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Numero quattro

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Cadillac Magazine, Numero quattro - ottobre 2012

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CADILLAC MAGAZINENumero Quattro - Anno Primo

Ottobre 2012Pubblicazione Trimestrale Riservata

Associazione Culturale Cadillac Society Milano

Direttore responsabileAlvise Moncretona

RedazioneMichele Crescenzo, Giulio D’Antona, Natan Mondin

CollaboranoAndrea Ferrari, Mauro Maraschi, Alessandra Montrasio, Andrea Pastore, Martino Sacchi, Roberta Venditti

Hanno partecipato a questo numeroFabio Deotto, Andrea Ferrari, Tivel Hel, Jonathan Lethem, Roberto Mandracchia, Antiniska Pozzi, Francesca Scotti, Stella Littlepoints Venturo

Grafica e impaginazioneGiulio D’Antona, Mauro Maraschi

Correzione bozzeAndrea Pastore

Illustrazione e grafica di copertinaManfredi Damasco

Abbonamentowww.rivistacadillac.com

[email protected]

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editoriale di Alvise Moncretona

TUTTOMERITO DIPERIGNON

Lethem non sarebbe Lethem senza suo pa-dre. Vale anche per gli altri scrittori che

pubblichiamo in questo numero, vorrei mai che si offendessero. Quando si ha un nome il-lustre nell’indice è inevitabile che gli altri au-tori passino inosservati. Ho fatto presente ai ragazzi che non si serve un Krug Grande Cuvée con una selezione dei migliori spumanti no-strani. Non mi hanno ascoltato.

Dicevo, Lethem non sarebbe Lethem senza suo padre, e quando tuo padre vanta un credi-to con qualcuno, in qualche modo lo devi paga-re. Richard l’ho conosciuto che aveva appena divorziato, barba e capelli da chi non riesce a trovare spicci nemmeno per una lametta. L’ho pagato perché la smettesse di insistere: vole-va vendermi a tutti i costi uno dei suoi quadri. L’ho pagato perché il più grande dei suoi figli desse un futuro agli altri due. Ho buttato via i miei soldi, ma all’epoca non sapevo che Jona-than fosse appassionato di Philip K. Dick.

Mi è bastato richiamare in rubrica il suo nu-mero di telefono, il giorno dopo avevamo un suo racconto inedito nella casella di posta.

Le collezioni: ho incominciato anch’io con i francobolli, sono passato a catalogare decalco-manie di alberghi, a parcheggiare auto d’epoca nella rimessa della mia tenuta in Provenza e ho finito con le bottiglie di vino.

Junior non sarebbe Lethem, se non avessi dato a Senior un rotolo di banconote; se non gli avessi affittato a canone ridicolo un magaz-zino a Brooklyn per farne una galleria d’arte; se amici miei con il problema di ripulire qual-che milione di dollari non avessero fatto lievi-tare il prezzo dei suoi scarabocchi da Swann.

Bere, ma non mischiare. O meglio, usare un criterio nell’accostare monovitigni, blend e di-verse gradazioni.

Si parte sempre dal basso, in crescendo. I ra-gazzi non mi hanno ascoltato, nemmeno que-sta volta.

Non so cosa possano avere in comune un tale fissato per i penny di rame, un’istrice piallata sull’asfalto, un giallista norvegese, una vespa sul fondo del bicchiere di una vecchietta inna-morata, tumulti e olio d’oliva, gazebo fradici di acqua piovana e scrittori cubani che a Cuba non hanno mai pubblicato. Non saprei proprio come metterli insieme senza correre il rischio

di ubriacare. Una sbronza fastidiosa che non dà pace fino alla prima birra del giorno dopo.

Lethem non sarebbe Jonathan, senza Ri-chard, avete capito che non c’è niente di edipi-co, nonostante si parli di letteratura. Nessuno indovina indovinelli, inganna sfingi, ammazza padri per poi giacere nello stesso talamo del-la madre. È soltanto una questione di mani che lavano altre mani. Non c’è forza di gravità comparabile alla Win-win strategy, una versio-ne business oriented e politically correct del do ut des latino. Il giovane Lethem pensa di es-sersela cavata con un solo racconto e, per ora, glielo lascio credere.

Enger, Scotti, Mandracchia, Pozzi, Deotto, Gutierrez, Ferrari, Crescenzo senza padre non sarebbero nessuno, senza noi che ve li selezio-niamo e confezioniamo: brut, blanc de blanc, rosé, millesimati e grand cru.

Lo champagne ringrazia l’abate Perignon; i migliori metodi classici ringraziano Veronelli; a voi tocca rendere omaggio al sottoscritto che intreccia rapporti di favore e legami di piacere. Una dote che va sviluppata, io ho incominciato presto.

Godete, ma con calma. Noi ritorniamo fra tre mesi, con un anno in più. Concentratevi su bouquet e persistenza. Il resto, l’etichetta, è solo una questione di marketing.

Alla salute. •

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NON FIORDI, MA OPERE DI BENEIL NUOVO VOLTO DELLA NORVEGIAOvvero: Thomas Enger p. 5

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE L’UNICA COSA PREZIOSAdi Francesca Scotti p. 8

ULTIMA SPIAGGIAdi Roberto Mandracchia p.13

LINCOLN’S CORNER NEWS p.16GENERAZIONE DI MEZZOdi Fabio Deotto p.17

IL COLLEZIONISTAdi Jonathan Lethem p.25

QUANDO FUORI PIOVEdi Antiniska Pozzi p.31

SE FOSSIMO NATI MORTICOME UNA CAREZZALa storia di Pedro Juan Gutiérrez p.36

IN QUESTONUMERO

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a cura di Andrea Ferrariillustrazione di Stella Littlepoints Venturo

NON FIORDI,MA OPEREDI BENE

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IL NUOVO VOLTOANTIPATICODELLANORVEGIAOvvero: Thomas Enger

Ho conosciuto Thomas Enger in un pome-riggio di un’umida primavera nei sotterra-

nei del Dipartimento di Scandinavistica dell’U-niversità di Milano, e mi sono trovato di fronte un tipo molto tranquillo. Un uomo giovane, convinto dei propri mezzi e tremendamente timido. Io con i pantaloni corti e i calzini bian-chi, lui con il suo pezzato impeccabile. Io con il mio norvegese stampellato di Bergen, lui con il suo norvegese madrelingua e capitolino, con le esse a sciacquone. Lui con il piglio del pre-destinato che veniva a presentare il suo primo libro in assoluto con in tasca un contratto per altri cinque, io che navigavo verso la chiusura del mio quarto volumetto e avevo in tasca tre euro e l’abbonamento ATM. Insomma, Thomas Enger è stato cordiale, un po’ ingessato e tre-mendamente asettico nonostante il suo primo libro, Morte apparente, non avesse proprio niente di asettico e ingessato.

Enger è proprio il caso tipico dello scritto-re a prescindere. Prescinde cioè dal proprio aspetto di giornalista inquadrato, da composi-tore svolazzante e secchioncello. Enger è dop-pio. O triplo. E devo sforzarmi di fregarmene dell’odio invidioso che mi ha suscitato a pelle, devo riconoscerne le indubbie qualità.

Morte apparente è un libro coraggioso per diversi motivi. In primis perché si rifà sen-za false velleità d’innovazione ai topoi della letteratura criminale scandinava, in secundis perché ha il coraggio di parlare di una delle più grandi e occulte vergogne dei norvegesi: il pregiudizio. Il libro ha il merito di portare alla ribalta il tema della Sharia in Norvegia, merito che noi italici lettori riconosciamo all’autore, ma che abbiamo faticato colpevolmente ad at-tribuire a un nostro scrittore, il caustico Paolo Grugni che con il suo Italian Sharia ha traccia-to un chiaro segno di rottura con il buonismo imperante che popola le narrazioni mondiali.

È un articolo per incalliti lettori di genere, questo; me ne dolgo e me ne vanto umilmente. Laddove Grugni mette al centro la Sharia ap-plicata alla realtà italiana, Enger la usa come depistaggio, come presunto movente, come una sorta di senso apparente e comune che di-viene quasi sempre ingannevole. Qui le strade dei due scrittori si dividono per non incontrar-

si più, così con il mio scrivere mi faccio forse unico trait d’union fra i due.

Il personaggio di Enger, il giornalista Hen-ning Juul è di per sé un outsider, un personag-gio vero il cui background non scritto rappre-senta il reale mistero da dipanare.

Chi è Henning Juul? Perché è per metà car-bonizzato? Perché lui è sopravvissuto al rogo che lo ha menomato, mentre suo figlio no? E soprattutto cosa c’entra il suo lavoro con l’in-cendio che gli ha cambiato la vita? Domande che troveranno risposte nelle pagine del libro, e soprattutto lungo tutta la serie.

Il vero protagonista del libro, comunque, è il dolore. Fisico, morale, mortale, anzi appa-rentemente mortale. E questa continua analisi – interiore ed esteriore – del sentimento del dolore, del rammarico e dell’impotenza rende Morte apparente qualcosa di più. Non solo un noir, non solo un libro d’intrattenimento, ma un libro di formazione, o di distruzione, dal-le ceneri del quale forse rinascerà una fenice

NON FIORDI, MA OPERE DI BENE

Thomas Enger ha pubblicato in Italia: Morte apparente (Iperborea, 2011); Dolore fantas-ma (Iperborea, 2012).

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bruciacchiata e zoppa, ma con una forza so-vrumana. Enger è stato accostato a superau-tori da cassetta come Jo Nesbø, ma credo che la sua dimensione non sia la stessa di questi bestsellers. Thomas è più intimo, più riserva-to, e forse una chiave del suo successo (a mio avviso così poco scandinavo) sta proprio nelle parole che non ha scritto e che non ha detto. Perché, per inciso, anche nella conferenza cui ho assistito le risposte gliele hanno dovute ca-vare con le pinze.

In questi giorni tra l’altro è in uscita, sempre per Iperborea, il secondo episodio della saga, Dolore Fantasma. •

“Henning Juul non sa perché è seduto lì. Proprio lì. Le assi sono dure. Scheggiate. Scomode. Eppure si siede sempre lì. Esat-tamente nello stesso posto. Morelle rampi-canti crescono tra le gradinate che salgo-no verso il centro sportivo di Daelerenga. I calabroni ronzano indaffarati tra le bac-che velenose. Le assi sono umide. Lo sente sul sedere, pensa che poi a casa dovrà cam-biarsi. Non sa se ne avrà voglia. Un tempo stava lì a fumare. Non fuma più. Non per salute o buon senso...”

- Morte apparente -

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a cura di Mauro Maraschi

UNA COSAPICCOLACHE STA PERESPLODERE

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La sua guancia aderiva al terreno, pietra pal-lida e friabile di cui quel sud era fatto. Gli

occhi fissi guardavano il mare. Sembrava che stesse apprezzando l’orizzonte, non fosse sta-to per il sangue che gli colava dall’orecchio.

*

Ines e Tom si erano conosciuti in spiaggia, una mattina presto, quando lui, di solito impe-gnato a scattare foto per i clienti del villaggio, si stava godendo quel poco di mare che gli ora-ri di lavoro gli consentivano.

La voce delle onde era solo un sussurro, il sole, invece, già mordeva.

Ines, che da quando aveva compiuto set-tant’anni aveva assistito alla diminuzione co-stante delle sue ore di sonno, approfittava di quella pace mattutina per camminare sulla sabbia e bagnarsi i piedi di tanto in tanto.

L’inverno precedente, mentre sua figlia, con la solita fretta, la accompagnava a fare acqui-sti natalizi, era quasi scivolata sul ghiaccio. Da allora aveva avuto bisogno di appoggiarsi a un bastone, più per sentirsi sicura che per un so-stegno effettivo. Non lo abbandonava nemme-no quando entrava in acqua, anche se sprofon-dava nella sabbia e le onde lo strattonavano.

Quella mattina Tom non si era accorto di non essere solo, immerso com’era nel pensiero di Sofia: si erano fidanzati due mesi prima delle vacanze, quando a scuola si doveva studiare di più per evitare gli esami a settembre. Tom non poteva rischiare: lo aspettava un’estate di lavoro senza tempo per i libri. Eppure si era innamorato.

Si sfilò maglietta e calzoni e li abbandonò su una sdraio ancora umida di notte. Si stropic-ciò gli occhi, stirò le belle braccia abbronzate e si confuse con il mare, puntando all’orizzonte già nitido. Nuotava come chi non deve preoc-cuparsi di tornare a riva.

Ines lo seguì con lo sguardo finché Tom non fu solo un punto scuro nel blu. O forse era un’onda, o un riflesso.

L’UNICACOSA PREZIOSAdi Francesca Scottiillustrazione di Manfredi Damasco

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I figli di Ines avevano insistito perché tra-scorresse almeno una settimana al mare, per la salute. Era stato inutile spiegare loro quanto preferisse stare a casa, con le sue abitudini e il pianoforte. Aveva da poco ripreso a studiare Papillon di Schumann e quelle note la facevano tornare ragazza. Una dannata frase non le dava tregua. Non riusciva a risolverla, le articolazio-ni avevano perso agilità, le spalle si irrigidiva-no subito, togliendo energia alle mani. Ecco come avrebbe voluto impegnare la sua estate: esattamente come tutti gli altri mesi dell’anno, a suonare e prepararsi i piatti che preferiva. Sua figlia era a dieta da tempo immemore e la accusava di cucinare in maniera troppo pesan-te; suo figlio, quelle rare volte che rinunciava ad andare in palestra durante la pausa pranzo per passare a trovarla, esigeva insalata e bresa-ola. A Ines non piaceva quel cibo senza amore e continuava a preparare supplì dorati, risotti filanti e crostate di frutta. Anche se mangiare quelle prelibatezze da sola era indubbiamente triste.

Dopo settimane di insistenza incrociata da parte dei suoi figli aveva finito per cedere. Scelsero per lei un villaggio sul mare, tra i più prestigiosi della zona. I pasti erano compresi ma Ines pretese di avere una suite dotata di cucina.

«E se poi quello che preparano non mi pia-ce? Volete che digiuni per un mese?»

La accontentarono.

*

Tom nuotava assecondando le onde, guarda-va il fondale, la sabbia percorsa da increspatu-re regolari: pareva della glassa decorata usan-do i denti di una forchetta. Quante settimane di lavoro ancora gli mancavano? Nove. Una la fotocopia dell’altra. I clienti cambiavano, cer-to, ma dopo i primi tempi, durante i quali si era divertito a conoscere gli altri, aveva perso entusiasmo. Anche se doveva simularlo ogni mattina.

Quando incontrò Ines sul bagnasciuga, si sforzò di offrirle il suo miglior sorriso e di pronunciare un buongiorno credibile. Ines era trincerata dietro un paio di occhiali da diva e un grande cappello dalla tesa floscia. Anche se

sua figlia le aveva comprato costumi interi fatti appositamente per dare forma a un corpo che sfuggiva da tutte le parti, non aveva mai avuto il coraggio di togliersi il caftano. Nemmeno ora che l’acqua le cingeva la vita. Rispose al saluto di Tom con un cenno, continuando a guardare l’orizzonte, come se stesse aspettando la com-parsa di qualcuno.

Trovava tutti così poco autentici in quel luo-go e non voleva averci a che fare.

Tom, soddisfatto della nuotata, ripiegò ver-so la riva. Aveva solo mezz’ora per prepararsi e fare colazione. Si frizionò i capelli corti con l’asciugamano e poi se lo fermò in vita. Con lo sguardo cercò i vestiti. Ma non li vide. Si ab-bassò per controllare sotto la sdraio. E poi tut-to intorno.

Lettini allineati, ombrelloni ancora chiusi, sabbia rastrellata e fresca sotto i piedi. Gli uni-ci elementi a popolare quel deserto mattutino erano l’anziana signora nell’acqua e la sua bor-sa di paglia appoggiata un paio di sdraio oltre quella dove si trovava lui.

Sapeva bene quanto sarebbe suonato biz-zarro domandare a una sconosciuta se, per caso, avesse visto i suoi vestiti. Ma si diresse comunque verso di lei.

Mentre passava accanto alla borsa della donna però fu attratto da qualcosa di rosso che spuntava dall’interno. Erano i suoi vestiti, appallottolati e buttati dentro. Ma che stupido dispetto era? E poi da una signora di quell’età.

Per un attimo restò immobile, indeciso sul da farsi.

Il sole lo scaldava e la salsedine gli si stava rapprendendo sulla pelle. La signora era sem-pre ferma, rivolta al mare aperto, e non si voltò nemmeno quando Tom le fu accanto.

«Buongiorno, scusi se la disturbo.»Lei si girò piano, alzando il viso per guarda-

re quello di Tom «Prima di entrare in acqua ho lasciato i ve-

stiti sulla spiaggia e ora non li trovo più.»«Dovrebbe stare più attento alle sue cose,

non crede?»Tom non si sarebbe mai aspettato una ri-

sposta simile. Cercò una frase per farle capi-re che sapeva benissimo dove si trovavano i suoi vestiti. Lei intanto si levò gli occhiali da sole e impresse il suo sguardo in quello di

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE

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Tom. Nonostante le rughe che le rendevano il viso simile a un foglio di carta stropicciato, i suoi occhi erano freschi. Quelli di una ragazza. Tom si meravigliò del pensiero che gli aveva appena attraversato la mente.

«Grazie in ogni caso» disse voltandosi imba-razzato e risalendo verso la spiaggia con passo svelto. Doveva procurarsi una divisa nuova en-tro pochi minuti.

*

Ines e Tom si incontrarono anche la mattina dopo, e quelle successive. Ines ogni giorno sfog-giava una mise diversa, sempre elegante sotto i suoi cappelli di paglia con nastri o conchiglie decorative. Tom avrebbe voluto fotografarla ma a quell’ora era senza obiettivo. E durante il resto del giorno lei scompariva. Un giorno, mentre tornava dalla sua nuotata, le si avvicinò. «Sa che i suoi cappelli sono molto particolari? Le dispiacerebbe se le facessi un ritratto?»

La luce del sole era forte e il riverbero dell’acqua lo costringeva a strizzare gli occhi e a proteggersi con una mano. Lo sguardo di Ines invece era al sicuro dietro gli ampi occhia-li.

«Non mi fa piacere essere immortalata nella mia vecchiaia.» disse lei brusca.

Erano poche le persone che accettavano su-bito di lasciarsi fotografare, ma poi tutti, e que-sto ormai Tom lo aveva imparato, cedevano dopo un paio di lusinghe. Con lei non sarebbe stato così e Tom sapeva anche questo.

Per Ines e Tom, la mattina in spiaggia era diventata un tacito appuntamento. Tom non capiva bene che genere di persona lei fosse e ne era incuriosito. Si scambiavano solo qual-che occhiata e quando lui le passava accanto prima di tuffarsi si sorridevano.

Ogni sera Ines riceveva la telefonata della fi-glia. «Sì, sto bene, no, non fa troppo caldo. Cosa vuoi, il cibo che servono non è malvagio, ma io cucino meglio. Quindi pranzo a casa. Ho fatto una pasta al forno con sopra la ricotta stagio-nata che è una meraviglia, dovresti assaggiarla. Ma sì, lo so che sei a dieta. Ma perché insisti? Sei bella così, fidati. Va bene va bene, parliamo d’altro. Sai, qui al villaggio ho conosciuto un ragazzo. Vuole fotografarmi.»

Appena Ines pronunciò queste parole si rese conto di aver usato un tono troppo compiaciu-to. E che sua figlia non avrebbe perso l’occasio-ne di rimproverarla.

«Ma no che non mi faccio abbindolare da un ragazzino. Ma quali soldi, quale orologio! E poi cosa vuoi che mi porti via, il cuore? È l’unica cosa preziosa che indosso.»

*

Faceva caldissimo quella mattina. Tom ave-va mezza giornata libera e, dopo il bagno, de-siderava andare in città. Invece della divisa in-dossava una maglietta dell’Hard Rock Cafè di Londra, meta della gita scolastica. Poi pantalo-ni corti a scacchi e un paio di Converse logore. Si tolse scarpe e i vestiti, che piegò con cura.

Ines passeggiava sul bagnasciuga, le onde le accarezzavano le gambe pallide e il bastone.

Tom aveva nuotato pensando al seno di So-fia, al suo sapore. Prima che lui partisse ave-vano fatto l’amore. Era stata la prima e unica volta. Non aveva avuto altre fidanzate ed era certo che sarebbe durata per sempre

Raggiunta la sdraio dove aveva lo zaino, tenendo ben stretto l’asciugamano in vita, si sfilò il costume e indossò i pantaloncini diret-tamente sulla pelle. Abbottonò la camicia e si sedette per togliersi la sabbia dai piedi e infi-larsi le scarpe. Ma le scarpe non c’erano più.

Si alzò, per guardare dove fosse la signora: era nell’acqua fino alle ginocchia, il caffettano color limone si stava bagnando.

Andò spedito verso la sua borsa: delle strin-ghe spuntavano dalla chiusura.

Arrabbiato, si diresse verso di lei, affondan-do i passi nella sabbia tiepida.

Fino a quando non le fu accanto lei non lo degnò di uno sguardo, sorda ai suoi “mi scusi” che si mescolavano al frinire delle cicale

Una piccola onda li bagnò entrambi e lei si voltò di scatto.«Che ne dice di venire a pranzo da me?» gli propose, facendogli morire in gola la frase che si era preparato.

«Io veramente...»«È il suo giorno libero, non inventi scuse.»Si levò gli occhiali e affondò le sue pupille in

quelle di Tom, come si morde un frutto matu-ro.

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Lui arrossì.«Ho preparato i supplì di riso.»Tom non sapeva cosa rispondere.«Su, vada a farsi il suo giro in paese. L’aspet-

to per l’ora di pranzo.» Tom non disse nulla, si voltò e correndo raggiunse la riva. Scalzo salì le scale, fino alla reception.

*

«Sono buonissimi, signora» disse Tom men-tre si puliva le dita unte sul tovagliolo. Lo era-no davvero, perfettamente dorati, il riso com-patto, il ripieno che si sentiva a ogni boccone. Ines gli aveva impedito di usare le posate, i supplì non possono essere tagliati e inforchet-tati. Vanno morsi.

Tom le aveva portato dei fiori, i suoi lo ave-vano educato a non presentarsi mai a mani vuote. Ines li aveva messi nella brocca dell’ac-qua, dato che nella suite non c’erano vasi, e ora troneggiavano al centro del tavolo. Anche lei mangiava con le mani e Tom guardava quelle dita nodose e macchiate dagli anni. Sembra-vano ossa ricoperte di carta sottile. Un po’ gli facevano ribrezzo a contatto con il cibo.

«Chiamami Ines, basta con signora» gli ave-va detto portando in tavola la ciambella all’an-guria, ricoperta da fiori di gelsomino e scaglie di cioccolato. Gliene servì una fetta: tremolava nel piatto e i gelsomini sprigionavano un odo-re delizioso.

La settimana dopo Ines gli preparò lo sfor-mato di patate e la torta con crema e pinoli; quella dopo ancora la parmigiana, e poi i fiori di zucca ripieni, il riso patate e cozze.

Mangiavano insieme, parlavano poco. Si chiamavano per nome.

*

«E va bene, se proprio ci tieni te lo dico: sono contenta che abbiate insistito per farmi passare qui l’estate».

Ines sapeva che davanti a una simile dichia-razione sua figlia si sarebbe insospettita. Ma non aveva senso mentire, Tom la rendeva fe-lice.

«Sì, lo vedo ancora. È così gentile. Ma vuoi smetterla di preoccuparti? Cosa vuoi che suc-ceda, credi che non sappia badare a me stes-sa?»

*

Tom non aveva la forza di sollevare gli occhi dal piatto, e aveva dovuto attendere il sorbetto alla menta per riuscire a trovare il coraggio:

«Ines, questa è l’ultima volta che vengo da lei.»

Pregava che lei non gli domandasse il moti-vo.

«Qualcuno dell’organizzazione ha avuto da ridire? Tom, potrà impiegare la sua giornata li-bera come meglio crede, o no? Non si angusti, questo pomeriggio parlo io con i suoi superio-ri.»

Tom affondò il cucchiaino nel sorbetto. Si scioglieva rapido, creando a contatto con il ve-tro una sorta di schiuma.

«Non c’entra l’organizzazione. È la mia ra-gazza, è gelosa.»

Ines si mise a ridere aprendo la bocca.«Gelosa di noi? Sia serio e non le dia retta.

Lasci pure il sorbetto, non è un granché. L’a-spetto settimana prossima» disse lei stenden-do il braccio scheletrico verso il bicchiere.

Tom le fermò il polso con la mano. Quella ri-sata di scherno lo aveva irritato.

«Ci tengo a Sofia, non voglio che soffra. Perciò questo è il nostro ultimo incontro.» E si alzò dirigendosi verso la porta. La mattina dopo Tom non si presentò in spiaggia e nem-meno quella successiva.

*

Ines gli aveva fatto recapitare un messaggio e ora lui lo rigirava tra le mani, nervoso.

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE

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Rilesse l’orario dell’appuntamento, era la mattina del giorno seguente, all’apertura del bar della terrazza sul mare. Accartocciò il bi-glietto e lo buttò nella spazzatura.

Ines, la mattina dopo, lo stava aspettando seduta al tavolino più vicino alla spiaggia. Il sole era già rovente e le cicale si disperavano.

Lei aveva già bevuto una spremuta e una ve-spa stava assaggiando ciò che era rimasto sul fondo del bicchiere.

«Benarrivato, cosa ti faccio portare?» chiese sorridente, ma era palese che Tom non fosse per niente a suo agio

«Sono a posto così, sono passato solo per sa-lutarla, visto che me lo ha chiesto.»

L’intesa che si era creata durante quei pranzi era svanita. Ines sospirò. Ma Tom non riusciva a sentirsi in pena per lei, anche se aveva tratta-to con leggerezza il suo amore.

«Allora mi accompagni in spiaggia, poi ci sa-lutiamo.»

Si alzarono entrambi, producendo un rumo-re sgradevole con le sedie. Quando arrivarono in cima alle scale lei cambiò mano al bastone e gli porse il braccio.

«Posso contare sul tuo aiuto per quest’ulti-ma volta?»

Tom, controvoglia, annuì. Non le stava più simpatica ma non le avrebbe mai negato una cortesia.

Scesero i primi due gradini lentamente, quando fu la volta del terzo Tom si vide il ba-stone tra i piedi. Prima di perdere l’equilibrio lasciò andare il braccio di Ines. Cadde da solo, rotolando lungo tutta la scalinata.

Che modo assurdo per far finire un amore. •

Francesca Scotti (Milano, 25 aprile 1981) vive a Kyoto. Suona il violoncello, si è laureata in giurisprudenza, ma non fa l’avvocato. Ha imparato a scrivere sulle pareti di casa, ma ora lo fa sulla carta. Nel 2011 ha pubblicato la raccolta di racconti Qualcosa di simile (Ed. Italic PeQuod – Premio Fucini). Con il racconto La pace di chi ha sete e sta per bere ha vinto “Esor.dire 2011”. È stata selezionata per partecipare a “Scritture Giovani” – Festivaletteratura Mantova, Hay Festival, Internationales literaturfestival Berlin 2012.

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ULTIMASPIAGGIAdi Roberto Mandracchiaillustrazione di Manfredi Damasco

Dalla strada statale alla spiaggia quaranta-due passi di funerale. Tre bambini tengono

sollevato un vecchio lenzuolo su cui è steso un gatto arancione e morto. Nelle ore preceden-ti, i tre hanno scavato una buca nella sabbia e adesso, in silenzio, vi adagiano dentro il gat-taccio con il suo sudario a fiori rossi su sfondo blu. Poi, in piedi sul bordo della buca, i bam-bini guardano dentro: il gatto ha i visceri di fuori e un occhio in meno. Perché seppellirlo qui, chiede il più piccolo. Scemosei te lo ab-biamo già detto cento volte, dice il più grande dopo aver sbuffato. Perché il mare pulisce tut-to, risponde il mezzano che è anche il fratello del mocciosetto. Perché il mare pulisce tutto, chiede il piccolo. Gli altri due neanche rispon-dono. Per scavare la buca hanno usato delle vecchie palette di plastica – le stesse adopera-te per trasferire l’animale dall’asfalto rovente al lenzuolo – e adesso, per ricoprirla, usano le mani. Vedendo il gatto scomparire a poco a poco, ricoperto dalla sabbia scura, il bambino più piccolo scoppia a piangere. Scemosei, dice il grande. Scemosei, ripete il mezzano. Il picco-lo riesce a trattenere le lacrime, ma non i sin-ghiozzi che gli scuotono il corpo. Dal chiosco delle bibite e dei gelati proviene una canzone di Vasco Rossi che piace a tutti e tre. Il sole non si decide a tramontare.

Tutto era iniziato con un istrice, piallato da una macchina notturna lungo la strada statale che separa la spiaggia dalle villette dei bam-bini e rimasto lì, per ore, sotto il sole che ab-brustoliva e ne aumentava la corruzione, fino a quando il mezzano e il piccolo, i due fratelli, non lo avevano adocchiato. Si erano avvicina-ti, lo avevano classificato come porcospino ed erano corsi a riferire la macabra scoperta all’a-mico che stava giocando con un gameboy se-duto su una sdraio. Morto morto, domandava il grande. Sì, rispondevano gli altri due. Il grande aveva alzato gli occhi dal videogioco per guar-dare la strada e il mare. Dobbiamo fargli il fu-nerale, aveva detto posando lo sguardo sui due compagni di giochi. Il funerale, aveva chiesto il mezzano. Come ai nonni, aveva chiesto il picco-lo. I nonni sono persone e questo è un animale e a questo gli facciamo il funerale sulla spiag-gia, aveva detto il grande tornando a premere i pulsanti del gameboy. I due avevano annuito. E

così palette, buca, di nuovo palette, una busta plastificata del supermercato e processione. Il sole che bastonava senza pietà. I bagnanti sul-la spiaggia non li avevano notati e quei pochi che l’avevano fatto non avevano compreso di certo il loro rito pagano: per gli adulti l’estate significa non interessarsi alle cose. Preghiamo, aveva chiesto il mezzano togliendosi la sabbia di dosso. Scemosei si prega per le persone, aveva risposto il grande. Io voglio pregare lo stesso, aveva detto il piccolo. Il mezzano gli aveva mollato un ceffone sulla testa e il piccolo aveva preso a piangere e a smoccolare lancian-dogli la sabbia, con rabbia. Il mezzano allora lo aveva fatto cascare giù e gli teneva immobili le braccine. Il grande, guardandoli, desiderava tornare a giocare col gameboy; oppure tuffarsi a mare e stare sott’acqua come fosse una buca e lui un porcospino morto, travolto da un ca-mion e col padre e la madre che piangevano e il padre smetteva di lamentarsi perché lavora-va e la madre smetteva di lamentarsi perché non lavorava. Quando si riscosse da quelle im-magini i due fratelli avevano smesso di litigare e guardavano il cumulo di sabbia su quella che poco prima era stata una buca. Andiamo con le bici, propose il grande. Ma non mi lasciate indietro con le bici, piagnucolò il piccolo. E tu pedala più forte, gli disse il mezzano e poi ag-giunse: io sono Pantani. No io sono Pantani, disse il grande. Un altro litigio sotto il sole.

Dopo l’istrice toccò a un gatto nero con la coda mozzata di netto e finita chissà dove, a un piccione con la pancia aperta e il collo tutto storto e a una lepre che puzzava alla grande: i regali della strada. I tre bambini riservarono loro lo stesso rituale, ormai consolidato – an-che se la lepre li aveva fatti vomitare tutti e tre quando avevano cercato di staccarla, già mez-za mollacchiosa, dalla strada. Come stanno i tuoi amichetti, chiedeva ogni tanto il padre del

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bambino più grande e quest’ultimo sapeva il motivo di quella domanda: la madre dei due aveva una malattia che ti teneva ferma immo-bile e muta come una statua; aveva sentito dire che era una malattia dei calciatori ma dubitava che quella donna avesse mai calciato un pallo-ne in vita sua. Una volta gli era capitato di fi-nire nella camera da letto in cui la donna face-va la statua e lei lo aveva guardato e lui aveva provato paura ma non lo aveva fatto capire ai suoi amici e al padre di loro. La donna-statua a quanto pare comunicava attraverso il marito che doveva prendere una lavagnetta con delle calamite a forma di lettere dell’alfabeto e con quella comporre parole. Il marito, seguendo il movimento degli occhi della donna, dispo-neva le lettere sulla lavagnetta. Quella volta la parola era stata GELATO e il marito le dis-se che sì, avrebbe offerto del gelato al bambi-no. Il bambino sentì il cuore preso a morsi e le gambe gli stavano urlando di correre fuori da quegli occhi, da quella casa, da quella stan-za. Ma era rimasto immobile, come la donna, fino a quando l’uomo non li aveva condotti in cucina, prendendo poi dal frigo tre ghiaccioli al limone. Il suo, per metà, si era sciolto sulla mano rendendola appiccicosa. Come stanno i tuoi amichetti, domandava il padre. Bene, ri-spondeva il bambino chiedendosi se anche i suoi due amici, da grandi, sarebbero diventati delle statue con gli occhi che si muovono e che

fanno paura. Poi, per almeno una settimana, niente più regali della strada. I tre si limita-vano ad andare in giro sulle bici o a costruire grandi castelli di sabbia. Ogni tanto i due fra-telli giocavano a calcio e chiedevano all’amico di unirsi a loro ma lui rifiutava sempre, brusco e come impaurito. E dopo una settimana, quel pomeriggio, si erano accorti del gatto arancio-ne: era ora di riprendere le palette.

La canzone di Vasco Rossi lascia il posto a una che non conoscono, una straniera. Perché se il mare pulisce tutto non li abbiamo butta-ti a mare, chiede il mezzano. Il grande sorride ed è un sorriso da ‘scemosei’. Il mare sta an-che sotto la spiaggia, dice. Il piccolo annuisce mentre il mezzano non sembra convinto del-la risposta ma alza le spalle come a dire: chi se ne importa: è estate; e in questo, sembra già un adulto. Il sole alla fine si sta deciden-do a diventare rosso e cascare giù. Io torno a casa, annuncia il grande. Ci vediamo domani mattina, chiede il piccolo smettendo per un attimo di giocare con una conchiglia. Occhei, dice il grande e si incammina verso la sua vil-letta. Sente sua madre canticchiare la canzone di Vasco mentre cucina e trova suo padre che sta innaffiando il giardino. Il bambino si siede sulla sdraio e per la prima volta si accorge che la loro palma, d’estate sempre verde e arancio-ne, adesso è tutta marroncina e sembra una gi-gantesca scopa vecchia. Pa’, chiama il bambino,

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pa’. Il padre, sempre tenendo sollevato il tubo di gomma verde da cui esce l’acqua, si volta a guardarlo. Perché la palma è così, chiede il bambino. Il padre guarda la palma e scuote la testa. Colpa del punteruolo rosso, dice. E cos’è, chiede il bambino. Un insetto che arriva sulla palma e la rovina, spiega il padre. E la palma sta male, chiede il bambino. Sta male sì, ri-sponde il padre tornando a dargli le spalle. Il bambino fissa ancora la palma e poi volge lo sguardo al mare e immagina di scavare sulla spiaggia una buca enorme, anche se ci voglio-no anni e anni, e poi di infilarci dentro la loro palma e, dal momento che la buca è così gran-de, anche la madre-statua dei suoi amici e an-che i suoi amici-future statue e poi impiegare altri anni e anni a ricoprirli perché sì, perché il mare pulisce tutto. •

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE

Roberto Mandracchia è nato nel 1986 ad Agrigento. È redattore della rivista letteraria Ter-raNullius. Suoi racconti sono stati pubblicati su antologie e riviste cartacee e sul web. Il suo primo romanzo si intitola Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza ed è stato pubblicato da Agenzia X.

Ultima spiaggia è apparso per la prima volta su www.scrittoriprecari.wordpress.com

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LINCOLN’SCORNERNEWSeditoriale di Giulio D’Antona

Potrei impostare l’editoriale sui racconti di questo numero quattro ritardatario, come

una risposta al direttore. Una lettera aperta da subalterno graziato, ma non lo farò. Potrei dire che abbiamo la fortuna e l’onore di pubblicare un inedito di quel diavolo di Jonathan Lethem, e raccontare la giungla di agenti e contatti e collaboratori che abbiamo attraversato prima di veder comparire il dattiloscritto. Non farò nemmeno questo. È una storia che molti sanno già, e chi non la sa e vuole conoscerla può chie-dermela personalmente.

La verità è che dopo quattro numeri e più di un anno di attività, la fortuna e l’onore non c’entrano niente. Ogni racconto pubblicato e che io e Mauro abbiamo avuto la fortuna e l’o-nore di editare o tradurre – questo sì – è un mattoncino in più, è un asse in più nella capan-na di Lincoln e finché ce ne sono non c’è niente che possa andare storto.

Capita sempre più spesso, quasi esclusi-vamente in verità, che siamo noi a chiedere i racconti da pubblicare e non è mai capitato che rimanessimo delusi. Di seguito trovate sì Jonathan, ma anche Fabio, che è un autore e un amico ed è stato in grado di dipingere una re-altà distopica così convincente da farmi venire timore nell’uscire di casa – sono due mesi che sto chiuso qui e ora ho finito l’olio – e trovate Antiniska, che il racconto ce l’aveva mandato tanto tempo fa e che noi abbiamo fatto aspet-tare, ma ne è valsa la pena e non può esserci nulla di più indicato per l’autunno che è appe-na cominciato.

Insomma, questa ormai è storia, una gran bella storia, e il resto è quello che ne verrà. Mattoncino su mattoncino, asse su asse, rac-conto su racconto.

A un certo punto ho avuto Lethem in copia di conoscenza, sta andando tutto bene. •

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GENERAZIONEDI MEZZOdi Fabio Deottoillustrazione di Manfredi Damasco

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI

Sono passati due mesi dall’ultima volta che sono uscito di casa.

Era un giovedì mattina, avevo finito l’olio e alle 10 il servizio di consegna online aveva già esaurito le scorte. A dicembre il riscalda-mento funzionava ancora, ma la finestra della cucina mandava spifferi che lasciavano intui-re un tempo carogna. Per ritrovare il cappot-to rovistai mezz’ora. Stava su nel ripiano più alto dell’armadio, sepolto dalle giacche e dai soprabiti di Irina. Quando me lo caricai sul-le spalle mi sembrò troppo pesante e largo e impiegai qualche minuto a realizzare quan-to fossi dimagrito. Tra i cappelli di Irina c’era anche una sciarpa, era sottile, rosacea, visibil-mente costosa, ma anche abbastanza logora da non farmi sembrare una checca. Indossai due paia di calze. Una strofinata alla barba, un po’ di smorfie davanti allo specchio crepato e mi sentii abbastanza in forma da uscire.

Che avevo ancora addosso i pantaloni del pigiama me ne accorsi solo sul pianerottolo. La vecchia dell’appartamento a fianco, la stes-sa che ogni sera si dimentica Baglioni a tutto volume, usciva in quel preciso istante dall’a-scensore.

«Buongiorno, signora» accennai, vedendola trascinare il suo pastore tedesco senza solleva-re gli occhi da terra. La vecchia si bloccò sullo zerbino e accarezzò la testa del cane che sco-dinzolava impaziente picchiando una zampa sul legno della porta. Ci mise un po’ a voltarsi, quasi avesse paura che stessi per aggredirla.

«Ho bisogno di cambiare un paio di credi-ti in valuta tangibile» dissi «Non esco mai per fare la spesa, quindi capisce...»

Il sistema pneumatico dell’ascensore era rotto da mesi e la porta era rimasta spalancata. Non avevo bisogno di entrare nella cabina per sapere che Giorgio, il cane, aveva un’altra volta infradiciato il tappetino. L’olezzo arrivava an-che a due metri di distanza, spinto da un filo d’aria gelida che si avvitava su per la tromba delle scale.

Per qualche altro istante la vecchia si dedicò a squadrarmi dalle caviglie al petto, quindi si decise a incrociare il mio sguardo. I suoi occhi erano già velati dal sipario irreversibile delle cataratte.

«Il fatto che non lavori non ti dà il diritto di importunare la gente per bene» sentenziò la-conica. Poi tornò a voltarsi e prese ad armeg-giare con le chiavi di casa.

In un’altra vita avrei preso la vecchia e il suo cane a male parole, le avrei spiegato che l’o-steoporosi non le impediva di farsi due trom-be di scale a piedi. In un’altra vita le avrei inti-mato di raccogliere il tappetino e lavarlo in un amen, pena l’interdizione perpetua dall’adora-to ascensore. In questa vita, però, avevo tutto l’interesse a tenere bassa la cresta.

«Dicevo, sono a corto di contanti, ma posso versale dei crediti dall’account...»

«Non porto mai soldi con me, né in borsa né in casa» puntualizzò lei «C’è lo sportello auto-matico allo spaccio, prendo ogni volta quello che mi serve». Poi, dopo aver aggiunto un paio di altri graffi a quelli che intarsiavano la top-pa, riuscì a infilare la chiave e a scomparire nel suo appartamento.

«Puttana», mormorai al pianerottolo vuoto. L’istinto mi fece sollevare lo sguardo alla te-lecamera, il pallino rosso era acceso, l’occhio puntato su di me. Strinsi i cordoni del giac-cone e rientrai in casa. Tornai a frugare tra i vestiti, questa volta nello scomparto più basso dell’armadio. Metà erano regali di Irina. Pescai a casaccio un paio di pantaloni di vigogna e li provai: larghi anche quelli. Questo avrebbe dovuto farmi preoccupare – dopotutto papà era più magro di me – ma decisi che non ne avevo il tempo. In fondo all’armadio trovai una vecchia cintura col fibbione, lo stemma della Etnies spiccava appuntito fin quasi all’ombeli-co, l’ultimo buco stringeva appena attorno ai fianchi. La infilai comunque.

Scesi le scale implorando un dio qualsiasi di non imbattermi in nessuno, nei pochi metri di viale che mi separavano dallo spaccio.

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Illuso. Incrociai un gruppo di pischelli ancor prima

di aver svoltato l’angolo. «Oh, va che legna!» esclamò uno, appena si

trovò l’ombra del mio cappotto sulla testa in-cappucciata, «Bagaz, legna seria!»

I pischelli più cresciuti erano troppo impe-gnati a gestire la situazione a Roma per pre-occuparsi di chi bazzicasse i loro marciapiedi, quelli sotto i venti invece non te ne lasciavano passare una. Galvanizzati dalla mia apparizio-ne, gli altri mocciosi si unirono entusiasti a quel coro incomprensibile di fonemi. Nei loro occhi adolescenti brillava un’arroganza che ancora oggi fatico a comprendere. Un osser-vatore distratto li avrebbe potuti scambiare per bambini che hanno trovato la PlayStation sotto l’albero di Natale. In realtà avevano più gli occhi del randagio che trova una bistecca sdraiata in una ciotola. Non gli sembrava vero di averne incrociato uno, così, senza nemmeno bisogno di doverlo rincorrere.

Il più piccolo dei quattro, un ragazzino in-cappucciato avvolto in un numero imprecisato di indumenti neri, si avvicinò a me, gli altri lo seguirono obbedienti. Arrivò a sfiorare le mie Doc Marteen’s con la punta delle sue scarpe di tela e alzò lo sguardo: due occhi chiari e incaz-zati spuntavano a malapena tra il cappuccio e lo sciarpone nero.

«Bè» disse dopo avermi fissato per un po’ «C’hai niente da dire?»

Avevo fin troppo da dire. In un’altra vita gli avrei volentieri chiesto che ci facevano in strada a quell’ora del giorno, perché non se ne stavano a scuola a dormire come tutti i loro co-etanei. Ma poi ricordai che da due settimane la scuola era sospesa, e ai pischelli più picco-li non pareva vero di poter scorrazzare per le strade in pieno giorno a bullarsi della Vittoria.

«Qualche problema, eh, indignado?» incalzò il ragazzo, vedendo che non distoglievo il mio sguardo dal suo.

Mi morsi l’interno della guancia e scossi la testa. Mi sforzavo di risultare innocuo, ma sapevo che non sarebbe servito. Un istante dopo ce li avevo addosso. Due di loro si lan-ciarono ad afferrare i risvolti del giaccone e me lo strapparono dalle spalle, gli altri due si concentrarono sulle scarpe e si adoperarono a

staccarmele dai piedi a forza: sembravano un branco di piranha con le sciarpe di pile. Ben presto mi ritrovai in maglietta e pantaloni, le calze che si appiccicavano al cemento gelido. A nemmeno a dieci metri dalla porta di casa.

«Fammi indovinare» riprese il pischello. Sembrava molto più tranquillo, ora che mi ve-deva saltellare infreddolito sul marciapiede «Hai finito la carta igienica per asciugarti dopo le seghe?»

Gli altri del branco esplosero a ridere. Lui in-vece rimase serio, continuava a scrutarmi con quegli occhi a fessura.

«Allora, che sei uscito a fare?»«Ho finito l’olio»«Non te lo portano a casa?»«Lo spaccio web non ne ha più.»Da dietro le spalle del capo arrivarono le

urla di un altro: «Va’ che te lo diamo noi, l’olio!»Inclinai la testa in tempo per vedere uno di

loro zampillare un fiotto di piscio dritto sul giaccone che era stato di mio padre. Nel frat-tempo, un altro pischello cercava di dargli fuoco passando l’accendino sotto una delle maniche. A giudicare dalle espressioni del-le loro facce, dovevo essermi imbattuto in un assortimento genetico piuttosto sfortunato. Quelli non sarebbero stati in grado nemmeno di aprirla, una brochure universitaria.

A parte forse il capo, che nel frattempo si era girato a urlare al ragazzino con la patta sbot-tonata

«Ferda, ti si vede la faccia. Copriti, gesucri-sto!»

Tra tutti, sembrava l’unico dotato di un cer-vello funzionante.

Tornò a fissarmi: «Lo sai, vero, perché ti stia-mo facendo questo?»

Annuii. Chiaro che lo sapevo. Ero la personi-ficazione del fallimento globale, il capro espia-torio che avevano scelto per giustificare quegli ultimi anni di sfascio sociale.

«Dove erano quelli come te mentre gli altri si mangiavano tutto?» la sua voce assunse un tono misurato, quasi gli desse fastidio snoccio-larmi quel sermone «Quanti anni avete passa-to a farvi i cazzi vostri? Indignados mantenuti del mio cazzo. Cosa pensavate, che sarebbe tornato tutto a posto così, con un giro di piog-

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gia? Che bastava gonfiare palloncini e svento-lare bandiere colorate?»

Una risposta ce l’avevo, ma le sue non erano davvero domande.

«Lo sai quanti di noi ci sono rimasti secchi, in questi mesi? Eh, lo sai?»

Lo sapevo, e con esattezza pure.«Millequattrocentocinquantuno» sillabò lui,

lentamente, la voce rotta dall’emozione «Sen-za contare gli stranieri, e quelli che ci hanno lasciato le palle tra rappresaglie e vendette. E voi? Eh, quanti di voi?»

«Nessuno...» sospirai.«Non ho sentito.»Alzai la voce: «Nessuno.»Il ragazzino sputò in terra, un po’ di saliva

mi sfiorò l’alluce contratto dal gelo. «Esatto. Ve ne siete stati alla finestra a guardare, vi siete divertiti a riempire i vostri blog buonisti, men-tre noi sputavamo sangue e ci riprendevamo tutto. E ora volete tornare in strada a fare la bella vita. Mantenuti del mio cazzo...»

«In realtà faccio la fame» intervenni io «Tra le traduzioni e gli articoli ci vivo a malap...»

Non la prese come speravo. Si avvicinò len-tamente e abbassò la voce:

«Muto. Devi stare muto, capito? Ti va bene che non ti prendiamo a calci nel culo, ti va.»

In gola mi si andava gonfiando un bolo d’or-goglio grosso quanto un pugno. Lo mandai giù a fatica e annuii di nuovo.

Il ragazzino liberò un altro scaracchio e fece segno agli altri di andare. Quelli mollarono a terra i miei vestiti e lo seguirono. Aspettai di vederli scomparire dietro l’angolo prima di correre a spegnere le fiamme che si stavano divorando la manica sinistra del giaccone. Lo trascinai nella neve, lo scrollai e lo alzai in con-troluce. Si poteva ancora indossare. Delle Doc Marteen’s riuscii a ritrovarne solo una e, quan-do la infilai, la pianta del piede atterrò su qual-cosa di umido. Mi incamminai verso lo spaccio sperando che fossero sputi.

Irina se ne era andata da quasi sei mesi. In casa aveva lasciato un ingombrante vuoto fat-to di cartelle del pc, blu-ray e vecchi vestiti. Alla fine le avances del vecchio avevano fun-zionato. Il perché lo sapevamo entrambi. Non si trattava di egoismo. Il fatto era che in due, così, non ce la si poteva fare, ne avevamo par-

lato tante volte. Lei però aveva voluto lo stesso chiuderla a porte sbattute. Forse perché era più facile incolpare me che accettare l’inelut-tabilità di quella situazione. Mi aveva dato del frocio e dell’inetto, aveva sfasciato un paio di vecchie cornici, mentre turbinava per casa rac-cattando vestiti a casaccio. Poi aveva infilato la porta senza salutare. Un copione scritto e ri-scritto. Non la biasimai. La scelta era stata fat-ta, ne eravamo convinti entrambi e non c’era modo di uscirne con il sorriso sulle labbra. Da quando sta dal vecchio non si è più fatta senti-re. Spero stia bene. Dico sul serio.

Anche da lontano, si intuiva un grande affol-lamento davanti allo spaccio. Decine di pensio-nati si agitavano alla ricerca di un carrello libe-ro. Alcuni scivolavano tra la folla inchiodati sui Segway, vecchie ottuagenarie galleggiavano spiaggiate sulle loro autoseggiole, come tante api che ronzavano al rallentatore intorno a un alveare. Strinsi quello che rimaneva dei cordo-ni del giaccone e mi misi in coda per procurar-mi un carrello.

Superai la torma di anziani senza troppi fa-stidi. Un paio di vecchi si impennarono sui loro bicicli appena in tempo per cantilenarmi uno dei loro insulti in dialetto stretto, e io oltrepas-sai le porte in vetro riflettendo che se uno di quei ruderi si fosse trovato a interloquire con uno dei pischelli che mi avevano accolto fuori casa nessuno dei due avrebbe afferrato nulla.

Ancora sovrappensiero, passai di fronte al bancone degli ortaggi senza accorgermi che proprio davanti a me c’era l’ultimo cespo di lattuga e che, alle mie spalle, una vecchia cic-ciona sbavava preoccupata infossata nella sua autoseggiola. Non feci in tempo ad allontanar-mi che una mano mi afferrò per un gomito. Era un poliziotto, la divisa lucida e il cappello calcato sulla fronte non bastavano a celare la sua vera età. Sicuramente non superava i ven-ticinque.

«Devo chiederti di spostarti» mi disse, con un misto di educazione e disprezzo «Non sei qui per la lattuga, vero?»

Mi liberai dalla stretta e mi allontanai ver-so gli scaffali centrali. Con la coda dell’occhio scorsi la vecchia che si inclinava in avanti pro-iettando l’autoseggiola verso il cespo. Potrei scommettere di averla sentita grufolare.

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Erano anni che non passavo dallo spaccio, l’ordine degli scaffali era stato stravolto. Avrei giurato che le bottiglie d’olio fossero giusto ac-canto ai cartoni del vino, e invece al loro po-sto spiccava la schiera biancastra delle grappe. Quando mi ritrovai per la terza volta davanti al bancone dei surgelati la mia scorta di pazienza era ormai in riserva. Nello spaccio si schiattava dal caldo, mi sarei levato volentieri il giaccone bruciacchiato, ma a quel punto sarei rimasto in maglietta, e non ci voleva una laurea a ca-pire che la mia t-shirt slavata dei Joy Division avrebbe attirato troppi occhi indiscreti. Ol-tretutto era ormai mezz’ora che giravo tra gli scaffali spingendo un carrello vuoto con una sola scarpa.

«Ehi!»Quello che forse voleva essere un sussurro,

suonò più come un urlo con la sordina. Mi vol-tai.

«Hai finito di far cigolare quell’affare? Sem-bri scappato da una corsa a premi»

A meno di un metro dal mio carrello, le brac-cia ficcate in uno scatolone di insaccati, una ra-gazza mi puntava addosso due occhi grigi de-lineati da un orlo impercettibile di trucco. Era carina, un po’ troppo bassa forse. Il suo cor-po era una progressione armoniosa di curve strozzate dentro la rigida uniforme rossa degli addetti alla clientela. Appese un altro salame all’espositore e si decise a incrociare di nuovo il mio sguardo. La poca cortesia di circostanza che aveva usato fino a quel momento svanì in un’espressione infastidita.

«Che vuoi?»«L’olio.»Si sollevò dallo scatolone e sbuffò.«È ancora in magazzino. Fai a meno per sta-

volta.» «Non puoi andare a prendermene una bot-

tiglia?»La ragazza allargò gli occhi sbalordita e sol-

levò la visiera del berretto per asciugarsi la fronte.

«Che cosa ci fai qui?» chiese, tornando a ri-mestare nello scatolone.

«Te l’ho detto. Mi serve l’olio.»«E non puoi procurartelo online come tutti

gli altri?»«Il mio spaccio ha esaurito le scorte.»

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Lei non diede segno di avermi ascoltato. Mentre armeggiava con gli insaccati la sua coda di capelli neri si agitava in controtempo con le sue spalle.

«Colpa degli scontri» aggiunsi.Per un po’ la ragazza continuò a darsi da fare

coi salami, poi chinò la testa esausta, ne prese in mano uno e lo ributtò nello scatolone con violenza.

«Insomma, vuoi levarti dalle palle?» disse, alzandosi in piedi.

«Sono venuto qui solo per l’olio.»«E per crearmi problemi, a quanto pare.»

Era preoccupata, continuava a guardarsi intor-no. Prese a squadrarmi lentamente. Per prima cosa notò la manica carbonizzata, poi la calza lercia. La sua fronte cominciò ad appianarsi.

«Cristo. Incazzati?» Annuii.«Ma non dormono, la mattina?»«Non oggi, stanno ancora festeggiando. Toc-

cherà farli stancare un bel po’, prima della nan-na.»

Le scappò un sorriso. Aveva un bel sorriso. La ragazza mosse lo sguardo ad abbracciare

l’intero corridoio e, trovandolo vuoto, si rilas-sò un poco.

«Tu cosa sei?»«Indovina.»Si morse il labbro inferiore.«Secondo me sei un Scienze della Comuni-

cazione.»«Acqua. Biotecnologie. Tu?»Sorrise di nuovo: «Indovina».«Filosofia» risposi, a bruciapelo.«Bravo. Ora dimmi come cazzo hai fatto.»«L’hai detto tu. Ho tirato a indovinare.»Questa volta la vidi arrossire. Ma durò poco.

Quando si voltò a scrutare il fondo del corrido-io una coppia di vecchie stava guardando dalla nostra parte. Tornò a indossare la sua espres-sione rigida.

«D’accordo, vado a prenderti l’olio. Tu vedi di non muoverti da qua, però, stai diventando un fenomeno da circo con quel carrello.»

La guardai sgambettare fino a scomparire dietro i portoni del magazzino. Solo quando mi diedi un’occhiata intorno capii cosa inten-desse. L’androne dello spaccio era occupato dal silenzio masticato dei suoi clienti abituali,

nell’aria vibrava solo il ronzio ovattato delle autoseggiole. In fondo al corridoio, due grasse signore si sporgevano a confabulare dalle loro monovetture senza perdermi d’occhio. Quan-do si accorsero di essere state viste si ritrasse-ro contro gli schienali e ritornarono placide a galleggiare tra gli scaffali.

Là dentro la vita scorreva alla moviola, e le mie scorrazzate col carrello dovevano aver sortito tra quei plantigradi l’effetto di un ina-spettato, rutilante gran premio.

La coda più corta era quella degli acquisti da cinque pezzi, ma per qualche motivo idio-ta avevo deciso di procurarmi un carrello. Ap-poggiai la bottiglia d’olio di traverso sulla gri-glia metallica e procedetti fino alla cassa dei tabacchi, dove una decina di vecchi col Segway si incolonnavano a sfiorare il bancone gelati. L’occhio mi cadde sulle lancette dell’enorme cipollone che uno di loro portava al polso. Si stava facendo tardi e io avevo un pezzo da pub-blicare per pranzo. A quel tempo potevo anco-ra permettermi di segare una commissione, ma erano comunque cinque euro buttati.

Mentre aspettavo, diedi un’occhiata allo schermo sopra la cassa. Il canale all news mo-nitorava ininterrottamente la situazione a Roma. In zona Tuscolana c’erano ancora edifi-ci che bruciavano e, in attesa del passaggio di consegne ufficiale, i servizi di soccorso erano stati ridotti al minimo.

Le immagini che scorrevano sullo sfondo erano le stesse da giorni: i video amatoriali delle prime rivolte, quelle dell’Agosto Rovente. Migliaia di ragazzini che mettevano a ferro e fuoco le piazze in ogni quartiere e legioni di sbirri in antisommossa che sparavano lacri-mogeni ad altezza di pischello. Le prime in-terviste ai leader della rivolta, le teste scosse e i proclami dei politici che, all’epoca, ancora pensavano di poter cavalcare un’altra prote-sta. Poi la svolta: l’avanzata dei Novecentomila, l’ondata nera di ragazzini che, bloccati all’im-bocco di Piazza Colonna, con un movimento sincrono, terrificante, si levavano le sciarpe e gli zaini, scoprivano guance glabre e fronti cor-rucciate e cominciavano a urlare.

Il silenzio che seguì credo non riuscirò mai a dimenticarlo, io come nessun altro. Mentre i poliziotti della prima fila rilassavano le spal-

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le e si alzavano la visiera, una prima schiera di Incazzati si staccò dal corteo e affondò le mani negli zaini. Ne uscirono molotov, pietre, fionde, fiale sedative, qualcuno già aveva co-minciato a portarsi in piazza le pistole. Erano pochi, troppo pochi, per poter rappresentare una vera minaccia. Gli agenti dell’antisommos-sa caricarono praticamente all’istante.

A quel punto il filmato si interrompeva per concentrarsi sulle singole immagini. Nella prima, una dozzina agenti inginocchiati pun-tavano i lancia-lacrimogeni come fossero fu-cili, mentre i reparti mobili si proiettavano in avanti in un’unica nuvola sfocata. La seconda, scattata da un elicottero, mostrava lo sparuto gruppo di Incazzati che attendevano a gam-be larghe, apparentemente calmi, gli zaini in mano e il volto scoperto. La terza e ultima im-magine mostrava i celerini che interrompeva-no bruscamente la carica e andavano a fermar-si a pochi metri dal gruppo di ragazzini armati. Il perché lo si capiva solo guadando ai margini dell’inquadratura . Dalle vie laterali, si stavano riversavano nella piazza centinaia di persone munite di manganelli, caschi e divise. Nessu-no avrebbe saputo distinguerli da poliziotti veri: le visiere, le pettorine, gli stivali, persino i parastinchi erano state riprodotti nei minimi dettagli.

Durante le lunghe riunioni che, nei giorni successivi all’Agosto Rovente, avevano occupa-to gli uffici del Ministero degli Interni, erano state valutate le eventualità più inverosimili. Nessuno, però, aveva preso in considerazione la possibilità che il movimento seminasse in-filtrati tra le file della Polizia di Stato.

In un primo momento i poliziotti provarono a contrastare la carica. Il filmato mostrava due onde nere e speculari che si scontravano nel centro della piazza. Gli sbirri resistettero per una decina di minuti, poi, una volta che le due compagini si furono mescolate, in assenza di numeri di identificazione sulla pettorina o sul casco, finirono per aggredirsi tra loro.

La voce dello speaker ripercorreva mono-corde la cronologia degli eventi, e intanto sullo schermo scorrevano i primi piani dei volti car-bonizzati di due poliziotti, le fronti tumefatte degli studenti meno veloci, le ambulanze che sfrecciavano nella notte come in un’improba-

bile competizione. «Non abbiamo niente da dire». Lo slogan de-

gli Incazzati, che a quel punto aveva già perso gran parte del suo fascino (dato che i pischelli ormai non perdevano occasione per sciorina-re i loro proclami), sventolava a caratteri cu-bitali su uno stendardo lasciato in mezzo alla piazza, tra i sanpietrini sbeccati e le auto ro-vesciate. L’idea gliel’aveva data un parlamen-tare. Quando gli Incazzati si erano presentati in massa a Montecitorio a chiedere udienza, quello li aveva liquidati borbottando che non c’era bisogno di allungare i microfoni: «tanto non hanno nulla da dire». I ragazzi lo aveva-no preso alla lettera, e il settembre successivo quel parlamentare era stato uno dei primi a lasciare Montecitorio dentro un sacco chiuso.

Le immagini si spostarono dai moti di Piaz-za Colonna a quelle del raccordo anulare, inta-sato giorno e notte dai pullman degli Incazzati che confluivano da tutti i grandi centri abitati, per raggiungere Piazza Montecitorio, dove sta-va cominciando la prima delle Sei Giornate di Roma. Quello che al tempo sorprese tanti com-mentatori, nei salotti televisivi, fu il numero crescente di “facce brune” - come aveva avuto l’ardire di chiamarli un noto opinionista - che avevano iniziato a punteggiare folle altrimenti composte da studenti e precari. Il tizio, l’opi-nionista, era un povero coglione razzista, uno dei tanti che al tempo intasavano le frequenze televisive, ma in qualche modo ci aveva visto giusto. Per la prima volta immigrati di prima e seconda generazione scendevano in piazza confondendosi fra gli studenti e i precari. Non era un corteo tematico, non c’erano diritti da rivendicare. Le rivolte di Roma non avevano niente a che spartire con le tante manifesta-zioni di settore a cui il paese (e la polizia) si erano placidamente abituati. Non c’erano me-gafoni, bandiere e persone che incrociavano le braccia. Semplicemente, un gruppo di ragazzi aveva dichiarato guerra al Palazzo, e in miglia-ia li avevano seguiti.

A rivederle, quelle immagini avevano un che di ridicolo: da una parte un centinaio di parla-mentari intrappolati nelle aule della Camera, dall’altra la folla di Incazzati che si accalcava prima attorno all’obelisco di Montecitorio, poi attorno ai portoni. Un coagulo compatto, so-

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stanzialmente immune ai sempre più timidi interventi di esercito e forze dell’ordine.

Spinsi il carrello di qualche centimetro die-tro alla colonna di vecchi e mi sorpresi a sor-ridere. Questo forse fa di me un cinico. Il fatto è che negli ultimi sei giorni erano morte deci-ne di politici e centinaia di ragazzini. Avrem-mo dovuto essere tutti in lutto, invece le stra-de pullulavano di mocciosi che festeggiavano e pensionati che si aggrappavano ancora più forte alle loro abitudini. L’immagine che con-cludeva la carrellata era emblematica: un Capo dello Stato alle soglie dei novant’anni e un ra-gazzo di ventitré si stringevano la mano dopo aver firmato quello che i giornali avrebbero battezzato come l’Accordo. Erano nemici giura-ti, appartenevano a due mondi inconciliabili, ti saresti aspettato di vederli saltarsi vicende-volmente alla gola.

Invece sorridevano, tutti e due.

*

Alla quinta carrellata di articoli pregenera-ti gli occhi mi vanno insieme e le scritte sullo schermo si confondono in un amalgama gri-giastro. Sono già le sei, l’alba si avvicina e a me mancano ancora tre sessioni prima di potermi

prendere una pausa. Mi strofino gli occhi, facendo attenzione a

non cavarmi una lente, e mi rimetto a sfronda-re la robaccia che continua a riempirmi il feed: gallery vecchie di settimane, collage di virgo-lettati, articoli di sport arrabattati da software privi di sintassi, mosaici di vecchi pezzi trave-stiti da approfondimento. Mentre mi impegno a cestinare decine su decine di contenuti web, mi convinco che da qualche parte nella Rete ci debba essere un esercito di bot progettati per rendermi la vita impossibile. Quando ero pic-colo (e quando ancora esistevano gli spot tele-visivi) c’era una pubblicità in cui un idraulico si dannava a strozzare decine di rubinetti che a turno inondavano d’acqua un improbabile gabinetto piastrellato. Ecco, io sono l’equiva-lente di quell’idraulico nell’Anno Domini 2021, solo che al posto del gabinetto piastrellato c’è il buco nero del Web 2.9 e al posto dei rubinet-ti una schiera interminabile di feed.

Sono passati due mesi dalla firma dell’Ac-

cordo, e a pensarci bene anche dall’ultimo pez-zo originale che ho scritto e pubblicato. Dopo tre settimane di sospensione sono stato pro-mosso a Filtro, ora passo dodici ore al giorno a sfrondare la robaccia che bot e stagisti sguin-zagliano in Rete. Un lavoro del cazzo, eh, ma se non altro si mangia.

Nell’appartamento rimbalzano le note iste-riche di Minstrel in the Gallery dei Jethro Tull, soffocate a tratti dal ronzio insolente del robot-aspirapolvere. Oggi letteralmente smanio all’i-dea di uscire, solo che manca ancora mezz’o-ra all’Orario di Raccordo, e non ho nessuna voglia di fare brutti incontri. La mia prossima domenica libera è fra venti giorni, per allora forse avrà smesso di fare freddo. Ho provato a chiedere che mi alzassero il riscaldamento, mi hanno risposto che l’Accordo non lo prevede. Non prima dei cinquanta.

Ogni due per tre il robot-aspirapolvere mi finisce contro un piede, o si incastra in un an-golo e mi tocca andare a mollargli un calcio per farlo ripartire. Dovrei dargli un’aggiustata, ma le istruzioni ce le aveva mamma e non ho voglia di andarle a cercare. Stare seduto tutto il giorno ti mette addosso una gran brama di correre, oltre che di scopare. In compenso ti passa la voglia di farti la doccia e l’odore che sale dalle ascelle comincia a disgustare persi-no me.

Finisco di strappare le mie erbacce digitali e dò un’occhiata alla pendola della nonna: le 6 e 40. È ora. Torno in camera dei miei e pesco dal bozzolo dell’asciugatrice una maglietta a caso. Mi rimane appalottolata in mano una vecchia t-shirt dei Bad Religion. Per qualche motivo, mi trovo a ripensare alla prima volta che l’ho indossata.

Al tempo era nera, con il simbolo della croce vietata ancora ben distinguibile. A sedici anni comprare una maglietta ha la stessa valenza simbolica di una prima comunione, soprattut-to se i Bad Religion vengono a suonare nella tua città nella prima data italiana degli ultimi cinque anni. L’avevo comprata all’ingresso, staccandola dalla schiera delle magliette ta-roccate. Quella sera avevo pogato tanto forte da farmi scoppiare la testa, al primo circle pit la cucitura della spalla sinistra era andata in vacca, aprendo un grosso sbrego sulla clavi-

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cola che resiste intatto ancora oggi. Pogavamo per pura urgenza fisica, ci lanciavamo nel-la mischia come siluri di muscoli e ossa e ne uscivamo solo quando sentivamo il cervello sbattere contro le pareti del cranio. Pogavamo perché avevamo passato la settimana chini sui libri, ad impilare i mattoni che avrebbero do-vuto garantirci un futuro solido. La nostra non era ancora rabbia, era ansia di vivere, e noi la gestivamo così. Qualcuno aveva mollato le le-zioni, altri avevano trovato lavoro, la maggior parte di noi però ci dava dentro ogni pomerig-gio. Perché era quello che ci voleva, dicevano, per cucinarsi un’esistenza dignitosa. Nessuno sospettava fosse tutta una grossa presa per il culo.

Ritorno in soggiorno strisciando i piedi sulle piastrelle fredde, sperando in qualche modo di riscaldarli. Nell’altro appartamento i cani la-trano come ossessi. Continuano da ore ormai, e stamattina sono sicuro di non aver sentito la vecchia girare la chiave nella porta. Ci dev’es-sere morta, alla fine, in mezzo ai suoi cani del cazzo.

Scendo le scale seguito dal ronzio delle te-lecamere e atterro in strada appena in tempo per intercettare i primi chiarori della giornata. Le strade di febbraio sono ancora coperte da

Fabio Deotto è nato 30 anni fa a Vimercate. Da allora ha pubblicato racconti su Linus, Fol-lelfo, Eleanore Rigby, Inchiostro, Carmillaonline. Nel 2007 uno dei suoi racconti si è clas-sificato secondo al premio “Storie del Novecento - Serravalle Scrivia” ed è stato pubblica-to nell’antologia Di vita, di morte e di canzoni. Le storie del Novecento (MobyDick editore, 2007). Per Edizioni BD ha tradotto dall’inglese il saggio Osamu Tezuka. Il dio del manga e l’autobiografia Alice Cooper. La mia vita tra golf e rock’n’roll. Per Codice Edizioni ha tradotto il saggio La bussola del piacere. Tra il 2008 e il 2012 ha pubblicato articoli per le testate online Wired.it, Owni.eu, il Sole24Ore.it e Web-target.com. Oggi lavora come traduttore e giornalista freelance in condizioni di italianissima precarietà, scrive regolarmente per l’e-dizione web del magazine Wired e collabora con la sezione tech e scienza di Panorama.it. Nel tempo libero picchia le pelli di una vecchia Sonor Force 1000 in una band progressive-punk.

un sottile manto di brina, le prime cince azzur-re frusciano i loro canti tra gli alberi spogli e tutte le auto sono parcheggiate silenziose. L’u-nico suono è quello delle mie Timberland che comprimono l’ultima neve dell’inverno.

Poco più avanti, sulla strada, una porta viene aperta e sbattuta. Un pischello deve aver fatto tardi, e ora corre a consumare le nove ore di sonno che lo separano dalla prima campanella della Serale. I pensionati, invece, le loro sette le devono ancora finire. Non saranno in strada prima di un’altra mezz’ora.

Qualcuno dice che si ammazzerebbe, piutto-sto che avere quarant’anni nel 2021. Qualcuno dice che noi della generazione di mezzo sia-mo i più miserabili, carcerati urbani costretti a ritagliarsi una mezz’ora d’aria nella man-ciata di minuti in cui la popolazione che con-ta appoggia la testa al cuscino. Magari hanno ragione. Ma a dirla tutta, il Raccordo coincide con la parte più evocativa dell’intera giornata, quando la notte ancora si sforza di sopravvi-vere mentre il sole lentamente sfonda la linea dell’orizzonte, spruzzando fasci arancio-gial-lastri sulle campagne.

È l’unico momento di vera bellezza di tutta la giornata.

Gli altri non sanno cosa si perdono. •

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Il collezionista aveva cominciato con i penny. O con le conchiglie, non ricordava bene. Le

due cose, per quanto agli antipodi, nella sua visione ossessiva erano un tutt’uno. Le con-chiglie, indifferenti e primitive, gli venivano portate dalla risacca, oppure gli arrivavano, in pacchetti imbottiti di carta velina, dalle scorte di qualche magazzino. Non ne esistevano due uguali, come le impronte digitali o i fiocchi di neve, ma si prestavano a una gerarchia di valo-re basata sulla scarsità, diventando oggetto di cataloghi e liste. Fu il fatto che in fin dei conti si trattasse di teschi, di assemblaggi di cara-paci, a spianare la strada alla morbosità della sua passione. Abramo Lincoln era un gettone screpolato e senza valore, marrone e barbuto, una cascata sporca e disargentata, in caduta libera dalle tasche dei suoi genitori, da rior-ganizzare segretamente in bustine di cartone. Un penny non era denaro, quanto il DNA del denaro. Trovare l’incisione dell’anno e del co-nio sotto il naso di Lincoln era il primo passo verso la decodifica dell’iscrizione segreta alla base dell’universo, l’embrione della cospira-zione planetaria. I penny con la spiga incisa su una delle facce erano la prova di un passato di innocenza, e che gli americani erano stati scac-ciati dall’Eden. I cent di alluminio del periodo della guerra erano la prova dell’esistenza di vita su Marte.

C’era qualcosa di speciale nell’ordinare teste di Lincoln in file regolari, era lo sport ideale per i pomeriggi fiacchi. Il loro profilo discon-tinuo formava un sequenza di cifre, un codice binario che a sua volta disegnava una freccia diretta dal passato al futuro. E sebbene in quel futuro le avrebbe archiviate per sempre in qualche barattolo, per il disprezzo di suo pa-dre, era inchiodato al presente dalla precisio-ne e dalla ripetitività dei penny, e trascorreva ore pigre e oziose tra le braccia dei raccoglitori blu dalla copertina ruvida. Il problema erano le conchiglie, alle quali era molto più difficile dare un valore. Negli angoli delle loro scatole si accumulavano briciole che ne provavano il degrado, la complicità con la polvere cosmica, con l’inumano flusso dell’entropia. Un giorno, durante una visita alla vicina dei nonni, notò sul tavolino della sala un terribile orologio de-corato di conchiglie proveniente dalla Florida,

diverse specie di indubbio valore, probabil-mente rovinate da grumi di colla e lustrini. In quel momento capì che le conchiglie seguiva-no un ciclo. Erano orologi. Stavano appostate in fondali algosi e fangosi, immerse nella mer-da di polpo e di squalo.

Furono queste le prime due collezioni che rovinò, le mappe di una prematura vergogna. Le cerniere dell’incantato raccoglitore dei penny si erano consumate. Le monete di un certo conio rifiutano di migrare sulla costa, di andare in pensione. Può darsi che esistes-se un ragazzino identico a lui, da qualche par-te, con l’inverso della sua raccolta, tutti i suoi pezzi mancanti, come succede a Gin Rummy o Go Fish. A proposito di pesci, le conchiglie puz-zavano. Si portavano dietro non solo il rumo-re del mare, ma anche l’odore. Si ribellavano all’essere archiviate, erano solo di passaggio.

Cominciò ad associarle ai riccioli di moccio giallo calcificato che conservava distrattamen-te sotto la scrivania.

Un giorno sua madre gli diede un libretto di risparmio aperto accumulando gli assegni di compleanno della nonna. Gli mostrò come arrotolare le monete in cilindretti di carta, per farle valutare, trascinandosi allo sportello di una banca una volta a settimana, quindi gli of-frì quella marea di schifosi penny incastrati nei cassetti e stipati nei barattoli sparsi dovunque. Lui capitolò, smise di esaminare le monete per leggerne la storia e smise di raccoglierle. Do-potutto, non valevano niente. Riconoscere il

ILCOLLEZIONISTAdi Jonathan Lethemtraduzione di Giulio D’Antona

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valore di una solo di loro in mezzo a migliaia era troppo simile a guardarsi i piedi mentre si cammina. Dopo un po’ bisogna rassegnarsi ad accettare che un piede capiterà di fronte all’altro per sempre, anche se non ci si presta attenzione.

*

Si chiese se non fosse destinato a collezio-nare qualsiasi cosa per il resto della sua vita. Cedette al richiamo delle figurine del baseball per circa cinque minuti, il tempo necessario per attraversare – alla velocità del suono – la fase manierista, modernista, minimalista e postmoderna. Le figurine dicevano troppo, con i loro emblemi scintillanti, i simboli del-la squadra sparsi ovunque senza pudore, gli sguardi patetici e supplicanti dei veterani con un piede nella fossa e delle reclute senza spe-ranza, sorrisi falsi e deprimenti. Il retro grigio era intasato da battute insulse e da statistiche, preistorie di lotte nelle leghe minori, nonché polveroso e inamidato. Chissà se qualcuno col-lezionava le gomme da masticare in regalo nei pacchetti… Le figurine servivano agli studi sta-tistici – non per essere scambiate – non per es-sere conservate in bustine laminate – no, non erano che un prodotto, uno specchietto per le allodole, e il commesso della drogheria era in-fastidito dal fatto che uno non lo capisse subito e non convincesse suo padre a comprare tutto lo stock in una volta, anziché ciondolare attor-no allo scaffale supplicandolo per settimane.

Alla fine mandò in frantumi quella collezio-ne in un unico, sconvolgente, atto di risenti-mento, uno spasmo di possessività e collage che coinvolgeva un paio di forbici giocattolo e un flacone di colla Elmer. All’interno del suo raccoglitore i California Angels presero a vol-teggiare, rosei putti del baseball, sopra un in-ferno roboante di Reds e Dodgers lambiti dalle fiamme. Guantoni smembrati sciamavano sul-le pagine come falene, disgustati e attratti allo stesso tempo, esattamente come lui.

Il flacone di colla sembrava essere il Ground Zero di ogni collezione, quei noduli di un bian-co perlaceo e traslucido che tenevano assieme il caos turbinoso, devastando irrimediabil-mente il valore di ogni singolo pezzo, stando al

parere degli specialisti. Eri un idiota del cazzo se incollavi qualcosa a qualcos’altro, ma lo fa-cevi comunque. Un vero collezionista tollerava l’instabilità, la perdita e persino la natura im-plicitamente effimera della propria raccolta, catalogando monete e figurine e conchiglie in guaine, cofanetti e cornici delicate. Tu invece incollavi ogni cazzo di cosa al suo supporto come un maniaco. Avresti inchiodato i libri alla mensola, se avessi potuto. La supercolla, che aveva la reputazione di poter saldare le dita alle palle degli occhi, era troppo spaven-tosa per essere tenuta in casa, conoscendo le tue inclinazioni.

Il suo impulso a incollare fu particolarmen-te infido quando venne il momento dei fran-cobolli. Aveva ereditato, da uno zio di Las Ve-gas, gli album e una fornitura di partenza di un milione di angoli di buste ritagliati. Aveva per le mani un’altra pista da seguire fedelmente: ogni francobollo mai emesso negli Stati Uniti e i loro tetri cugini, i bolli dei resi postali. In due anni di duro lavoro non era riuscito a stare al passo con gli arretrati da staccare inumidendo le buste o passandole al vapore. Il francobollo ideale, però, non aveva nulla a che vedere con questo lavoro ingrato, era completamente pri-vo di timbri, mai leccato, magari anche parte di una serie da quattro intatta. Veniva venduto all’ottavo piano dell’ufficio postale, chiamato Collector’s Counter, in un rituale oscuro, quasi religioso, che ricordava i viaggi allo sportello della banca e non somigliava per niente alle battute di caccia-alla-figurina. Alla fine si trovò faccia a faccia con un francobollo immacolato e lo spazio vuoto ad esso consacrato nell’al-bum, un appuntamento col destino. Come trat-tenersi dal leccarlo e schiacciarlo al suo posto? Che cazzo di senso aveva, in fondo, il montag-gio a secco? In una giornata umida si sarebbe comunque leccato da solo, auto-rovinandosi, quindi perché non approfittarne? La colla dei

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francobolli vecchi di trent’anni aveva il retro-gusto stuzzicante di un vino d’annata già stap-pato. Che cosa stava aspettando, se non lui?

Forse l’unica cosa che collezionava, in fin dei conti, era la colla.

*

Droghe e musica arrivarono insieme. Erano come conchiglie o polvere cosmica da metterti in corpo. Dove viveva lui, in una città che era una colata di cemento fino al mare, le droghe e la musica furono la prima occasione per im-portare la natura all’interno dei propri confini. Erano un invitante surrogato del sesso o delle foreste, più soddisfacente di qualsiasi possi-bile esplorazione e sicuramente più sicure. La droga e le canzoni erano conchiglie che poteva cercare di trasformare in penny. Prima vedevi una band, assorbivi l’essenza della musica dal vivo che evaporava nei tuoi organi come i fumi degli stupefacenti, non lasciando prova del suo passaggio a parte un’alterata percezione di te stesso e tutta la sfacciataggine possibile. Poi cominciavi a collezionare i loro album, tutti i b-sides e le rarità della zecca. Nelle droghe si dilettò come un turista esperto, senza fermar-si da nessuna parte ma accumulando assaggi come i timbri sul passaporto: quaalude, me-scalina, hashish olandese. La sua collezione di dischi, invece, l’aveva gettato nel baratro della dipendenza. Era salito a bordo di una giostra turbinante di pura e infinita insoddisfazione, senza alcuna possibilità di scendere. Raramen-te ascoltava una canzone fino alla fine, aumen-tando di continuo la dose con l’irrequietezza di un tossico. Gli intenditori imparano in fretta che ogni pezzo ha alcune versioni che ne incre-mentano il valore. La musica era una specie di zona disastrata e discontinua.

La prima volta che mise un cartone sulla lingua pensò: hanno stampato le statistiche direttamente sulla gomma. E io sono il gioca-tore. Sono l’intera squadra: il pitcher, il catcher, il battitore, persino il suggeritore di terza base che manda segnali frenetici dal suo box di cal-ce viva disegnato sull’erba nell’area di foul. Si tocca il naso, l’orecchio, il cavallo dei pantalo-ni, la visiera – ehi, cosa sta cercando di dirmi?

Se sono io l’allenatore, perché non afferro i

segnali?Se sono la mia collezione, com’è che sono

schizzato fuori dal mio corpo?Se è la mia band preferita, perché non mi

piace nessuno dei loro album?Poi qualcuno mise su un gruppo: quattro tizi

in una cantina, gli strumenti recuperati al ban-co dei pegni che tradivano un certo disaccordo su quali adesivi fossero i più fichi, naufraghi in un mare di jack, in uno spazio ricavato in mez-zo al caos degli oggetti di famiglia abbandona-ti, inclusa – non poté fare a meno di notarlo – una pila di album pieni di francobolli mar-cescenti, le prime spasmodiche note vacillanti senza nessun indizio su come sarebbe andata a finire la storia, eccetto magari la continua discussione riguardo alla certezza di arrivare, prima o poi, a sfondare, il che avrebbe risol-to abbastanza facilmente il problema di come concludere il pezzo. Qualcun altro ristrutturò una villetta coloniale a Culver City per farne una fabbrica di marijuana indoor: impianto di luci a giorno, irroratori di acqua ricca di nutri-menti, file di piante verdi pulsanti di materia profumata, germogli estatici, steli sopraffatti che avevano bisogno di impalcature, stampel-le, appoggi. Il dilemma era che potevi instillare il DNA della migliore erba che avessi mai fu-mato nella piantamadre allevata in uno sga-buzzino e come uno scienziato pazzo avresti conquistato il mondo, mentre non potevi in-stillare il DNA dei Sex Pistols nella tua band di merda ed eri destinato a non conquistare pro-prio niente.

Un giorno alcuni di loro andarono a Borre-go Springs fatti di funghetti: fu un esperienza esaltante quanto The Living Desert, il docu-mentario della Disney. In quel momento realiz-zò che tutto quello che amava di più al mondo era come le conchiglie, di passaggio. Forse era venuto il momento di andarsene dalla città.

*

Diventò un birdwatcher, con tanto di bino-colo e guida. Esplorava i boschi ma cercava an-che di attirare a sé la collezione, calamitava i suoi soggetti come ferro di deposito. Li attirava sulla siepe di casa, sulle piccole piattaforme e sulle mangiatoie a forma di camino appoggiate

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o penzolanti dai rami, con montagne di semi e cereali e frutta secca ad adescare le creature piumate. Li spiava dalla finestra, annotandoli sul quaderno come un guardone al contrario. Passero, scricciolo, cardellino, corvo. La casa sembrava la testa di un cartone animato colpi-to da un pugno, con stormi di uccelli che le vol-teggiavano attorno, mentre lui correva, come un’unica pupilla tra le orbite stordite, da una finestra all’altra. Recuperò anche un orologio da birdwatcher che cinguettava ogni ora un richiamo diverso. Durante una gita al mare os-servò una coppia di scolopacide che correvano come puntini ordinati lungo la riva, poi fu pre-so alla sprovvista da due banali sterne a caccia di conchiglie tra gli scogli. Sul suo quaderno, con aria colpevole, annotava solo le rarità. Non tutti gli uccelli erano uccelli, questo pensava. Era assillato dalle aberrazioni di categoria. Sentiva la necessità di una divisione tra ac-qua e aria. Si rese conto che stava cercando la purezza, errore fatale per un collezionista. Repentinamente tagliò fuori le schifose sterne. Tra gli uccelli scelse quali erano i funghetti e quali le specie non psichedeliche. Di notte si fermava ad osservare le stelle. Le tasche del suo completo militare traboccavano di guide. Una luce accesa portò alla sua finestra fale-ne di tutte le dimensioni, come decalcomanie auto-aderenti. Non incollava niente a niente probabilmente da anni. Qualsiasi cosa avesse voluto appiccicare era fuori dalla portata del beccuccio del flacone di Elmer.

Poi arrivarono gli scoiattoli, anti-uccelli che gli chiarirono radicalmente le cose. Rubacchia-vano semi e granaglie, si arrampicavano sui cavi, sballavano tutti i suoi piani e – da pessime comparse – facevano scappare gli uccelli con i loro strilli. Erano parassiti e dovevano essere combattuti, il che gli diede un nuovo, diabolico scopo vitale. Ben presto si delineò una guerra logistica: nutrire una specie e affamarne un’al-tra. Ma gli scoiattoli eludevano ogni trappola. Si rese conto che la morte non era solo la so-luzione più indicata, ma anche la migliore, per quei bastardi. Si era trasformato in Taddeo il cacciatore, un vero segugio da tana. Il coniglio è in tvappola. Il giorno in cui trovò la prima vit-tima rannicchiata come una “e” commerciale tra le foglie morte, con la boccuccia contorta

dal disprezzo e la coda rigida, capì. Gli uccel-li non c’entravano più niente. Il veleno era la nuova colla.

Anni dopo fu ospite a un ricevimento a casa di un facoltoso cacciatore, un uomo con il gusto per il selvaggio. Dietro casa aveva una vecchia rimessa piena di trofei. L’aveva lasciata aper-ta perché gli ospiti potessero visitarla. Mentre entrava nella rimessa, in mezzo a un gruppo di invitati, con in mano un drink in un bicchiere di plastica, il collezionista, che si sarebbe aspet-tato al massimo qualche testa di alce malmes-sa, restò scioccato dal ritrovarsi tra i locali di un vero e proprio tempio della morte terrena. I muri erano stracolmi di cadaveri impagliati in bella mostra: uno stambecco, uno yak, un bu-falo d’acqua, una capra scozzese dalla barbetta ispida. Stanza dopo stanza dalle pareti balza-

vano fuori altri corpi: puma e pitoni sistemati a formare un tableau elaborato, in posizione d’attacco, congelati nel momento della morte, a eterna dimostrazione che il cacciatore aveva sparato per legittima difesa. Il pavimento sotto i piedi degli ospiti era una pelle d’orso, poi di tigre, poi il dorso gibboso di un coccodrillo. Le placche sotto le teste impagliate riportavano la data di uccisione, rivelando il metodico lavo-ro di una vita e nessuna pietà per il destino del mondo. Alcune fotografie ritraevano la squa-dra di indigeni che aveva aiutato il cacciatore a catturare le vittime, accerchiandole in atte-sa della sua pallottola. Lui con la faccia bianca e trionfante al centro, lo stivale appoggiato a una testa dalla lingua a penzoloni.

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Osservando il lavoro che un anonimo tassi-dermista aveva fatto su un occhio, apprezzò l’eloquenza della colla.

Tornato in casa, i due furono presentati. Gli occhi del cacciatore luccicavano con impazien-za sulla faccia rubiconda, osservando le im-pacciate scimmie glabre che si aggiravano tra i suoi trofei. Vedendosi riflesso in quello sguar-do tagliente, il collezionista si sentì colleziona-to a sua volta, o quantomeno preso in conside-razione. Il cacciatore aveva affinato una stretta di mano tutta sua, disegnava uno stretto anello per poi spremere la linea delle nocche e pro-vocare un dolore indubbiamente intenzionale. Bisogna ammettere che non era cosa da poco: una stretta di mano dalla quale l’unico modo per liberarsi era strapparsi il braccio a morsi.

*

«Certe volte quando vedo un Lincoln penny penso ancora che un S.V.B.D. del 1909 sia l’i-deale».

«Ti ricordi di Burroughs, quando in Drugsto-re Cowboy frugava tra i medicinali sparsi sul

copriletto alla ricerca di un Dilaudid? Diceva che tutto il resto era merda, che il Dilaudid era l’unica pillola che valesse qualcosa”.

«Quando ero ragazzino mi confondevo tra astronauti e dinosauri. L’unica prova dell’esi-stenza di entrambi erano le impronte. E le roc-ce».

“Amico, e se il birdwatching non fosse os-servare il maggior numero di specie di uccelli,

ma osservarne solo uno? Scegliere un uccel-lo – non una specie, ma un singolo uccello – e seguirlo ovunque, osservarlo per tutta la vita. Tipo, non un birdwatching orizzontale ma ver-ticale. Sarebbe piuttosto fico, cazzo».

«Sai quegli affari che schiacciano un penny e lo fanno diventare un souvenir della forma di un monumento o di un palazzo? Non sai quan-to mi deprimono».

«Quello che mi deprime è che pagando puoi dare il tuo fottuto nome a una stella o a un cra-tere lunare che non ti ha mai fatto niente di male, non ti ha nemmeno mai guardato.»

«Una volta ho messo un quarto di dollaro in una mola e l’ho tagliato in due con una sega elettrica. Poi me ne sono andato in giro con le due metà in tasca, chiedendomi se fossero an-cora valide».

«Io e mio fratello una volta abbiamo speso una banconota da cinque dollari con sopra l’autografo di Mohammed Alì. Ci servivano cin-que dollari.»

«Ho sentito un comico dire che tiene la sua collezione di conchiglie sparsa per le spiagge del mondo».

«Gli uccelli però mi piacciono ancora».«Piacciono abbastanza anche a me, bello.

Solo non più di altre cose. I mammiferi, per esempio».

*

Quando suo zio, che viveva solo in un appar-tamento, fu trasferito in una casa di cura, suo padre gli chiese di raggiungerlo a Las Vegas per dare una mano. In un istante, appena at-traversata la porta, il rapporto tra la sua vita e quella solitaria dello zio celibe, un rapporto che lui non si era mai accorto di portare avan-ti, andò in frantumi. I mucchi di quotidiani e di corrispondenza mai aperta, tenuta insieme con lo spago, formavano il labirinto in cui vi-veva una creatura a malapena umana, in un intrico di canali scavati coi denti attraverso i quali occorreva contorcersi solo per raggiun-gere la porta del bagno: la tazza stessa era un avamposto segreto in quella tana rosicchiata tra montagne di riviste. Un divano era stato seppellito nove anni prima, come provava una

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veloce ispezione: un Newsweek con il Bhopal in copertina.

Tornato a casa provò a scaricare nel water la collezione di francobolli. Puzzavano di marcio, come una carcassa in decomposizione, la pelle di tanti anni buttati, buste lavorate al vapore le cui rotte incrociate avrebbero potuto descri-vere il sistema nervoso del mondo. Lo scarico soffocò. Si ritrovò a dover disintasare il water. Alcuni francobolli, inumiditi per la terza volta sulla via del loro ultimo viaggio, galleggiarono sulle piastrelle e oltre lo stipite per naufragare sulla barriera corallina del tappeto. Altri fini-rono nelle crepe della tazza, dove per liberarli dovette usare uno spazzolino curvo come gli specchietti dei dentisti. Si sentiva come un uc-cello pulitore di cessi, che pescava nella bocca di ceramica di un ippopotamo in miniatura.

In quei giorni si chiese se le aspirine e le si-garette in circolazione fossero come i penny, se provenissero da diverse zecche e se la loro

Jonathan Lethem è nato a Brooklyn nel 1964. Ha pubblicato numerosi romanzi, saggi e raccolte di racconti, tra cui Concerto per archi e canguro (Tropea, 1994), Amnesia moon (minimum fax, 1995), L’inferno comincia nel giardino (monimum fax, 1996), Ragazza con paesaggio (Tropea, 1998), Motherless Brooklin (Doubleday, 1999), La fortezza della so-litudine (Tropea, 2003), Men and cartoons (minimum fax, 2004),Memorie di un artista della delusione (minimum fax, 2007), Chronic city (Il Saggiatore, 2009). Ha inoltre sce-neggiato la graphic novel Omega the unknown (Panini Comics, 2011).

origine, come la data di messa in circolazione, fosse deducibile dall’incisione del minuscolo numero di serie.

Considerò la possibilità di una collezione di aspirine o sigarette, conservate nei raccogli-tori imbottiti come la sua raccolta di monete perduta.

Sarebbe stata naturalmente destinata al fallimento, come le altre. Gli scomparti di car-tone, fatti per contenere aspirine e sigarette, sarebbero rimasti umilmente vuoti.

Fantasticava sulla possibilità di laminare il tavolino da caffè, inglobando nella plastica tut-to ciò che c’era sopra. Riviste, monete, un san-dwich morsicato, il posacenere.

La verità era che doveva smettere di fumare, pulire l’appartamento, scovare i penny anni-dati ovunque. Sarebbe stato laminato dopo la sua morte, che fretta c’era?

Sarebbe stato bene, prima o poi. L’universo era la colla che lo teneva assieme. •

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Quando fuori piove, c’è qualcuno, in un ango-lo di città o in fondo a un sentiero di pro-

vincia, che si sente meglio. Di solito è qualcuno che ha avuto un’infanzia troppo poco infelice per definirla infelice e non abbastanza felice da poterla rimpiangere.

Insomma piove. E’ un fatto. Un fatto che mi piace da morire, perché avendo avuto un’in-fanzia moderatamente infelice e pochi inviti per le festicciole degli amichetti nel parco, la pioggia a me è sempre sembrata la cosa più democratica di tutte, quella che rovinava i po-meriggi, le giornate, gli appuntamenti, i pro-grammi, le feste, la vita, a tutti.

Quando piove io mi sento bene. Mi sento uguale agli altri. Avverto quel minimo comun denominatore che, altrimenti, non avverto quasi mai.

State in casa, state chiusi da qualche parte. Aspettate. Piove forte, meglio non uscire.

Meglio ancora se c’è qualche esondazione e bloccano le linee della metro.

Meglio se l’acqua scende a fiumi, se non ac-cenna a fermarsi, filtra dalle grondaie allagan-do i terrazzi dei piani alti.

Meglio quando ti ricorda che siamo tutti sot-toposti alle stesse leggi.

Quando fuori piove, c’è qualcuno che sta al ri-paro, e qualcuno che se la prende tutta. Di solito è qualcuno che sta lavorando e la pioggia non è un motivo valido per interrompere il lavoro. A volte è qualcuno cui la pioggia fa la gentilezza di creare un’ambientazione consona per le si-tuazioni tragiche della vita.

Anche se a dirla tutta io l’ultima volta che ha piovuto ero fuori.

In mezzo al fango che più fango non si può, in una location naturale che i registi di film horror se la sognano. Pioveva forte. Piove sem-pre, nelle mie giornate migliori.

Prima abbiamo preso un numerino e ci sia-mo messi in attesa, lì sulle scale dell’anticimi-tero, dove svolgono tutta la burocrazia della morte.

Già perché mica te li fanno gratis, certi ser-vizi. Vuoi essere cremato? Serve un’urna? Pre-ferisci cambiare loculo, o addirittura cimitero?

Basta compilare moduli, pagare bollettini, riti-rare numeri e ricevute.

Non è che si spalancano le porte del cielo e si sentono le trombe.

Io mi sono seduto, come nella sala d’aspetto del dottore. C’è qualche sedia, lì, nell’anticimi-tero. Qualche vecchietta mi guardava male. Lo so, avrei dovuto cedere il posto come coman-da la buona creanza. Ma avevo uno strano bi-sogno di avvertire qualcosa di solido sotto il mio culo, mentre sentivo il fruscio dei moduli, il frullo del bancomat, lo scorrere dei numeri.

54, 55, 56 e 57, campo 12, seguite l’ufficiale.Avevamo il numero 61. Non avevo capito

che fosse una cosa di gruppo. Coglione, come solito. Figurati se c’è il tem-

po di star lì a esumare i morti uno ad uno.La terra serve, bisogna fare spazio, restituire

i vani, ripiantare le rose.

Quando fuori piove, c’è qualcuno che guarda dalla finestra e pensa alla vita. Qualcuno che si abbiocca sul divano perché il ticchettio gli con-cilia il sonno

Mica te lo dicono che è una cosa così violen-ta.

Tu per anni entri al cimitero come se fosse un grande parco del riposo, con in testa l’im-maginario foscoliano di cipressi e mitologie e pianti e bellezza, e tutto è perfetto, è ordinato, coi vialetti di sassolini bianchi, pieno di fiori in ogni dove, le tombe tutte in fila come tanti candidi dentini nella bocca di Cristo Signore…

Poi un giorno chiamano il tuo numero, ti giri, e trovi un puttanaio immondo. Cristo.

Le tombe le hanno tolte, le piante son spari-te, montagne di terra rivoltata ovunque, crate-ri affacciati sulle casse di legno e fango, fango

QUANDOFUORIPIOVEdi Antiniska Pozziillustrazione di Tivel Hel

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a non finire, perché da tre giorni piove, piove e tutto è un pantano senza confini.

Non mi sono neanche messo della scarpe adeguate e mi è venuto da ridere perché dove-vate vedere quelli che ci hanno accolti al cam-po 12. Una decina di uomini in tuta bianca e stivali a mezza coscia, tipo RIS. Con le masche-rine, pure, certo perché se devi aprire una bara mica lo puoi fare masticando un chewingum. E caschetti gialli, unico tocco di colore nel fango grigio del mio campo visivo.

Quando fuori piove le cose si bagnano, si ba-gnano le persone, le scarpe, la terra, i pensieri. Quando fuori piove tutto diventa liquido e l’ac-qua passa da fuori a dentro, s’insinua, s’infiltra. E anche dentro piove.

Gazebo bianchi, all’ingresso del campo, i ga-zebo dei mercati, quelli delle campagne elet-torali, perché quasi sempre le cose sono cose generiche, e tutta questa specializzazione in cui ci fanno credere sia organizzata l’esistenza, non c’è. Gazebo allestiti come per una specie di festa al contrario, con qualche sedia e un tavo-lino per gli invitati.

Sul tavolino, un cesto. Dentro, alla rinfusa, le foto impresse sulla ceramica salvate dalla de-molizione delle tombe: prendi la foto del tuo defunto!

Prendimi, prendimi, dice la foto di mio pa-dre in camicia di jeans e sorriso smagliante. Eravamo in vacanza, in Toscana, già ne aveva parecchi di capelli bianchi, anche qualche baf-fo dei suoi si era imbiancato ma lui era con-tento, sempre contento quando era in vacanza con noi, anche se mia madre a dirla tutta non è che fosse proprio la simpatia in persona, quin-di la sua contentezza valeva doppio.

Lei è una di quelle persone che mettono la tragedia anche dove non c’è, e quando c’è ten-dono ad accentuarla. Ma la tragedia non ha su-perlativi, è tragedia, e basta. Insomma, mam-ma, lascia stare, siamo qui dopo tredici anni, c’è l’esumazione, piove e il fango mi arriva alle ginocchia, c’è pure bisogno di fare la voce con-trita? Certo che no. Certo che no.

Poi ci hanno chiamato, tutti insieme, tutti in fila, come all’appello degli esami universitari. Ognuno il suo cadavere, il suo finto agente RIS, i suoi due occhi per confermare, le sue quat-tro assi. Per confermare cosa? Che il cadave-re fosse proprio quello? Ma chi cazzo lo ruba un cadavere qualunque? Mio padre non era mica Mike Bongiorno. Eppure è previsto così. E’ previsto che si muoia più di una volta, che l’ultimo riposo non sia proprio l’ultimo, è pre-visto che si guardi bene da vicino cosa succede alla carne quando la si mette in una scatoletta sotto terra.

Quando fuori piove, quando dentro piove, quel che c’è si gonfia e lentamente marcisce. Qualche germoglio spunta, qualche germoglio muore. Lo sguardo galleggia e perde l’orizzon-te.

http://tivel.daportfolio.com/

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Al via dell’ufficiale, i finti RIS hanno comin-ciato a schiodare le assi. Chissà quante altre volte l’avevano fatto quel giorno. E quando hanno iniziato… è stato come esser rapiti dalla realtà per ficcarcisi dentro ancora di più. Solo la musica, sapevo io, ha questo potere. Ma non solo, non più.

Li ho guardati che sollevavano il coperchio, affondati nel fango, con la vanga e tutto l’arma-mentario. Mio fratello non ha voluto parteci-pare. Io stavo lì sotto la pioggia e pensavo alla lezione che si stava perdendo, lui che da anni cerca di girare un corto sugli zombie. Quando sei abituato a vedere certe cose, poi è come se non sapessi più davvero cosa sono. Io credo sia per questo che non è voluto venire a vedere.

Hanno rovesciato il coperchio e hanno ini-ziato a ravanare in quel che era rimasto del corpo. Io guardavo la nostra tomba, ma non potevo non vedere tutte le altre. Agivano in-sieme, all’unisono, tutti lì in fila davanti a me, dieci corpi morti, dieci corpi vivi che li guar-davano vis à vis, una ventina di osservatori, un paio di direttori del traffico.

A un certo punto il RIS di quelli a fianco ha tirato su un osso della gamba e l’ha sfilato da una calza nera di nylon. Com’è che le mie calze non durano lo spazio di un pomeriggio e quel-le di questa vecchietta avevano attraversato più di un decennio e gli agenti fisiochimici del-la decomposizione?

Intatte, nero opaco, 40 denari.Intanto sfilavano nella buca sotto di me tut-

te le ossa di mio padre, una ad una. Il tizio col caschetto giallo, un africano con le mani gran-dissime nel ruolo dell’uomo nero della mia infanzia, tirava fuori le gambe dai pantaloni, e poi le braccia dalla giacca.

«Era la sua giacca preferita» dice mia madre.Chissà se è vero o se è la trasfigurazione

post mortem dei sentimenti che le fa dire que-ste stronzate.

L’avete mai visto il cuore di un uomo dopo tredici anni che ha smesso di battere?

Somiglia a colla secca, dura e filamentosa. E’ la carne mummificata che s’attacca alle ossa, materia biancastra che il mio africano stava fa-ticando a rimuovere dalle costole. Le costole che abbracciavo quando mia madre mi sgrida-va perché avevo preso un’insufficienza a scuo-

la. Le costole che ancora non hanno smesso di fare crac nella mia testa.

Poi sento la voce dei parenti della vecchietta a fianco, ormai senza calze, senza gonna, sen-za più niente a dispetto del pudore. L’avresti detto, nonnina, che degli estranei un giorno ti avrebbero vista così tanto nuda?

«Scusi mi fa vedere un attimo la testa?» chie-de il figlio.

Io lo dico da sempre che in giro c’è un sacco di gente col senso del macabro.

Così il RIS prende il piccolo cranio (ma for-se sarebbe più corretto chiamarlo teschio) e lo solleva con la mano sinistra per mostrarlo agli astanti, una cosa che più shakespeariana si muore (scusate la battuta, ma il tema è chia-ramente abusato da secoli).

Ci sono ancora i capelli attaccati. Dice che quelli non si consumano. La vecchia ce li ave-va lunghi, e ora sono tutti spettinati, arruffati, alcune ciocche incastrate dentro le orbite. Non c’è tempo per la messinpiega, signora mia. Adesso che lei ha tutta l’eternità, non c’è tem-po per il parrucchiere.

Il nostro RIS continua. Da quanto stiamo andando avanti? L’agonia sembra più lenta da morti che da vivi. La cassetta di metallo è pic-cola. Mi chiedo come farà lo scheletro di mio padre a starci tutto, lì dentro. È semplice. Pi-giare, compattare.

L’africano sistema le ossa in un Tetris che non prevede livelli successivi. Vertebra dopo vertebra, scheggia dopo scheggia, seguendo un’anatomia che non coincide con quella ri-portata dai manuali di medicina.

Quando fuori piove c’è qualcuno che lascia li-bero il corso dei pensieri, e si convince che tutto si può fare, che tutto è a portata d’idea. Quando fuori piove c’è dentro qualche scatola un cuore che batte, un ricordo impolverato.

Siamo venuti a prenderti, papà. Volevamo fare una di quelle cose che si vedono nei film, sai, prendere le tue ceneri, mettere l’urna nel sedile posteriore dell’auto e andare in quel po-sto che ti piaceva un sacco, tra le rovine degli Etruschi. E poi spargerti lì, respirare un po’ e sentirci meglio. Invece no. Non abbiamo potu-to. Le solite leggi degli uomini. Non c’è nessun

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documento che testimoni la tua volontà. Loro hanno bisogno di carta. La famosa carta che canta. Nero su bianco. Ufficialità. Non gli basta la nostra testimonianza vivente. Come se uno si preoccupasse più della propria morte che della propria vita e in giovane età redigesse testamenti sui luoghi preferiti in cui volesse essere sparso.

Così, nulla. Ti abbiamo spostato in un picco-lo loculo di marmo, che mi dà un vago senso di claustrofobia. Sono solo ossa, lo so, però mi viene l’affanno a pensarle lì tutte schiacciate a forza in 30 centimetri cubi.

Quando fuori piove è meglio stare dentro. Chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie e ripe-tersi che adesso smette. Adesso smette. •

Antiniska Pozzi è nata a Milano nel 1978. Scrive di Milano per Chiamamilano.it, di libri e cinema per Hideout.it e di osterie per la guida Osterie d’Italia (Slow Food ed.). Ha pubblica-to il monologo L’insalata di pomodori, vincitore al concorso nazionale “Per voce sola” 2008 (Nerosubianco) e il romanzo Dove vanno le iguane quando piove (Cabila, 2009). Ha anche un blog, un figlio, e un gatto.

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a cura di Michele Crescenzo

SEFOSSIMONATIMORTI

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Piove. Una coppia cammina sul lungomare dell’Avana. Si fermano e aspettano il verde

al semaforo. Lei ha tra le mani un pacchetto ri-vestito di carta stagnola, grande quanto un li-bro. Lo tiene stretto sul petto, per proteggerlo dall’acqua. Due auto scolorite gli passano velo-cemente accanto. Lui gli sbraita contro, alzan-do i pugni, ma smette subito e, con un gesto di protezione, mette il braccio sulla spalla della donna.

Dall’ultimo piano di un vecchio edificio di calle Lorenzo, Pedro Juan Gutiérrez allontana lo sguardo dalla tela a cui sta lavorando. Osser-va la coppia che attraversa la strada e saluta un uomo sotto un ombrello. Gesti educati che nascondono imbarazzo. Si muovono entrambi nervosamente verso una delle piccole traverse della città. Forse quella carta stagnola raccon-ta uno scambio, forse è solo un regalo.

Lo scrittore si affaccia dal suo balcone e li segue con lo sguardo un altro po’, poi prende un appunto. Costruisce in questo modo i suoi romanzi. Da intrecci di incontri spiati dal suo balcone o nei bar. I suoi protagonisti sono persone costrette a sopravvivere sulla soglia dell’illegalità, contraffacendo sigari e prosti-tuendosi, ma anche con la voglia più sfrenata di fare festa, di sfuggire in tutti modi allo scon-forto, seguendo il ritmo della musica, del ses-so.

Le sue storie contraddicono l’immagine da cartolina dell’isola dalle spiagge bellissime e della sua gente spensierata e innamorata del-la rivoluzione. Proprio per questo il suo pri-mo romanzo, Trilogia sporca dell’Avana, non è stato pubblicato a Cuba ma in Spagna e subito dopo in Italia da e/o. In cinque anni è stato tra-dotto in quattordici paesi.

Verso la fine del 1998 l’autore fece un viag-gio in Europa per promuovere il libro, ma quando tornò a Cuba venne licenziato dal quo-tidiano per cui lavorava da ventisei anni. Senza nessuna spiegazione fui buttato fuori dal gior-nalismo. Ancora oggi c’è gente, soprattutto del-la televisione, che mi conosce benissimo e non mi saluta più. È gente che quando m’incontra, mi gira letteralmente le spalle. È da allora che sono un fantasma all’Avana.

Dopo la Trilogia sporca, Gutiérrez ha scritto Il re dell’Avana ma solo con il suo terzo libro

Animal tropical è apparso nelle librerie cuba-ne. Questo romanzo accosta la sarabanda ero-tica della sua città all’efficienza gelida di Stoc-colma, il Sud e il Nord del pianeta, due modi antitetici di concepire la vita.

Con El insaciable hombre araña del 2002 (non tradotto in Italia) e Carne di Cane (2003) si conclude quello che lo stesso autore cubano ha indicato come il “Ciclo di Centro Avana”.

Gutiérrez viene definito “Il Bukowski cuba-no” ma il paragone non è apprezzato dall’au-tore. Queste sono trovate editoriali per vendere libri! Tra l’altro Bukowski non mi piace. Le so-miglianze, in realtà, sono molte. Utilizzano en-trambi un linguaggio diretto, storie spesso au-tobiografiche, scelta dello stesso tipo di donne, quelle di strada, istintive, volgari, caratterizza-te e valorizzate da scene di sesso descritte, da entrambi, con realismo e passionalità. Credo di utilizzare il sesso sempre come un elemento drammatico, mai in modo gratuito, e comunque un’autocensura mi sembrerebbe davvero bru-tale [...]Noi non siamo anglosassoni, tedeschi o francesi. Siamo cubani e per noi il sesso è la cosa più normale del mondo. Gli elementi fon-damentali della nostra cultura sono l’erotismo e la musica: qui in qualsiasi casa si mette salsa tutto il giorno e capita che si faccia sesso. Come

COMEUNACAREZZAOvvero: Pedro Juan Gutiérrez

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un’espressione d’amore o anche solo d’affetto. Come una carezza.

Gutiérrez ha svolto fin da ragazzino molti mestieri: gelataio, strillone, soldato, istrutto-re di kayak, bracciante e tagliatore di canna da zucchero, lavorante in un cantiere di co-struzioni, disegnatore tecnico, annunciatore radiotelevisivo, giornalista, infine insegnate universitario. A Cuba è conosciuto come poeta, scultore e pittore più che come narratore. Ha avuto quattro figli da quattro donne diverse. Anche se la sua vita sembra non avere alcu-na linearità, la sua scrittura, nuda e diretta, ha una direzione molto chiara, un’ambizione pre-cisa. Non credo nell’arte passiva, l’arte dell’in-trattenimento. Penso che uno scrittore debba aiutare il lettore a pensare. Deve costringerlo a confrontarsi con zone buie della natura uma-na. Deve lavorare con personaggi in situazioni estreme. Altrimenti può diventare Walt Disney: melenso, dolce e sciocco. Tutta l’arte è un atto di ribellione. Ci vuole coraggio. Se non hai corag-gio e cerchi solo soldi e la fama, allora finisci per scrivere cose solo divertenti, ma sai che non stai lasciando un segno nel cuore e nella mente dei tuoi lettori. •

Dalla mia terrazza sul tettoL’Avana di nottefiocamente illuminatafrugale e stoicaL’Avana sopporta questi annicome una vecchia dama / saggia e silen-ziosaNon schiude le labbraper protestaree si lascia leccare il costatodalla schiuma e dalla salsedineLa vecchia signora cela le sue feriteocculta le sue cicatricie mi confessa / a tarda notte:Non importatu passeraitutti passerannoIo sono eternae sarò sempre quicon il mio enorme cuoreche palpita al ventoDono il mio amore / e non soffroSono la città di pietraLa città eterna.

- La vita segreta, da Non aver paura Lulù -

Pubblicati in Italia: Trilogia sporca dell’A-vana: senza un cazzo da fare (e/o, 1998);Il re dell’Avana (e/o, 1999); Animal Tropi-cal (e/o, 2001); Malinconia dei leoni (e/o, 2002); Carne di cane (e/o, 2003); Trilogia sporca dell’Avana (e/o, 2004); Il nostro GG all’Avana (e/o, 2005); Il nido del serpen-te (e/o, 2006); Non aver paura, Lulù (Ed. Estemporanee, 2006).

SE FOSSIMO NATI MORTI

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RINGRAZIAMENTI(IN ORDINE SPARSO)

Lucy Benjamin, Camilla Ferrier, William Morris Endeavor Agency - New York City, Giulia Cuomo, edizioni e/o, Giorgio Fontana, Danilo Deninotti, Matteo Scandolin e Gianluca Liguori.

NOTA SULL’ILLUSTRAZIONE A P.34Compare per gentile concessione dell’autrice (http://tivel.daportfolio.com/).

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CON IL SUPPORTO E IL SOSTEGNO DI

via Carlo Forlanini, 76CGarbagnate Milanese (MI)

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CADILLAC SOCIETYAssociazione Culturale

via Giuseppe di Vittorio, 820021 - Bresso (MI)

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