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LA METAFORA COME STRUTTURA DEL PENSIERO Appunti del corso di Filosofia tenuto nell’a.a. 2005-2006 presso la Facoltà di Psicologia, Università di Firenze ALBERTO PERUZZI [email protected] 2006

metafora peruzzi

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sceinze cognitive

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LA METAFORA

COME STRUTTURA DEL PENSIEROAppunti del corso di Filosofia tenuto nell’a.a. 2005-2006

presso la Facoltà di Psicologia, Università di Firenze

ALBERTO PERUZZI

[email protected]

2006

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Premessa

La metafora? Tutti sapete che cos’è … Lo sapete nel senso che, se vi dico La professoressa

Analfa Beti è una colonna dell’università mentre il professor Alpero Bertuzzi è solo tappezzeria,

sapete riconoscere che non lo dico alla lettera. E come fate a esserne così sicuri? Lo siete perché

sapete che le professoresse non sono colonne, sapete che i professori non sono tessuti, e pensate

che lo sappia anch’io (grazie). Inoltre, capite il senso di queste due metafore tant’è vero che vi

siete subito resi conto che ho parlato ironicamente (per metà). Se invece sapeste che la settimana

scorsa l’amata Analfa Beti è deceduta e, per rispettare le sue ultime volontà, nel suo corpo è stata

iniettata una sostanza che l’ha resa rigida ancor più di quanto potesse essere in vita e ha

consentito di usarla come colonna aggiuntiva nel chiostro di un edificio universitario, non direste

più che è una metafora. All’inverso, ci sono molte metafore che non riconoscete come tali e

neanch’io le riconoscevo prima di rifletterci.

Perché avrei dovuto rifletterci? La metafora riguarda la linguistica, la retorica, la letteratura,

non la filosofia. Tanto meno interessa la scienza. Questa è l’idea comune. Non tutte le idee

comuni sono sbagliate, ma questa lo è. Non che sia sbagliata come attestazione di un dato

storico: nel corso della storia i filosofi hanno prestato scarsa attenzione alla metafora e gli

scienziati si sono interessati di atomi, stelle, cellule, organismi, non di metafore, mentre fin

dall’antichità la metafora è stata oggetto di numerose e accurate indagini da parte dei

grammatici, in relazione all’arte retorica. Siccome tanto la poesia quanto la narrativa di tutti i

tempi si sono servite della metafora come strumento espressivo, l’attenzione privilegiata di

linguisti e letterati nei suoi confronti era ed è facilmente comprensibile. Fatto sta che, oggi, della

metafora si interessano i neuroscienziati, così come se ne interessano i filosofi della mente e non

solo i filosofi del linguaggio. Ci sono dei motivi ben precisi, e sostanziosi, che giustificano

quest’interesse e vorrei aiutarvi a capire quali sono.

Non che i motivi mancassero in passato. Le metafore sono spia di un tipo di ragionamento

analogico che ha ricevuto attenzione anche dai filosofi, fino a scorgerne una legittimazione nella

struttura stessa della realtà. Basti pensare alle corrispondenze, appunto analogiche, tra

microcosmo e macrocosmo, molto frequentate dai filosofi del Rinascimento. In questo senso la

metafora riguardava non solo una visione generale della natura ma anche la conoscenza e la

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spiegazione di fatti specifici, dunque acquistava valore scientifico (non secondo i nostri attuali

standard – è ovvio).

Tuttavia, la rinascita di un interesse filosofico per la metafora non sta soltanto in una

rinnovata attenzione al ruolo che alcune metafore-guida hanno avuto nel corso della storia del

pensiero scientifico. Piuttosto, è successo che alcuni psicologi cognitivi, filosofi del linguaggio e

linguisti sono arrivati a vedere la metafora come struttura generale del pensiero. Il che ha reso la

metafora un tema d’importanza centrale per ogni modello della mente, con conseguenze di

notevole portata per la semantica e per l’epistemologia. E nel momento in cui si è cominciato a

precisare il rapporto tra la struttura della mente e la neurofisiologia, il meccanismo che presiede

alla produzione e alla comprensione delle metafore ha finito per interessare anche le

neuroscienze.

Negli ultimi dieci anni ho tenuto più corsi sul tema della metafora come struttura del

pensiero, ma tutte le volte mi sono dovuto confrontare con una difficoltà: chi, avendo già

conoscenze di logica, di linguistica e di semiotica, era anche ben disposto ad attribuire

importanza filosofica al linguaggio, pensava che quest’importanza dovesse per forza far

riferimento alla filosofia analitica o all’ermeneutica. E così, mostrava una tenace riluttanza ad

accettare la metafora quale argomento di primario interesse cognitivo e, più generalmente,

biologico.

L’idea della metafora come struttura del pensiero è stata delineata nel 1980 in un libro di

George Lakoff e Mark Johnson, intitolato Metaphors we live by (trad. it. Metafora e vita

quotidiana) e proprio a questo libro mi sono riferito per introdurre la dimensione cognitiva delle

metafore. Benché sia un testo di agevole lettura, le questioni affrontate e il quadro generale che

ne emerge sollevano numerosi interrogativi, alcuni dei quali hanno a che fare con temi centrali

della filosofia. Curiosamente, la stessa scorrevolezza del testo trae in inganno: sembra di trovarsi

di fronte a una sorta di “fenomenologia della metafora” e che tutto scorra liscio. Per evitare una

simile impressione (a quanto pare, abbastanza comune) e per richiamare l’attenzione sui passaggi

più importanti da un punto di vista filosofico, ho steso queste pagine di appunti: benché non

esaustive, neanche limitatamente agli aspetti più generali della metafora, vogliono aiutare ad

orientarsi nelle questioni e conservano il tono discorsivo delle lezioni che ho tenuto mettendo da

parte esigenze di rigore teorico; e delle lezioni del corso 2005-6 conservano pure l’andamento, più

rapsodico che sistematico.

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Lo scopo primario non era quello di riassumere il testo, né quello di estrarne una serie di

spunti per trasformarli in una teoria, né quello di corredarlo con le informazioni acquisite negli

ultimi anni da psicologi e neuroscienziati; era piuttosto quello di chiarire il senso di alcune

domande di fondo e di esplicitare i motivi che sono all’origine dell’odierna teoria della metafora

nell’ambito della Grammatica Cognitiva. L’ho indicato come scopo “primario” perché ce n’è

anche un altro: segnalare alcune difficoltà cui va incontro l’interpretazione corrente della teoria e

avanzare qualche proposta utile a evitarle1. Queste difficoltà sono infatti rilevabili già nel libro di

Lakoff e Johnson. La chiarezza del testo (intesa come ‘ingenuità’ da filosofi di professione che

naturalmente non hanno mai scritto un testo di uguale interesse) facilita la rilevazione dei

problemi, che sono invece molto più difficili da riconoscere in successivi lavori di ricerca, più

sofisticati e complessi.

Il discorso entrerà subito in medias res, al fine di un diretto coinvolgimento nelle questioni.

I riferimenti ad alcune idee classiche sulla metafora saranno occasionali e poco elaborati. Manca

dunque una ricostruzione storica delle teorie della metafora ed è una lacuna dolorosa, perché

proprio dal confronto con i modi d’intendere le metafore che sono stati proposti in passato si

poteva apprezzare meglio la portata innovatrice dell’approccio “cognitivo”. La brevità del corso

ha imposto vari tagli, fra i quali una pur minima ricostruzione storica.

Anche se il tono discorsivo fa sì che la trattazione del tema rimanga allo stato embrionale,

spero che a qualcuno di voi faccia sentire il bisogno di approfondire le questioni (linguistiche,

psicologiche, filosofiche) inerenti al tema della metafora come struttura del pensiero. A tal fine ho

inserito alcuni rimandi bibliografici e fornito qua e là spunti di riflessione che ho sviluppato in

alcuni lavori2, ma se fossi partito dal loro sviluppo l’esposizione sarebbe stata più ostica per chi

non si è mai interessato prima di metafora. Ho dunque preferito la semplicità all’accuratezza. Ma

era davvero possibile partire da zero (o quasi) e arrivare rapidamente a questioni che l’attuale

ricerca sta affrontando? Di qui la sfida che ho raccolto, per comunicare il fascino di un’idea che,

come poche altre nella filosofia di oggi, ha aperto nuovi orizzonti.

1 A difficoltà intrinseche se ne sono aggiunte anche di altro tipo: si veda l’Appendice in relazione ad alcuniequivoci cui l’edizione italiana si presta.2 Cfr. An essay on the notion of schema, in Shapes of Form, a cura di L. Albertazzi, Kluwer, Amsterdam1999, pp. 191-243; The geometric roots of semantics, in Meaning and Cognition, a cura di L. Albertazzi,John Benjamins, Amsterdam, 2000, pp. 169-201; Noema fondato, in Fenomenologia applicata, a cura di R.Lanfredini, Guerini, Milano, 2004, pp. 13-38. I riferimenti bibliografici di questi tre articoli offrono ancheun quadro per comprendere come si sia evoluta, negli ultimi trent’anni, la problematica relativa allasemantica delle espressioni metaforiche.

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1. Linguaggio, semantica e metafore

Una delle capacità fondamentali, e caratteristiche, degli esseri umani è quella di potersi

riferire a qualcosa mediante qualcos’altro. Questo qualcos’altro è tradizionalmente detto un

“simbolo”. Ci riferiamo mediante simboli, opportunamente combinati tra loro, a cose e stati-di-

cose; non solo a cose e a stati-di-cose che sono presenti, ma anche (e qui sta il bello) a cose e stati-

di-cose che non sono presenti, non sono a portata di mano, non sono direttamente osservabili e

manipolabili. Per “cose” intendo genericamente i più diversi tipi di entità. Quali cose ci sono e

quali non ci sono è una questione che definisce com’è fatta, per noi, la realtà. E allora si potrebbe

rovesciare perfino l’idea, partendo dai simboli invece che dalle cose, e dire, in modo molto

liberale, che le cose sono ciò che gli esseri umani sono capaci di rappresentare simbolicamente

come oggetti di discorso – insomma: tutto ciò cui è possibile riferirsi.

Purtroppo, questo rovesciamento va poco lontano … o troppo lontano. Il linguaggio verbale

permette di parlare non solo di quello che c’è, benché non sia “alla mano”, ma anche di ciò che è

soltanto possibile e di ciò che è puro frutto dell’immaginazione. Ci riferiamo senza la minima

difficoltà a entità fittizie, ad astrazioni, a “stati di cose” irreali, a situazioni fantastiche, a modelli, a

ideali, ecc. Parliamo di com’era la nostra città dieci anni fa, anche se non possiamo più indicarla

col dito; parliamo di quale potrebbe essere l’effetto visivo se i muri di questa stanza fossero

coperti da arazzi, parliamo del cavallo alato e di Paperopoli, parliamo di strutture algebriche che

certo non sono tangibili, parliamo della democrazia, dell’amore, della giustizia, del valore della

bontà e del significato della verità, che non sono cose o qualità percepibili, ma tuttalpiù

esemplificate, in misura approssimativa, da qualcosa di concreto. In gioco è una straordinaria

risorsa dell’intelletto umano. Più ci si pensa, più straordinaria risulta.

C’è chi ha detto che l’uomo, invece di essere definito come animal rationale, dovrbbe essere

definito come animal symbolicum. Il cognitivismo ha precisato quest’idea proponendo un

modello della mente come sistema di elaborazione delle informazioni, ove le informazioni sono

rappresentazioni in formato simbolico. Dato che i concetti sono rappresentazioni, avere-un-

concetto-di-qualcosa presuppone il riferirsi, dunque presuppone che si rappresenti qualcosa

mediante qualcos’altro, e tuttavia questo ‘qualcos’altro’ non è detto che debba essere per forza

un’espressione verbale. C’è anche chi ha contestato l’idea che il cuore della cognizione umana stia

nel costruire e manipolare rappresentazioni. Poiché non sto assumendo la tesi secondo cui ogni

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attività cognitiva è in forma di rappresentazione-di-qualcosa, non ho bisogno di replicare alla

contestazione.

Grazie al linguaggio verbale estendiamo le nostre potenzialità cognitive, ma il linguaggio

verbale non è l’unico mezzo simbolico di cui disponiamo per esercitare la nostra, tipica e

straordinaria, capacità di riferirci a qualcosa. Ci sono, in effetti, molti altri modi di rappresentare

un oggetto, un’azione, uno stato-di-cose: disegni, foto, modellini in scala, sono tutti esempi di una

qualche rappresentazione al pari delle descrizioni verbali. Però differiscono grandemente per le

loro potenzialità di combinazione e di uso pratico e, soprattutto, non arrivano dove ci permette

di arrivare il linguaggio verbale.

Che cos’è il “linguaggio verbale”? Sembra una domanda facilissima e invece non lo è.

Credere che lo sia è vedere le cose da una distanza cosmica (e poi scordarsene). Ciò che ne fa

quello strumento prezioso, potente e flessibile che adoperiamo con grande agilità è l’insieme di

più strutture, a vari ‘ordini di grandezza’, incastonate le une nelle altre, e queste strutture sono

tanto più meritevoli d’attenzione quanto più le diamo per scontate. Il livello centrale di struttura

linguistica è oggi identificato in quello che corrisponde all’enunciato, basilarmente in forma di

frase assertoria, ma suscettibile di presentarsi anche in forma interrogativa, imperativa o

esclamativa. Nel più semplice enunciato ci sono già diverse parti del discorso fra loro integrate in

modo da dar espressione a un pensiero compiuto. È vero che nel linguaggio infantile si trovano

‘olofrasi’, costituite da una sola parola, ma in realtà la parola sta per un enunciato: /Pappa/

significa Ho fame. Lo volete capire? Disattenti che non siete altro, e /Mamma/ significa Voglio

che tu (quel viso, quelle mani ecc.) venga qui da me, subito! Un enunciato si può poi comporre

con un altro non solo in forma paratattica ma anche in forma sintattica, arrivando per questa via a

rappresentare verbalmente complessi ragionamenti, in cui sono implicite precise relazioni

consequenziali tra pensieri, a partire da semplici esempi (spesso frequentati nell’infanzia) come

Se mi compri quel giocattolo, mi fai contenta o Non sono stato io a romperlo perché non sapevo

neanche dov’era.

Gli enunciati riguardano non solo gli stati di cose che abbiamo davanti agli occhi. Gli

enunciati (o proposizioni) permettono di rappresentare i più diversi modi di stare insieme dei più

diversi tipi di cose, anche se assenti o astratte, reali o fittizie. Componendo gli enunciati,

esprimiamo i nostri ragionamenti sulle cose alle quali ci riferiamo, anche se sono entità fittizie o

ideali (Se Cappuccetto rosso crede al lupo, non sa che cosa l’aspetta; Se due punti identificano

una retta, tre punti identificano un piano.)

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Per rappresentare qualcosa che non è tangibile, la possibilità di combinare le parole tra loro

in un enunciato è una risorsa insostituibile. Non alludo alle situazioni delle favole ma a qualcosa

che comunemente si considera parte del mondo reale: pensieri, stati emotivi, concetti più o meno

complicati, teorie, ragionamenti. In quanto complessi simbolici, gli enunciati sono governati da

una sintassi – quella del linguaggio cui appartengono – che resta tipicamente implicita, non

consaputa, benché suscettibile di essere a sua volta espressa verbalmente (anche la professoressa

Analfa Beti esprime e comprende enunciati sintatticamente organizzati). Ciò che gli enunciati

esprimono, il loro significato, fa appello ad un altrettanto implicito sistema di regole, che

governano il nostro modo di mettere in corrispondenza linguaggio e mondo. Nel corso del

primo sviluppo cognitivo, questa corrispondenza si svincola ben presto dal mondo-ambiente e

permette di riferirsi a cose e perfino mondi diversi, per qualche aspetto, dalle cose reali e

dall’ambiente che le circonda.

Lo studio del significato si chiama “semantica”, ma il termine si usa anche per indicare

l’insieme di aspetti, e di principi, che ineriscono al significato e che sono oggetto di tale studio.

La stessa cosa è successa col termine “tecnologia”, che indica sia lo studio di certi arnesi sia gli

arnesi stessi che si studiano.

Tutti quanti sapete che linguaggi diversi possono riferirsi con simboli diversi a uno stesso

tipo di cose/proprietà/situazioni esattamente come sapete che due termini diversi possono

riferirsi a uno stesso oggetto e/o possono avere lo stesso significato (nel primo caso si parla di

coreferenzialità, nel secondo di sinonimia); sapete pure che una stessa espressione, in uno stesso

linguaggio o in linguaggi diversi, può riferirsi a cose diverse (omonimia). Il significato e il

riferimento non sono totalmente svincolati: ciò per cui sta un simbolo, cioè il suo riferimento, ha

strettamente a che fare con il significato del simbolo stesso. Se non si sa a che cosa si riferisce un

simbolo (espressione, parola, enunciato), non si può dire di conoscerne il significato; e se si sa a

cosa si riferisce, si sa qualcosa del suo significato. Per alcuni studiosi di semantica, il riferimento

esaurisce il significato, per altri no. Qui non è possibile entrare nel merito della questione.

Accontentiamoci di notare che capacità di riferirsi a qualcosa e capacità di comprendere il

significato sono collegate, anche se non identificabili.

La questione si precisa considerando categorie diverse di espressioni verbali. I nomi propri

stanno per individui, i nomi comuni stanno per tipi di cose, gli aggettivi stanno per qualità degli

oggetti, gli enunciati (o proposizioni) stanno per stati-di-cose (fatti reali o ipotetici).

Normalmente diamo tutto questo per scontato, quasi fosse una banalità. Invece, dietro alla

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nostra abilità di servirci in modo distinto, e appropriato, di nomi, verbi, aggettivi e proposizioni

c’è un tessuto raffinato, per niente banale, di strutture cognitive.

Accanto alla dimensione combinatoria (SINTASSI) delle parole in enunciati e degli enunciati

in altri enunciati più complessi e accanto alla dimensione del significato/riferimento

(SEMANTICA), c’è anche una terza dimensione del linguaggio: la PRAGMATICA, che concerne

l’uso comunicativo del linguaggio in un determinato contesto. Una teoria linguistica pienamente

articolata terrà conto di tutte e tre le dimensioni. Per rendervi conto del diverso ruolo che hanno

queste tre dimensioni, basta che pensiate alle diverse conseguenze che ha la violazione di principi

pertinenti a ciascuna dimensione:

a regalato io il pagato te Francesca ma ha l’ho libro (sintassi violata)

Le tigri abbaiano (semantica violata)

A: Puoi passarmi il sale? B: Sì, posso (pragmatica violata: A non intende informarsi se B sia in

grado di passare il sale).

Nel linguaggio verbale ci sono, accanto a espressioni intese letteralmente, anche espressioni

metaforiche.

Sei stato molto veloce a tirar su la tenda (uso letterale)

Sei un treno (uso metaforico).

Tra le dimensioni del linguaggio, qual è quella che entra in gioco quando si fa una metafora?

In gioco entrano tutte e tre, ma quella specificamente interessata è la dimensione semantica.

Quest’ultima affermazione è meno innocente di quel che sembra. Ci sono, infatti, linguisti,

semiotici e filosofi del linguaggio che dissentirebbero, dicendo che le metafore appartengono di

diritto alla pragmatica. I vantaggi ricavabili dall’aver stabilito se si sta facendo semantica o

pragmatica quando si studiano le metafore sono scarsi rispetto agli svantaggi connessi alla

difficoltà di delineare un preciso confine tra l’una e l’altra. Discutere adesso la questione, oltre che

prematuro, porterebbe via troppo tempo e anche in seguito troverete solo qualche cenno al

riguardo. La priorità accordata alla dimensione semantica non esclude che aspetti inerenti alla

pragmatica entrino nel discorso ma, quando ciò avverrà, servirà principalmente a identificare la

specificità della dimensione semantica.

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La semantica, come si è già detto, ha come suo oggetto di studio il significato. Secondo

l’idea tradizionale, il significato degli enunciati può essere di due tipi: letterale o metaforico.

Quando si dice che la tale idea è tradizionale, si induce a pensare che sia sbagliata. Non in questo

caso. Anche al riguardo non tutti sono d’accordo, come vedrete più avanti. Prima però di

discutere se l’idea tradizionale sia giusta o sbagliata, sarà necessario disporre di una cornice

teorica minimamente articolata.

Per il momento è importante notare che già nella determinazione di che cosa sia il

significato letterale di un enunciato si incontrano numerosi problemi, affrontati da linguisti,

logici e filosofi fino dall’antichità. All’inizio del Novecento, gli sviluppi della logica hanno

consentito di precisare una teoria del significato (letterale), che poi è stata sviluppata

ampiamente, ramificandosi in linee teoriche anche molto diverse tra loro. In questi sviluppi ha

avuto un posto di primo piano la differenza tra linguaggi formali (o formalizzati) e lingue naturali

(storiche, parlate). Nella seconda metà del Novecento, da un lato l’espansione dell’informatica,

con sempre più sofisticati linguaggi “di programmazione”, dall’altro la nascita di modelli della

cognizione basati sull’elaborazione delle informazioni, hanno portato a formulare nuove teorie

semantiche e a metterle alla prova costruendo vari modelli della mente.

Quanto al significato metaforico, lo sviluppo di un consistente apparato teorico è cosa più

recente. Benché negli studi sulla metafora convivano diversi approcci, in un modo o nell’altro

questi approcci si trovano a fare i conti con il modello teorico proposto nel libro di Lakoff e

Johnson. Non fosse altro che per questo motivo, Metafora e vita quotidiana è ormai un classico.

Pubblicato in prima edizione nel 1980 in lingua inglese, con il titolo Metaphors we live by (lett:

“Metafore di cui viviamo”)3 è stato tradotto in numerose lingue, tra le quali l’italiano.

A partire da Metafora e vita quotidiana la letteratura sulla metafora è cresciuta

enormemente. Gli autori del libro hanno scritto anche altre opere, insieme o separatamente l’uno

dall’altro, nelle quali si assiste a un’evoluzione del modello proposto nel 1980 oltre che a un

ripensamento della filosofia soggiacente. Per non complicare il quadro, trascurerò questi sviluppi

e se capiterà di far riferimento a modelli alternativi, precedenti o successivi a quello

originariamente proposto da Lakoff e Johnson, sarà un riferimento marginale. Una tanto

selettiva opzione ha un motivo banale: il tempo a disposizione. Nella parte conclusiva accennerò

invece a un diverso modo di elaborare le idee introdotte da Lakoff e Johnson.

3 Ci sono voluti diciotto anni perché il testo fosse tradotto in italiano (nel 1998) con il titolo “Metafore e vitaquotidiana”. La traduzione italiana è stata ripubblicata recentemente dall’editore Bompiani di Milano ed è aquesta che farò riferimento nel seguito.

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Per quanto riguarda le teorie del significato letterale, una cornice generale nella quale

inquadrarle si può ricavare dalle lezioni che ho raccolto in un volume del 2004: Il significato

inesistente, i cui primi sei capitoli forniscono una panoramica sulle linee di sviluppo della

semantica nel Novecento4. Il modello proposto da Lakoff e Johnson si presenta in radicale

contrasto con tutti i tipi di semantica passati in rassegna in quei capitoli. Dunque, un’analisi della

metafora come struttura del pensiero ha o intende avere conseguenze a lungo raggio.

Per quanto invece riguarda le teorie del significato metaforico, mi limiterò a segnalare alcuni

testi che, per ampiezza e taglio comparativo, offrano un’analoga cornice e un’analoga

panoramica. Di saggi che sfruttano o discutono criticamente le idee di Lakoff, non ce ne sono

molti in italiano e quelli che ci sono non sono molto convincenti5.

In ambito puramente linguistico si trovano numerose raffinate descrizioni delle metafore,

ma ne risulta una ‘fenomenologia’ a carattere tassonomico, che si ferma sulla soglia di una teoria

che intenda spiegare le metafore. Numerosi sono anche i problemi irrisolti dalle teorie

semantiche sviluppate nel corso del Novecento senza prendere in considerazione le metafore.

Che siano rimasti irrisolti per la mancanza di un’adeguata considerazione delle metafore? È

proprio questa l’idea che Lakoff e Johnson avanzano nel 1980.

La metafora è stata tradizionalmente considerata un ingrediente secondario dell’analisi

logica del linguaggio, tanto che la si trova descritta come una figura retorica fra le altre. Che sia

stata così descritta non è forse ovvio? La retorica presuppone la semantica: il discorso metaforico

presuppone il discorso letterale esattamente come la preparazione di una crostata o di un

millefoglie presuppone che ci siano già la farina, le uova e altri ingredienti da combinare in

maniera opportuna. Ovvio? L’idea che la metafora sia una onnipervasiva struttura del pensiero

incrina tale presunta ovvietà.

A incrinare l’ovvietà si è arrivati per vie diverse, sulle quali non mi soffermerò. Fatto sta che

negli ultimi decenni la metafora ha acquistato un progressivo rilievo ben oltre i confini della

retorica e della linguistica, diventando un tema discusso nelle scienze cognitive, nella filosofia del

linguaggio e nella filosofia della scienza. Da fenomeno semantico secondario, la metafora ha

cominciato a risultare fenomeno primario; da risorsa ausiliare nella descrizione scientifica del 4 A. Peruzzi, Il significato inesistente. Lezioni sulla semantica, Firenze University Press, Firenze 2004. Peruna ricognizione circa la pragmatica di un linguaggio naturale (con ciò intendo una qualunque lingua parlatao parlabile), si veda il cap. 4.5 Su internet, trovate una descrizione sintetica delle idee di Lakoff in <it.wikipedia.org/wiki/George_Lakoff>.In varie tesi di laurea di cui sono stato relatore, discusse all’Università di Firenze a partire dall’annoaccademico 2000-2001, sono stati analizzati molteplici aspetti di una teoria delle metafore elaborata nella lineadi Lakoff.

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mondo, ha cominciato a essere riconoscuta come una risorsa essenziale all’elaborazione di quadri

teorici, in fisica come in psicologia; da fenomeno di interesse esclusivamente grammaticale e

letterario, la metafora ha cominciato a essere indagata come processo cognitivo: un processo

cognitivo così fondamentale da costituire una porta privilegiata d’accesso per indagare … Per

indagare che cosa? Per indagare niente meno che la natura del pensiero umano! E per mettere in

luce ciò che ha di più specifico e che lo distingue dalle forme d’intelligenza degli altri primati.

Questo cambiamento prospettico ha fatto sentire l’esigenza di una teoria unitaria, che copra

la vasta gamma di aspetti coinvolti nel produrre e nel comprendere metafore e che dia conto della

presenza ubiqua di metafore nell’uso del linguaggio. Il fatto che, di continuo, ci serviamo di

metafore senza nemmeno farci caso, quasi parlassimo letteralmente, è indicativo di quanto

profondamente radicato sia il processo metaforico. Quando usiamo una metafora, ciò che

interessa dal punto di vista cognitivo non è il semplice ricorso a un modo colorito di esprimere

linguisticamente un pensiero e rappresentare uno stato-di-cose, come in

Tu sei proprio una rosa, … tanti bei petali ma anche tante spine.

Se non è questo, che cos’è? A interessare gli scienziati cognitivi è il processo che permette di

trasporre proprietà di una cosa (come nell’esempio le spine della rosa) a un’altra di tipo molto

diverso (il carattere di una persona).

Si tratta di un processo impiegato anche nel discorso scientifico. Per fare un solo esempio, le

direzioni su e giù, al pari dei nomi dei colori, s’impiegano per parlare dei quark. E come alcune

proprietà (attributi, caratteristiche) delle rose sono trasferite in proprietà delle persone dicendo

Tu sei una rosa ..., il modo in cui i colori si compongono è trasferito nel modo in cui si

compongono i quark. C’è dunque un trasferimento sistematico di più proprietà e relazioni da un

dominio cognitivo a un altre, anche se non tutte le proprietà si trasferiscono. Ora, com’è

organizzato questo processo di trasferimento? Che cosa lo rende possibile? Quale funzione ha?

Che cos’ha di vantaggioso rispetto a un uso puramente letterale del linguaggio?

Insomma, dalla considerazione delle metafore come figura retorica, fenomeno stilistico,

ausilio espressivo, tratto confinato alla superficie verbale, si è passati negli ultimi vent’anni a

scorgere nel processo metaforico la manifestazione di una struttura profonda della cognizione

umana – un suo elemento decisivo e caratteristico, non più meccanismo accessorio ma risorsa

basilare delle mente. Il testo di Lakoff e Johnson non è stato l’unico a puntare in questa

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direzione; sicuramente, però, è stato quello di maggiore impatto e, di fatto, quello di cui più si è

discusso.

Grazie al lavoro di ricerca di linguisti, di psicologi cognitivi, di informatici, di

neuroscienziati, e dulcis in fundo anche di filosofi, oggi la metafora non è più un argomento

secondario per la teoria del linguaggio “naturale”, ovvero di quel meraviglioso sistema simbolico

che abbiamo sviluppato “naturalmente” fin da piccoli e che, da adulti, usiamo nella vita

quotidiana per esprimere i più diversi tipi di pensieri e per riferirci ai più diversi tipi di cose: dalle

chiacchiere sul tempo ai discorsi relativi all’etica, dai discorsi sui nostri stati mentali (e su quelli

altrui) ai discorsi sulla politica. In tutto questo la metafora è ubiqua e non smettiamo certo di

servircene quando adoperiamo un linguaggio specialistico, tecnico-scientifico. Il fatto che la

letteratura sulla metafora sia cresciuta così tanto non è dovuto a una maggiore attenzione verso le

tante espressioni idiomatiche presenti nel linguaggio naturale o all’uso creativo che della

metafora si è fatto e si fa nella poesia, nella pubblicità, nel giornalismo sportivo o nella

matematica. La ragione è piuttosto da cercarsi nel bisogno di capire l’architettura della mente e

l’idea-guida è: l’architettura della mente è permeata di metaforizzazione. In vista del nesso fra

mente e cervello, siamo arrivati a chiederci: cosa succede nel cervello quando si usa una

metafora?

Nei primi decenni del Novecento la filosofia aveva vissuto la “svolta linguistica”: fare filosofia

diventava sinonimo di analizzare il linguaggio. Lo strumento di quest’analisi era la nuova logica

matematica, dalla quale negli anni Trenta era nata la teoria delle funzioni ricorsive, alla base della

futura informatica. Uno dei momenti più importanti nella linguistica del Novecento si ebbe nel

1957, quando Noam Chomsky introdusse la grammatica generativa, sfruttando proprio la teoria

delle funzioni ricorsive. La rivoluzione chomskiana fu uno dei pilastri nella nascente scienza

cognitiva, basata sul modello della mente come sistema di manipolazione algoritmica di simboli,

dunque come insieme di programmi. Così prendeva corpo una seconda svolta: la “svolta

cognitivista”.

Già negli anni Sessanta molti giovani ricercatori vicini all’impostazione chomskiana si

posero il problema di integrare la teoria linguistica, che riguardava principalmente la sintassi,

con un’adeguata semantica che ampliasse l’impiego di risorse logico-matematiche già messe a

frutto nel caso della sintassi. Fra coloro che s’impegnarono nel progetto di elaborare una

semantica generativa c’era anche George Lakoff. Di fronte agli ostacoli che di continuo

spuntavano e impedivano di andare avanti nel progetto, Lakoff cominciò a lavorare a un modello

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alternativo, che recuperava in campo linguistico idee introdotte dagli psicologi della gestalt e

metteva invece da parte l’apparato logico-matematico di cui fino ad allora si era servito.

In numerosi lavori di ricerca, dagli anni Ottanta a oggi, spesso scritti in collaborazione,

Lakoff ha insistentemente battuto su un punto: la metaforizzazione è un processo cognitivo

fondamentale, testimoniato non solo nell’uso del linguaggio che facciamo nella nostra vita

quotidiana, non solo nella letteratura, non solo nella pubblicità, ma anche nella politica, nell’etica

e perfino nel pensiero matematico e nel pensiero filosofico. Vi prego di notare che l’idea davvero

importante non è tanto “Cari matematici e cari filosofi, preoccupatevi di studiare le strutture

della metafora!” quanto “Cari matematici e cari filosofi, lo sapevate che il modo in cui lavorate si

definisce con le metafore che usate?”

A prescindere dalla correttezza o scorrettezza delle soluzioni offerte in rapporto a specifici

problemi, quella che Lakoff e i suoi compagni di strada hanno introdotto è una nuova rivoluzione

concettuale, in cui i confini della linguistica sono sovvertiti, producendo una svolta ulteriore nella

filosofia del Novecento, dopo la “svolta linguistica” e dopo la “svolta cognitivista”. Siccome questa

terza svolta, attraverso la centralità attribuita al processo metaforico, finisce per recuperare le

radici corporee del pensiero umano, la si potrebbe definire “svolta in-corporante”, se non fosse

che … (a parte la bruttezza del termine) la parallela enfasi messa dai fautori di questa terza svolta

sugli elementi cognitivi dipendenti dalla cultura, più che dalla natura corporea, dovrebbe farci

esitare a definirla così. Dico “dovrebbe” perché, di fatto, i sostenitori dell’idea di una mente

incorporata (embodied mind) non esitano a proporre sia una naturalizzazione della semantica sia

una culturalizzazione della natura.

Con questo vi sto già segnalando una complicazione con la quale più avanti bisognerà fare i

conti. Anche ignorando la complicazione (o inventandosi un modo per venirne a capo), vi

confesso di non aver molta simpatia per questo zig-zag netto, fatto di svolte e controsvolte in

termini delle quali descrivere lo sviluppo della filosofia: è indubbiamente un’idea comoda e aiuta

a farsi subito un’idea del contendere, ma rischia di semplificare troppo, togliendo di mezzo gli

argomenti pro e contro ciascuna delle tesi che compongono un modello teorico. Se nessuno ve

l’ha mai detto, sono gli argomenti che fanno la filosofia, non le tesi e neanche i temi. Molte tesi

“filosofiche” appartengono già al senso comune e, quanto ai temi, si può fare filosofia su tutto

(dagli atomi ai sistemi economici, dagli odori agli amori ecc.) e gli argomenti filosofici non sono

ora tutti a favore e ora tutti a sfavore di una tesi. Per questo la filosofia discute continuamente

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anche di se stessa. Il narcisismo e lo scolasticismo sono di casa in filosofia, ma se siete capaci di

vedere solo questi difettucci, presenti anche altrove e in abbondanza, vi perdete il succo.

Comunque sia, l’idea della metafora come struttura del pensiero è ormai riconosciuta come

di primaria importanza per la filosofia del linguaggio e per la filosofia della mente. Si può

condividerla o no, ma chi non le riconosce importanza vive nel passato. L’idea ha trovato

numerose conferme, sulle quali non potrò soffermarmi ma fin d’ora mi preme dire una cosa: le

indagini che l’hanno confermata hanno permesso di capire il ruolo essenziale che la metafora ha

avuto e ha nel discorso morale, nel discorso religioso e nel discorso scientifico.

Ma quanto innovativa è l’idea? In riferimento alla scienza, siamo sicuri che si tratti di un

cambiamento prospettico davvero radicale? Potrebbe sembrare di no, perché già in studi

compiuti da alcuni filosofi della scienza (mi limito a fare il nome di Mary Hesse6) era stato

riconosciuto il ruolo che le metafore hanno nel costituire l’immagine che gli scienziati di offrono

del mondo, suggerendo che i diversi modelli di pensiero succedutisi nella storia della scienza

corrispondono all’adozione di diverse metafore-guida. Non solo: il modo stesso in cui

descriviamo la scienza è a sua volta carico-di-metafore, le quali inducono a intendere la scienza in

un certo modo, cioè, orientano a farsene un’idea piuttosto che un’altra. Due esempi:

Il mondo è un meccanismo

Il sapere è un edificio.

Ad (1): se il mondo è un ‘volgare’ congegno meccanico, quale posto vi hanno le nostre tanto

care menti? Se non è così ed è invece un tutto vivente, come si devono intendere le parti del

mondo che sembrano inanimate? Ad (2): se il sapere è un edificio, quali sono le sue fondamenta?

Se non è così e il sapere è invece una rete, che cosa assicura la stabilità dei nodi e delle loro mutue

connessioni?

Il contrasto appena accennato in (1) fra due modi d’intendere il mondo fu uno dei motivi di

più accesa controversia agli albori della scienza moderna. Il contrasto alluso in (2) ha segnato uno

dei momenti più ‘caldi’ nel dibatitto interno alla recente filosofia della scienza, o almeno come tale

è stato vissuto dai contendenti. Il che suggerisce una riflessione di carattere generale: quando si

hanno di fronte due modelli metaforici, si può iniziare (e di solito si inizia) anche un sottile lavoro

di raccordo tra essi. Ovvero, i due modi d’intendere la conoscenza scientifica (edificio o rete?) non

6 Si vedano i suoi saggi raccolti nel volume Modelli e analogie nella scienza (Feltrinelli, Milano 1980) especialmente il saggio alle pp. 147-160.

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necessariamente si contrappongono: ciò riguarda nuovamente la struttura delle metafore, perché

alcune di esse hanno in sé ingredienti multipli.

In relazione a (2) la tendenza a un raccordo è proprio ciò che si è verificato storicamente.

Negli anni Trenta, all’interno di quella scuola di pensiero nota come “neoempirismo”, si era

affermato un modello molto preciso delle teorie scientifiche, intese come EDIFICI assiomatico-

deduttivi, o ALBERI in cui gli assiomi (o postulati) hanno la funzione di radici, mentre i teoremi

sono nodi dei rami, e il passaggio dalle radici ai nodi è costituito da dimostrazioni. Nel

linguaggio della scienza i neoempiristi individuavano due componenti nettamente distinte: il

linguaggio osservativo e il linguaggio teorico. Come si collegavano fra loro queste due

componenti? Per rispondere a questa domanda i neoempiristi escogitarono un’idea brillante,

bene espressa da Carl Gustav Hempel, e ques’idea codificò l’immagine “classica” delle teorie

scientifiche, cioè, come RETI. Riporto le sue testuali parole: “i concetti della scienza sono i nodi

di una rete di interrrelazioni sistematiche entro la quale le leggi e i principi teorici formano i fili”.

La rete è agganciata all’esperienza solo in alcuni nodi, contro l’idea che le teorie siano immagini

che rispecchiano il mondo punto per punto. Tuttavia, del modello faceva ancora parte l’idea che

le teorie scientifiche siano edifici/alberi assiomatico-deduttivi. Hempel non rinunciava affatto a

questa metafora. Dunque le due metafore si combinavano tra loro. Quanto coerentemente, è un

altro discorso. La successiva proposta di rinunciare all’idea che le teorie scientifiche siano sistemi

ipotetico-deduttivi spostò i termini della questione, dando inizio a un ulteriore lavoro di

raccordo, anche se la proposta non ha ancora fornito un modello alternativo di pari chiarezza.

Già in questo caso è emerso un punto fondamentale: a essere interessanti non sono le singole

metafore, ma gli schemi metaforici che strutturano un intero ambito della nostra esperienza.

Passando a un ambito non più confinato al discorso scientifico, c’è un grappolo di metafore cui

facciamo costante ricorso quando parliamo delle vicende politico-economiche: sono le metafore

legate alla NAVIGAZIONE, documentate in frasi come

Il governo è andato a picco.

Il disegno di legge non ha superato gli scogli.

La manovra economica ha il vento in poppa.

La sanità sta affondando.

La maggioranza è naufragata su due emendamenti dell’opposizione.

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Lo schema metaforico della navigazione si estende ben oltre, fino a diventare un modello in

termini del quale viene rappresentata la stessa condizione umana o un suo particolare momento:

Siamo tutti dei naufraghi.

Il nostro rapporto è ormai alla deriva.

Altro grande schema metaforico è quello con cui rappresentiamo qualcosa come se fosse un

testo da leggere, decifrare, interpretare. Chiamiamolo lo schema LIBRO, che nel Novecento è

diventato il punto di partenza di quella corrente filosofica nota come “ermeneutica”. Esempio

storico: il Libro della Natura è affiancato da Galileo al Libro sacro (la Bibbia), ove il primo è

scritto in caratteri matematici e, se riusciamo a leggerlo, capiremo come va il cielo; il secondo è

scritto con parole che parlano ai cuori e ci fa capire come si va in cielo. Era una metafora

conciliativa, frequentata spesso dai filosofi del Seicento. Bacone, che come Galileo è giustamente

considerato un padre della modernità, non avrebbe condiviso la parte “pitagorica”

dell’espressione galileiana, ovvero il riferimento ai caratteri matematici con cui è scritto il Libro

della Natura, pur conservando l’idea della Natura come insieme di segni da interpretare.

E già che siamo in tema di “modernità”, ripensiamo a (1) e ai due schemi in conflitto:

MACCHINA/ORGANISMO. Nel Seicento fu, a dir poco, drammatica la trasformazione che si

produsse nella visione del mondo quando il modello espresso da

L’universo è una macchina [un orologio, un meccanismo]

cominciò a soppiantare il modello espresso da

L’universo è un essere vivente [un organismo, un animale].

Se intendiamo l’universo alla maniera di Aristotele, cioè come organismo, ci chiederemo

qual è la funzione vitale che ciascuna parte svolge in esso, come un tutto integrato, e allora sarà

quasi ‘naturale’ (voglio dire: non banalmente antiscientifico) pensare le funzioni in termini

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finalistici, perché ogni organo di un essere vivente svolge un particolare compito in funzione della

sopravvivenza (il fegato è quell’organo che serve a ..., lo stomaco è quell’organo che serve a ...)7.

Invece, se pensiamo l’universo alla maniera di Cartesio, cioè come una macchina, quel che

conta e che dobbiamo cercare di capire è l’insieme di meccanismi che, componendosi, lo

governano: dunque è la meccanica a fornire la chiave di lettura del LIBRO (della Natura) e non è

un caso che gli stessi animali siano pensati da Cartesio come automi, macchine idrauliche molto

sofisticate. Con un piccolo guaio … perché gli esseri umani sono, per Cartesio, più che automi.

Qui sorgeva un problema di difficile soluzione (e non solo per Cartesio): da un lato gli automi, le

macchine, i corpi studiati dalla fisica, dall’altro le anime, dotate di libero arbitrio, e dietro a tutto

questo la bontà di Dio. Si noti che le metafore di tipo ‘organismico’ entrano anche nella religione,

per esempio quando si parla di Dio quale nostro padre, così come nella politica, per esempio

quando ci rappresentiamo lo Stato come un organismo che deve difendersi dal virus della

corruzione. I rispettivi modelli contrari, all’interno dello schema MACCHINA, sono stati proposti

ma non hanno avuto la stessa efficacia emotiva: l’idea di Dio come semplice orologiaio potrà

essere attraente per gli orologi ma non per noi, anche se ci credessimo, al pari dell’idea inversa

dello Stato come macchina, che fa piuttosto venire in mente tristi scenari.

Perché prediligiamo alcune metafore-guida ad altre? E prima ancora: perché la mente

umana si nutre di metafore? Non ne potrebbe fare a meno? Ma come si fa a pensare e a parlare di

qualcosa che non si tocca e non si vede (teorie, concetti, manovre economiche, sentimenti, ideali),

… se non per mezzo di metafore?

A queste domande le consuete tassonomie della retorica non rispondono. Né rispondono le

teorie semantiche più diffuse del Novecento. Nondimeno, c’è chi ha provato a rispondere e, a

dire il vero, sono state avanzate più risposte non sempre concordi. Qui, come anticipato, ci

concentreremo su una sola teoria (e senza entrare in troppi dettagli), cioè, la teoria delineata da

Lakoff e Johnson, ma prima, tanto per dare un’idea delle dottrine precedenti cui si contrappone

questa teoria, conviene fare almeno un breve cenno a un’alternativa che storicamente ha avuto

ampio seguito.

Mi riferisco alla dottrina secondo cui la metafora si riduce a un’analogia (x è COME y: tu sei

COME una rosa, l’universo è COME un orologio) con in più una tensione emotiva, indotta dalla

falsità dell’interpretazione letterale (le persone non sono fiori, l’universo non è fatto tutto quanto

7 Il fatto che sia quasi ‘naturale’ pensare in termini finalistici il comportamento degli organismi non implicaovviamente che si debba pensarlo così. La lezione di Darwin è consistita nel mostrare che, anche inbiologia, una spiegazione può e deve essere in termini non finalistici.

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di pendoli, molle, lancette e quadranti). In sostanza, la tensione sarebbe dovuta alla devianza

semantica, che però non annulla l’attribuzione di significato, e alla carica emotiva associata con la

devianza semantica. Vi prego di notare che questa tensione manca nelle espressioni idiomatiche:

Hai preso lucciole per lanterne.

Mario è fuori dai gangheri.

Non si può volere capra e cavoli.

Sono cascato dalle nuvole.

Inutile arrampicarsi sugli specchi.

che pure hanno carattere metaforico, anche se non sono il portato di schemi e dunque se ne

stanno ciascuna per conto suo. Se fosse tutto qui (devianza + carica emotiva), non si capirebbe

perché l’applicazione di una proprietà come avere il vento in poppa a ‘cose’, come una manovra

economica, di tipo alquanto diverso dalle barche, ha quel carattere sistematico (anche se con ovvi

limiti) che in effetti ha, coinvolgendo i molteplici aspetti della navigazione. Analogamente, nel

caso di

Maria è una rosa

il carattere sistematico si rivela con la possibilità di dire anche

Maria è una rosa con molte spine.

Di Maria, vedo più le spine che i petali.

Com’è possibile che combinando in modo deviante due o più espressioni in un semplice

enunciato della forma “x è y” emerge un significato che fa capire qualcosa di più che non

attenendosi alla lettera? Com’è possibile un significato deviante quando il significato non

deviante (letterale) non è a portata di mano e neppure sembra accessibile?

Una diffusa devianza dovrebbe indurre una diffusa instabilità nella semantica di un

linguaggio. Le metafore cambiano un linguaggio? Supponiamo di avere un linguaggio in cui

finora tutte le espressioni sono state usate in modo letterale. Adesso aggiungiamo uno schema

metaforico, con tutto il suo corredo di espressioni. Si verifica una reazione a catena distruttiva del

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significato di tutte le altre espressioni? No, per un motivo molto semplice: le metafore diventano

possibili solo in relazione a uno stabile uso del linguaggio. Infatti, la metaforicità presuppone la

letteralità delle espressioni di cui un enunciato metaforico si serve: comprendiamo benissimo la

metafora Tu sei una rosa con tante spine, ma se anche l’uso di rosa e di spine fosse metaforico,

cosa vorrebbe dire questa proposizione? Dovremmo indagare a quali altri termini i sostantivi

rosa e spine rimandano metaforicamente. E così via, indefinitamente. Risultato: non capiremmo

più nulla. O se preferite: non potremmo dire di capire quel che eventualmente capiamo.

Onde evitare un regresso all’infinito, c’è chi ha pensato, dal più al meno: “Se mai ci si

fermasse in questo gioco di rimandi, sarebbe solo perché alla fine il cerchio si chiude in un circolo

vizioso. È proprio così, anche se non sembra: ci muoviamo sempre in questo circolo vizioso e non

possiamo uscirne”. Una simile idea, per quanto suggestiva (e diffusa tra gli strutturalisti e gli

ermeneuti), presenta un banale inconveniente: non spiega come abbiamo fatto a entrare nel

circolo! In modo analogo, nella proposizione metaforica Il governo sta andando a picco

l’espressione “andare a picco” deve avere un significato letterale per poterne avere uno metaforico.

Pur non avendo l’apparenza di una grande scoperta, quest’ultima osservazione tornerà utile in

seguito, quando discuteremo di quale lezione filosofica si possa ricavare dall’analisi che Lakoff e

Johnson fanno della metafora.

2. Questioni preliminari

Prima di vedere come si articola l’idea della metafora-struttura-del-pensiero è opportuno

prendere in esame una serie di questioni di cornice, che non sono meno importanti di quelle

propriamente teoriche; anzi, sono questioni non accantonabili se interessa impostare un’indagine

generale sulle metafore che, oltre a coglierne la varietà, intenda essere esplicativa. Le questioni

sulle quali richiamerò l’attenzione non sono tutte quelle che sarebbe doveroso considerare per

elaborare una vera e propria teoria; ciononostante, permettono di individuare alcuni tipici

fraintendimenti nell’impostazione di una teoria della metafora e così, riducendo il rumore di

fondo, facilitano il lavoro teorico.

Partiamo da una questione di principio. L’idea-guida è che attraverso le metafore si

manifesti un fondamentale processo cognitivo. Il problema è spiegare questo processo. Contro

l’ipotesi che si possa fornirne una spiegazione viene spesso ripetuto un argomento. In breve,

l’argomento suona così: se ogni modello scientifico, al pari di ogni modello filosofico e di ogni

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dottrina religiosa o etica o politica, dà forma esplicita alla priorità di certi nessi metaforici su altri,

chiunque provi a elaborare una teoria generale che dia conto delle metafore non solo non può

evitare di servirsi dei processi metaforici che intende spiegare, ma si trova anche a selezionare

alcuni nessi metaforici tra quelli a disposizione per dar conto di tutti gli altri, ivi compresi quelli

che fossero in contrasto con i nessi selezionati. Conclusione: qualunque teoria della metafora è

condannata a un circolo vizioso, ulteriormente viziato dall’adozione selettiva di un tipo di

metafore a scapito di un altro, contro la pretesa generalità della teoria.

In realtà la stessa questione si pone in molti altri ambiti che non riguardano specificamente

la metafora. Qualsiasi teoria della sintassi ha una forma sintattica e qualsiasi teoria del significato

presuppone che ciò che afferma sia riconosciuto nel suo significato, dunque presuppone ciò che

intende spiegare. Analogamente, quando si selezionano i principi del ragionamento e si

presentano come assiomi di una teoria logica, stiamo già ragionando logicamente. Quando

cerchiamo di spiegare la respirazione, abbiamo bisogno di respirare. E così via. Nessuno, che io

sappia, ha concluso che è impossibile spiegare la respirazione perché per farlo abbiamo bisogno

di respirare. Invece, si crede che questa conclusione sia legittima nel caso della metafora. “Si

crede”, perché l’argomento su menzionato, se fosse corretto, dovrebbe valere anche per la

respirazione. Inoltre, se l’argomento fosse corretto, non potremmo spiegare perché lo è senza

cadere nello stesso circolo vizioso che l’argomento vuole denunciare.

Insomma, se dovessimo prendere sul serio l’argomento e considerarlo pregiudiziale per

qualunque teoria della metafora, dovremmo prenderlo come pregiudiziale in tutti gli ambiti. Il

che equivarrebbe a negare la legittimità delle pretese esplicative avanzate dalle più diverse teorie

scientifiche, viziate da intrinseca circolarità e quindi incapaci di spiegare alcunché. Peccato che di

fatto gli sforzi compiuti per spiegare qualcosa abbiano portato a risultati non trascurabili: è

cresciuta la nostra comprensione sia della natura sia della cultura. Poiché non si può uscire dal

mondo fisico per capirlo e non si può uscire dalla società per spiegare come funziona, chi

sottoscrive l’argomento su menzionato deve avere il coraggio di dire che non è possibile spiegare

alcunché (inclusa la correttezza del suo stesso argomento). Per limitarci all’ambito delle scienze

umane, l’antropologia e la psicologia sono discipline abbastanza recenti ma, anche se c’è ancora

tanto da capire, qualcosa ci hanno fatto capire. Ciascun antropologo che non sia un alieno

appartiene a una qualche cultura fra quelle che sono oggetto del suo studio; e una teoria

psicologica dei processi cognitivi non è annullata dal fatto che per farla e per capirla sono già

all’opera processi cognitivi. Perciò non è questo tipo di circolarità che può togliere, seduta stante,

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rilievo scientifico a una teoria della metafora. E se davvero c’è circolarità, è virtuosa invece che

viziosa, in questo come in altri ambiti di ricerca.

O c’è per caso un qualche guaio specifico nel caso della circolarità che riguarda le metafore?

Come comprendiamo il carattere metaforico dell’enunciato

I tifosi della … sono cani rabbiosi

e possiamo discutere in quali condizioni assentiremmo o no, continuando a servirci letteralmente

di tifoso, così riconosciamo il carattere fallace dell’inferenza

I tifosi della … sono aggressivi; i cani rabbiosi sono aggressivi; quindi i tifosi della … sono cani

rabbiosi.

Allo stesso modo possiamo comprendere gli aspetti metaforici presenti nella teoria della

metafora ed evitare inferenze fallaci al riguardo. Solo perché il regno del letterale è molto esteso,

può esserlo anche, e ancora di più, quello del metaforico. Che cosa il regno del letterale abbia da

offrire a quello del metaforico è ciò che si tratta di capire.8

Un’altra questione molto dibattuta riguarda il fatto che i modelli della mente messi a punto

dopo l’avvento del cognitivismo assimilano i processi mentali a procedure di computazione.

L’idea di fondo dei cognitivisti era: si può dire d’aver compreso un processo cognitivo

(percettivo, linguistico o d’altro tipo) solo se riusciamo a rappresentare in un diagramma di flusso

le transizioni da uno stato mentale all’altro e solo se possiamo simulare tale diagramma di flusso

mediante un programma per computer – come quelli che gli informatici mettono a punto per

automatizzare le analisi cliniche o per gestire una catena di montaggio. In contrasto con

quest’idea è stato addotto il carattere non algoritmico delle metafore. Dunque, le metafore

sfuggono alla comprensione? Cioè, non dovremmo riuscire a capirle, fintanto che non siamo in

grado di trovare un algoritmo che le produca? Oppure dobbiamo dire che ci sono processi

mentali (di alto livello) non algoritmici?

Anche in questo caso bisogna andare un po’ cauti. Può esistere una macchina che produca

metafore? Banalmente, sì. Può esistere una macchina che riconosca la presenza di metafore in un

8 Queste due ultime affermazioni sono da considersi eterodosse rispetto all’interpretazione corrente dellateoria cognitiva della metafora.

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testo? La risposta è ugualmente positiva. Tutto dipende dalle dimensioni del setting teorico-

sperimentale.

È chiaro, infatti, che possiamo produrre enunciati metaforici a piacere mediante un semplice

programma che abbia accesso al dizionario di una lingua e rispetti le elementari regole di

concordanza grammaticale. Basta un semplice cilindro con strisce ruotanti intercambiabili, su

ciascuna delle quali si trovi un’espressione concordante per genere, numero e ruolo sintagmatico

con le espressioni precedenti e seguenti, per divertirsi a produrre metafore (non importa se

nessuno, di fatto, le usa). Questi cilindri esistono, tant’è vero che ne ho comprato uno molti anni

fa. E non ci vuole neppure molto a realizzare programmi aventi il compito di riconoscere la

devianza semantica, una volta che abbiamo fornito al programma un opportuno insieme di

restrizioni semantiche inerenti alla letteralità, purché non si pretenda dal programma che

riconosca tutte le metafore in uso o meramente possibili. Per esempio, in un minimo database a

scopo tassonomico <essere umano> non ha l’etichetta <vegetale> mentre <rosa>, come nome

comune, ha questa etichetta; quindi un enunciato come Tu sei una rosa, prima di essere falso,

sarebbe valutato dal sistema come semanticamente deviante – e con un senso alquanto diverso da

Tu sei un vegetale, benché le rose siano vegetali …

Ma è altrettanto chiaro che non tutto ciò che è semanticamente deviante è veicolo di

un’effettiva metafora: gli enunciati

Tu sei una superficie non euclidea

Tu sei un numero primo

non fanno parte delle metafore direttamente impiegate nell’uso dell’italiano, benché

potenzialmente ne facciano parte. Perché ne facciano realmente parte occorre un orizzonte

semantico condiviso su cui fare affidamento, altrimenti il risultato è solo la faccia sbigottita del

nostro interlocutore, il quale tuttavia sarà indotto a cercare un senso metaforico, nell’ipotesi

implicita che, chiunque dica qualcosa, dice qualcosa di sensato e, se quel che dice è palesemente

deviante, sarà da intendersi in senso metaforico. Di notte, come diceva Hegel, tutte le vacche

sono grige; e così tutti gli enunciati che non capiamo sono potenzialmente metaforici.

In questo modo, la costruzione di un programma di computer che riconosca metafore è

perfino banale. E se invece vogliamo qualcosa di non banale? Possiamo immettere nel

programma una lista delle metafore effettivamente riconosciute come tali in una data comunità

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linguistica. Con una simile restrizione, la produzione, così come il riconoscimento, di metafore in

base a un algoritmo funzionerebbe in virtù di caratteristiche sintatticamente specificate e di

nient’altro (gli algoritmi sono strutture sintattiche ricorsive).

Purtroppo, l’impiego di una simile procedura (a partire dai limiti riconosciuti in programmi

elementari come ELIZA e PARRY) sarebbe quanto mai insoddisfacente come criterio per

valutare il carattere metaforico o no di un nuovo enunciato deviante. Perché? Perché non è

possibile decidere meccanicamente quali siano le situazioni d’impiego del linguaggio che, oltre a

essere diverse da quelle concretamente in uso per classificare gli enunciati in letterali o

metaforici, siano tali da legittimare l’introduzione di una nuova metafora.

Fin qui la morale è: anche se una teoria algoritmica della metafora è insoddisfacente, la

semplice presenza di metafore nel linguaggio umano non è una prova del carattere non

computazionale della mente. Ma il ragionamento non è ancora finito …

Un convinto sostenitore di una teoria algoritmica del significato (metafore comprese)

obietterà che oggi l’informatica consente di fare sofisticati modelli della comprensione semantica

(realizzati in quelli che si chiamano “sistemi esperti”) purché il corpus di enunciati da considerare

siano relativi, e limitati, a uno specifico dominio di conoscenze. Ci sono, in effetti, molti

programmi di language understanding e knowledge representation impiegati con successo in

vari ambiti. Il punto di forza di questi programmi è anche il loro punto di debolezza e consiste

nella specificità a un dato dominio. Basterebbe collegare fra loro più domini secondo regole

prestabilite per tenersi la forza ed eliminare la debolezza? No, perché le metafore non solo

chiamano in causa più di un dominio, ma correlano più domini in modi nuovi. Quindi? Sembra

che nessun modello informatico potrà mai simulare adeguatamente la produzione/comprensione

metaforica, perché il solo poterlo fare significherebbe che sappiamo scrivere un programma per

codificare la creatività. Se qualcosa è creativo, non è il risultato di regole meccaniche; e non c’è

nulla di creativo in un programma.

Con ciò abbiamo di fronte l’errore nei cui confronti vi volevo mettere in guardia. Ho detto

“sembra” perché la lezione è stata tratta in modo troppo sbrigativo. Non è escluso che la

complessità delle combinazioni di regole meccaniche risulti tale da fornire esiti creativi. “Non è

escluso” porta poco lontano, direte. Giusto. In questo caso, però, ha una motivazione precisa:

non esiste un teorema limitativo, analogo a quelli inerenti alla computabilità (i famosi teoremi di

Gödel, Turing e Tarski), che fissi i limiti di ciò che (in quanto enunciato) in linea di principio si

potrebbe esprimere come dotato di significato – anche se un significato non equivalente a quello

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di una qualsiasi espressione finora prodotta e/o riconosciuta come “sensata” da un prefissato

programma.

Naturalmente, per poter dire che abbiamo un caso di creatività semantica e non

semplicemente di devianza, occorre specificare una serie di condizioni sul dominio cognitivo cui

le metafore sono riferite e sull’architettura del sistema intelligente (naturale o artificiale). Qui sta

la difficoltà per i modelli computazionali, perché tali condizioni sono semantiche e non

puramente sintattiche.

Per spiegarmi farò un esempio. In chimica si studiano, tra le altre cose, in quali modi si

possono combinare gli atomi per formare molecole. I possibili tipi di atomi sono elencati nella

tavola di Mendeleev, che sta anche in una sola pagina. Ma i possibili composti chimici formano

un elenco che nessun testo di chimica può pretendere di aver esaurito una volta per tutte. Negli

ultimi cinquant’anni sono state sintetizzate artificialmente molte molecole che non si trovano in

natura: basti pensare all’invenzione della plastica, del polistirolo, o delle particolari leghe di cui

oggi sono composti i fusti delle racchette da tennis. Se un composto non si trova già in natura,

nell’ambiente a noi accessibile, lo possiamo realizzare in laboratorio; e in futuro potremo

sintetizzare nuovi tipi di materiali che al momento non ci immaginiamo neppure. Questo non

significa che potremo sintetizzare tutto quello che ci pare, perché non tutto sta insieme.

Dalla chimica torniamo alla semantica: per fabbricare metafore, basta far funzionare un

qualunque meccanismo di produzione aleatorio che rispetti la sintassi del linguaggio dato, ma

per capirle e impiegarle appropriatamente un tale meccanismo non basta. Occorrono vincoli

relativi al contesto d’impiego di un’espressione da parte di organismi fatti così e così. Esiste una

macchina che produca tutte e solo le metafore “giuste” (“sensate”, “comprensibili”) in un generico

contesto? In base a quanto appena osservato la risposta è negativa, ma è negativa anche se

riferiamo la produzione alla mente umana sena bisogno di intenderla come sistema algoritmico.

Ed è negativa per tre ragioni.

( 1 ) Senza specificazione del contesto interpretativo, non solo il senso della metafora è

indeterminato, ma è impedito lo stesso riconoscimento del carattere metaforico.

(2) È impossibile prevedere in anticipo quali contesti fissare come quelli “giusti” per interpretare

una metafora. Per fare un solo esempio, Il sindaco è un elefantino può voler dire cose molto

diverse finché il contesto resta generico. Il sindaco si muove in politica con un certo impaccio

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/ è corpulento / è dotato di forza e calma ancora non pienamente sviluppate / chi lo ha dalla

sua parte è fortunato, o altro ancora).

(3) Anche una volta fissato il contesto, non c’è un criterio algoritmico per selezionare in anticipo

le metafore “giuste” relativamente al contesto dato (è la difficoltà cui sono andati incontro tutti

i tentativi di traduzione automatica).

Di nuovo, la raccomandazione è la stessa: stiamo attenti a non trarre conseguenze affrettate

da tale risposta negativa e dalle sue motivazioni. Quelle che precedono sono considerazioni di

mero buon senso e non vanno sovraccaricate di valenze filosofiche premature e in particolare non

devono essere pensate come una prova che le metafore sono inspiegabili. La mancanza di una

Supertavola di Mendeleev, contenente l’insieme di tutti i possibili composti chimici, non ci ha

impedito di capire che è all’opera uno stesso meccanismo di base. Questo meccanismo è stato

spiegato in maniera straordinaria dalla teoria quantistica della materia: struttura degli atomi,

legami chimici, ecc. Non conveniva, perciò, dire che è impossibile qualcosa che è risultato

possibile. Dopotutto, i limiti associati a (1), (2) e (3) ci mettono davanti al fatto che la nostra

padronanza del linguaggio è limitata. Neanche noi, infatti, sappiamo fare in anticipo, quel che un

programma di computer non sa fare. Eppure, non è che per questo siamo incapaci di capire il

significato di nuove metafore o siamo incapaci di produrle.

Le osservazioni precedenti sono cariche, indirettamente, di filosofia. Per rendersi conto della

presenza, già a questo livello pre-teorico, di questioni direttamente riconosciute come filosofiche,

lo sforzo è minimo: quando esprimiamo un qualche tipo di conoscenza (o intendiamo esprimere

quella che consideriamo, a ragione o a torto, una conoscenza e supponiamo che tale intento sia

compreso dai nostri interlocutori), ci stiamo impegnando nei confronti della verità. Se io vi dico

di sapere che …, mi impegno a dire che … è vero. Altrimenti dovrei dire: credo che invece di so

che.

Che cosa sia la verità, come la si debba intendere, quale esatto rapporto ci sia tra la

conoscenza (scientifica) e la ricerca della verità, sono questioni che hanno una lunga storia e che

probabilmente continueranno a frastornarci per molto tempo ancora. Comunque, tutti possono

discutere di verità e falsità, anche se il più delle volte in maniera ingenua. Pochi sanno invece che

le nozioni di verità e falsità sono state analizzate in maniera rigorosa entro la logica matematica

già a partire dagli anni Trenta, portando alla formazione di una nuova area di studi: quella che si

chiama “semantica formale” o “semantica modellistica”.

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L’analisi logico-matematica della nozione di verità è stata una tappa d’importanza storica; e

poiché non c’è filosofia degna del nome che in qualche modo non affronti il problema di come

dev’essere intesa la nozione di verità, è difficile immaginare un serio discorso intorno alla verità

che ignori quell’analisi. Non dovrebbe esserci bisogno d’altro per capire che chiunque s’interessi

seriamente di filosofia del linguaggio ha bisogno di avere una qualche familiarità con le nozioni

della logica. Se qualcuno, tra coloro che di mestiere fanno i filosofi, non se n’è ancora accorto, mi

dispiace. Nel migliore dei casi, è perché gli fa comodo non capirlo – nel peggiore ... (passim). Per

raccontare, anche in forma sintetica, come ha potuto prender corpo l’analisi logico-matematica

della verità, ci vorrebbe molto tempo. Finché il discorso si mantiene sul piano “informale” che

contraddistingue queste osservazioni preliminari, non è neppure indispensabile entrare nei

dettagli della semantica formale9, ma qualcosa va detto e, per brevità, mi limiterò a due

annotazioni.

La prima annotazione è che, per dire che un enunciato è vero, bisogna pur avere una

minima idea di che cosa parla; e per avere questa minima idea bisogna cominciare a chiedersi: a

chi o che cosa si riferisce il tale sostantivo, a quale proprietà si riferisce il tale aggettivo, a quale

azione si riferisce il tale verbo? Dunque la verità (come pure la falsità) coinvolge la nozione di

riferimento.

La seconda è che il rapporto fra soggetto e predicato di una proposizione è stato descritto

nella logica del Novecento in termini del concetto centrale della teoria degli insiemi, cioè in

termini di appartenenza (‘l’essere un elemento di’, espresso con il simbolo ∈): affermare che Due è

un numero naturale equivale ad affermare che 2 ∈ N, e affermare che Aldo è un uomo equivale ad

affermare che a ∈ U. A partire da quest’idea si può andare molto lontano, analizzando gli

enunciati più complessi nei termini delle operazioni insiemistiche. Per fare un esempio

(semplice), consideriamo l’enunciato Due è un numero naturale pari. Possiamo dire che il suo

significato è fornito dalla congiunzione di 2 ∈ N e 2 ∈ P, dunque equivale al significato di 2 ∈

N ∩ P.

Ebbene, quando Lakoff e Johnson parlano dei modelli della categorizzazione, criticano il

modello “referenzialista” (che spiega il significato in termini di riferimento) e “insiemistico” (in

termini di teoria degli insiemi) ma poi ne concludono che il linguaggio naturale non si presta

all’impiego sistematico di nessuna semantica sviluppata in termini logico-matematici. È una tesi

9 Per qualche indicazione in merito si veda Il significato inesistente, cap. 2.

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molto forte, basata sull’idea che ogni semantica formale è necessariamente insiemistica. Da

quest’idea è legittimo dissentire, per ragioni che spiegherò più avanti.

Ora, la presenza di metafore impedisce o no di giudicare vero/falso un enunciato? Prima di

rispondere, conviene ricordare alcune (classiche) distinzioni circa i tipi di verità – distinzioni

tradizionalmente riferite a enunciati non metaforici.

Ci vuol poco a capire che fra ciò che consideriamo banalmente vero (per esempio, 2 è un

numero pari) e ciò che consideriamo banalmente falso (per esempio, una contraddizione come i

liquidi non sono liquidi) si stende il gran mare delle affermazioni che pretendono di esprimere

conoscenze non banali. Già dietro a quel che ci vuol poco a capire, e senza bisogno di tirare in

campo le metafore, stanno interrogativi filosofici, antichi e di tutto rispetto: per esempio, chi di

voi conosce un po’ di storia della filosofia, sa che fin dall’antichità sono state cercate verità che

fossero certe al di là di ogni possibile dubbio: verità tali che la loro negazione non fosse possibile

(se non contraddicendosi), dunque “verità necessarie”, senza per questo essere banali.

Il prototipo delle verità necessarie, dotate di assoluta certezza, è sempre stato individuato

nella matematica. Pur con termini diversi, la distinzione tra il carattere necessario delle verità

matematiche e il carattere contingente di verità circa questo o quel fatto era già presente nella

filosofa greca del III secolo a.C. Nel XVIII secolo d.C. Kant distingueva le verità analitiche (che

non dicono nulla sul mondo) da quelle sintetiche (che danno informazioni) e le verità a priori (che

non richiedono alcuna esperienza) da quelle a posteriori (che la richiedono).

Le verità analitiche si dicono tali perché risultano dalla semplice analisi dei concetti espressi:

per esempio,

Un maglione rosso è colorato

è una verità analitica (nel concetto, o nozione, di rosso è implicito il concetto, o nozione, di

colore), che possiamo anche pensare come una verità in virtù del solo significato delle parole. Le

verità a priori si dicono tali perché non sono ricavate a partire da nessuna osservazione (mediante

i sensi).

Fatta questa distinzione, Kant giungeva a una tesi peculiare, cioè, che esistono verità

sintetiche a priori e la filosofia kantiana sta o cade con questa tesi. Kant non si limitava a dire che

esistono verità sintetiche a priori, ma diceva anche quali sono. Il prototipo delle verità sintetiche

a priori da lui individuato nella matematica.

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Nel XX secolo, i filosofi neoempiristi hanno fatto della negazione della tesi kantiana uno dei

loro cavalli di battaglia. I neoempiristi hanno abbandonato l’idea tipica dei precedenti empiristi

(senza neo), cioè, l’idea che tutte le verità siano a posteriori. Infatti, per i neoempiristi le verità

delle logica e le verità semantiche (come per esempio Il rosso è un colore) sono verità a priori.

I neoempiristi hanno anche valorizzato un’idea su cui tanto gli empiristi quanto Kant

sarebbero stati d’accordo: se ha senso parlare di conoscenza, ha senso unicamente in relazione a

ciò che è accessibile nell’esperienza (dunque in relazione a ciò che è percepibile, osservabile,

sperimentabile, verificabile); e hanno sviluppato quest’idea in forma semantica, introducendo un

principio riassumibile con uno slogan: il significato di una proposizione consiste nel metodo della

sua verificazione (empirica). Quindi una proposizione ha un senso (significato) solo se è

verificabile – ove la verificabilità di una proposizione è da intendersi come riferita al al campo di

ciò che è osservabile e sperimentabile. I neoempiristi usavano questo principio per escludere la

sensatezza delle proposizioni metafisiche.

Non tanto per esprimere accordo con i neoempiristi quanto per mantenere il discorso su un

piano di maggior intuitività, identificherò una verità che esprime una conoscenza banale con una

verità analitica (a priori) e identificherò una verità che esprime una conoscenza non banale con

una verità sintetica (a posteriori). Chiedo umilmente scusa a Kant.

Già per molti enunciati letterali (o considerati tali) i problemi non mancano riguardo al modo

d’intenderne la verità e al modo di collegare la verità alla conoscibilità, quando questa sia limitata

a ciò che ci è accessibile nell’esperienza. Ma ci sono molti enunciati letterali per i quali non

esitiamo a dire che ha senso chiedersi se sono veri o falsi. E per gli enunciati metaforici? Ha senso

parlare di verità o falsità a proposito di un enunciato (asserzione, proposizione) che contenga una

o più metafore? Possiamo essere tutti d’accordo che un enunciato letterale come

Sulla Terra c’è vita

è vero, mentre un enunciato letterale come

Sul Sole c’è vita

è falso, anche se il significato di vita può non esser facile da precisare. Ma un enunciato

metaforico come

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La vita è un viaggio

è vero o falso? Di sicuro, se è vero, non è una verità banale (analitica), dunque non è a priori. Ma,

dovendo essere a posteriori, quale tipo di esperienze ci porta a riconoscere l’enunciato come

vero?

Se comprendere il significato di un enunciato consiste nell’avere a disposizione un metodo,

criterio, procedura, per verificarlo (o per falsificarlo), com’è che verifichiamo che la vita è un

viaggio? Di sicuro, comprendiamo l’enunciato – quanto meno, siamo convinti di comprenderlo –

e non abbiamo dubbi sulla sensatezza di quel che Dante intende quando scrive Nel mezzo del

cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura. Capiamo questa sequenza di parole

esattamente come capiamo cosa vogliono dire

Il nostro rapporto è arrivato a un punto morto.

La vertenza è arrivata a un bivio.

I ricercatori hanno imboccato strade diverse.

Finalmente abbiamo trovato un punto d’incontro nella discussione.

Capiamo questi e tanti altri enunciati nei termini di uno stesso schema soggiacente, quello del

VIAGGIO (percorso, cammino). Eppure non sembra che ci sia un criterio o metodo di verifica,

come inteso dai neoempiristi e come inteso comunemente nella scienza. E allora è naturale

chiedersi:

(*) Chi fa affermazioni del genere, dice qualcosa che non è né vero né falso perché si esprime

metaforicamente? In altre parole, ha senso chiedersi se le metafore sono vere o false?

Innanzitutto, il quesito si presta a un possibile fraintendimento che è opportuno mettere da

parte. Poi occorre capire meglio cosa comporta rispondere sì e cosa comporta rispondere no al

quesito. Al proposito, vi segnalo subito un guaio derivante da una eventuale risposta positiva: se

ci atteniamo al criterio neoempiristico per la sensatezza di un enunciato, nel caso che gli

enunciati metaforici non siano né veri né falsi dovremmo dire che non hanno alcun senso!

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Dunque, quando ce ne serviamo, ci illudiamo di capire che cosa stiamo dicendo ... Il che è

difficile a credersi.

Ma partiamo dal fraintendimento. Il modo in cui è posto il quesito (*) rivela che stiamo

attenendoci a un principio classico dell’analisi logica, ovvero al “principio di bivalenza” secondo il

quale un enunciato è o vero o falso, ovvero non c’è un terzo modo di valutarlo. Il non meno

classico “principio di non-contraddizione” afferma qualcosa di diverso, cioè, che un enunciato non

può essere simultaneamente vero e falso. I due principi non vanno confusi.

E se invece pensassimo a una gamma continua di valori intermedi tra il vero e il falso, un po’

come pensiamo alle sfumature di grigio tra il bianco e il nero? Se poniamo falso = 0 e vero = 1 e

rappresentiamo i numeri sulla retta reale, fra 0 e 1 ci sono infiniti punti/numeri, che ora

corrispondono ai diversi gradi-di-verità. In effetti, ci sono molti casi in cui il nostro giudizio non

è tutto-o-nulla, ma ha carattere sfumato, in inglese: fuzzy, come quando ci troviamo di fronte a

oggetti che in una qualche misura esemplificano un concetto ma non sono proprio conformi allo

standard previsto per quel concetto. Per esempio, dove finisce un vaso e comincia una ciotola e

dove finisce una ciotola e comincia un bicchiere? Per dar conto di tutti questi casi, è stata

introdotta da Lofti Zadeh l’idea di rappresentare i gradi di verità come un continuo fra 0 e 1. Ha

preso così avvio la logica fuzzy e, con essa, la teoria degli insiemi fuzzy, nell’idea che anche ogni

enunciato della forma x ∈ M ammetta gradi intermedi fra 0 e 1.

Premesso che Lakoff si era già servito dell’idea di Zadeh anni prima per trattare alcui

fenomeni semantici nell’ambito dei linguaggi naturali, Metafora e vita quotidiana fa riferimento

sistematico al carattere fuzzy di sostantivi e aggettivi grazie ai quali “categorizziamo” le nostre

esperienze. Com’è evidente, dal riconoscimento del carattere fuzzy dei concetti si arriva

all’abbandono del principio di bivalenza.

In conformità con l’uso corrente di bicchiere e di vaso ammetterete che quando vi riferite a

un bicchiere non vi riferite a un vaso, dunque ammetterete con estrema sicurezza la verità

dell’enunciato Un bicchiere non è un vaso. Aumentando con continuità base e altezza di un

bicchiere (nelle proporzioni opportune), si può però arrivare alla forma di un oggetto che non

direste essere più un bicchiere, o almeno non è più sicuramente un bicchiere. Ma direste che è

sicuramente un non-bicchiere (come appunto un vaso)? Non ancora. C’è per così dire una zona

grigia, in cui la verità di Questo è un bicchiere sfuma progressivamente da 1 a 0 verso la falsità,

finché non diventa vero Questo è un vaso.

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Per economia, potremmo assumere che, accanto al Vero e al Falso, non c’è un insieme

infinito di gradi-di-verità, ma solo un terzo valore: l’Indeterminato, quale valore terzo, in modo da

risparmiarci l’ammissione che, passando da Vero = 1 a Falso = 0, dobbiamo passare attraverso

tutti i numeri reali dell’intervallo [0,1]. Facendo questa semplificazione, andremmo verso una

logica non più bivalente, ma trivalente (Vero - Indeterminato - Falso), sviluppata molti anni

prima dal logico polacco Jan Lukasiewicz10. Per inciso: la logica “trivalente”, messa a punto da

Lukasiewicz, non intendeva rivalutare gli enunciati della metafisica, considerati insensati dai

neoempiristi, in quanto non suscettibili di un valore di verità.

L’economia risultante sarebbe poco fedele, però, all’effettiva gradualità, testimoniata dai

nostri giudizi riguardo alla maggiore o minore somiglianza di qualcosa a un bicchiere o a un

vaso. Infatti, ci può capitare di affermare a proposito di tre bicchieri anomali: Questo è più

bicchiere di quello e quello è più bicchiere di quest’altro, anche se nessuno dei tre è propriamente

un bicchiere come di norma inteso.

Dunque torniamo all’intervallo [0,1] per esprimere una nozione graduale (e continua) di

verità. Così facendo, andiamo non solo verso una logica fuzzy ma anche verso una teoria degli

insiemi fuzzy, perché, come già accennato, ogni enunciato della forma x è un elemento

dell’insieme M, o in simboli x ∈ M, potrà avere una scala continua di valori di verità fra 0 e 1.

Tutto questo, direte, ha a che fare con la categorizzazione in enunciati letterali, non ancora

con la metafora. Giusto. E allora, l’adozione di una logica fuzzy o di una teoria degli insiemi fuzzy

cambia la sostanza del quesito (*)? No. Invece di dire “un enunciato è dotato di senso se, e solo

se, è o vero o falso” – criterio raffinabile in qualcosa come “un enunciato è dotato di senso se, e

solo se, è suscettibile di essere fondatamente considerato vero o di essere fondatamente

considerato falso”, ove “fondatamente” abbrevia l’indicazione di un metodo di verifica empirica –,

adesso potremmo dire “un enunciato è dotato di senso se, e solo se, è o vero o falso o

indeterminato” (adottando la trivalenza, per economia). L’indeterminato sarebbe pur sempre un

valore di verità; tra l’altro, il raffinamento del criterio, in presenza di questo terzo valore di verità

sarebbe poco apprezzabile da chi volesse servirsi del criterio come arma contro l’insensatezza,

perché ‘indeterminato’ non equivale certo a ‘insensato’.

Credo che sia noto a tutti voi il senso dell’enunciato

10 La L iniziale del cognome non è una vera L: dovrebbe essere scritta con un taglietto sull’asta verticale, manon ho il carattere corrispondente nel mio computer. La sua pronuncia è approssimativamente /w/ ed è simileal modo in cui la L si trova spesso pronunciata in dialetto veneto.

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Questa discussione è una tempesta in un bicchier d’acqua.

Le vere tempeste comportano vento e pioggia su aree estese; le discussioni possono

verificarsi all’asciutto e non avvengono nel ristretto spazio di un bicchiere ... Insomma, il senso

dell’enunciato è chiaramente metaforico. Tuttavia, la ragione per cui lo riconoscete come

metaforico è del tutto indipendente dal fatto che la nozione di bicchiere sia fuzzy o, per

economia, è indipendente dal fatto che ci siano casi nei quali non direste che è vero né direste che

è falso, trattando come indeterminato il valore-di-verità di Questo è un bicchiere (e una

considerazione analoga si può ripetere per le nozioni di discussione e di tempesta).

Purtroppo, alcune affermazioni che si trovano in Metafora e vita quotidiana lasciano

supporre che invece esista uno stretto nesso fra il carattere fuzzy di un enunciato letterale e la

risposta positiva al quesito (*), mentre altre affermazioni lasciano supporre che anche la

differenza tra letterale e metaforico sia fuzzy. Vi invito fin d’ora a tenere le due questioni ben

separate e soprattutto vi invito a non prendere per buona né la prima né la seconda supposizione.

In questo modo si evita di fraintendere il quesito (*).

Passiamo ora a esaminare le implicazioni di una risposta positiva e quelle di una negativa a

(*). In altre parole, prima di rispondere sì o no, consideriamo che cosa il sì e il no comportano:

– se diciamo che ha senso ascrivere verità, o falsità, a enunciati metaforici, siamo tenuti a

indicare che cosa renda vera e che cosa renda falsa una metafora; ovvero, dobbiamo dire

che cosa rende vero (o falso) un enunciato in cui ricorrano una o più espressioni

metaforiche;

– se invece diciamo che non ha senso, cioè, che gli enunciati metaforici non sono né veri né

falsi, e quindi che non esprimono né intendono esprimere conoscenza alcuna, allora siamo

tenuti a spiegare che cos’è che in realtà esprimono e a spiegare come mai ci dovremmo

ingannare considerando come veri enunciati metaforici quali

La vita è un VIAGGIO

Napoleone è stato un GIGANTE della strategia militare

Nella vita c’è chi guarda AVANTI e chi guarda INDIETRO

e falsi enunciati come

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Hitler è stato un AGNELLINO

Marx è stato il PADRE dell’idealismo.

Se è così, dovremmo pure ingannarci ammettendo che un’inferenza come

Se siamo arrivati a un bivio, è perché non abbiamo le stesse idee su tutto

è corretta e l’inferenza

Se qualcuno è un gigante a scacchi, allora ha perso tutte le partite giocate finora

è scorretta, fintantoché la correttezza di un’inferenza corrisponde a un rapporto fra la verità delle

premesse e la verità della conclusione.

Non sono pochi coloro i quali hanno sostenuto che le metafore non sono né vere né false (e

neppure indeterminate, nel senso di avere un terzo valore-di-verità, diverso da Vero e da Falso).

Peccato che i sostenitori di questa tesi non diano adeguate spiegazioni al riguardo. Tipicamente,

confidano nell’ovvietà del fatto che verità e falsità (o loro succedanei meno ambiziosi, come

condivisibile/non-condivisibile, attendibile/non-attendibile, ecc.) siano stabilite e siano

legittimate all’interno di una comunità-modello che di norma è la comunità scientifica; e

altrettanto tipicamente assumono che nel linguaggio in cui trovano espressione le conoscenze

dette “scientifiche” non ci siano metafore. Nell’idea corrente, giusta o sbagliata che sia, di

“scienza” rientra l’idea che la ricerca scientifica porti a scoprire verità; e non pochi scienziati

rafforzano quest’idea sostenendo che, semmai ha senso parlare di verità, ha senso nella scienza

soltanto.

Il fatto è che nella scienza ci sono moltissime metafore. Alcune di esse hanno svolto una

funzione decisiva nell’elaborazione di modelli teorici che hanno segnato la storia del pensiero

scientifico11. Per fare un solo esempio, quando si introdusse l’uso del termine “corrente” per

descrivere una variazione nella distribuzione di cariche elettriche, si stava sfruttando una

metafora, la quale trasportava nell’ambito di fenomeni elettrici, ancora da “categorizzare”, una

11 Per un’acuta ricognizione su questo tema, si veda P. Rossi, “Le similitudini, le analogie, le articolazionidella natura”, in Id., I ragni e le formiche. Un apologia della storia della scienza, Il Mulino, Bologna 1986(pp. 119-162).

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nozione relativa agli ordinari liquidi. Che di questa metafora non siano più consapevoli neppure i

fisici è una spia del successo della metafora.

Non c’è bisogno di argomentare la presenza di metafore nel discorso scientifico al fine di

provare che l’opinione secondo cui le metafore non sono né vere né false è dubbia. A questo fine

bastano molti enunciati appartenenti al nostro linguaggio quotidiano, nel cui alveo si sviluppa il

linguaggio scientifico. Fatto sta che, se gli enunciati metaforici non sono né veri né falsi, tali sono

anche molti enunciati che s’incontrano nel discorso scientifico, contro l’idea corrente di scienza.

La scienza dovrebbe allora rinunciare alle sue pretese di verità nel momento in cui riconosciamo

che il discorso scientifico ospita metafore? O dovremmo piuttosto preoccuparci di espungere

dalla scienza ogni metafora per conservarne l’aspirazione alla verità? Sono due strategie poco

raccomandabili. Ma procediamo per gradi, senza anticipare l’esito del ragionamento.

Si prenda lo schema metaforico La vita è un VIAGGIO. Dei fatti connessi alla vita s’interessa

la biologia e la biologia parla di cellule, di doppia elica, di geni, ecc. non di viaggi. Certo, in ogni

fenomeno metabolico, così come nella riproduzione, c’è qualcosa che viaggia, ma non è per

questo che affermiamo La vita è un VIAGGIO. Perciò, se nessun insieme di cellule è un viaggio,

né lo è il DNA o altro ancora, dovremmo dire che l’enunciato non è vero, quindi (principio di

bivalenza) è falso. Siccome non diciamo che è falso, perché non lo intendiamo alla lettera ma in

senso metaforico, allora La vita è un VIAGGIO non non è né vero né falso, dunque, anche se

sensato, non esprime alcuna conoscenza. Ma saremmo disposti a dire che non c’è alcuna

‘conoscenza’ della vita nel primo verso della Divina Commedia?

Domanda retorica. Nondimeno, potremmo ancora supporre che, se mai ci sono metafore

esprimenti una qualche imprecisata ‘conoscenza’, si tratta di casi sporadici. La supposizione

sarebbe errata. Dalla scienza alla politica e dalla storia alla filosofia, prendiamo molto sul serio le

metafore: pensiamo che dicendo sì o no, ne va della verità: verità in un senso lato e da precisare,

ma pur sempre di verità. Forse si tratta soltanto di una verità “linguistica” e non di verità in senso

empirico, propriamente conoscitivo?

Immaginate che vi dicessi: “L’enunciato Stalin non è stato un agnellino non contiene alcuna

specifica conoscenza di fatti. Infatti, è ovvio (analitico) che Stalin, essendo un essere umano, non

era un ruminante. Gli esseri umani sono primati, i primati non sono ruminanti e gli agnellini

invece ruminano. Perciò Stalin non è stato un agnellino è una verità analitica. Ma le verità

analitiche sono necessarie, perciò la negazione dell’enunciato, cioè Stalin è stato un agnellino,

non può essere vera, quindi non può esprimere alcuna conoscenza fattuale, perché viola

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semplicemente le regole semantiche. Conclusione: né l’uno né l’altro enunciato dicono nulla.

Analogamente, l’enunciato Il governo fa acqua non può essere vero perché non è un contenitore

di liquidi, quindi è una verità analitica che Nessun governo fa acqua. E così via”.

Presumo che la vostra prima reazione sarebbe di stupore indignato: faccio finta di non capire

o, nella migliore delle ipotesi, voglio fare un po’ di humour (molto cervellotico, a vostre spese). Se

non mi sbaglio nel presumere questa reazione e se la vostra reazione è legittima, avete già

risposto al quesito (*).

La verità o falsità di un enunciato dipende da una previa specificazione del significato

attribuito ai termini di cui fa uso.

Le granate sono esplosive

è vero se con ‘granata’ ci si riferisce a un proiettile, è falso se ci si riferisce a uno strumento per

spazzare. Questo vale già per gli enunciati letterali, ma negli enunciati metaforici è richiesto un

surplus di specificazione, che consiste appunto nell’esplicitare il senso della metafora a chi non

fosse già noto (Il sindaco è un elefantino).

Per inciso, raramente i parlanti si impegnano in questo compito quando si tratta di metafore

strutturali come La vita è un VIAGGIO, mentre lo fanno quando si tratta di ricostruire la

genealogia di espressioni idiomatiche riferentisi a situazioni desuete: per esempio, pochi sono al

corrente che un enunciato come Sei un cafone è originariamente metaforico, perché il termine

‘cafone’ viene dal napoletano c’a fune (con la fune) riferito a persone che pur di guadagnare

qualche soldo si offrivano di tirare i carri con la fune e non brillavano per cultura.

Ancor più i parlanti si impegnano nel compito, e si sentono perfino obbligati a farlo, quando

si tratta di costrutti allegorici ‘a chiave’. Lo scenario non è molto dissimile dall’acquisizione del

lessico di una teoria scientifica, ove il compito è presente di continuo. La questione è se sia

possibile portare a termine questo surplus di lavoro in ogni caso. Possiamo specificare

adeguatamente il significato aggiuntivo che entra in qualsiasi enunciato metaforico?

Negli esempi fin qui considerati questa specificazione è scontata (sappiamo cosa intendere

per gigante, agnellino, viaggio), tanto scontata che ci dimentichiamo perfino della sua necessità e

così possiamo ritrovarci a discutere se ciascuno di essi è vero o no, quasi fosse letterale. In altri

casi non è scontata, ma allora la prima cosa in cui ci troviamo impegnati consiste nel dare o

esigere una spiegazione: in quale senso Il sindaco è un elefantino? Il fatto che ci troviamo

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impegnati a dare o ad esigere chiarimenti non avrebbe senso se gli enunciati metaforici non

potessero essere né veri né falsi. Nella vita non è escluso che facciamo parecchie cose gratuite, per

divertimento, o addirittura insensate, ma chiedere il senso di una metafora per poter dire “è

proprio così” o “non è affatto così” non è una di esse.

Affermando questo, faccio appello una delle massime della comunicazione verbale descritte

da Paul Grice, ovvero sto presupponendo l’intento da parte dello speaker di rivolgere frasi dotate

di un qualche senso all’interlocutore e pertinenti a una specifica questione di comune interesse –

un senso che lo speaker si attende che l’interlocutore riconosca o abbia intenzione di riconoscere,

assentendo o dissentendo – in modo da ricavarne informazioni. Un’informazione né vera né falsa

… non è un’informazione.

Questo presupposto può anche venir meno. Immaginate che vi chiedessi: La vita è un

bicchiere o una bottiglia? Non avete un’idea sicura del senso in cui intendo l’alternativa, quindi

non sapete cosa rispondere. Ma anche in questo caso siete convinti, una volta specificato in quale

senso i termini sono intesi (metaforicamente), di poter ragionevolmente assentire a La vita è un

bicchiere o a La vita è una bottiglia, indipendentemente dalla vaghezza dei termini bicchiere e

bottiglia.

Analogamente, se dite a qualcuno Sei un verme, è chiaro che il termine verme è solo

vagamente specificato, ma la persona alla quale lo dite non vi sollecita a precisare il significato di

verme; piuttosto, vi attribuisce l’intento di dire qualcosa di vero, ha a disposizione un senso ‘q.b.’

dell’uso metaforico di verme ed è presumibile che si offenda senza farsi scrupoli sul carattere

fuzzy del termine. Nel caso in cui il senso di un termine usato metaforicamente non è noto

all’interlocutore (poniamo: La tua vita è un fibrato tangente) e se il chiarimento richiesto non

viene fornito o è inadeguato, dunque se non c’è per l’interlocutore alcuna chiave d’accesso al senso

della metafora, l’interlocutore non è in grado di assentire o dissentire, ovvero non può dire “lo

considero vero” e neanche “lo considero falso”: tratta l’asserzione come se fosse espressa in una

lingua a lui sconoscuta, quindi non si offenderà per ciò che gli dite (semmai potrebbe offendersi

per ciò che non gli dite, convinto che vi stiate prendendo gioco di lui). In tutti i casi in cui, invece,

c’è comprensione, le reazioni emotive sono una spia rivelatrice di quanta semantica è

implicitamente presupposta.12

Una situazione canonica è quella del messaggio in una bottiglia. Supponiamo di camminare

in riva al mare e di trovare la fatidica bottiglia con un messaggio in italiano. In questo caso, anche 12 Le osservazioni fatte su questi ultimi esempi introducono elementi di natura pragmatica, e non solosemantica. Si veda, però, il SECONDO OSTACOLO discusso nelle pagine seguenti.

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una volta ammesso che l’intento di chi lo scritto fosse quello di informare il lettore di una verità su

una serie di fatti, non potremmo dire che l’enunciato è vero né potremmo dire che è falso, non

tanto perché non disponiamo di procedure per stabilire se è vero o se è falso, quanto perché non

sappiamo quale procedura attivare; e ciò per un semplice motivo: non ci è chiaro a cosa si

riferiscono alcuni dei termini usati.

Il punto è che questa difficoltà si presenta indipendentemente dall’impiego di metafore! Di

per sé, un innocuo enunciato come

Il gatto è sullo stoino

è vero o falso solo dopo che sia stato specificato cosa s’intende per gatto, stare su, stoino, e di

quale gatto e di quale stoino si tratti. Qualora si trattasse di un messaggio in codice, trasmesso

da una cellula terroristica a un’altra, il suo significato potrebbe essere ben diverso da quello

ordinariamente inteso. La verità o falsità del messaggio, in questo caso, non ha a che fare con le

metafore ma con una codifica interna allo stesso linguaggio (qui, l’italiano) la cui chiave è nota

solo ai membri della cellula terroristica. La decrittazione di un codice segreto è possibile ma

richiede che almeno alcuni dei termini usati nella decodifica abbiano un significato diretto.

In maniera aperta, potremmo decidere insieme che da ora in poi gatto si riferisce a

quell’animale finora indicato come cane (mentre cane si riferisce d’ora in poi a quello che

chiamavamo gatto), è su si riferisce all’abbaiare a qualcuno e stoino si riferisce al postino. In tal

caso il significato espresso da Il gatto è sullo stoino sarebbe: un certo cane sta abbaiando a un

certo postino, oppure (se trattiamo l’enunciato quale espressione di una conoscenza generica,

esemplificata da Il gatto è un felino o Il gatto caccia il topo) che, ogni volta che arriva un postino,

i cani presenti tendono ad abbaiare. E questo sarà vero o falso a seconda di ciò che di fatto

avviene e che ci è noto che avviene.

È una vecchia lezione: nelle parole (simboli) non c’è nulla che ne fa per natura parole

(simboli) che stanno proprio per ciò che usualmente intendiamo13. Anche in un enunciato

letterale c’è una chiave d’accesso, fornita da un manuale di interpretazione che è dato per scontato

dai parlanti adulti, ma quando da 0 a tre anni non lo davano per scontato. Imparare la propria

lingua madre, da piccoli (o una seconda lingua da adulti) significa apprendere un manuale del

13 All’inizio del Novecento, l’arbitrarietà del segno è stata messa in risalto da Saussure nel Corso dilinguistica generale.

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genere14, acquisendo competenza semantica di una lingua. Il fatto che diamo implicitamente per

condivisa questa chiave – e più in generale l’esistenza di un manuale d’interpretazione – non vuol

dire che la chiave non c’è e che del manuale interpretativo c’è bisogno soltanto per le metafore.

Senza chiave d’accesso semantico, neanche ll gatto è sullo stoino, come messaggio non crittato, è

vero o falso15. Quindi, gli enunciati letterali, sotto questo profilo, non stanno meglio di quelli

metaforici.

La causa del loro ‘non star meglio’ non va confusa con la presenza di enunciati contenenti

espressioni vaghe o ambigue, che fanno sì che in alcuni casi rendono indeterminata la verità (o

falsità) degli enunciati. Per esempio, potrebbe capitarci di non trovarci d’accordo se, riferito a un

amico di nome “Tobia”, l’enunciato

Tobia è lento

è vero o no. La nozione di lentezza è vaga, oltre che non uniforme da un ambito all’altro

dell’esperienza (la lentezza di un centometrista è un po’ diversa da quella di una tartaruga e da

quella di uno studente in un compito di matematica). Per arrivare a un accordo dovremmo

restringere la vaghezza di lento specificando il contesto comunicativo e dicendo a quale tipo di

attività svolta da Tobia ci si riferisce – forse Tobia vuol fare il centometrista e chi afferma Tobia

è lento è proprio il suo allenatore, oppure a dirlo è il professore di matematica che si lament del

fatto che Tobia si distrae spesso quando fa un compito in classe, ecc. Se non si specifica il tipo di

attivitòà in questione, Tobia è lento non è né vero né falso. Qui è in gioco un’ambiguità d’ambito,

mentre in altri casi c’è ambiguità lessicale: potremo dire di conoscere le condizioni di verità di un

enunciato come Tobia ha lanciato la granata (“condizioni”, ovvero ciò che lo rende vero, o falso),

solo una volta che abbiamo disambiguato il termine granata: strumento per spazzare o proiettile

esplosivo?

Le metafore non sono dovute alla vaghezza (lento/veloce, piccolo/grande, lungo/corto,

largo/stretto, facile/difficile) o all’ambiguità, come in Tobia ha lanciato la granata. Vaghezza e

ambiguità possono già esserci senza metafore. Quando si presenta il bisogno di precisare il

significato di una metafora c’è da fare un lavoro addizionale rispetto alla riduzione della vaghezza

14 Quine ha ampiamente illustrato questo punto in Parola e oggetto.15 Come ho fatto finora, continuerò a parlare di “enunciati” intendendo “enunciati usati assertoriamente”. Lasoggiacente distinzione fra contenuto enunciativo (il contenuto di pensiero espresso dall’enunciato) easserzione è stata tracciata nitidamente da Frege. È solo per (mia) pigrizia e comodità (vostra), cheattribuisco verità o falsità agli enunciati, invece che alle loro asserzioni.

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e all’eliminazione dell’ambiguità. Comunque, non è questo lavoro in più a fare la differenza tra ciò

che può essere considerato vero o falso e ciò che non può. Ci sono enunciati dela fisica che con un

minimo di generosità possiamo prendere come letterali, come Il protone ha una vita media di 1036

anni, la conoscenza della cui verità può essere altrettanto (se non più) problematica di quella di

enunciati metaforici, come La vita è un viaggio.

I vari aspetti del linguaggio fin qui considerati non dicono nulla di ciò che contraddistingue

le metafore; però sono da tenere presenti per non fare sbagli nell’identificare il terreno proprio di

una teoria della metafora. Vi potrà sembrare che queste osservazioni preliminari complichino la

strada che porta a una coerente analisi semantica delle metafore. È preferibile rendersi subito

conto delle complicazioni piuttosto che ritrovarsele alla fine, quando è troppo tardi per

rimediare. Le osservazioni fatte sono state motivate dall’esigenza di chiarire una serie di

affermazioni presenti in Metafora e vita quotidiana. Senza nulla togliere al fatto che il

riconoscimento della metafora come struttura del pensiero deve molto a questo libro, qualche

scrupolo in più non avrebbe fatto male.

Dal 1980, di strada, ne è stata fatta molta e sono state proposte anche teorie alternative,

mentre la teoria prospettata da Lakoff e Johnson si è precisata a sua volta in stretto rapporto con

la cosiddetta Neural Theory of Language (NTL), nonché con le prove associate alla scoperta dei

neuroni specchio e con le ricerche sul ruolo delle metafore nello sviluppo cognitivo. Si sono

anche precisati gli ostacoli a un’adeguata teoria cognitiva della metafora16 e alcuni di essi hanno a

che fare con quanto fin qui osservato. Mi limiterò a mettere in evidenza un paio di ostacoli cui di

sfuggita ho già accennato.

PRIMO OSTACOLO. Nella letteratura linguistica e semiotica si legge che la creazione di

metafore esige un cambiamento semantico. SÌ e NO.

A favore del SÌ gioca il fatto che, quando una metafora viene adottata e diventa d’uso

comune, la sua diffusione può portare a un nuovo modo condiviso di intendere qualcosa di già

‘noto’ e così un cambiamento di modello cognitivo induce un cambiamento semantico. Pensate al

termine polarizzazione che è passato dall’ottica a molti altri ambiti (ormai lo si trova

frequentemente usato nel lessico giornalistico: Nel recente congresso si è verificata una

polarizzazione fra l’ala intransigente e quella più disposta a mediare); oppure, pensate

all’aggettivo sostantivato complesso che dalla psicoanalisi è entrato a far parte del lessico comune

16 In “Noema fondato” c’è sia una sintetica rassegna di questi sviluppi sia un’indicazione delle difficoltà allequali vanno incontro.

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(Hai un complesso di colpa, Hai un complesso d’inferiorità, ecc.). L’estensione di ambito, o

dominio, ha fatto sì che il significato di questi termini si sia modificato, arricchendosi di tratti

(non importa qui se l’estensione è sempre stata corretta o sbagliata: non ci interessa dare giudizi

di valore su questa e quella metafora, ma capire il funzionamento delle metafore in generale).

Non si può, quindi, escludere un cambiamento semantico, ma ciò non implica che ogni nuova

metafora esiga un cambiamento semantico.

A favore del NO gioca il fatto che sia il termine per indicare l’oggetto di riferimento (ciò cu ci

si riferisce) sia la sua descrizione metaforica devono mantenere, in buona misura, il significato

che avevano prima della metafora (per capire Il sindaco è un elefantino, bisogna che il termine

sindaco continui a stare per la consueta carica amministrativa e che elefantino continui a indicare

un piccolo elefante), altrimenti non avremmo la minima idea di cosa la metafora voglia dire. Se

con la metafora cambiasse anche il significato di sindaco e l’analogo succedesse con ogni altra

metafora, il ricorso a metafore sarebbe così laborioso da renderle un fenomeno raro. Invece sono

onnipresenti. Quindi è consigliabile pensarci due volte prima di dire che le metafore sono un (o

il) processo cognitivo che cambia/innova/trasforma/ i concetti. Un ponte fra due isole

presuppone le isole: non è un’altra isola (detto metaforicamente …). A esser “nuovo” è il ponte,

che prima non c’era e ora c’è.

SECONDO OSTACOLO. Altrettanto spesso si legge che le metafore “dipendono dal

contesto”. Il che oscilla dal trito al furbastro. Che il significato di ogni espressione dipenda dal

contesto, è ormai diventato un luogo comune la cui capacità esplicativa è data per buona senza

pensarci – oppure si nasconde furbescamente la quantità di precisazioni necessarie. Infatti, se il

luogo comune fosse vero in ogni caso, la dipendenza dovrebbe esserci anche per il termine

“contesto” nel contesto del discorso fatto da linguisti e semiotici. Raramente chi insiste sulla

“dipendenza dal contesto” si prende la briga di definire cosa intenda per “contesto”; quando lo

scrupolo ci fosse, dovrebbe esserci anche un comprensibile imbarazzo: l’eventuale spiegazione

renderebbe l’asserita dipendenza dal contesto più o meno dipendente dal contesto? Qui il guaio

non è tanto la vaghezza del termine “contesto”.17 Il guaio è che, se tutto dipende dal contesto, di

notte tutte le vacche sono grige (come diceva Hegel) e dunque la dipendenza delle metafore dal

contesto è banale.

17 Nell’uso che ne ho fatto fin qui, il termine “contesto” si riferisce a una situazione comunicativa, localizzata inuno spazio e in un tempo particolari, in cui qualcuno dice qualcosa a qualcun altro; dunque il termine è statousato per riferirsi al contesto come luogo pragmatico situazionale extra-linguistico.

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Ma cerchiamo di essere più generosi. A prescindere dalla vaghezza del termine “contesto” e

anche a prescindere dal fatto che una metafora sia innovativa o no (suggerendo un nuovo modo

di pensare o inserendosi in un preesistente modo di pensare, sistema di idee, visione del mondo,

cornice culturale, modello scientifico), è ovvio: una metafora dipende dal sistema di idee che

trova espressione nella metafora. Per esempio, lo schema metaforico LE TEORIE SONO EDIFICI

trova espressione in numerose metafore:

Si tratta di dare un FONDAMENTO sicuro alla teoria.

Nella teoria COSTRUITA da Freud sono emerse delle crepe.

Il darwinismo ha resistito all’urto di molte obiezioni dimostrando la sua SOLIDITÀ.

Il vecchio sistema di idee è ormai CROLLATO.

Così, quando qualcuno afferma che Questa teoria poggia saldamente sulle sue fondamenta,

il significato è ovviamente relativo al contesto fornito da tale idea. Ma qui il contesto non è uno

solo: comprende sia ciò che si suppone già noto (sugli edifici) sia ciò che appunto si cerca di

capire mediante la metafora.

La realtà non reca scritto in sé dove passi la linea divisoria tra noto e ignoto. Le teorie non

sono di per sé edifici, e neanche non-edifici. Di nuovo, questa banalità si trasforma rapidamente

in una furbizia porta a un assurdo se pensiamo che sia il contesto a decidere cosa sia letterale e

cosa metaforico. Pensare che un contesto (come cornice culturale o come circostanza

contingente) possa imporci l’automatica verità di La vita è un viaggio e l’automatica falsità di La

vita non è un viaggio è, infatti, assurdo.

I viaggi hanno un luogo di partenza e uno di arrivo. Quando parliamo della vita, non è il

luogo di nascita che conta e neanche il luogo in cui si muore, anche se c’è un senso letterale in cui

possiamo dire che la vita si propaga da un luogo a un altro: è il senso in cui si dice che la vita ha

preso avvio in certe condizioni verificatesi nel lontano passato della Terra, o che in futuro la vita

potrà diffondersi dalla Terra ad altri pianeti. Naturalmente, per quanto riguarda ciascuno di noi,

la vita inizia nel luogo/momento della nascita e termina nel luogo/momento della morte, tanto

che si potrebbe tracciare il grafico della vita di un individuo come ‘linea d’universo’ in una

diagramma spazio-temporale 4D, trattando come puntiforme il corpo di ciascun individuo; è

però un senso diverso da quello in cui si parla della vita come viaggio, riferito alla vita di un essere

umano, che non è più inteso come un corpo che percorre una traiettoria nello spaziotempo fisico,

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ma corrisponde a una successione temporale di esperienze emotive, cognitive, economiche,

politiche. La nascita e la morte di un essere umano avverranno pure in qualche luogo, ma i

“luoghi” attraversati nel viaggio della vita sono altri: un concorso andato bene, la perdita di una

persona cara, un incidente, un grande amore, …

Ho esagerato parlando di “assurdità” a proposito di un contesto che ci impone cosa è

automaticamente vero (o falso)? Nessuno ha mai mostrato come un sistema culturale, o altro tipo

di “contesto”, renda automaticamente vera (e senza banalità) una metafora e falsa un’altra. Ma,

direte, non si può prescindere dal contesto. Giusto, e finché parliamo alla buona, non c’è bisogno

di sottilizzare. Se invece vogliamo elaborare una teoria della metafora non possiamo

accontentarci di affermazioni alla buona, come quelle ricorrenti intorno alla “dipendenza dal

contesto”. Semmai è la condivisione di un certo numero di schemi metaforici tra loro connessi ciò

che definisce un contesto culturale, non viceversa! Lo stesso vale anche per le descrizioni che

antropologi e sociologi danno della cultura e della società. Se prestate attenzione alle parole

usate in queste descrizioni, troverete un continuo appello a metafore, una dietro l’altra. Ma allora

dire che in un contesto culturale (o meta-culturale, come nel caso degli enunciati delle scienze

sociali) una metafora è vera e in altro è falsa è dire qualcosa di tautologico: equivale a dire che se

la tale metafora è considerata in un sistema che ne prevede la verità allora è accettata come vera e

che, se è considerata in un sistema incompatibile con essa, allora è da respingere come falsa

(semplicemente in virtù del principio di non-contraddizione). Insomma: se è così che

sottoscriviamo la tesi secondo cui una metafora è vera relativamente a un dato contesto

(socioculturale), non stiamo dicendo nulla. Sono in molti a non accorgersene? Mi dispiace per

loro.

Di metafore, ce ne sono tante, ma gli schemi metaforici di base che gli esseri umani

adoperano per descrivere la loro esperienza, inclusi i modi di vita e i valori, sono un numero

abbastanza ridotto. Se c’è un nesso fra questi schemi metaforici e i tipi di cultura, la domanda

“Quanti sono i tipi possibili di culture umane?” rimanda a un’altra: “I quanti modi si possono

combinare gli schemi metaforici di base? Se il discorso è analogo a quello fatto in relazione ad

atomi e molecole, la risposta sarà la stessa: in un numero grandissimo di modi. Ma è ragionevole

dubitare di una perfetta analogia e, comunque, non ne segue che il numero dei possibili schemi

metaforici di base sia altrettanto grande. In Metafora e vita quotidiana Lakoff e Johnson lasciano

intendere, quasi fosse ovvio, che il numero dei tipi-base di metafore sia illimitato. In opere

successive, Lakoff non lo lascia più intendere.

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A Lakoff preme (giustamente) mettere in rilievo il carattere gestaltico degli schemi e allora è

un’altra l’ipotesi che si profila: per quante siano le combinazioni di schemi che plasmano una

cultura, la nostra riserva di schemi metaforici di base è finita, connaturata con la biologia umana

e legata a caratteristiche specifiche dell’ambiente terrestre. Ammettendo che il numero degli

schemi di base sia finito, non si impedisce che questi schemi si possano combinare in modi nuovi,

favoriti dal fatto che ciascuno schema schema contiene una serie di finestre (slot) vuote che

possono essere riempite in più modi. Quali schemi metaforici attivare, o privilegiare, e quali no

non ci è imposto18, ma se la natura umana è così com’è, è difficile credere che esista una cultura in

cui gli schemi metaforici di base prescindano da tal enatura e siano dunque totalmente arbitrari.

La scelta di uno schema piuttosto che un altro non è arbitraria, né è univocamente

determinata. E nel caso di un cambiamento culturale? Poiché non basta l’uso personale di un

diverso schema ma ne occorre un’ampia condivisione nella comunità di parlanti, allora va

ammesso un processo di propagazione delle metafore, che è tutto da studiare19. Dopo che una

metafora di carattere sistematico si è sedimentata nel lessico, non solo non la riconosciamo più

come tale (diventa una metafora “morta”) ma non riconosciamo neanche il fatto che grazie a essa

si definisce ciò che abitualmente chiamiamo “il nostro contesto culturale”, il quale non è

esprimibile in maniera puramente letterale.

Non è che, entrando (da piccoli o da adulti) a far parte di una comunità linguistica, con le

sue implicite credenze e i suoi modelli culturali, ci impadroniamo di tutta quanta la letteralità

cognitiva, dopodiché arrivano tutti i concetti metaforici. L’ingresso in una cultura (farne parte e

sentirsene parte) è costituito dall’adozione di un grande numero di metafore, alcune delle quali

possono anche essere in contrasto reciproco: le culture non sono per forza sistemi coerenti. La

dialettica di idee interna a una cultura è misurata dall’ampiezza di questo contrasto.

A questo punto sono in debito di una precisazione circa la terminologia: Lakoff e Johnson

descrivono come “vive” le metafore che codificano uno schema concettuale attraverso il quale

pensiamo non un singolo oggetto o un evento ma un intero tipo di esperienze, e considerano

come “morte” quelle isolate, che non hanno una tale valenza. In tale accezione,

18 La situazione è dunque analoga a quella che s’incontra sul piano grammaticale (sintattico) stando allateoria chomskiana dei principi e parametri. Si vedano le osservazioni al riguardo nei capp. 4 e 11 del miolibro Il significato inesistente (Firenze University Press, Firenze 2004).19 C’è chi ha proposto un modello epidemiologico proposito della diffusione di pattern metaforici cheacquistano primato culturale. Dan Sperber è un autorevole sostenitore di questo modello per la diffusionedella conoscenza.

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Il tempo vola

esprime una metafora viva, mentre

Ho inciampato in una zampa del tavolo

esprime una metafora morta. È un’opzione terminologica diversa da quella cui mi sono riferito

poco fa ed più che legittima, ma non costringe a giudicare erroneo il criterio secondo cui sono

vive le metafore avvertite come tali e morte (o fossili) quelle non avvertite come tali. In base a tale

criterio sia il volare del tempo sia il fatto che i sostegni del tavolo siano zampe sono metafore

fossilizzate, benché la prima si iscriva in uno schema di notevole portata e la seconda sia invece

marginale. In realtà, la seconda si inscrive nella famiglia di espressioni idiomatiche che

testimoniano il ricorrente appello alla PERSONIFICAZIONE:

Giunti AI PIEDI della montagna, ci fermammo due giorni.

Siamo finiti in un COLLO DI BOTTIGLIA.

Il BRACCIO nord del carcere è in rivolta.

L’essere viva o no di una metafora è, in quest’accezione, uno stato molto più facilmente

reversibile che nell’accezione di Lakoff e Johnson.

L’inconveniente del criterio cui mi attengo sta nel rimandare a una consapevolezza variabile

da parlante a parlante, rendendo in certi casi difficile classificare come viva o morta una metafora.

Tuttavia, è preferibile non confondere la sistematicità di uno schema metaforico con il suo essere

‘vivo’. Per la transizione di stato, da viva a morta (o viceversa), di una metafora può bastare

veramente poco, come l’aggiunta di minime informazioni legate al dominio di riferimento ma

lasciate indeterminate. Per esempio:

Il tempo vola portandoci via sulle sue ali.

Alla zampa del tavolo mancano solo gli artigli.

In questi come in molti analoghi esempi di recupero d’una viva metaforicità per espansione,

si delinea un ingresso nell’allegoria. La sistematicità di uno schema, o pattern, metaforico è altra

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cosa da un’allegoria: non ha bisogno di sovraccaricare i dati, bensì trae forza dalla loro

indeterminazione.

3. Compresenza di schemi e loro gamma

Stiamo piano piano sgombrando il terreno per mettere meglio in risalto l’idea centrale di

Lakoff e Johnson, ovvero, l’idea secondo cui una metafora trasferisce significato da un dominio a

un altro secondo uno specifico pattern di trasferimento, indicato come “schema metaforico”. Ora

si tratta di esaminare quest’idea e, prima di entra nei dettagli, conviene chiarire subito una cosa: il

pattern di trasferimento non è detto che sia unico. Anzi, in uno stesso ambito possono essere

compresenti schemi metaforici in mutuo contrasto. Per illustrarlo, mi servirò di alcuni esempi,

intesi come paradigmatici.

Si dice: Il tempo vola ben sapendo che il tempo non è un uccello né un aereo. Eppure,

quando ci capita di dirlo, lo facciamo con l’intento di esprimere qualcosa di vero (e non si tratta di

verità, o falsità, “in virtù del linguaggio”, come nel caso di Il rosso è un colore e I quadrati hanno

quattro lati). È chiaramente una metafora ed è presa sul serio, ma ha in sé un problema: se il

tempo vola, passa rapidamente da un luogo a un altro. Ma il tempo non passa, non trascorre,

perché non è un oggetto che si sposta. Gli spostamenti di qualsiasi cosa si definiscono infatti

rispetto a posizioni diverse in istanti diversi, dunque assumendo spazio e tempo come sfondo e,

dopo Cartesio, ci è ormai familiare la rappresentazione di spazio e tempo quali assi coordinati di

un sistema di riferimento. Per volare, il tempo dovrebbe spostarsi, ma il tempo non può spostarsi

nel tempo.

Accanto all’idea del tempo che vola (o che non passa mai) c’è un’altra idea, in contrasto con la

prima. pensiamo il tempo come una linea nei cui punti (istanti) avvengono certi fatti e poi certi

altri, e in questo caso i punti non si spostano. Partire e arrivare, così come piazzare e spostare

sono verbi che suppongono dato uno spazio. La rappresentazione cartesiana di spazio e tempo

come assi coordinati precisa semplicemente un pattern d’uso comune, perché già in italiano (per

Cartesio, in francese) i tempi sono ‘mappati’ in termini spaziali, ovvero trattiamo i tempi come

luoghi, posti, posizioni. Per esempio:

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Da lunedì a sabato procederemo così

o (più esplicitamente)

A partire da [locativo] lunedì, fino ad arrivare a [locativo] sabato, procederemo così.

Gli organizzatori hanno piazzato [verbo locativo] tutte e due le partite alle [preposizione locativa]

ore 17.

È meglio spostare la discussione ad altra data.

Lunedì, sabato, le ore 17, così come le date, sono pensati come luoghi da cui si parte o a cui si

arriva.

La nostra concezione intuitiva del tempo comprende sia l’idea del passare (detto, in senso

proprio, di un corpo che attraversa posizioni diverse) sia l’idea spazializzata del tempo come asse

in cui disporre tutti gli eventi in uno stesso ordine, dal prima al dopo, corrispondente all’ordine

dei punti su una linea (non importa se retta o no). Inoltre, l’orientamento è associato a quello del

nostro corpo, con un campo visivo asimmetrico (non abbiamo occhi sulla nuca) e così arriviamo a

dire:

Il futuro è DAVANTI a noi.

Il passato è DIETRO le spalle.

Benché passato e futuro siano relativi al punto in cui di volta in volta collochiamo il presente,

spazio e tempo restano una sorta di sfondo assoluto in cui si dispongono azioni, cose, fatti e

pensieri.

La teoria della relatività ha portato all’abbandono dell’idea di uno spazio e di un tempo

assoluti. Quest’abbandono non suffraga però l’idea di un tempo che passa. Entrambi i nostri due

modi intuitivi di parlare del tempo vanno poco d’accordo con la relatività: per prima cosa, il fatto

che ciascun osservatore definisca un suo tempo locale fa solo slittare il problema dall’assoluto al

relativo; per seconda, un tempo locale che passa, dunque si sposta in un altro tempo, non ha più

senso di quanto ne avesse la stessa idea riferita a un tempo assoluto; e infine, il fatto che x si sposti

relativamente a y mentre y si sposta relativamente a z (e così via) non cancella la differenza tra

quiete e moto relativi.

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Le nostre due familiari idee del tempo, ora come qualcosa che passa (trascorre lentamente,

vola, si ferma, ecc.) e ora come uno sfondo spazializzato di posizioni rispetto a cui definire il

cambiamento sono chiaramente in conflitto: i verbi passare, trascorrere, volare, fermarsi,

presuppongono un movimento, dunque un cambiamento di posizione, mentre le preposizioni

locative da e a fanno riferimento a posizioni fissate sulla linea orientata del tempo. Ci facciamo

caso? No e dopotutto il conflitto non provoca disastri. Sono due idee che fanno stabilmente

parte del nostro sfondo culturale, così come si esprime nel linguaggio della vita quotidiana. Ci

sentiamo forse obbligati a pensare il tempo in uno solo di questi modi, per non contraddirci?

Piuttosto, siamo candidamente opportunisti: ci serviamo dell’una o dell’altra idea a seconda dei

casi e, se ci rendiamo conto di pensare il tempo in modi diversi e inconciliabili, la cosa, più che

preoccuparci, ci diverte.

In linea di principio si potrebbe pensare il tempo anche in altri modi? Certo, tant’è vero che

ci sono lingue (e culture) in cui il tempo è, di fatto, rappresentato in modo diverso da noi. Per

esempio, ci sono lingue (come quella dei Maori) in cui

IL FUTURO È DIETRO e IL PASSATO È DAVANTI

che in fondo è un’idea altrettanto dotata di senso, perché possiamo avere davanti agli occhi (come

oggetto di esperienza) solo quel che è stato, non quello che ancora non sappiamo se sarà o no.

Se, però, da questo volessimo concludere che la spazializzazione del tempo è del tutto

contingente e ha la stessa arbitrarietà di ogni altro tipo di rappresentazione del tempo,

butteremmo via, come si dice in inglese, il bambino insieme all’acqua sporca, perché la spazialità

è cognitivamente … ubiqua! Infatti, anche le culture che invertono la nostra correlazione passato-

dietro e futuro-davanti fanno affidamento alla spazializzazione del tempo20.

Un conflitto significativo, sotto il profilo di una “incoerenza” tra schemi, si presenta in altri

casi. Per esempio, lo schema

DI PIÙ (PIÙ GRANDE) È MEGLIO

20 Questo è un punto importante, sul quale dovremo tornare. Leonard Talmy, uno dei maggiori esperti dianalisi comparata circa la rappresentazione della spazialità e la sua metaforizzazione nelle diverse lingue,ha analizzato una ricchissima casistica, cfr. i saggi raccolti nel volume Toward a cognitive semantics, MITPress, Cambridge (MA) 2000.

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esemplificato in

Ci vuole più comprensione.

Devi stare più attento

è coerente con lo schema PIÙ È SU (La collera è salita) e con BUONO è SU (Non buttarti giù).

Invece, PIÙ È S U e BUONO È SU sono incoerenti con DI MENO (PIÙ PICCOLO) È MEGLIO.

Conclusione: un sistema di idee e di valori in cui fosse presente una simile incoerenza non

avrebbe vita facile. Nella nostra cultura, l’apprezzamento espresso dallo slogan Piccolo è bello e

affermatosi negli ultimi decenni, ha introdotto una tensione notevole con modelli di valutazione

consolidati. Altre culture non danno la stessa priorità che la nostra cultura assegna all’asse

SU/GIÙ e analogamente all’attività come migliore della passività o alla velocità come migliore

della lentezza21.

Ciononostante, è consigliabile maggiore prudenza nell’intendere uno schema metaforico

come caratteristico di un’intera cultura. L’incollamento metaforico di SU e P I Ù, come pure

l’incollamento di PIÙ e MEGLIO sarà anche rivelatore di uno schema pervasivo nella storia della

cultura occidentale e di un atteggiamento valutativo tuttora molto diffuso dalle nostre parti, ma

non identifica l’Occidente.

Senza bisogno di uscire dall’Europa, la nostra storia culturale testimonia non poche e non

marginali eccezioni, ovvero, linee di pensiero (e tradizioni) che non sono conformi con SU e PIÙ e

PIÙ e MEGLIO. Già nella filosofia ellenistica era stato messo in dubbio il principio secondo cui

l’optimum coincide con la massimizzazione di qualche qualità e non si deve aspettare il

minimalismo nell’arte del Novecento per trovare esempi di idee, con un loro seguito, non

conformi allo schema. In ambito religioso, ancor prima degli stili di vita monastici la letteratura

sacra offre espressioni che riferiscono la validità del duplice schema SU È PIÙ e PIÙ È MEGLIO

solo alla dimensione “celeste”, mentre per quella “terrestre” vale uno schema antitetico: basti

pensare alla rinuncia evangelica a possedere e all’elogio delle maggiori virtù dei semplici, allorché

si propone il valore positivo del meno (possedere meno cose e meno denaro, usare meno parole e

21 Di queste e altre differenze semantiche, spia di differenze nel modello culturale, Lakoff tratta in un altrosuo testo, dal titolo apparentemente stravagante: Donne, fuoco e cose pericolose (Women, fire anddangerous things, University of Chicago Press, 1987), nel quale fa leva su un’ampia letteratura in campoantropologico. Ho detto “apparentemente” perché nella lingua Dijrbal, parlata da aborigeni australiani, cisono quattro classi di sostantivi, uno dei quali raccoglie ciò che diremmo “femminile” e include appunto ledonne, il fuoco e ciò che è pericoloso.

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disporre di meno erudizione).

In Oriente, tradizioni di pensiero orientate in senso analogo, che invitano a liberarsi dal

legame con le cose possedute e a disfarsi dell’erudizione, sono state quella taoista (in Cina) e

quella buddista (in India, in Tibet e nel sudest asiatico), sebbene anche in questi casi ci siano

eccezioni inverse. Taoismo e buddismo privilegiano l’equilibrio attraverso la “non-azione” e

antepongono la quiete al “darsi da fare”. Se ci hanno insistito così tanto, evidentemente lo schema

PIÙ È MEGLIO rivela un pattern di pensiero che ha avuto (e ha) una straordinaria diffusione nelle

società umane.

Quanto al PIÙ È MEGLIO declinato come apprezzamento della velocità, culture come quella

degli Yanomani (su cui Lévi-Strauss ha scritto pagine indimenticabili) attribuiscono valore

positivo alla lentezza, a differenza di quanto si verifica nella nostra e in molte altre culture. Lo

stesso valore positivo è testimoniato in popolazioni della Corea e della Terra del Fuoco.

Se il suggerimento implicito è quello di non dare per scontato un pattern che ci è familiare,

ben venga il suggerimento; se invece il suggerimento intende suffragare una forma di relativismo

semantico-antropologico, ci vogliono altri argomenti. Sono davvero indispensabili? È dubbio

che debba ritenerli tali che si propone di valorizzare il radicamento degli schemi metaforici nella

corporeità umana. Non lo dico perché sono felicemente prigioniero del modello occidentale, ma

perché, restando al caso della velocità, se è vero che la velocità è stata mitizzata, è anche vero che

la velocità nell’esecuzione di una prestazione fisica o cognitiva è stata ed è selettiva, prima per la

sopravvivenza e poi per il riconoscimento delle competenze.

È innegabile che nella nostra cultura si sia arrivati alla mitizzazione della velocità. Da Achille

pié veloce al futurismo, fino alla Formula 1, la mitizzazione ha però gradi e caratteri diversi, come

ci può ricordare il valore che diamo alla velocità nel chiudere una falla nello scafo o nell’eseguire

un intervento chirurgico. Peer fare un esempio attuale: per reagire a uno stile di comportamento

alimentare che nella seconda metà del Novecento è cresciuto sproporzionatamente, è nata

l’associazione Slow food, che è stata teorizzata e ha fatto i primi proseliti in Occidente. Dunque,

non dimentichiamoci che anche all’interno di una stessa cultura che trasmette come pattern

concettuali questo e quello schema metaforico si possono avere idee non conformi al pattern: non

siamo schiavi dei pattern sedimentati nel linguaggio comune e non dobbiamo per forza uscire da

una cultura e tuffarci in un’altra per trovare schemi alternativi.

Una volta si sarebbe detto: “Basta ragionare”. Di questo “ragionare” fa anche parte una

riflessione sul linguaggio. La filosofia del Novecento che ha messo al centro l’analisi logica del

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linguaggio ha anche suggerito che molti (se non tutti) i problemi filosofici sono problemi di

linguaggio: a partire dal Tractatus di Wittgenstein la filosofia si presentava come terapia

linguistica. Oggi, attraverso uno studio non più soltanto logico del linguaggio, siamo giunti ad

attribuire agli schemi metaforici il valore di modelli-di-pensiero.

La consapevolezza di quali siano questi schemi, del loro ruolo costitutivo e del loro valore,

non direi che cancella la linea ‘analitica’. È indubbio che la teoria cognitiva della metafora

rappresenti una svolta ed è comprensibile che gli artefici di questa svolta enfatizzino le differenze

dalla linguistica e dalla filosofia del linguaggio precedenti. Tuttaiva, nulla ci impedisce di vedere

in questa svolta il culmine della “svolta linguistica”, seppure in un modo che non era stato

preventivato.

Tornando alla spazializzazione del tempo: mentre in inglese l’asse passato-futuro è

rappresentato direzionalmente lungo l’asse verticale in espressioni come The new year is coming

up e it went down (è trascorso, è passato), in cinese si ha un orientamento opposto. Infatti, in

cinese, anche se il tempo è categorizzato lungo l’asse verticale, gli eventi che precedono sono SU e

quelli che seguono sono GIÙ. Esempio: il mese prima è shànyuè (mese-su), il prossimo mese è

xiàyuè (mese giù). Come in inglese, anche in italiano è attestato un impiego del tempo come

entità mobile, che ci viene incontro e si allontana, senza fissare la direzione verticale:

Il nuovo anno si sta avvicinando.

Il mese di luglio se n’è andato.

Nondimeno, in alcune espressioni dell’italiano, come pure del francese, è pure documentata

la presenza dell’asse verticale:

Se risaliamo di generazione in generazione, ritroviamo gli stessi guai

ove la risalita è verso il passato e

Scendendo fino ai nostri giorni, il quadro non è cambiato

ove la discesa arriva al presente, ma non si estende al futuro.

Di nuovo: questi esempi non intendono suggerire che potremmo pensare nozioni come

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quella di tempo, o la direzionalità spaziale o la quantità, in ogni modo possibile. Siamo organismi

fatti in questo modo e non in un altro, fatti cioè in un modo particolare e non in un modo

generico (un fattore di misurazione della crescita di un bambino è l’altezza: ↑). Abbiamo occhi

soltanto su un lato del corpo; le nostre gambe sono fatte in modo da spostarci normalmente in

avanti e non indietro. Siamo soggetti alla forza di gravità, che è direzionata dall’alto in basso

rispetto al nostro corpo; alzare un oggetto costa fatica mentre lasciarlo cadere no. Esiste una

asimmetria fisiologica fra ciò che è davanti e ciò che è dietro, come tra ciò che è SU e ciò che è

GIÙ, e questa stessa asimmetria è sufficiente a ridurre, se non a escludere, la possibilità di uno

schema metaforico in contrasto con i vincoli corporei e in totale autonomia dal carattere statico o

dinamico, dunque spaziale, di ogni nostra esperienza.

Immaginate di avere un corpo perfettamente simmetrico in tutte le direzioni, con un sistema

visivo distribuito in maniera omogenea, diciamo un occhio per ciascuno dei quattro punti

cardinali, e di potervi muovere ugualmente in una direzione qualsiasi senza prima dover ruotare

il corpo, come se foste ancora animali razionali … sferici. Ceteris paribus, cioè, ferme restando le

condizioni ambientali, non ci sarebbe alcuna distinzione DAVANTI/DIETRO fisiologicamente

privilegiata, quindi non ci sarebbe ragione di applicarla in maniera selettiva e uniforme alla

distinzione PASSATO/FUTURO. Se il futuro <è> la direzione verso cui vi muovete (davanti) e il

passato <è> quella da cui venite (dietro), allora la metafora avrebbe nella migliore delle ipotesi

un significato essenzialmente ‘locale’ e contingente, a seconda di come si sta muovendo il vostro

corpo in un dato momento. Volendo una metafora più stabile, a quale vi affidereste? Benché

sferici, siete ancora animali razionali, quindi potete provare a pensarci.

E se invece di avere un corpo a simmetria bilaterale rispetto all’asse del moto, ne aveste uno

con la superficie anteriore uguale a quella posteriore come Giano bifronte? A quali metafore

potreste ricorrere per rappresentare spazialmente l’ordine temporale?

Immaginate ora che il vostro unico modo di muovervi fosse dovuto a un’alternarsi di

contrazione e dilatazione, quasi foste dei polmoni a reazione; in questo caso la differenza tra

passato e futuro si potrebbe rappresentare in termini di quella DENTRO/FUORI, di volta in volta

alternati, e ne risulterebbe un tempo basato sui cicli di moto ‘respiratorio’. Se un ciclo completo

di contrazione e dilatazione durasse un giorno, gli orologi avrebbero le ore disposte non sulla

circonferenza dell’orologio ma lungo il raggio. Per non fare confusione, dovreste colorare le

prime 12 ore dal centro alla circonferenza in blu e le seconde 12 dalla circonferenza al centro in

rosso, o disporre i due tipi di ore in circonferenze concentriche, al posto di quell’unica

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circonferenza sul quadrante di un normale orologio analogico22.

Non pare che esista una lingua in cui sono presenti schemi per la rappresentazione del

tempo indipendenti dall’orientamento percettivo/motorio del nostro corpo. È solo un fatto

contingente? O pensare che sia contingente equivale a credere in un miracolo?

Immaginare scenari di fantabiologia è utile come allenamento. Scenari simili non bastano

certo a dar conto dei nostri schemi metaforici, relativi al nostro corpo con le sue asimmetrice e

con la sua modalità di movimento. Ma a non darne conto cos’è che perdiamo? Il punto è che lo

stesso schema DAVANTI/DIETRO è impiegato per parlare dei nostri atteggiamenti mentali.

Esempio: Devi affrontare la situazione. “Affrontarla” implica mettersi di fronte, dunque averla

DAVANTI alla fronte. Altro esempio: Metti sempre l’utile davanti al giusto – mettere davanti, o

ante-porre, indica una priorità valutativa – e vi prego di notare che in casi del genere davanti a

potrebbe essere sostituito da al di sopra di, con ciò neutralizzando la differenza tra lo schema

DAVANTI/DIETRO e lo schema SU/GIÙ. Possono anche esserci altri pattern adottabili, ma fanno

sempre riferimento al nostro sistema di propriocezione che ci permette di elaborare

un’immagine/mappa mentale del nostro corpo, della sua postura e del suo orientamento.

4. L’idea centrale: il trasferimento di struttura

Abbiamo già considerato l’ipotesi secondo la quale la metafora sarebbe solo un’analogia

accompagnata da tensione emotiva. Anche se le metafore esprimono analogie e, nella poesia

come nella pubblicità, fanno leva su una tensione semantica cui è associata un’emozione,

abbiamo anticipato qualche dubbio sul fatto che sia tutto qui.

Quando una metafora diventa d’uso comune e si cala in un’espressione idiomatica (Mi fai

uscire dai gangheri, Ne ho fin sopra i capelli) la tensione indotta dall’anomalia, o devianza,

semantica si riduce senza che venga meno il carattere metaforico, mentre le metafore

intenzionalmente divergenti dall’uso sono percepite come poetiche (Il nostro amore è un graffio

sull’infinito). Che sia assente o presente una risposta emotiva, ciò che è da notare in questi casi è

la mancanza di sistematicità. L’interesse di linguisti, filosofi e psicologi per le metafore non

riguarda espressioni idiomatiche o poetiche di analogie ed è un interesse a capire il meccanismo

delle metafore, piuttosto che a giustificarne una invece di un’altra.

22 D’accordo, non siamo sferici e ci muoviamo in modo diverso. Mi converrebbe ugualmente registrare ilbrevetto relativo a un simile modello di orologio?

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L’interesse a preoccuparsi di giustificare la verità/efficacia/adeguatezza di una metafora è

tanto più sentito quanto meno familiare è la metafora. Quel che conta – ripeto – non è tanto la

percezione di una tensione emotiva o la sua mancata percezione, quanto la capacità di rilevare

uno schema concettuale sistematico, benché non rigoroso. In una canzone di Gianna Nannini si

diceva

Questo amore è una strada in salita.

L’amore-strada si conforma pienamente allo SCHEMA DEL CAMMINO, che è forse il più

pervasivo, in quanto permette di ospitare le più diverse esperienze emotive e cognitive, mentre

l’amore-graffio non ha questa sistematicità. La differenza è tutto fuorché un fatto accidentale e

per metterla in evidenza conviene riprendere alcune osservazioni già fatte.

Abbiamo visto che nella concezione classica del neoempirismo, qualunque enunciato che sia

analiticamente vero, come Gli scapoli sono maschi adulti non sposati, è vero o falso in virtù del

significato delle parole e non dei fatti. Senza entrare nel merito di questa nozione di verità,

qualunque enunciato non sia analiticamente vero, è da considerarsi sintetico a posteriori. Tale è,

per esempio, Il gatto è sullo stoino, che risulta vero o falso in virtù dei fatti. L’attenzione ai fatti

non deve farci dimenticare che la verità o falsità di un enunciato è sempre relativa a una prefissata

interpretazione del linguaggio (o di un suo frammento) in un dominio, o universo di discorso,

identificabile dai parlanti. Un enunciato metaforico come La vita è un viaggio non ha i caratteri

di un enunciato analitico e, se è legittimo considerarlo vero o falso, la sua verità o falsità dovrà

allora essere del tipo che ascriviamo a Il gatto è sullo stoino, ma i fatti relativi all’essere la vita un

viaggio sono meno facilmente identificabili.

Colpa della vaghezza o dell’ambiguità dei termini vita e viaggio? Abbiamo esaminato anche

le complicazioni derivanti dalla presenza di espressioni vaghe e di espressioni ambigue. In questo

caso ci interessa l’ambiguità, perché tocca da vicino la relatività del vero e del falso a un dominio.

Un‘espressione ambigua si riferisce a cose diverse in domini diversi: la regina si riferisce a una

donna nel dominio delle persone e a un pezzo, che si muove come sapete, nel dominio degli

scacchi. Ovviamente, il significato degli enunciati che contengono un sintagma come la regina ne

risente. Questo è banale. Non è invece banale che ogni espressione sia potenzialmente ambigua,

anzi plurivoca, perché può riferirsi a cose diverse non solo in due domini, ma in un numero molto

maggiore di domini. Inoltre, come già notato proprio in riferimento a Il gatto è sullo stoino, un

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enunciato isolatamente preso può sempre ammettere diverse interpretazioni in uno stesso

dominio, anche se di consueto ne diamo per selezionata una come quella “normale”, standard,

ovvia, e siamo portati a trattarla come unica.

La relatività-a-un’interpretazione-in-un-dominio riguarda ogni enunciato, sia esso letterale o

metaforico. Le metafore manifestano una caratteristica in più, perché rendono indispensabile

considerare simultaneamente due o più domini, con la loro specificità, tenendo fermi i rispettivi,

“normali” contenuti (dunque attenendosi all’interpretazione selezionata per le rispettive

espressioni). Ci sono numerose metafore che rientrano nello schema La VITA è un VIAGGIO così

come numerose sono quelle che rientrano nello schema

DISCUTERE è COMBATTERE

Smettila di stare sulla difensiva.

Hai trovato il punto debole del ragionamento.

L’avvocato lo messo alle strette.

Così si sconfigge l’idea tradizionale.

Qui, come nell’uso che facciamo di ogni altro grande schema, diamo per scontato di sapere

(anche se in maniera imprecisa) per cosa stanno i termini di vita e di discussione. Nel momento

in cui stabiliamo una correlazione fra il dominio della vita e quello del viaggio, o fra quello del

discutere e quello del combattere, possiamo ricavarne una specificazione del significato dei

termini vita e discussione. Molte volte, infatti, la metafora aiuta a precisare il senso di un

concetto che non è del tutto chiaro. Tuttavia, una qualche idea dobbiamo pure avercela,

altrimenti non sapremmo a cosa ci riferiamo con i termini in questione.

Ci sono anche altri casi nei quali è indispensabile una considerazione simultanea di due

domini, come in Copernico credeva che le orbite dei pianeti fossero cerchi e invece sono ellissi,

ove il modo in cui stanno le cose entro il mondo come visto da Copernico è correlato

(contrapposto) al modo che noi, sulla scorta di conoscenze successive (a partire da Keplero)

consideriamo “reale”. Oltre al discorso indiretto, le espressioni al condizionale recano una traccia

implicita di questa considerazione simultanea di due domini: in Avrei potuto incontrarti prima

ciò che è avvenuto (realmente) è correlato con ciò che avrebbe potuto essere (ma non è stato).

L’uso dell’enunciato presuppone che sia vero Non ti ho incontrato e che sia vero, in una realtà

alternativa, Ti ho incontrato. In casi simili, c’è riferimento simultaneo a due domini ma non c’è

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alcuna metafora: la correlazione tra domini esprime tanto un contrasto con ciò che di fatto è

quanto una coerenza localizzata (la localizzazione è definita dall’ipotesi). Lo si vede ancora

meglio nei condizionali controfattuali: Se io fossi te, farei così ..., Se Firenze fosse in Sicilia,

sarebbe molto più a sud, che a loro volta non sono metaforici.

Per fissare meglio le idee, consideriamo un enunciato metaforico come

Il discorso del ministro ha avuto una caduta di tono.

Per limitarci ai termini discorso e caduta di tono, ciascuno di essi ha un suo autonomo

potenziale riferimento in domini distinti (il dominio del linguaggio e il dominio dei suoni). In più

c’è un trasferimento di significato: la caduta è prima trasferita da corpi a suoni e poi è trasferita a

discorsi (valutando positivamente loro tono se si innalza, negativamente se scende). Ci

accorgiamo che una metafora non comporta soltanto il riferimento simultaneo a due domini,

bensì esprime una mappa (più o meno precisa e più o meno estesa) tra domini specifici e senza

uscire dalla realtà.

Qui, “mappa” è il termine con cui si rende l’inglese map, che sta anche, in gergo matematico,

per un’applicazione, o funzione tra un insieme e un altro; “più o meno precisa” vuol dire che

questa mappa può anche essere vagamente definita, eppure riesce ugualmente a veicolare un

significato; “più o meno estesa” vuol dire che la sua ampiezza non deve per forza coprire un intero

dominio, anche se non può ridursi a un’analogia puntiforme; “senza uscire dalla realtà” suggerisce

che la nostra realtà cognitiva sia più ricca di quanto appaia descrivendola in termini di un solo

dominio. Ovvero, non c’è separazione (né antitesi) tra uno stato di cose e il modo in cui lo

rappresentiamo. Non conta che si tratti di due prospettive soggettive o di due stati oggettivi. In

una metafora, ciò che conta nel simultaneo riferimento a due domini è l’asimmetria dei ruoli.

Basta pensare, infatti, alla stranezza di un enunciato con ruoli scambiati:

La caduta di tono è un discorso del ministro.

Questa asimmetria è legata alla “mappatura”. Nel linguaggio ordinario, con il termine

“mappa” si intende comunemente una proiezione di una superficie su un piano orizzontale che

conservi, in scala, le distanze tra i punti della superficie. Di fatto, anche se la mappa non è

perfetta, ci accontentiamo lo stesso, come quando disegniamo su un foglio una piccola mappa,

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approssimativa, di una zona della nostra città per un amico straniero che vuole andare da un

luogo a un altro e non sa come fare. Anche se la mappa non rispetta le proporzioni fra le distanze

nella città reale, il percorso indicato sulla mappa può essere ugualmente efficace allo scopo.

Come ho detto poco fa, il termine “mappa” ha acquisito un significato più ampio in

matematica, diventando sinonimo di “funzione”. Sia nel senso tradizionale sia in questo senso più

ampio, una mappa ha un verso, cioè, è orientata: se va da A a B, non va da B ad A (a meno che A

= B). Una funzione da un insieme A a un altro insieme B si scrive f: A ➝ B. A è detto il dominio

(o sorgente, in inglese source) di f mentre B è detto il codominio (o bersaglio, in inglese target) di

f. Il dominio di una funzione ha dunque un ruolo diverso dal suo condominio: di qui l’asimmetria.

Una funzione è un tipo particolare di relazione: infatti, è definita come una relazione f tra tutti gli

elementi a, b, c, … di A ed alcuni (o tutti gli) elementi a’, b’, c’ di B, tale che se f(a) ≠ f(b) allora a ≠

b. L’inversa di una funzione f: A ➝ B è una relazione da B ad A, ma non è detto che sia una

funzione.

Per esempio, la mappa che associa a ogni luogo sulla superficie della Terra la sua latitudine

definisce una precisa funzione dall’insieme dei punti su una superficie quasi sferica a numeri, ma a

ogni valore della latitudine possono corrispondere più luoghi, quindi non la sua inversa non è

una funzione da numeri a luoghi, perché a uno stesso numero sono associati luoghi diversi. La

mappa f che associa a ogni numero intero positivo o negativo il suo quadrato (dunque f =

elevazione al quadrato) va dall’insieme Z dei numeri interi all’insieme Z+ degli interi positivi, f(x)

= x2); la mappa m dall’insieme U degli esseri umani allo stesso U, cioè m: U ➝ U, che associa a

ogni essere umano in U, sia esso maschio (M) o femmina (F), la propria madre è chiaramente

una funzione da U (= M ∪ F) a U, perché ogni essere umano ha una e una sola madre, ma se

rovesciamo il senso di m non abbiamo una funzione da U a U perché una donna può essere

madre di più figli, oppure può non avere figli. Quando una funzione f è definita solo su un

sottoinsieme del dominio inteso si dice che è una funzione parziale. L’associazione, a ciascuno dei

libri che ho in casa, del tempo (in ore) che ho impiegato a leggerlo è una funzione parziale dal

dominio A dei libri che ho in casa al dominio (in questo caso “codominio”) B = Z+ = interi

positivi, perché alcuni non sono ancora stati letti.

In tutti questi casi, A e B sono domini di oggetti, caratterizzati dalle loro proprietà, e non

singoli esemplari di oggetti o di loro proprietà. Questo è un modo per precisare l’idea centrale del

legame che instaura tra due domini in una metafora: il dominio che proietta significato è la

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sorgente (SOURCE) della metafora, il dominio che lo riceve è il destinatario o bersaglio

(TARGET) e la proiezione, o mappatura, è parziale.

trasferimento

Dominio Codominio

(dominio sorgente, SOURCE) (dominio bersaglio, TARGET)

Nel caso della metafora La vita è un viaggio, il concreto dominio spaziale dei percorsi e degli

accadimenti fisici connessi è quello sorgente, il dominio delle catene di eventi che chiamiamo

“vita” è il bersaglio. Qui però la mappa non esprime solo una funzione da un insieme a un altro;

esprime anche un trasferimento (TRANSFER) di struttura dal primo dominio al secondo, di

modo che proprietà caratteristiche del viaggio si proiettino su proprietà caratteristiche della vita.

Dunque, e più in generale se a e b sono elementi del dominio e tra loro vige la relazione R, ovvero

R (a,b), allora la mappa f è tale che la relazione trasposta f(R) intercorre tra f(a) e f(b), ovvero f(R)

(f(a), f(b)). Nella figura seguente la relazione R è rappresentata da una freccia in diagonale.

a f(a)

b trasferimento f(b)

Dominio Codominio

Se non è richiesto che abbiamo un’idea precisa in tutto e per tutto delle caratteristiche da

trasferire, ancora meno è richiesta un’idea precisa delle caratteristiche che intendiamo descrivere

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metaforicamente. La particolare selezione che si esprime metaforicamente, mediante il

trasferimento di proprietà dal dominio al codominio permette di farsi comunque un’idea

sfruttando qualcosa che capiamo meglio e così introduce un vincolo sul dominio, senza

determinarlo in tutti i dettagli. L’assenza di piena determinazione non impedisce la

comprensione della metafora; le conferisce piuttosto quel certo alone di indeterminatezza che

segnala, quasi con gentilezza, un compito di completamento. Talvolta questo compito è facile:

Maria sta sbocciando.

Maria è appassita.

Della Maria che era una rosa, sono rimaste solo le spine.

Qui la mappa va dal dominio dei FIORI al dominio delle PERSONE. Per esempio, nel

caso di Maria è appassita, qual è la proprietà che è espressa metaforicamente con una proprietà

dei fiori?

A questa domanda è facile rispondere, individuando, e descrivendo anche sommariamente, la

proprietà (di essere appassito) che, nel trasferimento, è proiettata in una proprietà di un essere

umano come Maria: con gli anni, Maria ha un bel po’ di rughe, non ha più la stessa vitalità, ecc.

Lo stesso dicasi nella mappa AUTO ➝ PERSONE, che usiamo per introdurre e capire

enunciati metaforici come

FIORI PERSONE

Rosa Maria

Appassita ?

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Il sindaco è un diesel.

Il sindaco è in panne.

Il sindaco è su di giri.

Il sindaco è andato fuori strada nella soluzione dei problemi della città.

Comprendiamo il senso di questi enunciati, anche se non siamo a conoscenza delle

specifiche condizioni empiriche che giustifichino la loro asserzione. Se qualcuno ci chiede cosa

significa ciascuno di essi, cominceremo a dire qualcosa di generico facendo poi riferimento a uno

o più casi esemplari (si potrebbe dire che il sindaco è un diesel se in una circostanza come … si

comporta così … ). Comprendiamo quanto basta per capirli e non siamo tenuti a sapere quel che

resta indeterminato. Se poi sappiamo anche di chi si parla e conosciamo il contesto (le questioni

del comune retto da quel sindaco) potremo dire che quanto asserito è vero o è falso. Ma queste

ulteriori informazioni non sono indispensabili per capire il senso della metafora. Proprio qui sta il

punto: non abbiamo bisogno di ogni dettaglio referenziale per comprendere una metafora. La

metafora come trasferimento di struttura da un dominio a un altro è essenzialmente schematica e

in ciò sta la sua forza cognitiva.

Non possiamo però ignorare gli ostacoli che si frappongono alla comprensione di una

metafora. Talvolta la ricostruzione del processo di TRANSFER è meno facile del solito:

La vita di Maria è una nave di Life.

La vita di Maria attraversa una fase di sublimazione.

Maria è un albero nel pozzo.

Nel primo caso sono presupposte informazioni non generalmente condivise dai parlanti:

“Life” è un automa cellulare (ideato dal matematico John Conway) in cui si sono possibili

configurazioni stabili, dette “navi”, perché oltre a replicarsi si spostano in una direzione. Nel

secondo caso, si rimanda alla conoscenza del tipo di transizione di fase che fisici e chimici

chiamano “sublimazione”. Nel terzo, quel che ci manca non è una conoscenza relativa a un

determinato termine, ma una conoscenza contestuale (le condizioni in cui si trova Maria e come

Maria reagisce) e, anche conoscendole, potremmo non capire ugualmente il senso esatto della

frase: ci manca la chiave interpretativa. Se qualcuno ci parlasse di una comune amica, Maria,

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dicendo che è un albero nel pozzo chiederemmo subito: Cosa vuol dire? E la risposta non ci

renderebbe meno ignoranti in qualche area dello scibile umano.

La difficoltà a intendere una metafora sollecita a chiarire il suo significato, rendendo

esplicito l’implicito (di cui non siamo a conoscenza) sia che si tratti di fornire informazioni sul

senso delle nozioni “trasferite” sia che si tratti di fornire la chiave di lettura. Diamo per scontato

che ci sia qualcosa da capire e siamo curiosi di capirlo, ma questa curiosità non è fine a se stessa:

se ci interessa sapere quel che non sappiamo, ci interessa anche per stabilire se possiamo

assentire o dissentire da quanto affermato. In altra parole, una volta soddisfatte le condizioni

richieste per intendere ciascun enunciato, non ci basta averne capito più o meno il senso.

Vogliamo poter dire se l’enunciato è o vero o falso, e così non siamo contenti se qualcuno ci viene

in aiuto dicendo che le metafore non sono né vere né false e che abbiamo bisogno di una logica a

tre valori (vero, falso, indeterminato) o di una logica fuzzy (sfumata) che ammette valori variabili

con continuità nell’intervallo unitario [0,1], perché scorgeremmo in quest’aiuto un modo per

legittimare la nostra incomprensione.

Tornando a enunciati metaforici che invece comprendiamo, come per esempio Maria è

sbocciata, non ci è d’aiuto dire che, essendo metaforico, un enunciato simile non è del tutto vero e

neanche del tutto falso. L’analisi logica dovrebbe anche preoccuparsi di essere adeguata alla

cognizione semantica, invece di giudicarla secondo un modello astratto. Nell’uso comune del

linguaggio diciamo che qualcosa non è del tutto vero e neanche del tutto falso solo nel caso di

enunciati in cui ricorrano termini vaghi che riconosciamo come tali e in situazioni in cui ci

troviamo davanti a qualcosa che non è conforme ai nostri standard: pensate a una sfumatura di

colore tra l’arancione e il rosso, un contenitore cilindrico che ha una forma intermedia tra quella

di un vaso e quella di una ciotola, oppure al fatto che, sì, il giorno si alterna alla notte, ma ci sono

momenti in cui non diremmo che è ancora giorno e non diremmo che è già notte.

Nel caso di metafore il cui senso non sappiamo minimamente determinare, chiediamo Che

vuol dire? In quale senso? Nel caso di metafore in cui siamo incerti chiediamo In quale senso? In

entrambi i casi diamo per scontato che una volta esplicitato o precisato il senso, sia o vero o falso

quel che si afferma, e non un-po’-più-vero o un-po’-più-falso di come lo intendevamo. Immaginate

di dire a qualcuno che, come voi, conosce Maria: Maria nel giro di pochi mesi è appassita.

Potreste attendervi assenso (Eh sì, purtroppo. È finita la sua lunga storia d’amore) o dissenso

(Non è affatto vero. Maria sta reagendo con tutta se stessa), non un suggerimento ad

abbandonare la bivalenza (vero/falso) perché le persone non sono fiori. Il motivo per un

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suggerimento del genere ci sarebbe solo nel caso in cui Maria avesse subito, sì, un cambiamento

ma non così marcato come suggerisce il termine “appassita”.

Intendiamoci: oltre a presupporre una mappa parziale da un dominio a un altro, l’enunciato

metaforico è sempre insaturo. È curioso che ce ne rendiamo conto con maggior facilità in ambito

matematico, come quando ci viene fornita un’equazione contenente parametri, ragion per cui

non è l’equazione di una ben determinata funzione. Eppure la capiamo lo stesso. L’equazione y =

ax2 è l’equazione di una parabola con vertice nell’origine, ma non corrisponde a una sola parabola,

perché il parametro a può avere infiniti valori. Su questo non troviamo niente da ridire. Un

fenomeno analogo nel linguaggio naturale suscita invece disappunto in chi tiene tanto alla

determinatezza univoca del significato. Usiamo espressioni come La nascita di un’idea, La

nascita della democrazia in Europa, La nascita di un amore, senza specificare minimamente le

modalità di questa nascita, ovviamente diverse da caso a caso, ma non ce ne preoccupiamo:

riusciamo ugualmente a capirne il significato. Chi fa filosofia del linguaggio dovrebbe

preoccuparsi di capire come ci riusciamo, invece di rimproverarci perché non ci atteniamo alla

sua teoria del significato.

Nel caso di Maria è sbocciata non è specificato quale tipo di fiore, di che colore sono i petali,

ecc., né si specifica il senso esatto di ciò che può essere lo sbocciare di una persona. Nel caso di y

= ax2 siamo in grado di capire che è l’equazione di una parabola; analogamente, nel caso di

un’equazione come y = mx + 3, siamo in grado di capire che si tratta dell’equazione di un fascio di

rette che passa per il punto (0,3). Che si tratti di una retta non specificata tra quelle che passano

per un punto specificato, o di un generica parabola con vertice nell’origine, non ci impedisce di

capire la forma della figura – e possiamo anche non aver bisogno d’altro. Il tipo della figura non è

alterato dai diversi valori che i parametri assumono (qui m ed a). Così, l’enunciato “y = mx + 3

passa per (0,3)” non è quasi vero, e l’enunciato “y = ax2 è una retta” non è quasi falso. Il primo è

vero e il seconda è falso, anche se contengono elementi insaturi. Quel che diciamo nella nostra

lingua, parlando delle più varie cose relative alla vita quotidiana, si trova nella stessa situazione. Il

fatto di capirlo e di poter assentire o dissentire non richiede il passaggio a una semantica fuzzy

del linguaggio, altrimenti dovremo dire che per migliaia e migliaia di anni nessuno che abbia

parlato di vero e di falso, a proposito di enunciati del suo linguaggio, ha mai fatto affermazioni

giustificabili da un punto di vista semantico. La cosa straordinaria (e difficile da capire) è,

piuttosto, come gli esseri umani siano riusciti a gestire la fuzzyness in una logica non fuzzy e,

ancor più, come siano riusciti a gestire l’insaturazione semantica.

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Il fatto che riusciamo a servirci di qualcosa di insaturo sotto il profilo referenziale come se

fosse saturo sotto il profilo del significato è un ingrediente vantaggioso e decisivo del pensiero

umano, perché permette di usufruire rapidamente di uno schema concettuale in assenza di

informazioni (qualunque sia la situazione, c’è sempre qualche informazione che manca). Siamo di

fronte a una efficacissima strategia di costruzione del significato e di comunicazione del

significato. Il punto è che sfruttiamo questa strategia semantica tanto nell’ambito del letterale

quanto nell’ambito del metaforico. Volendo usare una metafora: in questa strategia si

neutralizzano i radicali liberi delle voci lessicali. E per illustrare quanto massiccio ne sia lo

sfruttamento, gli esempi abbondano nella letteratura, nel cinema, nei miti, …, ogni volta che si

omettono numerosi dettagli dei personaggi e dell’ambiente circostante, senza che la

comprensione dell’opera ne risenta. Non è una novità legata all’universo della fiction. La strategia

è già sfruttata nell’uso quotidiano, concreto, pratico, del linguaggio, anche se diventa più

facilmente riconoscibile non appena raccontiamo una fiaba a un bambino.

C’era una volta … Ma quando e dove esattamente? I Promessi sposi non specificano una

serie di proprietà dei personaggi: Don Abbondio aveva mai giocato a dadi? Non solo non lo

sappiamo ma non abbiamo bisogno di saperlo. Come si chiamavano i genitori del principe

azzurro?

Nel momento in cui ci immergiamo in un mondo di fantasia, conserviamo qualcosa della

realtà e tralasciamo qualcosa d’altro, anche per quanto riguarda i dettagli della spiegazione: ma

come fa Gatto Silvestro a riprendere la sua forma dopo essere stato appiattito da un masso? E

perché il cavallo alato dovrebbe avere gli zoccoli se vola? In questi e in innumerevoli altri casi il

lettore/spettatore è invitato a un trasferimento parziale: è necessario trasferire alcune proprietà

che nella realtà corrispondono a prìncipi, gatti, cavalli, altrimenti non capirebbe di che cosa si

parla, mentre altre proprietà vengono sospese. La stessa cosa succede con le metafore. In un

saggio di qualche anno fa ho avanzato l’ipotesi che in ogni discorso su situazioni ipotetiche

interne alla realtà, così come su situazioni immaginarie, così come su contesti metaforici, vale un

principio di invarianza del potenziale referenziale, di modo che ogni variazione rispetto a quanto

supponiamo vero (nel mondo reale) sia compensato dalla conservazione di alcune ancore

referenziali. Con un acronimo, relativo all’inglese, l’ho chiamato PIRP, che sta per Principle of

Invariance for Reference Potential)23.

23 Cfr. From Kant to Entwined Naturalism, monografia inclusa negli Annali del Dipartimento di Filosofia,

IX [1993], Università di Firenze, Olschki, Firenze 1994, pp. 225-334. Per quelli di voi che sanno qualcosa su

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Il fatto che scenari e personaggi della fiction sono compresi unicamente in base alle

informazioni fornite ha portato qualche filosofo del linguaggio a sostenere che i mondi fittizi

offrono contesti di discorso essenzialmente insaturabili. Limitiamoci a notare che se fosse

necessario non dico completare ma aggiungere altri venti dettagli per ogni circostanza narrata, la

narrazione (fiaba, romanzo o altro) diventerebbe terribilmente noiosa e nella storia delle culture

umane i miti, le leggende, i poemi e quant’altro avrebbero avuto un successo molto minore.

Tuttavia, non è esclusa una possibile, pur sempre parziale, integrazione dei dati che mancano. A

differenza di Poirot e Tex Willer, che restano sostanzialmente immutati da un racconto/fascicolo

all’altro, il personaggio di Ulisse si si arricchisce di numerose proprietà passando dall’Iliade

all’Odissea e lo stesso succede a Enea passando dall’Iliade a all’Eneide. Nella metafora, la

realizzazione di una simile integrazione corrisponde al passaggio all’allegoria, con la quale si

riduce progressivamente l’alone di indeterminatezza, ma il processo di trasferimento diventa

molto più laborioso e si perde il pronto impiego della metafora, tanto più efficace quanto più

immediata e schematica è.

Nel caso dello schema metaforico Le TEORIE sono EDIFICI, le proprietà che si trasportano

sono solidità (fondatezza, affidabilità, …), ampiezza, adattabilità, mentre non conta il colore dei

muri, la forma delle finestre, la pavimentazione, il tipo di scale, ecc. Se volessimo introdurre una

sempre più completa corrispondenza, faremmo una rappresentazione allegorica delle teorie, con

tutte le forzature del caso. Sia nel Medioevo sia in Età Moderna sono state realizzate diverse

illustrazioni che raffigurano allegoricamente l’organizzazione della conoscenza umana in modo

conforme allo schema ‘edilizio’. Benché tali illustrazioni arricchissero lo schema con molti

dettagli, anch’esse si fermavano ad alcune relazioni tra le parti continuando a trascurarne altre.

5. Proprietà aggiuntive delle mappe e loro importanza cognitiva

Lakoff e Johnson non precisano, né intendono precisare, un modello formale del

trasferimento metaforico. Molti anni fa ebbi la fortuna di seguire un corso di Lakoff all’interno di

una Summer School riguardante la linguistica matematica: Lakoff parlava della funzione

gestaltica di alcuni concetti e mi chiesi come si poteva precisare formalmente questa funzione da

un punto di vista logico-matematico. La semantica formale ispirata alla teoria degli insiemi non

Husserl e il metodo fenomenologico, aggiungo che il principio in questione è una rilettura dell’epoché, resaparziale e intesa in termini semantici, come ho spiegato in Noema, F. Angeli, Milano 1988.

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mi sembrava in grado di poterla precisare. C’era un’altra via? La risposta positiva cui arrivai per

la nozione di gestalt è la stessa cui sono arrivato nel caso della metafora.

Lasciamo per un attimo il campo della linguistica e rivolgiamo l’attenzione alla matematica.

In matematica si parla di continuo di mappe, intese come funzioni da una data struttura a

un’altra. Quelle che interessano in modo particolare sono le mappe che conservano nel loro

codominio almeno alcune delle proprietà che definiscono il loro dominio. È possibile fornire in

termini non insiemistici una descrizione generale delle mappe che conservano (in parte) la

struttura del dominio (sorgente)? Sì. Anzi, non solo è possibile fornirne una descrizione, ma di

fatto è già stata elaborata da anni una vera e propria teoria al riguardo, e di questa teoria oggi è

possibile servirsi per impostare anche un’analisi formale delle metafore. Mi riferisco alla teoria

matematica che prende il nome di “teoria delle categorie”. Una categoria è data da una collezione

di oggetti e di appropriati morfismi (mappe tra oggetti) che soddisfano a minime proprietà.

Mentre nella teoria degli insiemi la nozione di mappa coincide con quella di funzione (da un

insieme a un altro), nella teoria delle categorie le mappe, dette “morfismi”, possono anche non

essere funzioni. La teoria delle categorie fu introdotta nel 1945 da Samuel Eilenberg e Saunders

Mac Lane per rendere conto del carattere sistematico di mappe fra SPAZI e ALGEBRE, e più

precisamente, dalla categoria degli spazi topologici a quella dei gruppi.

Prima che una teoria formale delle mappe fosse elaborata, non è che non fossero usati

concetti corrispondenti a mappe sistematiche tra domini, dentro e fuori dalla matematica. Tali

mappe sono, infatti, un tratto caratteristico e ricorrente del pensiero umano. Nelle metafore non

fa che manifestarsi la fecondità di una correlazione funzionale tra domini della nostra esperienza.

Le metafore isolate, fossero anche miliardi, rappresenterebbero uno scarso vantaggio cognitivo.

C’è invece un numero ristretto di schemi metaforici che hanno carattere sistematico e si trovano

esemplificati nelle lingue più diverse e per i contesti più diversi.

C’è un altro fatto importante riguardante le metafore che è diventato analizzabile mediante

la teoria delle categorie: le metafore si compongono tra loro in vari modi. La teoria delle

categorie precisa i principi generali di composizione delle mappe e proprio per questo diventa

imprescindibile in qualunque studio che faccia riferimento a mappe e composizione di mappe.

Sul piano semantico, più mappe metaforiche si possono combinare dando luogo a “miscele”

(blendings) che, anche quando sono familiari, richiedono la strumentazione appropriata per

essere descritte adeguatamente. Si è fatto poca ricerca in questa direzione e quel che si è fatto

non può essere qui documentato perché presuppone aspetti tecnici che, solo per essere illustrati

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al livello più semplice, esigerebbero un lungo discorso di preparazione. Come al solito, mi servirò

di un esempio per illustrare i fenomeni di composizione metaforica.

Considerate l’enunciato:

Il telefono è il mio cordone ombelicale col mondo.

L’analogia funzionale tra telefono e cordone ombelicale non ha bisogno di spiegazioni.

Possiamo esprimere quest’analogia con una ‘proporzione’ non quantitativa, ma appunto

funzionale:

(a-p) Comunicazione telefonica : filo = comunicazione vitale : cordone.

Se al posto del filo usiamo le onde come per i cellulari, il rapporto non cambia. In realtà, la

metafora è doppia, cioè, è un caso in cui due proiezioni confluiscono e questa duplice e

simultanea confluenza non si lascia esprimere in una proporzione. In casi del genere si parla di

MERGING metaforico.

Da un punto di vista formale, le proprietà di un qualunque tipo di MERGING fra due

strutture matematiche sono diventate chiare con la teoria delle categorie, grazie alla definizione

del concetto di “pushout” (che, anche se non può essere qui definito, è più che la semplice unione

disgiunta di due domini) e non vedo perché questo chiarimento non possa essere sfruttato in

DOMINIO DOMINIO DOMINIO STRUMENTI PERSONE ORGANISMI

telefono io feto

filo ? cordone

rete mondo madre

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relazione al MERGING metaforico. Dopotutto, anche prima della teoria delle categorie, si era

già pensato a descrivere le metafore come analogie e c’era anche un modo per precisare le

analogie in termini formali. Quale? La prima cosa che poteva venir in mente per specificare

un’analogia, e a fortiori una metafora, consisteva appunto nel fare quanto illustrato in (a-p), cioè,

nel pensare un’analogia come proporzione.

Le proporzioni x : y = x’ : y’ (x sta a y come x’ sta a y’ ) hanno un uso più che legittimo in

ambito quantitativo, ove i quattro termini della proporzione sono grandezze note o sono

comunque definibili in termini di grandezze note. L’utilità delle proporzioni è che, laddove non si

conosca uno dei quattro termini, lo si può inferire dagli altri tre. La storia dell’aritmetica e della

geometria offre ampia testimonianza dell’utilità delle proporzioni. Ma anche senza bisogno di

contare o misurare possiamo far ricorso ad analogie che hanno la forma di una proporzione.

Saranno ‘proporzioni’ qualitative o comparative, tuttavia la mancanza di numeri e misure non

impedisce di inferire, sebbene non più in maniera univoca, il quarto termine, riuscendo solo a

individuarne una caratteristica, come nel caso seguente.

Molti test psicologici si servono di proporzioni qualitative: si chiede infatti al soggetto di

determinare quale sia il termine mancante, ove il termine può riferirsi alle cose più diverse,

dunque senza limitare l’uso delle proporzioni all’ambito matematico. In tutto ciò è infatti

coinvolta una capacità cognitiva che può esercitarsi in ogni ambito e, giusto o sbagliato che sia, è

significativo che si sia arrivati a considerare la misura di questa capacità come una misura

dell’intelligenza.

Talvolta, traccia della dimensione quantitativa resta nelle analogie che si servono di nozioni

geometriche. Per esempio, Il triangolo sta all’icosaedro come la verità sta al modo in cui hai

parlato. Per quanto cervellotica sia la metafora, è pur sempre un’espressione il cui significato è

facilmente comprensibile. Quest’esempio segnala un fenomeno di più ampia portata: le proprietà

sta a come sta a …….

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di figure geometriche sono usate per esprimere metaforicamente, oltre che caratteristiche di quel

che si dice, anche tratti del carattere:

Giovanni è spigoloso.

Maria è una donna quadrata.

Il nuovo presidente è poliedrico.

Ciascuno di questi attributi non sarà esatto ma, come al solito, riusciamo ugualmente a

capire il significato, mentre chi tentasse di ridurre la lacuna dicendo

Giovanni è una superficie con 27 singolarità

Maria è un quadrato di lato 3.57 cm

Il nuovo presidente è un icosaedro

produrrebbe enunciati ridicolmente sovradeterminati: enunciati che, oltre a essere inutilmente

più specifici del dovuto, sono molto meno comprensibili. Il che conferma quanto già notato: le

metafore sono essenzialmente insature (parametriche) ed è proprio questa insaturazione ciò che

garantisce la loro maggiore efficacia (flessibilità e dunque adattabilità a contesti diversi) rispetto

all’efficacia che sarebbe garantita da un incremento di specificità. Infatti, quanti spigoli bisogna

avere per essere spigolosi? Nel comune uso delle metafore c’è invece un equilibrio ottimale fra

informazione data e informazione lasciata da riempire.

Le metafore non raggiungono la precisione delle proporzioni; restano a livello qualitativo,

anche quando usano un’espressione quantitativa:

Tu pensi d’essere chi sa cosa, ma sei uno zero in umanità.

Ciò non significa che anche a questo livello qualitativo non si possa precisare la loro forma

generale in termini di parziale similarità strutturale/funzionale tra domini distinti. Questo è

proprio ciò che abbiamo cominciato a fare servendoci del rapporto SOURCE-TRANSFER-

TARGET. In altre parole, un termine t di tipo A che esprime un concetto radicato nel dominio

D è usato, in una metafora, trasferendolo (in un senso che non a caso si dice “traslato”) in un altro

dominio D’ al posto di un termine t’ di tipo A’. Quest’impiego non prelude a un trasferimento (o

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traslazione) arbitraria, bensì avviene in virtù di una similarità strutturale/funzionale, che resta

parziale: non è tanto tra tutto quanto D e tutto quanto D’, ma tra un frammento selezionato di D

e un frammento selezionato di D’. A ciò corrisponde il carattere parziale della mappa, di cui

abbiamo già parlato. Per tornare alla metafora del filo del telefono come cordone, ci sono molti

aspetti del filo che non hanno alcun corrispondente nel rapporto-col-mondo: il filo può essere di

plastica, riavvolgibile, grigio ecc. senza che a una qualsiasi di queste proprietà corrisponda una

proprietà inerente al rapporto di una persona con il mondo.

Qui ritroviamo un altro carattere già evidenziato: la similarità strutturale/funzionale è

cognitivamente orientata in una direzione: va da un dominio all’altro e non viceversa. Ci possono

essere anche casi di due mappe in direzione inversa tra gli stessi due domini, ma non sono mappe

l’una inversa dell’altra: nel caso di Il sindaco è un elefantino, se invertiamo ottenendo L’elefantino

è un sindaco, non c’è corrispondenza tra le proprietà degli elefanti che sono attribuite al sindaco e

le proprietà dei sindaci attribuite a un elefante. Quindi non si tratta di mappe reciprocamente

inverse, nel senso in cui lo sono invece la mappa di elevazione al quadrato e quella di estrazione di

radice e la mappa di marito-di e quella di moglie-di (in una società non poligamica). Di fatto, i

casi di invertibilità sono rari e solo con qualche forzatura riusciamo a ottenerla: basti pensare ai

due enunciati metaforici La vita è un viaggio e Questo viaggio ha ormai una vita propria.

L’unidirezionalità è essenziale quando parliamo di domini astratti, come succede in

matematica: il trasferimento di significato va solo dall’ambito/dominio dell’esperienza concreta,

legata a spazialità e corporeità, all’astratto e non viceversa. Quando può sembrare il contrario,

come in Sei uno zero, in realtà sfruttiamo le proprietà concrete che abbiamo trasposto nel

concetto di zero: estremo di piccolezza, vuotezza, inconsistenza, assenza di rilievo.

Fissata una coppia di domini, ci possono essere più mappe disponibili. In alcuni casi queste

mappe possono fondersi come nell’esempio del filo del telefono; in altri casi possono entrare in

contrasto. Abbiamo già illustrato alcune incoerenze tra schemi. Ora, per limitarci a un semplice

contrasto, basti un esempio che riguarda le mappe dal dominio delle COSTRUZIONI FISICHE a

quello dei RAPPORTI FAMILIARI o più generalmente a quello delle ISTITUZIONI SOCIALI. C’è

sia la mappa che si esprime con

Il matrimonio è una trappola

sia la mappa che si esprime con

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Il matrimonio è il tempio dell’amore.

Analogamente, una duplice mappatura si trova espressa in

Le elezioni sono una trappola

Le elezioni sono il tempio della democrazia

In entrambe le coppie abbiamo due metafore in contrasto perché i templi non sono pensati come

trappole, e viceversa. Di nuovo, la mappa COSTRUZIONI —> ISTITUZIONI è parziale,

circoscritta, locale (non globale): non importa chi ha messo la trappola e non importa se il tempio

è buddista o mormone. Cioè, capiamo la metafora, senza bisogno di supporre che essa si estenda

a tutto il dominio sorgente e a tutte le proprietà degli oggetti in esso collocati (le proprietà delle

trappole, le proprietà dei templi).

Come questi ultimi esempi confermano, le metafore sono espressioni insature

(parametriche) che presuppongono mappe contratte oltre che localizzate tra domini: contratte

perché ellittiche rispetto alla specificazione dei domini (lasciano credere che ci riferiamo a un solo

dominio) e localizzate perché trasferiscono solo alcune delle proprietà pertinenti ad alcuni

“oggetti” del dominio SORGENTE.

D = COSTRUZIONI D’ = ISTITUZIONI

trappolamappa 1

matrimonio

mappa 2

tempio

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Ciò non esclude la possibilità di estendere una metafora all’intero dominio. Tipicamente,

questa possibilità si realizza quando si operi in un ambito concettuale già circoscritto e selettivo,

come quello di una teoria scientifica): se questo si verifica, si ha un vero e proprio modello

concettuale, suscettibile poi di essere esportato al di fuori dell’ambito specifico in cui è sorto. In

filosofia, ciascuno degli “ismi” che identificano le principali correnti di pensiero si regge su una o

più metafore guida che hanno assunto carattere globale24 (relativamente a un dato ambito, non a

tutto quanto indistintamente).

Nelle ultime osservazioni ho fatto riferimento alla nozione di analogia e in precedenza vi ho

chiesto di non ridurre una metafora a un’analogia. Perciò sono in obbligo di qualche

precisazione.

Che non ci sia un unico modo d’intendere il nesso fra analogia e metafora è comprovato

storicamente: infatti, alcuni autori hanno inteso l’analogia o similitudine (x è COME y, cioè x è

SIMILE A y quanto alla proprietà tal dei tali) come nozione primaria e la metafora come

secondaria, mentre altri hanno fatto l’inverso. Per limitarci a due soli esempi: Aristotele

concepiva la similitudine come un caso di metafora e Quintiliano faceva l’opposto. Abbiamo già

notato che la presenza (o assenza) del suddetto “COME” tra soggetto e predicato induce effetti

psicologici diversi, attenuando (o aumentando) la tensione e producendo effetti retorici diversi

(enfasi minore/maggiore).

Il carattere analogico delle metafore non basta a dar conto del trasferimento di alcuni

concetti e il non trasferimento di altri – tanto meno a capire il ruolo degli schemi di base

nell’architettura complessiva della semantica. Più in generale, l’importanza del processo

metaforico per la scienza cognitiva non è legato allo studio tradizionale dei vari tropi o figure

retoriche né a una classificazione delle analogie su base grammaticale. Quel che interessa è il

meccanismo concettuale soggiacente, i suoi pattern, la propagazione di questi pattern, i vincoli

sulla direzionalità del TRANSFER. Il fatto che le metafore siano così frequenti nel linguaggio,

senza che siano consapevoli e a fortiori senza che richiedano preoccupazioni per lo stile, è ciò che

va spiegato. Per spiegarlo si risale alle modalità con le quali il meccanismo funziona. Lo studio

dell’analogia, articolato quanto si voglia fino a fornire la più esauriente tassonomia, non spiega;

piuttosto, rischia di essere fuorviante perché le analogie, in forma qualitativa o quantitativa, non

necessariamente portano a metafore.

24 Lakoff e Johnson ne hanno trattato in Philosophy in the flesh: the embodied mind and its challenge towestern thought, Basic Books, New York 1999.

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L’ipotesi esplicativa suggerita (anche se non pienamente sviluppata) nel testo di Lakoff e

Johnson è che

(1) le metafore permettono di coprire mediante un insieme ridotto di schemi concettuali

elementari il massimo numero possibile di domini d’esperienza, ancorandoli a pochi

privilegiati domini-base;

(2) i domini-base sono quelli in cui troviamo qualità gestaltiche legate alla percezione

(visione, tatto ecc.), alla cinestesi (senso del movimento) e in particolare alla

propriocezione (senso del proprio corpo).

Ci sono anche metafore tra domini-base e sono quelle associate alle sinestesìe: s’impiegano

termini relativi a una modalità sensoriale per indicare qualità proprie di un’altra, come in

Il pianista ha un tocco limpido

Questo sfondo blu è freddo

La melodia è dolce

che rispettivamente esemplificano una mappa VISIBILE ---> TATTILE, una mappa TEMPERATURA

--> COLORE, una mappa SAPORE --> SUONO. Sono state fatte interessanti ricerche per spiegare

come mai certe sinestesie funzionano solo in un verso e non in quello opposto25. Comunque,

l’importanza cognitiva (e filosofica) delle metafore non sta tanto nel processo di trasferimento di

significato da un dominio percettivo a un altro dominio percettivo quanto nel trasferimento di

significato dall’insieme dei domini direttamente legati alla corporeità all’insieme dei domini legati al

pensiero, nei quali non c’è percezione diretta degli oggetti e delle loro proprietà:

La società è scossa da moti violenti.

La mia fiducia in te sta crollando.

Il tuo ragionamento è debole.

Come notato fin dall’inizio, questo tipo di trasferimento ha in particolare a che fare col modo di

parlare dei nostri stessi stati e processi mentali:

25 Cfr. la raccolta di studi in S. Baron-Cohen, J. E. Harrison (a cura di), Synaesthesia. Classic andcontemporary readings, Blackwell, Londra 1997; e C. Cacciari, M. C. Levorato, “I cinque sensi e la lorotraduzione linguistica: uno studio sui verbi dell'esperienza sensoriale”, in A. Zuczkowski (a cura di),Semantica percettiva: rapporti fra percezione e linguaggio, pp.39-68, Istituti Editoriali e PoligraficiInternazionali, Pisa-Roma 1999.

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Giovanni è scoppiato.

Maria è depressa.

Il preside è fuori di sé.

Possiamo anche identificare stati e processi mentali attraverso un’esperienza in prima persona, un

processo empatico, un’analisi psicologica, o un esame etologico e antropologico del

comportamento, ma non abbiamo altro modo di parlare di ciò che riguarda il pensiero, i nostri o

altrui stati mentali, le istituzioni sociali, le teorie scientifiche, la moralità e infine lo stesso linguaggio,

se non attraverso metafore che si radicano nella dimensione sensomotoria della corporeità.

6. Vincoli sulla metaforicità

Abbiamo visto che, dati due domini, ci possono essere più mappe in contrasto. Bisogna

aggiungere che due concetti in contrasto nel dominio sorgente possono annullare questo loro

contrasto nel trasferimento metaforico. Un caso del genere si verifica con

Il portiere è una roccia e nello stesso tempo una farfalla

ove il codominio (bersaglio) è quello delle persone, e più specificamente dei giocatori di una

squadra di calcio, e il dominio (sorgente) è prima quello degli oggetti nell’ambiente naturale e poi

quello degli animali. Naturalmente, quel che conta nel transfer sono le rispettive proprietà

selezionate: la solidità (delle rocce) e l’agilità (delle farfalle) diventano proprietà particolari del

portiere. Se assentiamo a questo enunciato, siamo tenuti ad assentire ai singoli enunciati Il

nostro portiere è una roccia e Il nostro portiere è una farfalla, dunque li consideriamo veri

entrambi, eppure siamo ben consapevoli che una roccia non è una farfalla. Com’è allora possibile

accettare la verità di entrambi gli enunciati? Qui, la localizzazione è cruciale: l’essere farfalla e

l’essere roccia sono riferiti alle funzioni di un portiere di una squadra di calcio e così fra le

proprietà delle farfalle e delle rocce si selezionano solo quelle pertinenti alle funzioni tipiche di un

portiere in una squadra di calcio. Per un portiere, l’essere una roccia è anzi strettamente connesso

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alla sua agilità-da-farfalla. Siamo di fronte a un caso di MERGING: le due metafore si fondono e

la fusione può anche essere esplicitamente rafforzata in modo retorico come in

Davanti alla porta della Fiorentina c’è una roccia con le ali di farfalla

Rossetti è una roccia alata

che potrebbero ben trovarsi nei quotidiani sportivi, i quali fanno sovrabbondante uso del

MERGING metaforico. Oltre che sensati, enunciati simili sono fra loro noncontraddittori

malgrado l’apparenza. Potranno essere espressioni più o meno riuscite, felici, suggestive, o

fastidiosamente enfatiche, ma ciò che qui conta è loro intelligibilità e la loro potenziale verità.

In effetti, quando si parla di metafore, spesso si commette l’errore di esaminare solo quelle

riuscite o quelle entrate nell’uso anche se poi ne sono uscite; invece sono importanti anche quelle

non riuscite. Il fatto che quelle non riuscite o mai entrate in uso non abbiano storia non significa

che siano assurde o che in futuro non possano avere maggior fortuna. L’uso comune non è

padrone della nostra immaginazione: ne è solo un prodotto. I margini di possibilità per le

metafore non stanno nell’uso comune bensì nella corporeità umana. Non ci sono metafore basate

sugli ultrasuoni perché non abbiamo idea che effetto faccia sentirli. Le piante, se ce ne fossero di

capaci di parlare, non avrebbero metafore basate sullo schema del cammino, perché stanno ferme

(o quasi), bensì – ipotizzo – basate su qualcosa di simile alla ramificazione, all’eventuale caduta

ciclica delle foglie o all’indurimento ligneo. Per dire che hanno capito qualcosa non userebbero

espressioni visive (Ho visto finalmente il punto della questione) perché sono prive di occhi.

Diciamo che una persona pronuncia parole dolci, o amare, perché sappiamo che cosa significa

dolce e amaro al gusto. Diciamo che un discorso è chiaro e il carattere di una persona è spigoloso

perché abbiamo capacità percettive corrispondenti a queste qualità.

Lo stesso avviene con la nostra sensibilità alla leggerezza (associata al volo delle farfalle) e

con la sensibilità a qualcosa di duro e stabile come una roccia. In più c’è la focalizzazione

selettiva, che dimentica molte proprietà e ne conserva solo alcune come pertinenti: nell’esempio

del portiere il MERGING è possibile perché fra le proprietà tipiche delle farfalle e delle rocce il

trasferimento metaforico conserva soltanto quelle pertinenti al bersaglio, escludendo dalla

considerazione le altre. Questa restrizione (parzialità) non è dunque un optional. Ne è una

conferma la nostra capacità di comprendere una fiaba come quella in cui un principe si trasforma

in un ranocchio: i bambini ai quali l’ho raccontata non hanno obiettato che se il principe è un

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ranocchio allora il principe non può più parlare ma solo gracidare. Semmai può succedere che un

bambino, vedendo un ranocchio il giorno dopo che gli è stata raccontata, chieda come mai non

parla. Nella Metamorfosi di Kafka il protagonista si sveglia e si ritrova trasformato in un insetto,

ma continua a parlare normalmente. Anche se si fosse trasformato in un sasso, la storia avrebbe

potuto andare avanti (in altro modo).

Sia nella fiaba sia nel racconto di Kafka, oltre alla parzialità necessaria del trasferimento, si

sfrutta uno specifico meccanismo della metafora: la PERSONIFICAZIONE (su cui trovate molti

esempi in Metafora e vita quotidiana). La poesia è ricca di esempi. Uno per tutti: “Là, presso le

allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo”, G. Pascoli, La mia sera, 11-12). Qui però interessa

notare l’uso di questo meccanismo quando descriviamo, senza alcun intento poetico, fatti della

vita quotidiana o della natura in senso lato.

Nei secoli passati, molte visioni del mondo, che oggi consideriamo mitiche o proprie di una

religiosità primitiva, hanno sfruttato ampiamente il meccanismo della PERSONIFICAZIONE

come parte di una descrizione letterale del mondo che inglobava un diffuso antropomorfismo

tanto nell’immagine della natura quanto nell’immagine di Dio. Al riguardo, la personificazione è

stata ed è ricorrente non solo nella cultura occidentale ma in ogni altra cultura, suggerendo che si

tratti di una strategia cognitiva privilegiata. Se la scienza è diversa dal mito e dalla religione, la

diversità non è dovuta all’assenza di metafore nella scienza, perché la scienza non è affatto esente

da metafore. Piuttosto, il discorso scientifico si è liberato dalla PERSONIFICAZIONE dei

fenomeni naturali, singolarmente presi o nel loro complesso come Natura, mettendone in luce la

problematicità.

C’è anche un altro meccanismo metaforico, ancor più generale, ovvero

l’OGGETTIFICAZIONE, con cui si tratta qualunque azione, proprietà, o costrutto concettuale

come un oggetto – un processo favorito da una risorsa grammaticale, ovvero, dalla possibilità di

sostantivare i verbi. Di nuovo, il discorso scientifico non è esente da questo meccanismo, ma la

differenza è che il discorso scientifico se ne serve in modi controllati sperimentalmente. Di

nuovo, il processo dell’OGGETTIFICAZIONE è, una strategia cognitiva della mente umana. Vi

facciamo ricorso ogniqualvolta una totalità è lessicalizzata come unità e a quest’unità competono

proprietà emergenti rispetto a quelle degli elementi della totalità:

Si è sciolto lo sciame di vespe.

È stata avvistata una flotta di navi.

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La nazione è compatta.

Allo stesso modo una complicata serie di azioni è lessicalizzata quale oggetto puntiforme:

L’assedio durò a lungo

La fuga è pronta

La partita sarà dura.

La semantica formale del Novecento ha fatto ampio uso della teoria degli insiemi; e la teoria

degli insiemi ha avuto il merito di tematizzare la struttura formale del processo di

OGGETTIFICAZIONE, senza il quale la stessa teoria non esisterebbe. Questo processo è

tematizzato anche dalla teoria delle categorie e in un modo più aderente alla dinamicità propria

di un processo. Le critiche che si possono muovere alla teoria degli insiemi in quanto inadeguata

a esprimere i processi in cui si costituisce il significato non autorizzano dunque a concludere che

nessuna semantica formale è o sarà mai in grado di analizzare le metafore.

Quel che dovrebbe stupirci è che anche di fronte alla più ardita delle metafore, non la

respingiamo come insensata. Adottiamo piuttosto un implicito principio di benevolenza e siamo

portati a supporre che “dietro di essa” ci sia un giustificato motivo che la legittima. Una tale

benevolenza presuppone che si capisca già per conto suo il termine (o l’insieme dei termini) che

usiamo in modo metaforico26. La benevolenza diminuisce fino ad annullarsi nel momento in cui i

due termini x e y di una metafora, collegati in “x è un y”, sono entrambi appartenenti a uno stesso

dominio. Di fronte a enunciati come

Quella foglia è un fiore

Quel cane è un cavallo

Il nostro portiere è un fallo laterale

Il nuovo tavolo è una sedia

siamo molto meno facilitati a concedere una loro sensatezza metaforica, il che suggerisce un

vincolo: SOURCE e TARGET di una metafora sono di norma distinti. Qui sono opportune

due considerazioni. 26 Anche a questo proposito, non vi sarà difficile cogliere la diversità tra la tesi appena espressa e la posizionesostenuta da Lakoff e Johnson in Metafora e vita quotidiana.

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La prima è che si possono anche accettare alcuni di questi enunciati – quel cane è così grosso

e così veloce che sembra un cavallo – ma ciò non toglie che siano meno efficaci di quanto

sarebbero se usassimo un termine riferentesi a un dominio D’ ben distinto dal dominio D cui

appartiene il soggetto dell’enunciato (Quel cane è un missile); normalmente, quando i due

termini x e y rientrano nello stesso dominio, non c’è bisogno di ricorrere a metafore (Quella foglia

ha la forma di un fiore).

La seconda è che, se passiamo da una chiave pubblica a una nascosta, ci avviciniamo a un

processo simbolico che è ampiamente presente sia nella magia sia nelle religioni: è il processo che

attribuisce a un oggetto il valore/potere di un altro oggetto, e allora si può scorgere in una

particolare mappa da D a D una straordinaria efficacia, anche se il trasferimento è mediato da

dottrine che non appartengono più all’esperienza quotidiana condivisa e consapevole. Qui però

entriamo in un terreno – l’impiego peculiare delle metafore nel lessico magico e religioso – che

esula dallo scopo di queste riflessioni.

C’è un motivo in questa diversità di atteggiamenti verso le mappe tra domini distinti e le

mappe da un dominio in sé stesso? È ragionevole supporre che ci sia, ma non è facile

individuarlo. Un motivo potrebbe consistere nel fatto che se x e y sono entrambi in D, ci saranno

delle proprietà/relazioni R, R’, …, tra x e y – proprietà/relazioni che specificano funzione e forma

di x e y in D. Quando s’identifica metaforicamente x con y non è affatto chiaro quali di queste

proprietà R, R’, …, abbiano una funzione letterale e quali una funzione traslata, essendo in gioco

lo stesso tipo di proprietà.

Dicendo Paolo ha raggiunto la vetta della sua azienda o La BNL ha iniziato la scalata al

Credito Emiliano, è nitida la separazione tra il dominio sorgente (alpinismo) e quello di

destinazione (potere economico) e così è chiaro quali proprietà sono ‘trasferite’ e quali sono

‘residenti’, ma se devo descrivere un evento relativo a un’ascensione alpinistica con una metafora

relativa allo stesso dominio, ciò non è più chiaro. Anzi, il carattere di metafora potrebbe non

essere più rilevabile, derivandone un’affettazione indebita o al più un sofisticato gioco di parole:

La scalata al K2 ha raggiunto la vetta raggiungendo la vetta

suona come un’inutile, leziosa, ridondanza. Analogamente, Mi sono tuffato nel lavoro presenta

due domini ben distinti ed è percepita come del tutto standard, mentre

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Mi sono rituffato nei tuffi

detto da un tuffatore che ha ripreso dopo una lunga pausa gli allenamenti, diventa al più un gioco

di parole. Analogamente,

Ho fatto centro

detto da un finanziere che ha acquisito per pochi soldi un’impresa il cui valore è cresciuto

rapidamente, ha un evidente significato metaforico (TIRO AL BERSAGLIO --> OPERAZIONI

FINANZIARIE); detto invece da un tiratore con l’arco a proposito di un suo tiro non conserva più

nulla di direttamente metaforico. Se vuole significare Ho fatto centro [metaforico] nel fare centro

[letterale], è espressione di sottile umorismo metalinguistico ma è un umorismo per via indiretta,

a chiave e suona decisamente artificioso.

7. Tema e variazioni in semantica

Abbiamo notato più volte che le metafore non sono d’uso frequente a causa delle numerose

espressioni idiomatiche in cui si fossilizzano e che non sono d’interesse epistemologico soltanto

perché costituiscono l’elemento propulsore di modelli scientifici nelle più diverse aree. Le

metafore sono d’uso frequente e sono d’interesse filosofico perché corrispondono a una struttura

del pensiero.

Pur non approfondendo gli aspetti della percezione e del pensiero indagati dalla psicologia

della gestalt, il testo di Lakoff e Johnson fa cenno alla funzione generativa, sul piano semantico,

delle gestalt percettive. È un buon esercizio aprire un giornale, prendere in esame un articolo a

caso e rintracciare tutte le metafore inerenti alla spazialità che vi sono contenute. Lo stesso

esercizio si può fare con qualunque altro testo, indipendentemente dall’argomento specifico

trattato e dal suo carattere scientifico o non scientifico. Quest’esercizio serve anche ad acquisire

consapevolezza del fatto che gran parte degli enunciati usualmente presi per letterali sono

metaforici. Come semplici utenti del linguaggio, non ce ne rendiamo conto, a riprova della

naturalità del processo in gioco.

Al riguardo c’è da aggiungere che le metafore pervadono la stessa descrizione della sintassi

con schemi di concettualizzazione che sono direttamente riconducibili all’intelligenza spaziale e

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alla corporeità: basti pensare ai casi e alle pre-posizioni. Non è per pura combinazione che i casi

del latino e del tedesco siano proprio quelli né è per pura combinazione che le preposizioni in

lingue come l’italiano e l’inglese siano proprio quelle: corrispondono a un ristretto numero di

forme/gestalt del rapporto posizionale fra soggetto e oggetto, osservatore e osservato, agente e

agito. Così pure gli schemi di base impiegati nelle forme verbali, ancor più che in quelle

nominali, della metafora rimandano a un numero ristretto di gestalt ricorrenti in tutta la gamma

delle metafore.

Sarebbe, del resto, un errore credere che gli schemi-base del processo metaforico stiano nei

nomi. La sistematicità degli schemi non è veicolata da sostantivi e aggettivi usati

metaforicamente, che restano un elemento secondario – secondario rispetto alle gestalt

posizionali che si esprimono in forma di verbi e, appunto, pre-posizioni. È infatti nelle forme

preposizionali (e/o di caso) e nei verbi che prende corpo la struttura relazionale degli enunciati.

Questa struttura ha la sua diretta radice nell’organizzazione cognitiva della spazialità, centrata

intorno a un ristretto numero di gestalt:

— essere in o fuori da (SCHEMA DEL CONTENITORE)

— andare da … a … (SCHEMA DEL CAMMINO)

— stare sopra o sotto (SCHEMA DELLA VERTICALITÀ)

— avere il ruolo dell’agente/agìto o il ruolo dello strumento dell’azione (S C H E M A

DELL’AZIONE)

— ...

Abita qui la metaforicità profonda del linguaggio umano. Il pattern che si esprime in

Sono passata da Lettere a Psicologia

sta tutto nel da … a … Che gli slot <…> siano riempiti da Lettere e Psicologia facendo sì che due

facoltà universitarie diventino POSIZIONI lungo un percorso, è conseguenza automatica dello

SCHEMA DEL CAMMINO.

Il riconoscimento del ruolo decisivo che la spazialità ha nelle metafore, a partire dalla

struttura pre-posizionale per finire con quella pro-posizionale, si deve a molti studiosi che dagli

anni settanta in poi hanno dedicato attenzione alle gestalt semantiche: linguisti come Charles

Fillmore (che ha impostò una nuova “grammatica dei casi”) e Jeffrey Gruber (strutture posizionali

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come sorgente universale di pattern di stato e transizione di stato), matematici come René Thom

(struttura soggetto-predicato come dinamica preda-predatore), informatici come Marvin Minsky

(struttura a frame), e Roger Schank (struttura a script), nonché numerosi psicologi cognitivi che

hanno indagato gli schemi narrativi e il loro nesso con la memoria, a partire da Frederick

Bartlett.

Il fatto che tanto diversi contributi potessero convergere verso una particolare teoria della

metafora non era per niente ovvio. A un primo sguardo, era infatti più facile cogliere differenze

anche molto marcate di prospettiva e di metodo. Benché tutti quanti questi contributi fossero

accomunati dal fatto di opporsi all’analisi logico-matematica standard e alla tradizionale

formulazione della grammatica che sanciva una netta distinzione tra sintassi e semantica, questi

modi di impostare la semantica erano in contrasto reciproco per vari motivi. La convergenza,

invece, si manifestava per quanto riguarda il primato assegnato in tutti i casi a gestalt spaziali.

La prospettiva sviluppata da Lakoff e Johnson sviluppa alcuni aspetti della convergenza fra

queste diverse linee teoriche. Il quadro teorico che ho presentato nel 1995 sviluppa altri aspetti e

li sviluppa senza porsi in antitesi a ogni impostazione logico-matematica della semantica; inoltre,

delinea un modo per recuperare gli stessi schemi logici a partire da schemi-base della spazialità27,

sfruttando le risorse della teoria delle categorie. Ne risulta una prospettiva che si distingue da

quella di Lakoff e Johnson su più punti.

Non è il caso qui di approfondire, anche per evitare che le differenze risultanti mettano in

secondo piano la condivisione della tesi di fondo, avanzata con efficacia da Lakoff e Johnson,

ovverosia la tesi che si articola nei punti seguenti: il processo metaforico è una risorsa

fondamentale della cognizione umana; l’ubiquità dei relativi schemi è spia di quanto il pensiero

sia radicato nella corporeità; c’è un ristretto numero di schemi-base grazie ai quali

l’organizzazione gestaltica della spazialità si trasferisce a ogni dominio cognitivo.

Si è trattato di una grande scoperta, che non deve essere oscurata dalla rivendicazione di

questa o quella differenza. Nondimeno, a partire da una stessa tesi di fondo non si arriva per

forza alle stesse conclusioni: si possono sviluppare teorie fra loro diverse e in particolare si può

pensare a una teoria che spieghi i vari aspetti della metafora all’interno di una cornice accurata

27 La mia prima comunicazione in tal senso risale al 10° Congresso dell’associazione internazionale LogicMethodology and Philosophy of Science nel 1995, cfr. “Geometric Roots of Semantics I: From a LogicalPoint of View”, in Logic, Methodology and Philosophy of Science X, abstracts, Università di Firenze, Firenze1995, p. 165. Un’esposizione più ampia del quadro teorico proposto si trova in “The Geometric Roots ofSemantics”, che costituisce uno dei capitoli di Meaning and Cognition, John Benjamins, Amsterdam, 2000,pp. 169-201.

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anche sotto il profilo della sua presentazione in termini formali (logico-matematici). Che come

ogni altra teoria (se la tesi di fondo è corretta) anche una teoria delle metafore sfrutti uno o più

modelli metaforici non rende di per sé impossibile il compito esplicativo. D’altra parte, nel

momento stesso in cui si accetta la tesi di fondo, la teoria della metafora si colloca con pieno

diritto nelle scienze cognitive e allora non ci si può più limitare a una tassonomia delle metafore o

a formulare vaghe dottrine filosofiche circa la natura della metafora e i suoi molteplici aspetti

linguistici.

A tale proposito ci sono due quesiti da affrontare. Il primo è: ma siamo sicuri che una

spiegazione scientifica non possa fare a meno di incorporare metafore? Qualcuno potrebbe dire

che non è così, osservando che la spiegazione è una struttura inferenziale (logica) e come tale

ammette una integrale formalizzazione: in fin dei conti, una spiegazione è una successione finita

di enunciati; e sotto questo profilo non importa che si componga di leggi e condizioni specifiche

in base alle quali dedurre ciò che si vuol spiegare, o che consista nell’indicazione delle cause che

portano a ciò che si vuol spiegare. Ma questo è un discorso che, semmai, serve a definire cos’è

una generica spiegazione, mentre non serva a identificare nessuna spiegazione dotata di un

contenuto conoscitivo specifico.

Come si considera il contenuto, entra in gioco il significato degli enunciati; e come si

considera il significato, entrano in gioco le metafore e i relativi schemi, presenti tanto nella teoria

quanto nel modello che adottiamo per rappresentare un dato universo di discorso (ambito di

fenomeni), e altre metafore sono presenti nel modo di impostare la formalizzazione delle leggi,

delle condizioni o delle cause che adduciamo come spiegazione. Per spiegare qualcosa occorre

una previa comprensione dei concetti teorici, del modello e degli strumenti formali adoperati;

questa comprensione si serve di una specifica selezione di schemi metaforici. Solo così si avvia

una proiezione di struttura da un dominio-modello a un altro (quello che include il fenomeno da

spiegare). In questa proiezione è implicita una metafora-guida con valore sistematico, che viene

trasferita e diffusa.

Ed ecco il secondo quesito: dalla risposta data al primo quesito deriva una minaccia al rigore

scientifico? Se è così, non c’è più la differenza sbandierata tra un’analisi cognitiva della metafora e

la tradizionale analisi in ambito grammaticale e letterario. Ma è così? Come ho accennato poco

fa, il ricorso a un linguaggio metaforico non impedisce di elaborare una teoria che si possa

legittimamente dire “scientifica”. Quel che conta è ancora una volta la possibilità di precisare il

carattere sistematico della metafora usata come guida teorica, la possibilità di giustificare il suo

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impiego e la possibilità di controllarne empiricamente l’efficacia. La stessa matematica è ricca di

suggestive metafore, precisate con sempre maggior rigore. L’accesso alla comprensione di una

teoria fisica passa per la comprensione di numerose espressioni tratte dal linguaggio comune che

vengono “regimentate”, sì, ma nella “regimentazione” entra sempre in gioco il complesso di

schemi-base ancorato all’esperienza dei corpi e delle loro proprietà macrofisiche.

Vi sto semplicemente dicendo che, come la libertà di scegliere un’unità arbitraria di misura

per le distanze (per esempio, in centimetri o in pollici) non rende arbitrari i risultati delle misure,

così la presenza di metafore non impedisce il controllo logico sulle inferenze e in particolare sulle

spiegazioni. Quel che vi sto dicendo non è unanimemente condiviso. Chi non lo condivide è

portato a sostenere che non esiste il “letterale” e quindi il linguaggio non è altro che un’enorme

massa di metafore, le quali si rimandano vicendevolmente l’una all’altra. Al che replico

adducendo motivi di principio e di fatto. I motivi di principio seguono la trafila delle classiche

repliche alle dottrine scettiche e non starò a ripeterle (se tutto è metafora, la stessa nozione di

metafora non ha più senso). I motivi di fatto richiamano l’attenzione su ingredienti basilari

dell’architettura linguistico-cognitiva, che non sono interpretabili come metafore.

Considerate l’asserzione di un enunciato come

Questa pallina è sgonfia

fatta puntando il dito verso un oggetto sferico afferrabile con una mano, o di un enunciato come

La busta gialla è nel cassetto in alto a destra

fatta in un ambiente opportuno (non al buio, in presenza di una cassettiera, ecc.).

Chi asserisce il primo enunciato si riferisce a una pallina come questa. I dimostrativi (questo,

codesto, quello) non sono metaforici, così come non lo sono le attribuzioni di posizione, forma

(sferica di una pallina), colore (di una busta), direzione (in alto/in basso, destra/sinistra), caratteri

rivelabili alla pressione (gonfia/sgonfia). Se ciononostante i due enunciati fossero metaforici, la

metafora in cosa mai risiederebbe? Nella descrizione di un oggetto sferico come pallina? Di un

altro come busta? Di un altro ancora come cassetto? Ma qui non è rilevabile alcun trasferimento

concettuale da un dominio a un altro: la descrizione di qualcosa mediante un concetto (come

pallina, busta o cassetto) non è una metafora.

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Ciò che dà senso a questi semplici enunciati è l’esercizio di una capacità di

individuazione/localizzazione di particolari configurazioni spaziali (visive e tattili) nell’ambiente e

di una capacità di ricondurre quanto individuato a pattern cognitivi di oggetto, di qualità

saliente e di orientamento (pallina, busta, cassetto, gonfio/sgonfio, alto/basso, destra/sinistra).

La formazione di una classe d’equivalenza tra diverse potenziali presentazioni di un oggetto sotto

un aspetto e poi sotto un altro non è metaforica: non lo è il riconoscimento di una pallina da

diverse angolazioni, così come non lo è il riconoscimento dell’esser gonfio o sgonfio ecc.

Quando un bambino apprende il significato di palla, mette all’opera queste risorse cognitive,

ma non può ancora trasferire significato da un dominio a un altro perché il significato di palla (da

cui pallina, pallino, pallone, pallottola) non si è ancora costituito stabilmente in relazione all’unico

dominio accessibile e tanto meno si è costituito il significato di termini relativi a domini verso cui

trasferire il significato di palla (e relative varianti).

La comprensione di enunciati metaforici come

Sei una palla al piede

comporta il ricorso a capacità necessariamente presupposte dalla metafora: scansione della scena

visiva, mappa delle posizioni, mappa del proprio corpo rispetto a un oggetto, ecc. Il

riconoscimento degli oggetti, come configurazioni 3D stabili rispetto alla variazione prospettica

nel corso del movimento, presuppone una proiezione, che assimila un insieme di presentazioni

come aspetti di uno stesso oggetto, cosìcchè l’ambiente non è un molteplice indistinto, un mero

insieme X di particolari, ma un insieme di classi di equivalenza. Sono queste classi a essere

rappresentate nel linguaggio con sostantivi; la stessa cosa fanno i verbi per classi di presentazioni

di processi (un verbo è il nome per un tipo di azione/stato).

Una rappresentazione del genere, che ripartisce dati in classi, non è una metafora. Ciò non

vale soltanto per enunciati che attribuiscono una proprietà percettivamente riconoscibile

(sgonfia, gialla) a un oggetto dato in presenza. E nel caso di enunciati come Aldo è italiano?

Quando si attribuisce a ogni persona la sua nazionalità, si esegue una ulteriore partizione, che

corrisponde a una mappa dall’insieme P delle persone all’insieme N delle nazioni, e la mappa

associa a ogni persona la sua nazione di appartenenza (supponiamo che la mappa non sia

parziale, cioè, che non ci siano apolidi e che sia proprio una funzione, cioè, che ogni persona

abbia una sola nazionalità). Si ricorre allo SCHEMA DEL CAMMINO dicendo che la mappa va da

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… a - - -, ma ciascun esemplare localizzato in … o - - - è dato in modo a se stante. Il fatto di essere

considerato cittadino italiano non è definibile in termini direttamente accessibili ai sensi, ma la

lingua che si parla e i luoghi intorno ai quali si traccia un confine di stato lo sono. Se mai nel

nostro continuo classificare ci fosse ricorso a uno schema metaforico aggiuntivo, l’unico

candidato sarebbe lo SCHEMA DEL CONTENITORE, ma la classificazione in realtà non lo

richiede, perché nel caso in esame la si può intendere come una mappa da P a N che suddivide

(“quozienta”) l’insieme delle persone in classi (di connazionali) e lo stesso si può ripetere in ogni

altro caso. Ma anche facendo ricorso a uno schema, come quello del CAMMINO o quello del

CONTENITORE, alla fine ci fermiamo a dei cammini e a dei contenitori letteralmente intesi.

P N

Le ultime osservazioni non sono del tutto ovvie, specialmente se addotte come replica a chi

sostenga che “è impossibile dare una spiegazione immune da metafore della metafora”. Una volta

ammesso che ogni discorso astratto, teorico, scientifico, filosofico, sia inevitabilmente carico di

metafore, tale ammissione si concilia o no con l’ammissione che ci sono costruzioni cognitive non

metaforiche? Le due ammissioni si conciliano perfettamente se la stessa comprensione del

discorso astratto, teorico … è ricondotta a un insieme di schemi metaforici basici, i quali sfruttano

strutture gestaltiche direttamente legate alla corporeità e letteralmente espresse nel linguaggio.

In questo modo si evita il circolo vizioso globale in cui cade chi pensa che “tutto è metaforico”.

Chi sostiene che la metafora è onnipervasiva, pensa che quel che ci sembra letterale sia solo

una distesa di fossili metaforici di cui non siamo consci, e ne conclude che siamo di fronte a una

enorme rete, “il circolo della semiosi”, o “il circolo ermeneutico”, che si autosostiene come un

trottola. Chi pensa questo (ispirandosi allo strutturalismo) dimentica ciò che le ultime

osservazioni su Questa pallina è sgonfia e Aldo è italiano volevano ricordare. Ovvero, dimentica

che gli schemi di base hanno bisogno di una serie di risorse percettive, cinestesiche e cognitive

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che devono già esserci per instaurare una qualsiasi metafora. La rete di significati ha bisogno di

uno starter esterno e questo starter è pre-linguistico28. Nel linguaggio non tutto è metaforico,

semplicemente perché la fisiologia umana è quello che è.

L’organizzazione primaria di tutte le nostre informazioni su ciò che ci circonda è iscritta nel

nostro metware biologico che non è né hardware né software. Questa organizzazione si

sedimenta in schemi d’oggetto e d’azione che sono espressi linguisticamente e si combinano

dando luogo alla BASE letterale di ogni significato possibile-per-noi. Chiunque si ricordi della

lezione di Kant capirà subito che ammettere una simile base non vuol dire ammettere che la

realtà in se stessa è proprio così. La realtà empirica è fenomenica: è quel che diciamo che è

perché così si manifesta ai nostri sensi. Kant avrà fatto tutti gli sbagli che volete ma questa

lezione è valida ancora oggi. Il realismo non più limitato ai fenomeni ma metafisico, sia nella

forma ingenua che beviamo col latte materno sia nella versione sofisticata che lo ripropone in

termini di “verità scientifica”, è indicato da Lakoff e Johnson come “oggettivismo”

(sovraccaricandolo di caratteri).

Riconoscere l’esistenza di una BASE letterale del linguaggio, per quanto limitata alla

categorizzazione primaria di esperienze sensibili con oggetti e azioni, implica davvero un

impegno filosofico a favore dell’oggettivismo? In maniera più specifica, implica l’obbligo di

sottoscrivere una semantica insiemistica (come se non ci fosse altro modo di analizzare il

significato di La palla è sgonfia se non dicendo che all’insieme delle cose sgonfie appartiene

l’entità individuale cui la palla si riferisce)?

Entrambe queste implicazioni sono dubbie, quanto meno. Due semplici considerazioni al

riguardo: 1) se non esistesse una BASE direttamente accessibile, l’affermazione che le metafore si

radicano nella corporeità avrebbe scarso rilievo, perché anche la corporeità sarebbe qualcosa di

identificato metaforicamente; 2) invece della teoria degli insiemi, possiamo usare la teoria delle

categorie per impostare formalmente la semantica e mettere in risalto il carattere procedurale

dell’identificazione di qualcosa come esemplare di un concetto. Si può ammettere l’esistenza di

una BASE letterale e negare sia l’oggettivismo (come lo definiscono Lakoff e Johnson) sia la

necessità di impiegare una semantica insiemistica.

Il fatto che l’oggettivismo sia tipicamente espresso mediante metafore, come quella della

conoscenza quale “specchio della natura”, svaluta automaticamente ogni forma di realismo? Lo

28 Husserl avrebbe parlato di “precategoriale” a proposito di un simile starter. I processi gestaltici possonoinvece essere considerati come “protocategoriali”, nell’idea che le categorie-base emergano direttamente da taliprocessi.

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rende automaticamente non-esplicativo? Se fosse così, sarebbe un boomerang anche per le idee

di Lakoff e Johnson: la corporeità diventerebbe una costruzione sociale. Ma chi o cosa avrebbe

eseguito (letteralmente) questa costruzione se i nostri corpi e le nostre menti non sono reali? Se il

nostro stesso corpo è per intero una costruzione culturale allora, dato che anche la teoria di

Lakoff e Johnson si serve di metafore, la loro teoria non avrebbe alcun potere esplicativo essendo

condannata a essere circolare perché una concezione anti-oggettivistica è guidata da metafore al

pari di una concezione oggettivistica. Ma, anche se si trattasse unicamente di comprendere da

quali metafore è preferibile lasciarsi guidare, tale comprensione presupporrebbe pur sempre una

serie di risorse naturali.

Dopotutto, gli stessi Lakoff e Johnson si preoccupano di evitare un regresso all’infinito nel

processo metaforico e segnalano l’esigenza di radicare gli schemi cognitivi, che di per sé non sono

metaforici, nell’esperienza, tanto che parlano di concezione “esperienziale” della semantica. Una

concezione del genere, più ancora che alla lezione di Kant, rimanda alla lezione di Husserl:

infatti, le intuizioni di tipo gestaltico di cui parla la fenomenologia husserliana hanno uno status

alquanto diverso dai concetti puri dell’intelletto (le categorie) che secondo Kant plasmerebbero

ogni nostra esperienza. Se vogliamo radicare il pensiero nella corporeità, tanto spaziale quanto

temporale, è dunque la concezione fenomenologia che entra in gioco.

Le nostre esperienze basilari rientrano in quello che Husserl chiamava il “mondo-della-vita”

(Lebenswelt). Anzi, lo studio delle metafore, intese come rivelatrici di schemi radicati nella

corporeità, è il principale contributo che sia stato dato, da quando Husserl introdusse il concetto

di mondo-della-vita, alla fenomenologia. Quest’affermazione perentoria potrà sembrare esagerata

a molti filosofi, ma la maggior parte degli studi fenomenologici si è trasformata in una scolastica

chiusa in se stessa, mentre l’orizzonte aperto alla semantica dallo studio della metafora come

struttura del pensiero permette di dare uno sviluppo fecondo a quanto Husserl aveva

prefigurato29. Il punto è, semmai, che Lakoff e Johnson giudicano troppo esiguo e destrutturato

il grappolo di concetti non metaforici reperibili nella BASE esperienziale, e pertanto lo

ritengono inadeguato a formare una piattaforma di controllo per l’intera gamma di metafore-

guida.

Ma c’è davvero questa esiguità? L’ipotesi che non ci sia e che, invece, la BASE sia

estremamente ricca di struttura porta a considerare la varietà degli schemi metaforici come

29 In Noema (Franco Angeli, Milano 1988) ho ricostruito le linee di fondo del progetto husserliano dellafenomenologia, messe a confronto con la tradizione della filosofia analitica: se la ricostruzione è corretta,l’affermazione precedente non dovrebbe apparire più “esagerata”.

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ancorati a una corporeità … “corposa” umana, fermo restando che il carattere schematico delle

proiezioni concettuali a partire da questa base si presta ai più diversi riempimenti, alle più diverse

combinazioni e alle più diverse gerarchie (una cultura può attivare e privilegiare una

combinazione di schemi, un’altra cultura può attivare e privilegiare un’altra combinazione).

L’ipotesi fa per la semantica quello che l’ipotesi chomskiana dei principi e parametri fa per la

sintassi dei linguaggi naturali: in entrambi i casi si individua un bagaglio universale,

biologicamente fissato, di risorse che sono … quello che sono, benché sia difficile dire se e quanto

gli schemi metaforici subiscano un processo di irrigidimento pari a quello che si ha nel campo

della sintassi o se conservino una inesauribile plasticità.

All’ipotesi che attribuisce alla base corporea un ricco insieme di strutture autonome dai

concetti, se ne può aggiungere un’altra, ovvero, l’ipotesi che la nostra stessa capacità inferenziale

(logica) sia il risultato di un processo di SOLLEVAMENTO, o LIFTING, di significato a

partire dalla BASE di schemi, come ulteriore indicazione della potenza delle risorse inerenti alla

spazialità, permettendoci di ragionare su argomenti apparentemente lontanissimi dalle nostre

dirette esperienze corporee. In alcuni lavori ho descritto questo sollevamento in termini della

teoria delle categorie30.

Qui non mi propongo di entrare nei dettagli di una simile linea teorica. Per intenderne i

caratteri (e i vantaggi), gli argomenti forniti fin qui sono insufficienti. Mi basta aver segnalato che

tra i possibili sviluppi della cornice generale esposta in Metafora e vita quotidiana ce n’è uno che

assume l’onere di replicare alle obiezioni, alcune delle quali già presenti nello stesso testo, contro

l’oggettività, e perfino contro la stessa possibilità, di una teoria generale, formalmente precisata,

della nostra competenza semantica. È proprio un’obiezione contro la possibilità di qualsiasi

teoria simile che ora vorrei esaminare, perché a differenza delle obiezioni considerate sopra e di

quelle già discusse nel §2, la considero decisiva. Se fosse valida, le ipotesi su menzionate

sarebbero pie illusioni.

Ecco, in breve, come si può esprimere l’obiezione: qualunque teoria intenda dar conto delle

metafore come espressioni di una struttura concettuale che accomuna un dominio a un altro si

scontra con due dati.

30 Cfr. “Il lifting categoriale dalla topologia alla logica”, Annali del Dipartimento di Filosofia, 11, 2005, pp. 51-78. Il lifting in questione è, sì, un caso di trasferimento metaforico, ma è focalizzato su una topologia noninsiemistica ed evita di privilegiare una particolare logica.

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(1) ll primo dato è che ciascuno degli elementi comuni fra domini distinti deve essere descrivibile in

un linguaggio non-metaforico.

(2) Il secondo dato è che l’esistenza di elementi comuni presuppone che entrambi i domini siano già

costituiti autonomamente.

In altre parole, (ad 1) perché non ci sia regresso all’infinito, la descrizione della struttura comune che

soggiace a una metafora deve non essere metaforica, e (ad 2) perché abbia senso riscontrare la

presenza di una stessa struttura (per quanto parziale, localizzata, parametrica) in domini distinti,

bisogna che entrambi i domini siano già dati prima dell’introduzione di metafore dall’uno all’altro.

Ma gli elementi comuni sono astratti, quindi metaforici, e ciò che le metafore fanno è proprio

strutturare un dominio D’ in termini di un altro D per consentirci una comprensione di D’, il che

non avrebbe ragion d’essere se già comprendessimo D’.

Sembra dunque che non ci sia via di scampo, ma fermiamoci un attimo a riflettere sui due “dati”,

(1) e (2), che portano a tale conclusione.

Quanto a (1), si può replicare che anche il riconoscimento di similarità strutturali è radicato nel

funzionamento biologico del nostro corpo. Un bambino di pochi mesi si accorge che, per far passare

un lungo oggetto cilindrico tra le aste del box deve allinearlo alle aste invece di impugnarlo

orizzontalmente. Nel momento in cui diventa consapevole che, ripetendo l’azione, avrà nuovamente

successo, il bambino ha eseguito un riconoscimento di similarità strutturale tra la forma dell’oggetto

e la forma dello spazio vuoto che c’è fra asta e asta. Ha fatto un’astrazione? Ha usato una metafora?

Molto semplicemente, il bambino pensa in termini concreti azioni concrete su oggetti manipolabili e

controlla con la sua intelligenza visiva i risultati delle manipolazioni.

Quanto a (2), basti considerare l’esempio ormai canonico: La vita è un viaggio. Per chi muove

l’obiezione, questa metafora non è un ponte fra due domini autonomi, due isole semantiche ciascuna

definita e identificabile per proprio conto, bensì un processo di conferimento di significato al

concetto di vita, che sfrutta la struttura del viaggio. Se non sono già presenti altri pattern per

intendere la vita, dobbiamo concluderne che è soltanto a partire dal momento in cui pensiamo la vita

come viaggio che cominciamo a pensarla/intenderne il senso/capirla/. Cioè: cominciamo a farci

un’idea della vita nel momento in cui la descriviamo come viaggio. Se la metafora fosse un’altra, La

vita è una guerra, La vita è una macchina, …, il senso del discorso non cambierebbe.

La vita, come tale, è forse percepibile? Non c’è dubbio che ogni discorso su qualcosa di non

identificabile mediante i nostri sistemi percettivi nello spazio circostante sia mediato dalla

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trasposizione di schemi gestaltico-cinestetici, fra i quali spicca lo SCHEMA DEL CAMMINO (Sono

uscito dalla terapia, Sono finalmente entrato nel problema). Né ci sono dubbi sul fatto che la vita

non rientra fra gli oggetti a portata di mano come le palline e i cassetti, e neppure ci sono dubbi che

le proprietà attribuibili alla vita siano espresse facendo riferimento a proprietà relative a oggetti alla

mano (che manipoliamo, vediamo, consumiamo) e a esperienze soggettive correlate, che

esprimiamo dicendo che qualcuno ha avuto una vita lunga o corta, piena o vuota, luminosa od

oscura, profonda o superficiale, intensa o piatta. Il punto è che, quando ci esprimiamo in uno di

questi modi, presupponiamo già di sapere, per quanto vagamente, a che cosa ci riferiamo col

termine “vita”, prima di dire che è lunga o corta, ecc. Sarà una nozione in cui si accumulano in

maniera informe molte esperienze concrete, ma una qualche idea concreta di queste esperienze

dobbiamo già avercela. Può essere un’idea poco definita, ma poco definita è anche la nozione di

amore quando dico che L’amore è un viaggio, eppure nessuno confonde la vita con l’amore – e non

solo perché la vita è un viaggio con caratteristiche diverse da quelle del viaggio dell’amore.

Se non fosse così, le metafore sarebbero, magicamente e miracolosamente, creatrici di

significato in un dominio semantico che altrimenti ne sarebbe totalmente privo. Ora, c’è ragione di

ammettere miracoli in semantica? Se quel che vogliamo dare della metafora è una spiegazione che

abbia un qualche titolo di scientificità, l’appello a qualcosa di magico o di miracoloso non può

rientrare nel compito. Siccome le metafore sono un prodotto umano e non sembrano richiedere

interventi divini, l’idea che siano creatrici di significato equivale ad ammettere miracoli fatti

direttamente dagli esseri umani. Il significato non si crea dal nulla: trae origine dall’esperienza

corporea e non c’è un modo unico per accedere al significato.

Quel che ho appena detto dovrebbe essere condiviso da chi muove l’obiezione. Infatti, se la

creazione fosse totalmente libera, sarebbe arbitraria; ma se fosse arbitraria e prima della creazione

non ci fosse alcunché di dotato di significato, come faremmo a capirla? A cosa servirebbe dire che la

radice delle metafore sta nella corporeità se poi la corporeità non induce alcun vincolo su quel che

possiamo riconoscere come dotato di significato? E se la creazione di significato non fosse

totalmente libera, allora ci dovrebbe pur essere qualcosa che non la rende tale. A non renderla

totalmente libera c’è la struttura degli schemi concettuali e a non rendere totalmente liberi gli schemi

concettuali è il loro legame con la corporeità. Creare significati arbitrari è tuttalpiù un gioco, fatto

con i simboli. Ma come si fa a capire un gioco simbolico? Anche i giochi hanno bisogno di essere

interpretati, perché non sono interpretazioni di se stessi.

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Anche su tutto questo è perciò legittimo supporre che ci sia accordo con chi muove l’obiezione

basata su (1) e (2). Dunque, chi muove l’obiezione non può intendere altro che: il significato è

proiettato dal dominio dell’esperienza corporea in domini che di per sé non avrebbero alcuna

struttura semantica. Certo, possiamo selezionare quale trasferire e quale no, quale comporre con un

altro o no, ma se in un dominio cognitivo non c’è alcun significato e poi c’è grazie a una metafora, la

cosa non equivale forse a una creazione?

Torniamo alla mappa che associa a ogni persona in P la nazione N di cui possiede la

cittadinanza. Potremmo anche non supporre che l’insieme N delle nazioni fosse dato. Per esempio,

potremmo partire da P e definire tra le persone la relazione di avere la stessa cittadinanza ricavando

da questa relazione l’insieme delle nazioni. Come? Innanzitutto, si tratta di una relazione

d’equivalenza perché è riflessiva (x ha la stessa cittadinanza di x), simmetrica (se x ha la s. c. di y,

allora y ha la s. c. di x) e transitiva (se x ha la s. c. di y e y ha la s. c. di z, allora …). In questo modo, per

ciascuna persona x resta fissato l’insieme delle persone che hanno la stessa sua cittadinanza.

Formiamo allora la classe di equivalenza di x e la chiamiamo “la nazione di x”. L’insieme di tutte

queste classi d’equivalenza, al variare di x in P, è l’insieme N delle nazioni (come anticipato, non

sono ammessi apolidi e non sono ammessi cittadini di più di una nazione). Con ciò abbiamo definito

la mappa P → N cercata. Tuttavia, l’insieme N così costruito (e strutturato) si basa su una relazione

che dobbiamo già aver compreso, quella di “avere la stessa cittadinanza”, ed evidentemente non la

ricaviamo dalle percezioni (visive ecc.) relative a ciascuna delle persone, il cui insieme si presta a

tante altre relazioni d’equivalenza (avere la stessa fede religiosa, avere lo stesso colore dei capelli,

avere la stessa altezza, ecc.). Allora bisogna ammettere che c’era già un piccolo seme autonomo di

significato (quello che ci ha permesso di identificare N) e che dunque in N non tutto è una

proiezione creatrice di significato. Che cosa non lo è? Non lo è la capacità di individuare le proprietà

rilevanti della cittadinanza, per poi descriverle metaforicamente in un modo o in altro. Questo vuol

dire che siamo capaci di individuare, per altre vie, una qualche struttura laddove non ci doveva

essere che quella che costruita metaforicamente.

Quello appena fatto potrà sembrare un ragionamento di lana caprina, ma è utile per rispondere

all’obiezione ed è anche più semplice di quel che appare. Il ragionamento non intende esser valido

solo per la cittadinanza: intende valere per qualunque altro concetto non definito direttamente in

base a caratteristiche sensoriali. Per illustrare la generalità del ragionamento, consideriamo un altro

concetto: il concetto di distanza.

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Ammettendo che il concetto di distanza sia definito solo nel momento in cui è introdotta

un’unità di misura, qualcuno potrebbe dire: “Tutto ciò che diciamo sulle distanze acquista

significato solo grazie all’introduzione di questa unità e delle regole per servirsene”. Potrebbe dirlo

ma farebbe male, perché un’idea intuitiva della distanza ce l’abbiamo già prima; anzi, ce ne serviamo

per scegliere l’unità di misura e poi per misurare effettive distanze. La procedura quantitativa non dà

significato al termine qualitativo, e vago, di “distanza” (vicino, lontano) ma serve per renderne

possibile una valutazione esatta (per quanto è possibile, perché dobbiamo tener presenti i margini

d’errore dello strumento di misura). L’uso della nozione quantitativa, “metrica”, di distanza è

indispensabile ogniqualvolta vogliamo essere precisi ed evitare valutazioni ‘soggettive’ riguardo a

qualcosa che comprendiamo già in termini corporei (l’essere x più vicino di y, l’essere x tanto vicino

quanto y, ecc. – tutte nozioni implicitamente relative alla posizione di un corpo, che è il proprio

corpo.

Quando eravamo piccoli, la comprensione del significato di vicino era legata a ciò che potevamo

raggiungere con la mano o facendo un po’ di passi. Lontano era tutto il resto. Poi ci siamo ‘allargati’

progressivamente: la strada vicina, la vicina città, … Grazie all’uso di veicoli vari, il confine tra vicino

e lontano si è spostato. Il significato di vicino e lontano era già radicato nell’esperienza corporea e

così l’abbiamo usato cambiando scala alle distanze e ce ne siamo perfino serviti metaforicamente:

Ti sento molto vicina a me.

Siamo ancora lontani dalla soluzione.

Lo stesso è avvenuto con altre coppie di opposti qualitativi: caldo e freddo, pesante e leggero,

duro e morbido, lento e veloce. Con l’incremento di esigenze dovute alla misurazione di numerose

quantità, ci siamo ritrovati regoli, termometri, bilance, orologi, …, che sono oggetti fisici al pari di

quelli che con essi vengono misurati, non oggetti metafisici e neanche fantasmi della propria,

privatissima, interiorità per il semplice fatto di essere invenzioni della nostra mente. Abbiamo una

comprensione qualitativa, implicita, del concetto prima di quella quantitativa, esattamente come

abbiamo una qualche comprensione di ciò che esprimiamo metaforicamente prima di descriverlo

metaforicamente. È un dato indicativo che le metafore basate su nozioni quantitative (tre metri di

felicità, un etto di delirio) siano molto meno frequenti di quelle basate su nozioni qualitative. Infine,

tanto l’adozione di un criterio metrico sul piano letterale quanto l’adozione di una metafora possono

retroagire quanto volete sul concetto intuitivo, ma non lo eliminano.

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8. Corporeità emergente, ma corporeità

Al verbo “ridurre” è spesso associata, nel gergo filosofico, una valenza negativa: chi è così

sciocco da voler ridurre questo (che si suppone complesso, ricco di aspetti, degno di valore) a

quest’altro (banale, povero di struttura, troppo elementare)? Il “riduzionismo” è un peccato che porta

a uno degli ultimi gironi dell’inferno. Per una misera captatio benevolentiae dovrei dunque

affrettarmi a dire che le differenze fin qui emerse dall’interpretazione del pensare-per-metafore nel

libro di Lakoff e Johnson non commettono questo peccato: le osservazioni precedenti, in effetti, non

intendono suggerire una visione “riduzionistica” del significato in generale e tanto meno del

significato metaforico, nel senso che non riconducono la varietà dei domini cognitivi alla

combinazione di pochi mattoncini, gli schemi-base, che si combinano sempre nello stesso modo. Se

invece “riduzionistica” è inteso riferirsi a qualunque teoria che si propone di ricondurre in modo

uniforme una varietà di fenomeni a una lista finita di unità e a una lista finita di principi generatori

(che governano le combinazioni delle unità in un dominio e poi il loro trasferimento ad altri domini),

allora quanto detto fin qui corrisponde a una visione “riduzionistica”. Da detrattivo, in tal caso, il

termine diventerebbe un complimento, perché sinonimo di “capace di fornire una spiegazione”. È

chiaro che allora ciò che è riduzionistico diventerebbe non riduzionistico. Non volendo cambiare

così furbescamente il senso di “ridurre”, quale termine conviene adottare? Il termine che in alcuni

saggi ho adoperato è di segno opposto: non si tratta di “ridurre a” ma di “emergere da”. Le

osservazioni precedenti suggeriscono un’idea delle metafore che è anti-atomistica come è anti-

olistica e, nella letteratura dell’ultimo decennio, un’idea simile è solitamente indicata come

emergentismo31, che in questo caso è un emergentismo semantico: il metaforico emerge dal letterale,

il traslato emerge dal diretto, il significato della più astratta affermazione su questo o quel pensiero

emerge da pattern incorporati di natura sensomotoria.

31 Quanto appena detto è insufficiente a caratterizzare come “emergentista” la tesi proposta ed è pureinsufficiente a distinguerla dalle più diffuse forme di olismo. Chi di voi abbia interesse per la questione puòesaminare gli argomenti esposti nel cap. 8 del volume Il significato inesistente. Per un ulterioreapprofondimento, si vedano i due articoli seguenti: “Holism: the Polarized Spectrum”, Grazer PhilosophischeStudien, 46 (1993), pp. 231-282, e “ILGE-interference patterns in semantics and epistemology”, Axiomathes 13(2002), pp. 39-64.

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Naturalmente, una volta accettata una metafora invece di un’altra, il concetto descritto

metaforicamente acquista certe caratteristiche e ne perde altre: per fare un esempio, ci sono molti

modi d’intendere la felicità e, in funzione della metafora usata per esprimerli, il concetto stesso di

felicità ne risente:

La felicità è un dono del cielo vs La felicità è una dura conquista.

Lo stato/ruolo di chi riceve un dono è infatti diverso da quello di chi si deve impegnare

strenuamente in una conquista. Il pattern del DONO è diverso dal pattern della RETRIBUZIONE (da

meritarsi). Tuttavia, in qualche modo dobbiamo già avere la capacità di riconoscere, per quanto in

maniera approssimativa, ciò di cui parliamo, la felicità; dunque, in aggiunta alla conoscenza

implicita dei due pattern, intesa come capacità di riconoscere quali sono le situazioni di dono e quali

quelle di conquista quando ce ne viene presentata una, è presupposta una minima esperienza di

quali sono gli stati in cui siamo (ci sentiamo) felici, indipendentemente dal pensarli come dono o

come conquista. Le risorse richieste a questo scopo – emotive, etologiche, comportamentali, con il

loro corredo di schemi percettivi, motori, posturali, comunicativi – saranno poco chiare e poco

distinte, e saranno anche insufficienti quanto si vuole, ma senza di esse non sapremmo a che cosa ci

stiamo riferendo con una descrizione metaforica. Neanche prendendo congiuntamente le due

metafore e dunque ammettendo che x è un dono e una conquista possiamo concludere che x = la

felicità. Pur di negare che abbiamo una pur minima conoscenza implicita di cosa s’intende con un

termine del genere, potrebbe esserci ancora una scappatoia, in effetti molto frequentata. Vediamo

quale.

Nel Novecento si è diffusa una dottrina secondo la quale i concetti sono definiti

implicitamente: fra tutti gli enunciati che esprimono il concetto C si prendono quelli che accettiamo

come veri e poi, nell’insieme delle verità su C si isola un opportuno sottinsieme finito che sia

sufficiente a caratterizzare C. Se vogliamo essere rigorosi, cioè onesti e accurati, come in

matematica, questo sottinsieme si presenterà sotto forma di assiomi, o postulati. In questo modo, ai

postulati su punti e rette, o su numeri o su energie e accelerazioni si aggiungono tanti altri postulati,

detti “postulati di significato”, sui concedetti più vari. È un’idea che ha le sue solide motivazioni

storiche e ha anche dato i suoi frutti, ma più di tanto non la si è potuta, e non si può, spremere.

L’individuazione dei postulati di significato (fosse pure la più azzeccata) non spiega la comprensione

dei significati, ma la presuppone: indubbiamente, serve a sgombrare il campo dalla fede in presunte

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essenze e soprattutto serve a far chiarezza, ma un problema espresso chiaramente non è ancora un

problema risolto; e, se in effetti serve, è solo perché questa comprensione c’è già, almeno per alcuni

concetti.

Dallo strutturalismo al formalismo, molti sono stati i fautori dell’idea degli assiomi come

definizioni implicite del significato: filosofi, linguisti, matematici e infine psicologi e sociologi hanno

fatto propria l’idea nei loro rispettivi campi d’indagine. Tutti, però, si sono ritrovati un duplice

inconveniente.

Un primo inconveniente è quello di non sapere come evitare un regresso all’infinito. Infatti, se

qualcuno dice che il significato di un termine resta definito implicitamente da un certo insieme finito

di enunciati che lo contengono, dovrebbe specificare questo insieme, ma il compito è facile solo in

pochi casi. Nella maggior parte dei casi, l’insieme di postulati che viene fornito s’imbatte in

controesempi (e senza bisogno di ricorrere a usi metaforici). Due dei maggiori filosofi dei nostri

tempi, gli americani Saul Kripke e Hilary Putnam, hanno elaborato ingegnosi argomenti per

evidenziare che non possiamo escludere la possibilità di controesempi anche per i concetti più

familiari. Per anticipare tutti i possibili controesempi relativi a un dato concetto, bisognerebbe far

ricorso a un insieme potenzialmente infinito di enunciati che usano il concetto e che dicono come

non va interpretato, ma allora quella che forniamo è una definizione che non finisce mai: di qui il

regresso all’infinito.

Un secondo inconveniente consiste nel non sapere come evitare un miracolo, perché

bisognerebbe credere che esistano relazioni puramente formali (e convenzionali) che acquistano un

contenuto (non convenzionale) grazie alle loro relazioni puramente formali (e convenzionali). Ma

come facciamo a capire queste relazioni formali (e convenzionali)? Se le capiamo grazie a loro stesse,

è appunto un miracolo: la sintassi secerne la semantica. In altri tempi si sarebbe parlato di

transustanziazione. Un altro filosofo americano, John Searle, ha elaborato un sottile argomento,

noto come “la stanza cinese”, per provare che questa transustanziazione è impossibile.

Ecco perché i più avveduti fra coloro che hanno sottoscritto l’idea di strutturalisti e formalisti,

cioè l’idea secondo cui il significato è definito implicitamente da relazioni sintattiche, si sono anche

preoccupati di completarla con una serie di vincoli di altra natura, empirici invece che convenzionali,

salvo poi non riuscire a spiegare bene come facciano a esistere questi vincoli, una volta che l’intera

nostra esperienza sia intesa come una costruzione concettuale. Se ogni singolo concetto è

determinato dalla posizione che occupa in una rete globale di concetti, siamo condannati

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nuovamente al regresso; se di fatto siamo riusciti a entrare, da piccoli, nella rete dei significati, è

perché abbiamo sfruttato qualcosa che l’idea di strutturalisti e formalisti non è in grado di spiegare.

La tesi secondo la quale le metafore sono creatrici di significato in domini ove, per ipotesi, non

c’è la minima traccia di un significato precedente è solo un altro esempio della stessa idea. Non a

caso, quando ho fatto un elenco degli schemi di base32, ho sentito il dovere di spiegare come mai

ciascuno di essi non sia affatto arbitrario, non sia qualcosa di puramente linguistico e non sia un

prodotto di convenzioni culturali. In seguito ho aggiunto che le metafore possono trasferire

struttura da un dominio SORGENTE solo perché i domini TARGET sono già in possesso di una

minima struttura, che la metafora arricchisce e specifica ma con la quale la struttura trasferita pur

sempre si compenetra (parzialmente).

Sono forse le metafore a cambiare i termini della questione offrendo nuovo supporto alla

definizione implicita dei concetti? Se i concetti fossero definiti implicitamente non tanto dalle

relazioni interne a uno stesso dominio ma dalle relazioni metaforiche con altri domini, il compito

(per chi sostiene la dottrina del significato come dato mediante definizioni implicite) sarebbe non

meno arduo ma più arduo: ai due inconvenienti su menzionati se ne aggiungono altri. Per indicarne

uno, diventa un enigma il fatto che passando da enunciati come

Hanno attaccato il fortino

La porta è aperta

a enunciati come

Hanno attaccato la mia argomentazione

La discussione è aperta

le voci del verbo “attaccare” e del verbo “aprire” non siano semplici omonimìe, ma spìe di un

trasferimento/conservazione di struttura. Chiunque sottoscriva la centralità cognitiva del processo

metaforico non può accantonare la spiegazione di questo fatto, che però resta inspiegato se si adotta

l’idea della creazione ex nihilo. Un’impostazione diversa, come quella che vi ho suggerito, non lo

lascia inspiegato. La spiegazione s’incentra su processi variazionali da una struttura a un’altra e può

32 In “An essay on the notion of schema”, cit.

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essere descritta formalmente in termini di teoria delle categorie, consentendo così di definire con

maggior precisione che cosa si conserva nel TRANSFER33.

In Metafora e vita quotidiana viene respinta l’ipotesi che esempi come quelli ora menzionati,

con “attaccare” e “aprire”, siano riconducibili a una similarità strutturale fra domini che è colta nel

significato del verbo. La ragione per respingerla è che, se l’ipotesi fosse valida, il potenziale

semantico di un verbo sarebbe illimitato quanti i domini possibili e allora la gamma degli aspetti di

un verbo come “attaccare” e “aprire” sarebbe incontrollabile per la sua vastità e imprevedibilità,

mentre non abbiamo difficoltà nel servirci comunemente di verbi come “attaccare” e “aprire”.

Temo che questa ragione faccia esclusivo affidamento su un’interpretazione insiemistica del

significato dei verbi, quasi che il significato di “attaccare” fosse determinato dall’insieme degli x e

degli y, in ogni dominio possibile, tali che x attacca y. In tal caso, come avrebbe fatto un bambino a

comprendere il significato di “attaccare” e di “aprire”? Se voi lo comprendete, allora ci siete riusciti e

suppongo che ci siate riusciti da bambini, come tutti i madrelingua italiani (e l’analogo vale per i

madrelingua inglesi, francesi, ecc.) e se poi avete sentito qualcuno che diceva Smettila di attaccare

tutto quel che propongo e un altro dire Ora apriremo il dibattito, intendendo all’istante il significato

di entrambe le frasi invece di restare allibiti, dovete aver colto una qualche similarità, benché i

conflitti fisici e le porte siano altro da discorsi, colloqui, discussioni ecc.

Sembra dunque difficile negare una similarità tra le occorrenze di “attaccare” e di “aprire”

relative a universi di discorso diversi: è vero che il significato cinestetico, cognitivo ed emotivo,

dell’attacco è trasposto direttamente, e senza difficoltà, a un piano astratto-formale (attaccare una

tesi, una proposta, una dottrina) svincolandosi da specifiche modalità dell’attacco fisico (lo stesso

dicasi di aprire una discussione, un dibattito, una conferenza), ma si conserva pure qualcosa e quel

che si conserva è quanto basta a comprendere la metafora.

Ma se c’è davvero qualcosa che resta invariato nel significato dell’attaccare e dell’aprire

passando dal dominio dei CORPI FISICI alle ARGOMENTAZIONI, l’interpretazione insiemistica del

significato dei verbi è alle strette. Il che non dovrebbe sorprendere minimamente perché in buona

parte la filosofia del linguaggio del Novecento (intendo quella seria) ha discusso i problemi derivanti

dal modello insiemistico della semantica dimenticando i verbi. Ma alle strette è anche l’ipotesi di un

TRANSFER creativo.

33 Come già indicato in un mio articolo del 1984: “Battaglie semantiche”, Antologia Vieusseux 76, pp. 42-75.Per la verità, ci sono interpretazioni filosofiche della teoria delle categorie che ne hanno proposto in annirecenti una rilettura “strutturalista”. Ho spiegato perché questa rilettura non funziona in “The meaning ofcategory theory for 21th century’s philosophy, Axiomathes 16 (2006) 425-460.

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Naturalmente, occorre trovare un modo per descrivere ciò che si suppone resti invariato; e

trovarlo è un compito teorico degno di rispetto (invece di considerarlo ovviamente impossibile). Il

punto è: che ci sia qualcosa di basilare e schematico che si conserva nel significato di verbi come

attaccare e aprire è un’ipotesi in accordo con l’idea che sia questa invarianza a motivare l’attribuzione

non banale di verità o falsità all’enunciato metaforico; mentre, se fosse il pattern metaforico a istituire

il significato, l’attribuzione sarebbe banale. Si tratta di capire perché sia così ‘naturale’ l’uso di aprire

per significare l’avvio di una discussione e perché sia così ‘naturale’ l’uso di attaccare per significare la

critica a un’argomentazione34.

Se non c’è la minima invarianza di significato, è impossibile parlare di verità o falsità a proposito

di enunciati metaforici, a meno che l’etichetta “vero” sia attribuita in maniera arbitraria. Perciò, a

trovarsi in difficoltà non è solo chiunque intenda accantonare la nozione di verità ma anche

chiunque voglia relativizzarla al contesto di volta in volta inteso.

Se, d’altra parte, ammettiamo che ci sia una qualche inviarianza, non siamo tenuti a

sottoscrivere una concezione “oggettivistica” pur di poter dare senso alle nozioni di verità e falsità.

La filosofia che trovate indicata, e contestata da Lakoff e Johnson, come “oggettivismo” è una

creatura di sintesi: assembla il realismo ingenuo, proprio del senso comune, con il realismo

scientifico, secondo cui vero = ciò che è riconosciuto come vero all’interno della scienza, con il

realismo metafisico, secondo cui le cose hanno le proprietà che hanno in maniera del tutto

indipendente dal modo in cui le pensiamo35. Il risultato è una dottrina che più bieca non si può, che

ignora la lezione di Kant e che supera, quanto a difetti, sia il realismo ingenuo sia il realismo

scientifico – perché il realista, dell’uno o dell’altro tipo, non è tenuto a credere che il mondo sia

perfettamente descrivibile in linguaggio non metaforico; e un realista metafisico potrebbe anche far

posto (e di solito fa posto) nel suo discorso a una serie di metafore, giustificandole come tracce di

correlazioni intrinseche fra domini.

Un oggettivista è, in più, anche un riduzionista nel senso deteriore del termine: crede che un

linguaggio ridotto alla letteralità, cioè un linguaggio privo di mappe cognitive da un dominio

all’altro dell’esperienza, riesca a esprimere adeguatamente i principi che rendono unitaria la nostra

34 I pattern d’azione corrispondenti ad attaccare e aprire hanno una valenza transculturale e sono documentatidagli etologi nella spiegazione di comportamenti di organismi molto diversi dagli esseri umani. La dinamicapreda-predatore è ubiqua nel mondo vivente così come lo è il mantenimento (o l’eliminazione) di una ‘apertura’fra due regioni di spazio.35 Vi prego di non credere che ciascuna di queste tre forme di realismo si possa riassumere cosìsbrigativamente. Ciascuna forma di realismo presenta al suo interno molte varianti, alcune delle quali sonomolto sofisticate. In particolare, per quanto concerne il realismo metafisico, ve ne potete rendere conto dandoanche una rapida occhiata agli articoli menzionati in <philpapers.org/browse/metaphysical-realism>.

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conoscenza, ingenua o sofisticata, momentanea o ideale, del mondo. Ma a credere che un tale

linguaggio ci riesca non sono soltanto i riduzionisti, con l’idea che un solo linguaggio letterale vada

bene per tutti i domini: curiosamente, sono anche quei relativisti i quali pensano che ciascun

dominio abbia il suo linguaggio contestualmente letterale, distinto da quello di ogni altro dominio. I

riduzionisti non coincidono necessariamente con i realisti e i relativisti non coincidono

necessariamente con gli antirealisti. Sotto l’etichetta di “oggettivismo”, tutte queste differenze

svaniscono.

Contro riduzionismo e relativismo sono stati elaborati vari argomenti, nel cui merito non entro.

Il discorso fatto fin qui dovrebbe ugualmente essere in grado di giustificare che:

– la nostra comprensione di enunciati su stati mentali, entità astratte ecc., è carica di metafore;

– gli schemi metaforici di base hanno un fondamento nella dimensione percettiva e cinestetica;

– questo fondamento è mediato da proiezioni che non sono affatto annullabili nella linea

‘letteralista’ del riduzionismo o del relativismo;

– il linguaggio della più elementare base corporea è la sorgente di ogni trasferimento di

significato;

– il trasferimento non può essere riassorbito nella letteralità, ovvero, il processo metaforico non

può essere ridotto.

Piuttosto, conviene precisare il rimando a in varianti. Vi sarete chiesti: invarianti rispetto a cosa?

Risposta: sono invarianti rispetto a un trasferimento schematico di struttura, dunque i valori dei

possibili parametri referenziali sono irrilevanti e in effetti vengono ignorati: nell’aprire una

discussione non ci si chiede se c’è da girare la maniglia o se c’è da spingere; nell’aprire le porte alla

speranza, non importa dove e quante sono queste porte.

Fermo restando che, all’interno delle stesse scienze naturali, le proprietà fondamentali di un

sistema fisico, chimico o biologico possono essere (e sono state) colte facendo ricorso a un

particolare modello metaforico e spiegando perché è preferibile a un altro. un’ipotesi di invarianza

schematica non esclude un ambito di letteralità, che di per sé non è né atomistica né olistica, bensì

connaturata con la nostra esperienza quotidiana (mesoscopica – diciamo a una scala da 1 cm a 1000

m). Enunciati come

Hai messo la tazzina sul piatto

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Hai messo da parte i biglietti

saranno pure enunciati ellittici e tutt’altro che semplici dal punto di vista sia delle risorse cognitive

coinvolte nel capirli sia dei presupposti situazionali che occorre essere in grado di riconoscere, ma

sono un paradigma di letteralità ed è grazie a questa che arriviamo a capire enunciati come

Hai messo la parola “fine” sul nostro rapporto.

Il flogisto e l’etere sono stati messi da parte.

È il nostro contatto quotidiano, il nostro corporeo avere-a-che-fare, con corpi (animati o

inanimati) né micro né mega, ma meso-scopici, oggetti posizionati nello spazio 3D intorno a noi,

sostanze, corpi, distinti in base a qualità percettivamente salienti, cose da afferrare, cose da spostare,

lasciare, rompere, scansare, mangiare, scartare, appiccicare … È questo primigenio contatto col

mondo ciò che è letterale nel linguaggio. E la letteralità di maggior sfruttamento è quella veicolata

dai verbi insieme alle relative spie preposizionali (da/a, sopra/sotto, dentro/fuori), più ancora che da

nomi e aggettivi, tant’è che si trasporta alla descrizione della stessa sintassi del linguaggio. Su questo

piano di letteralità si costituisce l’armatura spaziale del linguaggio e del pensiero: così si costituisce

la partizione degli oggetti in tipi di corpi e la loro identificazione come specifici esemplari dei tipi

suddetti, individuabili in una specifica posizione in uno specifico momento, così si costituisce pure il

riferimento alle qualità degli oggetti e alle loro relazioni, e così pure si costituisce una tipologia di

azioni espresse da verbi e poi sostantivate: andare/tornare → andata/ritorno (con possibilità di fare

l’operazione inversa: inizio/fine → iniziare/finire)36.

Nel corso dello sviluppo cognitivo si viene formando una base semantica posizionale e pre-

posizionale, organizzata intorno a un numero ristretto di schemi. Da questa base letterale estraiamo

via via i materiali da costruzione per formare tutte le metafore, sistematiche o idiomatiche, che ci

servono per parlare dei più diversi argomenti. Perciò una teoria semantica e una filosofia del

linguaggio che trascurino la BASE e il processo del suo TRASFERIMENTO sono davvero poca

cosa. Per troppo tempo la semantica e la filosofa del linguaggio (mi riferisco a quelle serie, non a

tante chiacchiere semiotiche in circolazione) hanno trascurato questa base e questo processo. 36 Questo stesso processo di costituzione è stato uno dei temi fondamentali della fenomenologia. È curiosoche si sia finalmente giunti ad analizzarlo in maniera feconda entro un quadro di idee che non ha le sue diretteradici nel pensiero di Husserl. Ma qualcosa dev’essere filtrato perché a contestare l’oggettivismo è statoHusserl negli anni trenta, con La crisi delle scienze europee, e sua è la famosa frase: “Le mere scienze di fatticreano meri uomini di fatto”.

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Le metafore sono già pervasive restando ben ‘dentro’ al linguaggio orientato a descrivere cose

ed eventi esterni che non coinvolgono le persone. La frequenza delle metafore testimonia la forza

generativa, sul piano concettuale, di una letteralità tutta corporea. Quando ci troviamo impegnati a

costruire un ambiente concettuale cui affidarci per esprimere il proprio, personale, modo di vedere e

di ‘sentire’ il mondo (come nella poesia) o quello degli altri, così come quando ci volgiamo a dare

descrizioni sistematiche, impersonali e rigorose, in una parola “scientifiche”, di un particolare ambito

della realtà, o della realtà nella sua interezza, possiamo inventarci nuove parole per nuovi concetti o

trasformare il significato delle vecchie parole, ma il significato delle nuove parole e il nuovo

significato di parole già in uso sono radicati in questa letteralità primitiva, direttamente legata al

nostro corpo.

Anche uscendo dal linguaggio quotidiano per entrare in un linguaggio simbolico-formale (come

succede in matematica), ci portiamo sempre dietro, meta-forizzato, quell’originario accesso al

significato, e così ci portiamo dietro le sue specifiche modalità spaziali e le relative gestalt

cinestetiche. Basta aprire un qualunque testo di matematica per vederle continuamente all’opera (è

un buon esercizio).

Coppie verbali come

muoversi/stare fermi,

entrare/uscire,

mangiare/espellere,

afferrare/lasciare,

salire/scendere,

inseguire/fuggire

(e tante altre coppie connesse, come restare/partire, accogliere/respingere, tenere/abbandonare,

elevarsi/abbassarsi, insistere/smettere ecc.) esprimono pattern d’azione che non hanno bisogno di

alcuna costruzione mentale: non sono arbitrarie creazioni, non sono figure su uno sfondo informe,

non introducono struttura laddove non ce n’era: sono pattern d’azione relativi a uno spazio pieno

zeppo di struttura, e le modalità dell’azione sono legate a interazioni biologiche, chimiche, fisiche,

etologiche, presenti nel mondo fisico, vegetale e animale.

Ciascuna delle coppie verbali su elencate si presta a un numero straordinario di impieghi

metaforici, in cui si esprimono valutazioni spesso accompagnate da forti valenze emotive:

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Non perdere l’occasione: datti una mossa! / Sei ancora fermo a questi concetti?

Entriamo nel merito / Non c’era via d’uscita dal Patto di Varsavia.

Quell’ala destra si mangia tutta la difesa / Hai tirato fuori il rospo e ora devi rimangiartelo.

Hai afferrato il concetto? / Lascia cadere i sogni inutili.

È salito rapidamente ai vertici / Siamo scesi parecchio nel gradimento.

Ha inseguito per tutta la vita un solo ideale / Sta fuggendo da un vero confronto.

La salienza cognitiva degli schemi implicati in queste coppie verbali (C A M M I N O ,

DENTRO/FUORI, SU/GIÙ, …) non dipende dalla particolare cultura, modello mentale, modo di

pensare, ma da proprietà dell’ambiente e degli organismi. Quel che cambia da una cultura all’altra,

da un sistema di pensiero a un altro, da una religione a un’altra, da una filosofia a un’altra e da una

teoria scientifica a un’altra, è la particolare selezione e la particolare organizzazione di pattern, che

contribuiscono a formare un complesso articolato di credenze (sulle cose, su noi e sugli altri) e di

valori, ove credenze e valori sono espressi grazie all’uso di metafore.

Ma non c’è contraddizione nel dire che questi pattern d’azione si ritrovano nella natura e che il

peccato mortale dell’oggettivismo sta nell’aver dimenticato il soggetto (conoscente e valutante)? Qui

ci sono alcune cose da chiarire. “Non dimentichiamo il soggetto!” è una raccomandazione che solo in

parte va d’accordo con la lezione di Kant, perché la sensibilità e l’intelletto hanno per Kant una e una

sola struttura che si deposita in un unico insieme di concetti e di verità a priori, impermeabile agli

sviluppi concreti delle scienze. Non dimenticarsi il soggetto … per dimenticarsi la plasticità degli

schemi? Sarebbe una raccomandazione fallimentare, così come lo sarebbe non dimenticare il

soggetto per farne un’entità modificabile ad libitum. Il “soggetto” non è piovuto dal cielo e non è

neppure una cosa tra cose; non è dotato di un unico sistema di concetti già completo e neppure è

una scatola riempibile in ogni modo possibile. I vincoli sul pensiero sono naturali tanto quanto la

natura è qualcosa pensato come natura.

In non pochi studi sulla metafora c’è la tendenza a riproporre un’impostazione che è solo

vagamente kantiana. La si può esprimere dicendo: “Ogni rappresentazione è metaforica; la metafora

è una costruzione concettuale che porta significato laddove non ce ne sarebbe alcuno”. Chi

sottoscrive quest’idea è portato a sottoscriverne anche un’altra, che per semplicità si può riassumere

dicendo: “Il mondo intorno a noi è privo di significato; siamo noi che glielo diamo; siamo liberi di

dargli il significato che vogliamo; in quanti modi distinti ci riusciamo è attestato dalla storia del

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pensiero filosofico e scientifico, nonché dalla diversità culturale”. Affermando tale libertà nel

conferimento di significato, si vuole far tesoro di Kant e, allo stesso tempo, della lezione impartita a

Kant dalla scienza del Novecento; si vuole riconoscere che la pluralità delle prospettive epistemiche

è qualcosa di oggettivo e si vuole allo stesso tempo enfatizzare il loro carattere convenzionale e, per

ciò stesso, non oggettivo.

Chi la pensa così, offre su un piatto d’argento una soluzione aporetica, che esclude qualunque

spiegazione naturalistica del linguaggio e in particolare degli schemi metaforici, come se invece di

disporre di quelli che ci sono, avremmo potuto disporre di schemi totalmente diversi, perché siamo

noi a inventarceli da zero. D’altra parte, chi nega il carattere assoluto di questo nostro potere, non è

tenuto a sostenere che è il mondo naturale a decidere per noi quali metafore usare e quali no: la

natura vincola la nostra scelta, riducendo la gamma degli schemi a noi accessibili, ma non determina

le scelte da effettuare entro questa gamma e non determina il modo in cui comporle.

In Metafora e vita quotidiana Lakoff e Johnson pongono un aut aut e poi si sforzano di trovare

una terza via. L’aut aut è così riassumibile: o si crede che il linguaggio rappresenti il mondo come è

realmente in sé e allora si è “oggettivisti”, oppure si crede che non c’è alcun mondo “oggettivo” da

rappresentare, perché ciò che rappresentiamo è una nostra costruzione mentale (metaforica). Il

primo corno del dilemma è scartato raccogliendo la critica che Kant muove all’idea che si possano

conoscere le “cose in sé”. Il secondo corno è ugualmente scartato grazie a un sovraccarico della

nozione di soggettivismo, che mette insieme un generico idealismo con un sentire romantico e una

forma spinta di relativismo.

Convinti giustamente che si debba uscire da questo aut aut, Lakoff e Johnson propongono una

cornice alternativa, definita come “esperienzialismo”. Una simile cornice, però, non si limita a far

propria l’impostazione vagamente kantiana di cui sopra ma ingloba anche quella forma di

relativismo culturale su cui ho già espresso alcune riserve. Così facendo, l’esperienzialismo finisce

per riproporre alcuni aspetti di quello stesso soggettivismo che Lakoff e Johnson volevano

escludere, al pari dell’oggettivismo. Le concessioni fatte al soggettivismo indeboliscono il rimando

alle radici corporee della cognizione semantica, con il rischio che l’idea di “mente incorporata” o

“mente incarnata” (quella embodied mind che tanto sta a cuore a Lakoff e Johnson) sia riassorbita

entro il panorama delle tradizionale posizioni, l’un contro l’altra armata, in ambito epistemologico.

Già in precedenza avevo richiamato la vostra attenzione sul fatto che soggettivismo e

oggettivismo, come descritti da Lakoff e Johnson, sono due dottrine dalle maglie eccessivamente

larghe, tanto quanto sono dottrine sovraccariche di tesi di natura diversa, al punto da confondere

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soggettivismo con idealismo e oggettivismo con realismo. Per quanto utile sia la descrizione che

fanno dei caratteri del soggettivismo e dell’oggettivismo, è bene tener presente che essa corrisponde

a un’idea ingenua e che mal si adatta alle formulazioni accurate che nell’epistemologia

contemporanea sono state offerte di uno o più ingredienti del soggettivismo e dell’oggettivismo.

Non tenendo conto di queste formulazioni, il ragionamento con cui l’esperienzialismo si presenta

come l’unica (o comunque la migliore) alternativa possibile all’aut aut paga la sua rapidità e la sua

suggestività con una ridotta capacità di convincimento. Ci sono epistemologi che è difficile far

rientrare nell’uno o nell’altro campo, ma che non sottoscriverebbero la tesi dell’esperienzialismo

(termine pressoché accantonato negli ultimi anni). Insomma, anche ammesso l’aut aut, ci sono altre

opzioni, diverse dall’esperienzialismo, che possiamo considerare come cornici coerenti di una

semantica radicata nella corporeità; e una teoria della metafora che riconduca il nostro parlare di

stati mentali, numeri, ideologie, religioni, alla nostra corporeità non è tenuta a far propria

l’impostazione vagamente kantiana e la tesi secondo cui la realtà è una costruzione metaforica.

Tra l’altro, se così fosse, tale sarebbe anche la nostra corporeità. E allora che guadagno

avremmo ottenuto dicendo che “il corpo è nella mente”?37 Sarebbe davvero curioso sostenere che gli

esseri umani concettualizzano il non-fisico in termini del fisico, l’astratto in termini del concreto, il

mentale in termini del corporeo, e poi sostenere che le esperienze fisiche sono tanto soggettive e

culturali quanto le esperienze non fisiche! Un corpo che fosse definito culturalmente, solo in termini

di costruzioni metaforiche, sarebbe sicuramente un corpo più etereo di quel che si voleva. Se, oltre ai

corpi, anche le emozioni basilari, la sensazione di caldo e freddo, la differenza tra su e giù, quella tra

dentro e fuori ecc, si esauriscono nei concetti metaforici che usiamo per parlarne, allora modi

metaforici diversi in culture/lingue diverse dalla nostra identificano non solo sentimenti e pensieri

diversi, ma anche corpi diversi ed emozioni diverse. E allora non si può dire che il corpo, l’amore, la

vita, il mondo …, sono pensati diversamente da noi e da loro. Si deve dire che noi e loro parliamo di

cose diverse. Di conseguenza, non c’è alcun contrasto, esattamente come se uno dice che l’acqua del

fiume è un liquido e un altro che il legno degli alberi non è un liquido.

In altre parole: se davvero siamo totalmente immersi in una rete di metafore, non si capisce

perché le nozioni relative al corpo dovrebbero avere un privilegio, nell’orientare le metafore, rispetto

ad altre nozioni. Dunque, dovrebbe essere ugualmente possibile, e legittimo, pensare che gli edifici

sono teorie, così come pensare che le teorie sono edifici. Con ciò, tra l’altro, verrebbe meno la

direzionalità privilegiata della metafore (dal corpo alla mente). 37 Mi riferisco a un bel libro di Johnson, intitolato appunto The body in the mind uscito nel 1987 (University ofChicago Press, Chicago).

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Chi supponga che l’espressione dei fenomeni corporei da cui emergono le metafore non può che

essere descritta metaforicamente, non dovrebbe parlare del significato metaforico come qualcosa

che emerge da qualcos’altro, perché non c’è nulla che emerga – a meno che non crediamo di poter

fare come il Barone di Münchausen, che veniva fuori dalla palude tirandosi su per i capelli. Quando

la corporeità comincia a esser troppo carica-di-cultura (mediata da metafore), comincia a diventare

… incorporea. Allora, per coerenza, bisognerebbe avere il coraggio di dire che la cultura è un

miracolo cosmico: c’è, punto e basta, e non si spiega con altro, perché ogni “altro” è a sua volta

carico-di-cultura. La differenza tra ciò che è visibile (una mela) e ciò che non lo è (un campo

magnetico) e la differenza tra qualcosa in cui si può entrare (una caverna) e ciò in cui non si può

entrare (un buco in una foglia di ciliegio) sarebbero qualcosa di “culturale”? Per l’uomo preistorico,

era un fatto “culturale” che un orso potesse inseguirlo nei boschi e che non potesse passare da una

fessura tra le rocce che invece permetteva il passaggio di un corpo umano? Non saremmo ciò che

siamo senza la cultura in cui siamo cresciuti, ma ciò che appartiene alla cultura è solo il meraviglioso

bricolage che facciamo degli schemi-base delle metafore, non gli schemi stessi, non la corporeità.

Culturale è un tatuaggio sul viso, non il viso. Culturale è il ruolo del telefono come cordone

ombelicale, non il cordone ombelicale.

9. Filosofia e matematica degli schemi metaforici

Gli schemi-base, e poi le metafore strutturali, riguardano la concreta spazialità, con le sue

gestalt di forma, posizione relativa e movimento. Ogni nostro concetto ha in sé, direttamente o

indirettamente, una traccia della spazialità e, quandanche non fosse così, la traccia resterebbe nella

sintassi, senza la quale i concetti non potrebbero manifestare la loro ricchezza combinatoria.

La razionalità è stata considerata dalla maggior parte dei filosofi come qualcosa di nettamente

separato dai nostri sensi, dunque dalla concreta spazialità, e da sempre logica e matematica sono

state viste come la manifestazione più pura della razionalità. Oggi si ammette che nella mente

umana convivano più tipi di intelligenza38. Quest’ammissione potrebbe farvi venire l’idea che uno dei

tipi d’intelligenza, nettamente distinto da tutti gli altri, riguardi proprio il modo in cui la mente

organizza logicamente i pensieri, trae conclusioni ed esegue calcoli, astraendo da qualunque

contenuto, mentre l’intelligenza spaziale sarebbe tutt’altra cosa.

38 Howard Gardner le ha descritte con efficacia in Formae mentis, Feltrinelli, Milano 1987. Per i problemirelativi alla loro integrazione nel corso dello sviluppo cognitivo, si veda A. Karmiloff-Smith, Oltre la mentemodulare, Il Mulino, Bologna 1995.

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Il ruolo della spazialità nel pensiero astratto è invece stato messo in luce negli ultimi decenni da

numerose ricerche di psicologia, linguistica e perfino intelligenza artificiale. L’importanza

dell’intelligenza spaziale è ormai riconosciuta anche per quanto riguarda la didattica della

matematica. Di tutto questo la filosofia sembra essersi accorta a malapena. Nel Novecento c’è stata

una grande fioritura della filosofia del linguaggio, che ha potato ad analisi raffinate sia del

linguaggio naturale sia del linguaggio matematico. Ora, un linguaggio, prima ancora di essere uno

strumento per comunicare pensieri, è uno strumento per esprimere i pensieri che si vogliono

comunicare. Se dietro a una stringa di simboli (verbali, in questo caso) non c’è alcun pensiero,

abbiamo solo un gioco combinatorio. Dietro all’enunciato I gatti miagolano c’è un pensiero, così

come c’è un pensiero dietro a Se A o B, e non A, allora B e c’è un altro pensiero dietro a x+y = y+x.

Della fioritura di indagini filosofiche sul linguaggio una componente decisiva è stata la logica,

ma il ruolo della spazialità nel pensiero logico e matematico è rimasto in ombra e così l’attenzione

dei filosofi si è rivolta quasi esclusivamente alle strutture formali del linguaggio viste attraverso gli

occhiali della logica; e, quando si è voluto fare qualcosa di più, si sono considerati gli aspetti

comunicativi (pragmatici) o si è fatto svaporare tutto in una tassonomia di forme semiotiche, in cui

la spazialità era ancora una volta una componente al pari di tante altre.

La spazialità non è qualcosa di univoco. Ci sono infatti diversi ordini, o livelli, di strutturazione

dello spazio. I tre livelli principali, da quello più specifico a quello più generale, corrispondono a:

– GEOMETRIA METRICA (distanze e trasformazioni che le conservano, forme rigide);

– GEOMETRIA PROIETTIVA (rappresentazioni prospettiche e relativi invarianti);

– TOPOLOGIA (forme deformabili, purché con continuità, e invarianti).

La topologia si articola in vari campi. Il campo di maggior interesse per l’analisi degli schemi-

base e per il loro impiego metaforico è la topologia algebrica, all’interno della quale si studiano i

cammini in uno spazio. Questo specifico settore della topologia algebrica si chiama “teoria

dell’omotopia”.

Se la struttura del pensiero è legata allo spazio, è legata all’ordine topologico, mentre

ingredienti metrici e proiettivi entrano solo nell’identificazione degli oggetti e delle loro relative

posizioni. Anche questi ingredienti sono importanti, però necessitano di uno sfondo topologico. Le

proprietà spaziali che entrano nella formazione del significato letterale degli enunciati più semplici

sono di ordine topologico.

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Lo spazio può essere organizzato in modi tra loro diversi, che trovano espressione in lingue e

culture diverse, ma la gamma di proprietà tra le quali avviene la scelta sono sempre le stesse: sono

quelle studiate dalla topologia, che fanno riferimento all’essere dentro o fuori, all’essere in contatto

con o separato da, all’essere coeso o scisso, all’attraversare un confine o no … Sono queste nozioni,

non metaforiche, che rendono possibili gli schemi metaforici.

Con ciò, siamo arrivati al succo di tutto il discorso: (a) le nozioni topologiche entrano

direttamente nelle nostre più elementari esperienze e le costituiscono; (b) quando usiamo metafore,

ci serviamo di esse in maniera schematica e sistematica; (c) non sono logico-linguistiche, anche se

ovviamente si esprimono a parole; (d) prima di essere descritte con esattezza matematica,

appartengono a una topologia intuitiva, che non ha bisogno di diventare cosciente ed è radicata

nelle interazioni del nostro corpo con altri corpi nell’ambiente naturale; (e) la metafora è

essenzialmente un processo cognitivo con il quale le nozioni topologiche (intuitive) sono liftate a

domini non direttamente corporei e non letteralmente spaziali; (f) questo processo trova espressione

linguistica (com’è ovvio) ma non è di natura linguistica, bensì essenzialmente spaziale. Ecco un

elenco di metafore in cui le nozioni topologiche menzionate sopra trovano espressione:

La fede le ha fatto rimettere insieme i pezzi della sua vita.

Sono uscito disfatto dalla discussione.

Con questo, sei fuori dal partito

Non girare intorno al problema.

Non è così che si passa dalle premesse alla conclusione.

In un attimo mi fai passare dalla tristezza alla gioia.

L’iniziativa passò dall’Asse agli Alleati.

Il lifting, o “sollevamento”, del significato dalla BASE di schemi corporei non ha bisogno di

mediazioni: è incorporato. Per capire un enunciato come Tu sei fuori dal partito, di che cosa c’è

bisogno? Naturalmente, di conoscere la situazione, con la sottesa controversia politica, di sapere

cosa s’intende per partito e di sapere per chi stia il Tu. Ma prima ancora di tutto questo c’è da capire

lo SCHEMA DEL CONTENITORE, in relazione al quale è definita la differenza qualitativa

DENTRO/FUORI (una qualità topologica). E in che cosa consiste la sua comprensione? Si fissa

nell’immaginazione un non precisato spazio in cui c’è un luogo (o regione) X che è delimitato da un

confine, all’interno del quale è localizzato il partito, e un punto p, in cui è localizzata la persona alla

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quale si riferisce il Tu. Dopodiché, c’è solo bisogno di capire la differenza tra DENTRO e FUORI:

cioè, se p è in X o no. Implicita nell’enunciato è l’ipotesi che in precedenza p fosse in X, dunque il

modello semantico deve includere un cammino del nostro Tu da p dentro-X a fuori-da-X. Sappiamo

riconoscere la differenza tra dentro e fuori, sappiamo riconoscere la differenza tra una traiettoria

(cammino) dal dentro al fuori (o viceversa) e una traiettoria che resta all’interno di un confine, e

sappiamo esprimere entrambe le cose.

Come risultato, la metafora fa collassare il rapporto (in E) tra le idee del partito e le idee del Tu

nel rapporto (in B) di dentro/fuori tra p e X, cioè, il dominio E è schiacciato in B. Benché questo sia

un caso particolarmente semplice di metafora, lo considero paradigmatico per elaborare un modello

generale.

E Partito Tu

cammino

X

Bp

La più generale base B dalla quale il significato si solleva all’insieme (unione) E di tutti gli altri

domini contiene molte strutture di natura topologica. Possiamo attivarle o no, privilegiarne una a

scapito di un’altra, e trasporle nelle metafore, ma quelle strutture restano il nostro magazzino

universale per formare significati: include i possibili pattern a noi accessibili.

In B c’è un livello di elaborazione concettuale automatica, che può apparire ‘minimo’ solo a

filosofi che non si sono mai preoccupati di capire come fanno a capire quel che dicono; ed è naturale

che poi questi filosofi valutino la teoria che scaturisce da una simile preoccupazione come “riduttiva”.

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In realtà, si tratta di un magazzino di schemi concettuali, sufficientemente ricco di informazioni da

bastare, con un po’ di bricolage, alle esigenze espressive in ogni ambito dell’esperienza umana. Ed è

da qui che anche i filosofi prendono i pezzi con cui formano le loro dottrine sulla conoscenza, sul

mondo, sulla vita, sul bene e sul male39.

Proverò a illustrare con un diagramma il rapporto generale che c’è tra la base B e lo spazio

globale E delle rappresentazioni concettuali liftate, nel caso dello SCHEMA DEL CAMMINO.

Dominio D Passare da le ipotesi a la conclusione

Dominio D’ Passare da la tristezza a la gioia

Dominio D’’ Passare da l’Asse a gli Alleati

Dominio D’’’ …E

radicamento sollevamentop s

B Passare da posizione A a posizione B

Come si evince dal disegno, strutture concettuali in domini diversi sono radicate (p) in una

stessa struttura schematica di base, che si presta a innumerevoli sollevamenti (s); ma quando si

compone p con s si riottiene lo schema di partenza: p (s(x)) = x, mentre il viceversa non vale, s (p(x))

≠ x. Per esempio, potremmo anche avere: passare da A = le ipotesi a B = gli Alleati. Nell’ambito

della teoria delle categorie si studiano, al livello più generale possibile, mappe che hanno questo

39 Cfr. il già citato Philosophy in the flesh. Dal campione di dottrine filosofiche esaminate in termini delle lororispettive metafore-guida, Lakoff e Johnson traggono una morale che lascia adito a più di un dubbio, ma èammirevole per la coerenza e per l’ampiezza della sua portata. È un vero peccato che un tale contributo nonabbia avuto l’attenzione che meritava da parte dei filosofi.

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comportamento e si giunge perfino a descrivere le nozioni della logica, che con la spazialità non

sembrerebbero aver nulla a che fare, riconducendole a una radice di nozioni topologiche40.

In questo come in tutti gli esempi esaminati in precedenza, il processo di metaforizzazione,

quale risorsa caratteristica dell’intelligenza umana – ovvero, “struttura del pensiero” – opera in

maniera del tutto naturale: è un potente mezzo che sfruttiamo precocemente e che ci permette di

parlare sensatamente dei più vari “oggetti” e “situazioni” non tangibili (proposizioni, stati emotivi,

religioni, sistemi economici) che, a differenza di sassi, gatti e pentole non hanno una posizione

localizzabile nello spazio fisico. Anzi, non è escluso che i fallimenti dei numerosi sistemi di

intelligenza artificiale realizzati fino a oggi siano dovuti all’aver trascurato, nella simulazione, questo

processo, che richiede un’integrazione prioritaria fra risorse per elaborare le informazioni e risorse

della corporeità. Forse la robotica del futuro prenderà questa strada, ma non potrà ignorare il

compito di mettere a punto una teoria che in qualche modo esprima la struttura di diagrammi come

quello fatto per lo SCHEMA DEL CAMMINO. Se ci interessa esprimere nella massima generalità

questa struttura, oggi possiamo ricorrere alla teoria delle categorie, ma il lavoro specifico, sul piano

teorico e sul piano del confronto con i fatti linguistici, resta ancora da svolgere.

10. Uno sguardo al futuro e un minimo bilancio

Se la metaforizzazione è un processo naturale e se i processi naturali sono retti da una qualche

forma di causalità, anche la metaforizzazione dovrebbe essere soggetta a vincoli causali. È così? La

risposta dipende dalla nozione di causalità cui facciamo riferimento e dal modo in cui è usata per dar

conto dell’emergere, nella BASE, di configurazioni stabili41 che tendono a propagarsi come

risonanze. Dal punto di vista della teoria dei sistemi dinamici complessi, l’ipotesi che si può fare è

che le metafore strutturali si comportino come risonanze propagantisi nel nostro cervello. Anche a

questo proposito, c’è molto lavoro da fare ed è significativo che per svolgerlo sia richiesta una

collaborazione tra linguisti, filosofi e neuroscienziati.

40 Occorre però reimpostare la topologia senza presupporre la definizione insiemistica di spazio (come uninsieme di punti così e così definito …), altrimenti non si coglie la maggiore generalità dell’approcciocategoriale.41 Ho discusso lo status della causalità in ambito cognitivo in Mind and causality, John Benjamins,Amsterdam 2004. C’è un modello sistemico che possa servire alla naturalizzazione delle metafore come intesain questi Appunti? Per quanto ne so, la risposta è negativa. Ho avanzato l’ipotesi che, così come i neuroni-specchio sono attivati nei processi empatici, agli schemi-base metaforici corrisponda l’attivazione di struttureneurali dedicate. Non sono al corrente di ricerche in tal senso. Se qualche neuroscienziato ha già pensato afarle e ha trovato qualcosa d’interessante, può solo farmi piacere.

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Il progetto di una “grammatica cognitiva” ha visto accumularsi contributi di taglio non

omogeneo. Accanto ai lavori pionieristici di Lakoff ci sono stati quelli di Ron Langacker e di

Leonard Talmy, ai quali sono poi seguiti numerosi studi su temi più circoscritti42. Coloro che si

sono impegnati in questo progetto hanno inteso in modi molto diversi il senso del progetto. Ho

cercato di enfatizzare gli aspetti comuni piuttosto che le differenze, anche per quanto concerne la

teoria della metafora, ma in chiusura consentitemi una precisazione d’altro tono.

Spesso, nella pur fiorente letteratura relativa alla grammatica cognitiva, si tende a suggerire che

l’ambito d’elezione sia l’antropologia linguistica comparata, mentre alla luce del percorso (!) che

abbiamo fatto, l’ambito dovrebbe essere quello della scienza cognitiva tout court. Per quanto mi

riguarda, il compito primario di una “grammatica cognitiva” è quello di identificare gli schemi

presenti nella BASE, di rintracciarli nella varietà degli impieghi del linguaggio e di mostrare come il

loro trasferimento sia pervasivo, coprendo ogni ambito della cognizione. Se è un errore confondere

gli schemi (topologici) della spazialità con stereotipi culturali, lo è allora ancor più per chi faccia

proprio un compito così inteso. Gli schemi presenti nella BASE hanno la funzione di gestalt proto-

tipiche, non di stereo-tipi; stanno al cuore di una qualsiasi dinamica cognitivamente rappresentata, e

non corrispondono dunque a configurazioni statiche (anche se fuzzy) come nella categorizzazione

dei tipi di oggetti che si possono contare, dei tipi di sostanze e dei tipi di qualità, che incontriamo

nell’ambiente.

La categorizzazione degli oggetti, delle sostanze e delle qualità è stata ampiamente studiata

negli ultimi decenni dagli psicologi cognitivi, dando indicazioni che orientano a un’indagine

antropologico-linguistica comparativa. Per la verità, la teoria dei prototipi concettuali introdotta da

Eleanor Rosch all’inizio degli anni settanta non avallava la confusione di un prototipo (concettuale)

con uno stereotipo. Anche se è stata prevalentemente interpretata in questo senso, resta il fatto che

solo le specie di livello basico (CANE, CASA, PANTALONI, UVA, PENNA) ammettono prototipi.

Inoltre, la gerarchia di livelli concettuali proposta da Rosch non implica che quando parliamo

di specie non basiche (sotto-ordinate come FOXTERRIER e VILLETTA, o sovraordinate come

INDUMENTO, FRUTTA, STRUMENTO PER SCRIVERE) usciamo dalla letteralità. Il fatto che, nel

corso dello sviluppo cognitivo del bambino, il primo lessico sia occupato da termini per le specie

basiche e da schemi legati alla base spaziale merita una spiegazione. Se la metafora fosse

onnipervasiva, in linea di principio potrebbe anche esserci qualche cultura in cui i bambini prima

imparano a parlare di politici che abbaiano e poi di cani che lo fanno, prima della voce della

42 Per una sintetica rassegna bibliografica circa gli studi di grammatica cognitiva, si veda “Noema fondato” cit.

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coscienza e poi della voce della mamma, ecc. Il che non risulta e, francamente, mi sembra assurdo.

Le metafore sono direzionate, andando da un dominio a un condominio, e il radicamento dei

significati relativi al codominio in quelli relativi al dominio è legato alla psicogenesi, nel senso che il

sollevamento (lifting) di significato presuppone che il significato sia già presente nella BASE.

Vi ho presentato l’ipotesi che la BASE sia un magazzino di risorse per tutti i possibili modelli

cognitivi e non si comprometta, quindi, con uno specifico modello cognitivo. Quest’ipotesi non è

comunemente accettata. L’idea più diffusa tra i filosofi del linguaggio è che, se c’è una base o rete o

struttura in termini della quale si instaura il significato, essa sia carica-di-cognizione e allo stesso

tempo sufficientemente plastica da consentire l’abbandono di un modello e l’adozione di un altro.

La stessa idea è molto diffusa anche tra i filosofi della scienza. Se gli argomenti che ho fornito,

benché in forma stringata e incompleta, sono corretti, quest’idea è un errore ed un errore collegato a

un altro non meno diffuso, ovvero, alla deriva che porta dalla negazione dell’oggettivismo alla

negazione di qualunque oggettività, dal dire che la verità relativa-a-un-linguaggio al dire che non

esiste alcuna verità, dalla presenza di elementi culturali nella nozione di realtà alla completa

dipendenza della nozione di realtà dalla cultura43. Un’oggettività (al pari di una verità e di una realtà)

essenzialmente relativizzata alla propria cultura è, oggi, come il miele per gli orsi, ma ha una

proprietà nutritiva molto minore: non è certo a tale nozione che ci appelliamo quando si tratta di

dire se una cosa è dentro o fuori rispetto a un’altra, se una cosa è più in alto o più in basso, se una

cosa va da qui a lì o viceversa. Tuttavia, contentandosi di mettere da parte l’errore, si fa poca strada.

Restano da capire i vincoli naturali sulle possibili modalità concettuali di trasferimento esemplificate

nelle diverse culture (e lingue). Sono questi vincoli che definiscono una naturalizzazione non

riduttiva del processo metaforico.

Per fare un esempio, i concetti di danza e di guerra sono facilmente identificabili in ogni cultura,

ma nella nostra cultura la DISCUSSIONE è sempre stata intesa come una GUERRA, mentre in linea

di principio potrebbe essere intesa in altro modo: per esempio, come una DANZA. L’uso della lingua

italiana (al pari dell’inglese, del francese ecc.) dà ampia testimonianza dello schema metaforico

secondo cui la discussione ha carattere conflittuale:

attaccare le idee di qualcuno

difendersi dalle obiezioni

distruggere i punti forti dell’avversario 43 In tutti questi casi (e nelle loro meno palesi varianti) l’inferenza segue il modello dell’argomento zenonianodel mucchio (sorite). L’ampio successo di una simile inferenza non toglie che sia una fallacia.

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resistere alle critiche

rafforzare le mura della democrazia

battere il governo con la forza delle argomentazioni.

Se ci sia una cultura e una lingua in cui, a proposito della DISCUSSIONE, le metafore sono

sistematicamente legate alla danza, non lo so. A titolo personale: sarebbe bello sapere che una

cultura simile c’è o c’è stata davvero e sarebbe ugualmente bello se la danza diventasse il nostro

modello di discussione. Ma forse è una pia illusione, perché anche i giochi che più sono frequenti e

più piacciono nelle più diverse culture sono giochi in cui c’è un avversario da battere, qualcuno con

cui competere, non qualcuno con cui collaborare. (Nello sport c’è anche il gioco di squadra, ma

sempre contro un’altra squadra.)

È stato giustamente notato44 che, nella deriva dal no all’oggettivismo al no alla letteralità, un

elemento messo in campo da Lakoff e Johnson è il carattere fuzzy di un gran numero di concetti.

Cioè, si dà per scontato che ci sia una stretta correlazione fra letteralità e possesso di confini

semantici assolutamente netti. Ho argomentato che questa stretta correlazione non è garantita. A

fortiori, è un errore darla per scontata. Io potrei essere un eracliteo, fermamente convinto che panta

rei e, di conseguenza, che non c’è proprio nulla di nettamente definito nel mondo, ove ogni cosa

fluisce in un’altra, e tuttavia potrei credere, senza contraddirmi (almeno in questo), che il mio

discorso sul fluire è del tutto letterale e che il mondo è oggettivamente fatto così (panta rei) e non in

altro modo.

Il fatto che tra l’acqua di un fiume e il ghiaccio, come tra giallo e arancione e tra vaso e ciotola, ci

siano stadi intermedi che non sapremmo come definire e che non è detto siano definibili in modo

univoco (se non istituendo una convenzione), non ci obbliga a negare una qualche oggettività alle

sostanze, ai colori, alle forme. Se l’oggettivismo vuol far credere che il mondo sia in sé tagliato con

l’accetta, facciamo bene a rinunciare all’oggettivismo, perché manca la minima prova di tale credenza

e non si capisce quale prova potrebbe mai essere trovata. Tuttavia, questa rinuncia non porta a dire

che tutto ciò cui ci riferiamo usando le parole è una costruzione irrreale perché è fuzzy.

Le differenze tra i colori sono un esempio particolarmente calzante. La questione se i colori

siano qualcosa di oggettivo o no è complessa ed è oggetto di controversie ancora oggi. Senza

entrare nei dettagli, è sufficiente notare che spesso siamo soggetti a ‘illusioni’ cromatiche quando la

luce ambientale è diversa da quella consueta. Tali ‘illusioni’ fanno appello alle stesse risorse cui ci

44 Cfr. E. McCorduck, A cognitive theory of metaphor, MIT Press, Cambridge (MA) 1990.

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affidiamo per evidenziarle come ‘illusioni’, però non ho ancora trovato un solo psicologo disposto,

per lo stesso motivo, ad ammettere che potrebbe sbagliarsi al riguardo (e dunque il suo set

sperimentale è tutta un’illusione e il soggetto esaminato dice come stanno veramente le cose). Fa

male? Se un gatto intelligente diventasse consapevole del fatto che qualche volta vede topolini dove

non ci sono, farebbe bene a mettere in discussione (con un altro sorite) tutte le sue percezioni perché

in linea di principio inaffidabili? In tal caso, morirebbe semplicemente di fame. Meglio una morte

coerente che una vita incoerente? Il punto è piuttosto: per diventarne consapevole, ha dovuto far

appello alle stesse capacità percettive che mette in dubbio. Gli errori di percezione e di

rappresentazione si scoprono agendo, ma per agire dobbiamo servirci dei nostri sistemi di

percezione e rappresentazione. L’impiego del nostro pacchetto di schemi basici non ci garantisce la

correttezza o la verità: ci garantisce la sensatezza e, con essa, la possibilità di una conoscenza.

Appendice sull’edizione italiana di Metaphors we live by

L’Introduzione all’edizione italiana curata ha il pregio della chiarezza e della sintesi, ma in essa

ricorrono alcune idee che ho indicato come errate. Mi limito a segnalarvi le principali.

A pag. 12 si dice che la metafora è uno strumento “senza il quale sarebbe impossibile qualsiasi

nostra operazione concettuale”. A pag. 13 si dice che “individuare strutturazioni metaforiche …

conduce a mettere in crisi il concetto stesso di significato ‘letterale’, che viene a dissolversi in una

gerarchia di livelli metaforici …”. Sono affermazioni in contraddizione non solo con quanto abbiamo

argomentato ma anche con il testo tradotto. Infatti, nel cap. 1 a pag. 21 si legge: “il nostro sistema

concettuale è in larga misura metaforico”. E a pag. 22, “la maggior parte del nostro normale sistema

concettuale è di natura metaforica”. In larga misura, non totalmente; e la maggior parte, non tutto.

A pag. 14 si dice, in relazione alle differenze tra metafore in uso nella cultura americana e nella

nostra, che ”le conoscenze di senso comune”, organizzate metaforicamente, sono presupposizioni “al

di fuori delle quali è impossibile una rappresentazione del significato”. Naturalmente, se così fosse,

per noi dovrebbe essere impossibile comprendere il significato delle metafore ricorrenti nell’inglese

americano.

Sempre a pag. 14 si dice che il libro di Lakoff e Johnson ci dovrebbe far riflettere “sul relativismo

culturale dei nostri, e altrui, stereotipi”, dando per buono che per relativismo culturale si intenda

relatività culturale, che questa ci sia davvero e che la cosa principale che emerge dallo studio

cognitivo delle metafore sia il loro carattere di stereotipi culturali. È fin troppo facile rendersi conto

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delle differenze metaforiche da lingua a lingua; e più che opportuno è riconoscere gli stereotipi

culturali per non restarne schiavi, ma l’importanza di uno studio degli schemi metaforici si colloca su

un piano più profondo. (Questo piano più profondo, se si commettono gli errori precedenti, non è in

alcun modo accessibile.)

Che questi errori siano motivati dal modo in cui Lakoff e Johnson si esprimono in questo libro

è più che comprensibile, ma tra l’anno della prima edizione americana e l’anno della traduzione in

italiano lo stesso Lakoff è giunto a formulare una concezione secondo la quale i concetti metaforici

sono strutture neurofisiologiche: qualcosa che dovrebbe essere assurdo stando all’Introduzione.

Quando Lakoff e Johnson scrivono nella Prefazione, pag. 16, che il loro intento è stato quello di

smantellare l’idea di verità “oggettiva e assoluta”, possiamo concordare, per quanto riguarda la verità

assoluta, e non concordare, per quanto riguarda la verità oggettiva. Il guaio, come abbiamo visto, è

che nel testo le due nozioni si sovrappongono.

Il libro di Lakoff e Johnson è scritto in maniera molto semplice ed è pure articolato in brevi

capitoli, in ciascuno dei quali si focalizza un singolo aspetto della metafora. Le linee di fondo della

loro teoria delle metafore sono esposti nei capp. 1 e 2. Nei capp. 3, 4, 5 sono trattati alcuni schemi

metaforici di base: MANIFESTO/NASCOSTO e ORIENTAMENTO SU/GIÙ. Nel cap. 6 il tema è

quello della “nominalizzazione”, corrispondente al processo logico-linguistico che trasforma una

proprietà o relazione (sia statica che dinamica) in un oggetto, o ENTITÀ (pesante → peso, sano →

salute, amico → amicizia, viaggiare → viaggio, ecc.). Vi prego di nonconfondere il processo logico-

linguistico di nominalizzazione e, corrispondentemente, di oggettivazione, con un processo

metaforico.

Per quanto in maniera sintetica, nel cap. 6 si accenna a uno schema pervasivo del nostro modo

di pensare … i pensieri, quello del CONTENITORE. Un modo particolare di oggettivazione è la

personificazione, illustrata con molti esempi nel cap. 7. Il cap. 8 spiega che la metonimia (insieme

alla sineddoche) ha caratteristiche specifiche che impediscono di confonderla con una metafora:

l’essere x stabilmente correlato a y non è di per sé un trasferire il significato di x a y. Il carattere

parziale del trasferimento di significato è trattato nel cap 11: è ciò che spesso ho indicato con il

termine “locale”, in onore alla spazializzazione che prende corpo nella BASE. I capitoli successivi,

dal 12 al 17, mettono in evidenza vari aspetti legati alla coerenza, allorché più proiezioni metaforiche

si combinano tra loro. Nel cap. 18 sono discusse criticamente alcune precedenti teorie dei concetti

che non danno il peso dovuto alla strutturazione metaforica. Particolarmente rilevanti sono le

obiezioni relative all’omonimia. Fino al cap. 23 il testo prosegue con l’esposizione dei tratti che

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contraddistinguono la teoria esposta rispetto ad altre, per quanto concerne la spiegazione di

fenomeni semantici. A questi tratti distintivi ho più volte fatto cenno e quindi vi rimando alle pagine

relative degli Appunti.

Dal cap. 23 in poi inizia la parte più filosofica, e più problematica, del libro. Su questa parte mi

sono soffermato nelle ultime pagine. Il tentativo di prendere le distanze sia dall’oggettivismo sia dal

soggettivismo, entrambi “miti” della filosofia occidentale, è sicuramente apprezzabile. Dubito,

tuttavia, che l’esperienzialismo, com’è qui presentato, possa fornire un’adeguata cornice filosofica

generale. In lavori successivi Lakoff ha sviluppato le idee qui appena accennate e modificato alcuni

aspetti della teoria esposta in Metafore e vita quotidiana. Per completezza, devo aggiungere che le

mie riserve non si limitano a quelle qui sinteticamente esposte45 e, allo stesso tempo, che i lavori

successivi di Lakoff vengono incontro (almeno in parte) a queste riserve. Tutto ciò non deve

impedire di apprezzare quest’opera pionieristica come uno dei testi più interessanti e suggestivi della

semantica contemporanea.

45 Chi sia interessato ad approfondire la tematica può trovare esposto nel mio saggio “Action of structures,structure of actions”, Axiomathes, 7 (1996), pp. 325-348, un quadro fenomenologico/gestaltista alternativo aquello ermeneutico, suggerito più da Johnson che da Lakoff, anche se questa differenza tra i due autori èdiventata chiara in anni successivi alla pubblicazione di Metafora e vita quotidiana.