anacoresi in se stesso cui egli si vota, Foucault nota: “Questa attività con­sacrata a se stesso non costituisce affatto un esercizio della so­litudine. ma una vera e propria pratica sociale”.**

IV.3. Quando e come questa cura di sé, così come si pre­senta nel paganesimo tardivo, sfocerà nel nuovo senso della persona, che conferisce alla storia dell'individuo in Occiden­te i suoi tratti originari e il suo aspetto caratteristico? La svol­ta ha luogo tra il III e il IV secolo della nostra era. Uno stile inedito si fa strada nella vita collettiva, nelle relazioni con il divino e nell’esperienza di sé. Peter Brovim ha chiarito assai fi­nemente le condizioni e le conseguenze di questo mutamen­to, sul triplice piano religioso, sociale e spirituale. Prenderò in considerazione unicamente i punti delle sue analisi che ri­guardano direttamente il problema della dimensione interio­re degli individui e della coscienza che hanno di se stessi.

Innanzitutto occorre sottolineare la brusca sparizione del modello di parità - ancora esistente nell’età degli Antonini - che rendeva i cittadini uguali fra loro e gli uomini tutti uguali di fronte agli dèi. '̂ Certo, la società non è di tipo gerarchico, come in India, ma sia nelle campagne che nelle città, i gruppi umani tendono a delegare sempre di più a individui eccezionali, che il loro genere di vita colloca ai margini dell’ordinario, come con­trassegnandoli con il marchio divino, la funzione di assicurare il legame tra il cielo e la terra e di esercitare sugli uomini, a questo titolo, un potere non più secolare, bensì spirituale.

Con l’apparizione del sant’uomo, dell’uomo di Dio, dell’a­sceta o dell’anacoreta, compare un tipo d’individuo che si è separato dall’ordinario e staccato dal sociale con l’unico sco­po di mettersi alla ricerca del vero Io, un Io che si protende tra l’angelo custode che lo prolunga verso l’alto e le forze de­moniache che marcano, verso U basso, i confini inferiori della

20. M. Foucault. L e 50UCÌde soi, cit. (tr. il. p. 55).21. Peter Brown, Society and thè H oly in Late A ntiquity, London 1982

(tr. it. La società e il sacro nella tarda antichità, Einaudi, Torino 1988, pp. 67

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sua personalità. La ricerca di Dio e la ricerca dell’Io sono le due dimensioni della stessa prova solitaria.

A questo proposito, Peter Brown parla di un’“importanza feroce” data alla coscienza di sé, a un’introspezione prolunga­ta e implacabUe, all’esame vigile, scrupoloso e sospettoso delle inclinazioni, della volontà e del libero arbitrio, per scrutare in quale misura restino opachi o siano diventati trasparenti alla presenza divina.^ In questo momento prende corpo una nuo­va forma d’identità, che definisce l’uomo attraverso i suoi pen­sieri più intimi, le sue fantasie segrete, i suoi sogni notturni, le sue pulsioni piene di peccato e la presenza costante e ossessi­va, nel suo intimo, di tutte le forme di tentazione.

E qui che si trova il punto di partenza della persona e del­l’individuo moderni: ma questa rottura con il passato pagano è anche una continuità. Quegli uomini non erano dei rinun­cianti; nella loro ricerca di Dio, di sé, di Dio in sé, tenevano gli occhi rivolti a terra. Valendosi di un potere celeste che contrassegnava la loro persona, dentro e fuori, tanto profon­damente che i loro contemporanei li riconoscevano, senza contestazione, come dei veri “amici di Dio”, si ritrovavano qualificati per compiere la loro missione.

Sant’Agostino è un buon testimone di questa svolta nella storia della persona, quando parla dell’abisso della coscienza umana, '"abyssus humanae com cientiae" e quando s’interroga, davanti alla profondità e alla molteplicità infinita della sua propria memoria, sul mistero di ciò che egli è: “Questo è il mio animo, sono io in persona. Che cosa sono dunque io, mio Dio? Una vita mutevole, multiforme, di un’immensità prodi­giosa”. Come scrive Pierre Hadot: “invece di dire: l’anima. Agostino afferma: sono, mi conosco, mi voglio, dove questi tre atti si implicano reciprocamente [...]. Ci sono voluti quat­tro secoli perché il cristianesimo raggiungesse questa coscien­za dell’Io”.̂ ’

22. Peter Brown, The M akingof Late Antiquity,(limhnd%Q-\jQnòon 1978.23. Pierre Hadot, “De Tertullien à Bocce. Le développement de la no-

tion dans les controverses théologiques", Problèm es de la personne, a cura di I. Meyerson, Paris-Den Haag 1973, pp. 133-134.

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Un senso nuovo della persona, quindi, legato a un rappor­to diverso, più intimo, dell’individuo con Dio; ma certo non una fuga dal mondo. Peter Brown, nello stesso libro in cui se­gnala l’ampiezza dei cambiamenti che operano sulla struttura dell’Io nel IV secolo romano, nota che il valore attribuito, nel­l’ambito di questo mutamento, al soprannaturale, “lungi dal- l’incoraggiare la fuga dal mondo, ha coinvolto più fortemente che mai l’uomo nel mondo, creando nuove istituzioni o rifor­mando quelle già esistenti”.̂ '*

L’uomo di Agostino, colui che nel dialogo con Dio può di­re /o, si è certamente allontanato dal cittadino della città clas­sica, dall’̂ owo aequalis dell’antichità pagana, ma la distanza che lo separa dall’/?owo hierarchicus della civiltà indiana è molto più grande, il fossato molto più profondo.

24. P. BrowTi. op. d t., n. 22, p. 6.

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