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Bimestrale di divulgazione giuridica ed economica. II° numero 30 Maggio 2016 Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali Numero redatto con la collaborazione di: Lenzi Paolo Broker di Assicurazioni Srl Via Riva Reno 29/c – 40122 Bologna mail: [email protected] www.lenzibroker.it Numero II/2016

Riv n II maggio 2016

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Bimestrale di divulgazione giuridica ed economica. II° numero 30 maggio 2016

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Bimestrale di divulgazione giuridica ed economica. II° numero

30 Maggio 2016

Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali

Numero redatto con la collaborazione di:

Lenzi Paolo Broker di Assicurazioni Srl Via Riva Reno 29/c – 40122 Bologna mail: [email protected] www.lenzibroker.it

Numero II/2016

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2 Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – Mag. 2016

Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali

Bimestrale di Divulgazione giuridica ed economica Autori Vari – AA.VV.

Proprietario e Direttore: Avv. Francesco De Sanzuane Sede redazionale: Via Borghi Mamo 1 – 40137 - Bologna Contatti e Info: http://www.rivistadelleimprese.it [email protected] [email protected]

Numero II/2016

Riv. Depositata presso il Trib. di Bologna in data 08/04/2015. Autorizzazione n. 8380

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3 Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – Mag. 2016

SOMMARIO

Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali ISSN 2421-2830

Direttore responsabile Francesco De Sanzuane

Autori

Enrico Feliziani, Francesco De Sanzuane, Giuseppe Serafini,

Francesca Solimini.

Segreteria di Redazione Via Borghi Mamo 1

40137 – Bologna

©Copyright 2016 - Rivista delle imprese e dei mercati internazionali®™

tutti I diritti riservati – vietata la riproduzione anche parziale

Per presentare articoli e contributi [email protected]

Per iscriverti alla Rivista

[email protected]

Sito web http://www.rivistadelleimprese.it

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4 In cosa imprese e consulenti si assomigliano di più? Forse proprio dove non lo immagineremmo mai.

Francesco De Sanzuane

Editoriale

Risvolti fiscali dei finanziamenti infragruppo alla consociata. Appunti di diritto della Turchia a cura di

Diritto Internazionale

Enrico Feliziani

8 La meritevolezza nel contratto di affidamento fiduciario: un controllo particolarmente qualificato? a cura di

Diritto Civile

Francesca Solimini

20 L’arte delle trattative nella negoziazione con partner Cinesi e Giapponesi (Ia parte) a cura di

A

Diritto Internazionale e dell’Unione Europea

Francesco De Sanzuane

29 PRIVACY “Il ruolo del data protection officer a cura di

Rubrica. Il professionista risponde.

Giuseppe Serafini

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4 Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – Mag. 2016

Editoriale

Il ritornello pare non dover cambiare mai e la crisi economica, che invero oggi è dimenticata in questi termini perché non fa più notizia, si è tradotta in una lenta ripresa che, senza seguire un filo conduttore, abbraccia alcuni settori a discapiti di numerosi alti. Non che questo comporti, per le imprese “privilegiate” quel cambio di passo più e più volte proclamato, o forse invocato inutilmente, da governi e associazioni di categoria. L’incertezza, dunque, permane ed invade il modus operandi di tutti gli operatori economici che scontano le proprie difficoltà già nel reperire la clientela. Non una grande novità, si potrebbe giustamente pensare, ma forse perché si tende a ricercare clienti “non alla propria portata. Purtuttavia, in fondo, la congiuntura economica è pessima e per moltissimi l’occasione giammai può esser lasciata. Ebbene a volte sarebbe forse consigliabile e persino vantaggioso. In effetti, in pochi considerano e valutano attentamente l’incarico o che stanno per prendere, ma calcolando i margini di guadagno che ne possono trarre da un lato e, dall’altro, volutamente dimenticando di considerare le responsabilità di cui si fanno carico pur di “fare fatturato”. Ma non si tratta solo di questo. È infatti assolutamente necessario evitare di impegnarsi in incarichi o rapporti contrattuali poco qualificati e che estrinsecano i propri effetti negativamente, deprimono il ruolo dell’azienda, di chi vi lavora, o del professionista, relegando sé stesso mero esecutore materiale di un compito per il quale non era adeguatamente preparato. Cosa accade in questi casi è semplice da prevedere: nella mente del committente il lavoro assegnato è senza dubbio importante, ma nell’animo di chi ha accettato di condurre a termine una obbligazione non redditizia o inferiore al proprio normale standard il lavoro si traduce ben presto in una perdita di tempo e, dunque, di denaro. D’altro canto è pur vero che spesso non è semplice rinunciare ad un potenziale guadagno; tuttavia sarebbe bene concentrarsi sulle opportunità lavorative che ci garantiscono un guadagno adeguato e che possono concorrere ad aumentare la specializzazione sin qui maturata per perdere professionalità e “rispettabilità”. L’argomento, lo comprendo, è difficilmente digeribile, ma seguire questa regola potrebbe risparmiare molte delusioni e perdite, sia di tempo che economiche, con il vantaggio di consentire all’operatore di allocare le risorse a disposizione in attività che spesso non sono neppure considerate, quale ad esempio l’ottimizzazione delle procedure amministrative ed industriali, o la profilazione dei clienti e dei servizi resi, o ancora il miglioramento delle proprie conoscenze tecniche, attività che possono concedere margini di reddittività davvero inaspettati e già esistenti all’interno del proprio processo industriale.

In cosa imprese e consulenti si assomigliano di più? Forse proprio dove non lo immagineremmo mai

Francesco De Sanzuane

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Bimestrale di divulgazione giuridica ed economica. II° numero

Maggio 2016

I finanziamenti infragruppo. I finanziamenti all’interno dei gruppi societari sono molto frequenti; spesso tali operazioni sono affrontate per esigenze di carattere gestionale, come ad esempio il finanziamento erogato ad una controllata in fase di start up. Se dal punto di vista operativo queste operazioni sono nella norma, occorre invece valutare molto bene le peculiarità intrinseche quando si attiene all’aspetto squisitamente fiscale. Addentrandoci in quello che è l’oggetto del nostro breve scritto, ovvero i finanziamenti infragruppo nel diritto Turco, si consideri che secondo la legislazione fiscale turca, gli interessi corrisposti a società collegate, qualora si rientri nel campo di applicazione della “Thin capitalization” (sottocapitalizzazione), sono considerati non deducibili ai fini dell’imposta sul reddito; tale regola tende ad evitare che l’apporto di capitale di credito serva a mascherare una vera e propria distribuzione di utili, utilizzando la forma del pagamento di interessi.

“Risvolti fiscali dei finanziamenti infragruppo alla consociata. Appunti di diritto della Turchia”. A cura di

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Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali

Enrico Feliziani

Diritto Internazionale

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“l’art. 16 della legge sulle imposte societarie se un

prestito soddisfa i seguenti tre requisiti, può generare

una presunzione di elusione fiscale associabile al regime

di bassa capitalizzazione”

Per la legge turca se il rapporto “debito/patrimonio netto” supera la proporzione di 3 : 1, la società è considerata sottocapitalizzata e quindi sottoposta alla disciplina della “thin capitalization”; di conseguenza, se il livello di indebitamento nei confronti di soggetti collegati, in modo diretto o indiretto, supera il rapporto suddetto, in qualunque periodo dell’anno, la parte di debito eccedente sarà assoggettata alla normativa della “thin capitalization”, sulla base della quale gli interessi pagati devono considerarsi veri e propri utili distribuiti ai soci. A tal fine, si considera per quanto attiene il momento di imputazione della distribuzione, l’ultimo giorno del periodo contabile in cui si è verificata tale “thin capitalization” e, pertanto, saranno da quel momento assoggettabili a ritenuta. Secondo l’art. 16 della legge sulle imposte societarie se un prestito soddisfa i seguenti tre requisiti, può generare una presunzione di elusione fiscale associabile al regime di bassa capitalizzazione di cui si tratta se:

a) esistono rapporti economici, diretti o indiretti, con carattere di permanenza o continuità;

b) è rinvenibile l’utilizzo del prestito, indipendentemente dal carattere discontinuo, o addirittura occasionale, che esso può presentare;

c) il rapporto tra debito e patrimonio netto, come sopra specificato, supera il proporzione di 3 : 1.

La Legge 5520 del 2006/E11 ha avuto poi il pregio di specificare che sussistono, tra mutuante e mutuatario, rapporti di controllo economici, diretti o indiretti, con carattere di permanenza o continuità, quando vi è la partecipazione reciproca o unilaterale, al rispettivo capitale societario, per il 10% oppure vi è l’equivalente diritto di voto nelle rispettive assemblee sociali. La medesima normativa, tuttavia, indica i casi in cui non si considerano assoggettabili alla “thin Capitalization”, i:

- Prestiti erogati da terzi sulla base di garanzie immobiliari o non monetarie;

- Prestiti ricevuti da un socio o da società controllata da banche ed altre istituzioni finanziarie a condizioni di mercato paritarie;

- Prestiti scambiati tra banche o tra società di factoring secondo le vigenti leggi turche per l’espletamento delle stesse attività bancarie e di factoring.

Un aspetto molto importante che esula dalla “thin capitalization”, ma che deve essere tenuto in considerazione in caso di operazioni di finanziamento infragruppo, riguarda l’applicazione delle regole di attinenti al c.d. “Transfer pricing”; infatti il tasso di interesse applicato sulle operazioni di finanziamento suddette deve essere un tasso di mercato, ovvero un tasso che sarebbe stato applicato per operazioni simili fra soggetti non dello stesso gruppo.

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Imposta applicata sui prestiti dall’estero. L’imposta è la “KKDF” – meglio nota in ambito internazionale con l’acronimo inglese RUSF, (Resorce Utilization Support Fund). Detta imposta è applicata, oltre alle importazioni con pagamento differito, anche sui prestiti ricevuti dall’estero, inclusi quelli infragruppo. Le aliquote dell’imposta sono fissate al 3% sui prestiti di durata inferiore ad 1 anno, all’1% sui prestiti di durata compresa tra 1 e 2 anni ed infine allo 0,5% per i prestiti di durata compresa tra i 2 e i 3 anni; per i prestiti di durata superiore a 3 anni non è prevista l’applicazione dell’imposta. Viene applicata l’aliquota del 3% sugli interessi relativi ai prestiti erogati in lire turche indipendentemente dalla durata. L’imposta deve essere versata entro 15 giorni dal ricevimento del prestito tramite il meccanismo della trattenuta che viene effettuate ad opera dalle banche che fungono da intermediari per l’operazione finanziaria. Infine, si consideri il caso contrario, ovvero il finanziamento erogato dalla società turca alle società estere del gruppo. In questo caso gli interessi attivi generati dal prestito (che devono comunque essere sempre in linea con il principio del c.d “arm’s lenght” (ovvero quel principio di libera concorrenza, stabilito dalle linee guida dell’OCSA, secondo il quale il prezzo equo applicabile nelle transazioni infragruppo è quello che sarebbe stato pattuito per transazioni similari posto in essere da imprese indipendenti, in caso di finanziamento infragruppo) andranno a sommarsi al reddito d’impresa. A tali contratti di prestito si applica l’imposta di bollo dello 0,948% e sono esclusi dall’imposta KKDF.

Ragioniere e Revisore contabile, Enrico Feliziani è un professionista bolognese che si occupa di contabilità e consulenza in materia finanziaria, con spiccata propensione per la fiscalità internazionale e la gestione di gruppi di imprese. È fondatore e partner del Network Internazionalizza (www.internazionalizzacom).

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“Il contratto di affidamento fiduciario è, infatti,

innanzitutto in grado di raggiungere gli stessi effetti

essenziali del trust … ma con il fondamentale vantaggio di operare nell’ambito del

nostro diritto, senza bisogno dell’applicazione di alcuna

legge straniera”

Cenni sul contratto di affidamento fiduciario. La crisi profonda che caratterizza l’odierno contesto giuridico-economico e sociale ha determinato l’esigenza impellente di prevedere innovativi negozi gestori competitivi, e ciò con lo specifico fine di meglio amministrare e salvaguardare beni e patrimoni. Detta necessità emerge a fronte di un incremento delle richieste relative ad una disciplina di situazioni affidanti generiche, per consentire alle persone fisiche di destinare parte del proprio patrimonio al perseguimento di specifici obiettivi. Diversi segmenti di vita giuridica hanno ispirato il nuovo contratto di affidamento fiduciario, poiché la richiesta di diritto nasce, come sempre, dalla richiesta di protezione di interessi1. Detto contratto, infatti, non tipizzato nel nostro codice civile2, nasce proprio per ovviare a taluni inconvenienti e limitazioni proprie del negozio fiduciario3, dell’atto di destinazione ex art. 2645-ter cod. civ44 e del trust “interno”5. Il contratto di affidamento fiduciario è, infatti, innanzitutto in grado di raggiungere gli stessi effetti essenziali del trust (affidamento di beni “segregati” rispetto ai patrimoni personali dei contraenti, al fine della realizzazione di un programma6), ma con il fondamentale vantaggio di operare nell’ambito del nostro diritto, senza bisogno dell’applicazione di alcuna legge straniera (che necessiterebbe di accurate conoscenze e dell’interazione con soggetti esteri). Essendo inoltre il trust un istituto tipicamente anglosassone, ha incontrato ed incontra tuttora nel nostro ordinamento alcune resistenze, seppur minoritarie7. Più nel dettaglio, il contratto di affidamento fiduciario è pertanto quella nuova tipologia contrattuale teorizzata dal Professor Maurizio Lupoi, il quale ha concepito, a fianco degli istituti “tipici” del trust interno e dell’atto di destinazione disciplinato dall’art. 2645-ter cod. civ., una figura generale ed atipica di patrimonio separato (o meglio ancora, segregato8) di fonte negoziale. Innanzitutto, esso è definito strutturalmente come il contratto per mezzo del quale un soggetto, detto affidante, conviene con un altro, l’affidatario, l’individuazione di taluni beni da impiegare a vantaggio di uno o più soggetti in forza di un programma, la cui attuazione è rimessa proprio all’affidatario9. Al termine del programma, i beneficiari potranno ricevere i beni precedentemente affidati all’affidatario scevri da qualsiasi vincolo. Il contratto di affidamento fiduciario ha infatti quale tratto caratteristico proprio il compimento di diverse attività da parte dell’affidatario sui beni individuati, i quali possono, ed anzi, sono naturalmente portati, nel corso dell’attuazione del contratto, ad

La meritevolezza nel contratto di affidamento fiduciario: un controllo particolarmente qualificato di

Francesca Solimini

Diritto Civile

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essere sostituiti con altri, posto che la gestione è concepita come attiva e dinamica10. È quindi un contratto atipico, ma non solo: è certamente un contratto di durata, a vantaggio di terzi11, che ha ad oggetto un trasferimento inter vivos di beni (mobili o immobili)12. L’atipicità dei contratti ed i confini dell’autonomia contrattuale. L’autonomia privata, alla luce di un’epoca in cui il legislatore non sempre si è dimostrato in grado di dare risposte concrete ed affidabili agli interessi emergenti nella società, assume un nuovo ruolo centrale. Essa infatti avanza verso la produzione di un diritto che, rivolgendosi sempre meno alla legislazione nazionale, accelera il procedimento di declino del dogma della statualità, spostando il baricentro della produzione giuridica sui regolamenti privati13. Se agli albori della codificazione del 1942 il contratto atipico rappresentava più che altro un’eccezione, oggi è invece la regola. Gli strumenti di cui si serve inoltre diventano sempre più complessi, poiché sempre più complesse ed articolate sono le forme di organizzazione degli interessi14. Tutto ciò ovviamente comporta sul piano fattuale un vero e proprio incremento nella creazione di nuove figure contrattuali, ed il contratto di affidamento fiduciario è una di queste. A ciò si accompagna una certa insoddisfazione per le rigidità del nostro sistema, nonché l’emersione di nuove esigenze sul piano economico. Il contratto qui in esame emerge a seguito di incertezze ed equivocità dei risultati dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, dovute alla presenza di una confusionaria commistione di concetti, alimentate dall’assorbimento disarticolato di esperienze estranee al nostro sistema giuridico, quale il trust, nonché dal peso della tradizione (si pensi alle questioni relative alla tipicità dei diritti reali, o alla problematica dell’ammissibilità della proprietà nell’interesse altrui, o quella relativa alla responsabilità patrimoniale). L’autonomia privata, in particolare, ha avuto qui il fine di discostarsi dalla disciplina di istituti tipici che risultavano essere ancorati tradizionalmente a consolidati principi e norme imperative, reputati non più assolutamente aderenti alla realtà dei rapporti economici globalizzati. Il giurista contemporaneo, infatti, sperimenta quotidianamente l’impossibilità di individuare in maniera precisa e chiara una disciplina del caso concreto, sorretta da un sicuro testo legislativo di riferimento. La creazione di soluzioni “dal basso” e “ad hoc” risponde all’esigenza di assicurare tutele immediate alle plurime esigenze manifestate dal sistema economico, le quali non sono state

percepite dal nostro ordinamento o, anche nel caso di una loro percezione, relativamente a queste l’ordinamento non è comunque stato in grado di fornire un’adeguata protezione. Ciò si verifica per via di un ancoraggio a regole e concetti dai quali l’ordinamento stesso non riesce a distaccarsi, evolvendosi. Una regola esemplificativa di ciò pare essere quella della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 cod. civ15. Ecco perché, anche alla luce delle considerazioni che sono state fatte in tema di atti di destinazione ex art. 2645-ter cod. civ.16, quella odierna è probabilmente una stagione in cui l’autonomia privata ha la capacità di modificare il regime della responsabilità patrimoniale. Se da un lato però oggigiorno si è parlato di un vero e proprio “ritorno dell’autonomia privata”, in funzione di un’urgente esigenza di tutela del mercato, sorge un paradosso laddove d’altra parte si percepisce l’accentuazione di una eteronormazione del contenuto contrattuale. In passato la dottrina civilistica si è focalizzata su una concezione propriamente liberale sia del contratto e, conseguentemente, dell’autonomia privata. Secondo l’ottica del legislatore del 1942 infatti il controllo del contenuto contrattuale avrebbe dovuto essere rimesso integralmente alle parti, senza che alcun soggetto terzo ed estraneo rispetto ad esse (in primis il giudice) fosse in grado di sindacare detto contenuto17. Reputare il contratto quale “tempio consacrato” dell’autonomia contrattuale risulta però non più al passo con i tempi odierni: l’integrazione legale-giudiziale del contratto, affermatasi in special modo dopo la nascita della disciplina consumeristica18 (ma in realtà prevista già da prima con l’introduzione della legge sull’equo canone19), deve necessariamente essere pacificamente accettata, oltre al fatto che (ma questo era già stato previsto dal legislatore del 1942) la traduzione della volontà delle parti nella dichiarazione contrattuale deve pur sempre sottostare al vaglio di liceità ex art. 1343 cod. civ. e di meritevolezza ex art. 1322, co. 2, cod. civ. Questo tipo di controlli sull’atto di autonomia privata si effettuano attraverso l’analisi della causa concreta del negozio, e quindi anche la forma dell’organizzazione degli interessi scelta in concreto dalle parti20. In particolare è la meritevolezza a poter essere in grado di ampliare le maglie dell’autonomia privata. La meritevolezza infatti, poiché specchio dei principi dell’ordinamento, consentirebbe anche di superare il dettato di norme ordinarie di carattere generale21. Meritevolezza e causa concreta. L’ampliamento dell’autonomia privata è affidato ad uno strumento volto al controllo dell’autonomia stessa, quale la meritevolezza degli interessi ex art. 1322, co. 2, cod. civ. Il controllo di meritevolezza si

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Se infatti non è più corretto affermare che la causa è la funzione economico-sociale del contratto, ma la sintesi degli effettivi e reali

interessi che il negozio mira a perseguire, la sua valutazione in termini sia di liceità che di

meritevolezza diviene essenziale per tutti i contratti, sia innominati che nominati.

aggiunge, per tutti gli atti di autonomia negoziale, a quello della liceità dei concreti interessi perseguiti. In caso di esito negativo, la sanzione, solitamente22, è l’invalidità totale o parziale. In particolare, esso è definito come un limite interno al contratto stesso, sia esso tipico o atipico: benché infatti il secondo comma dell’art. 1322 cod. civ. faccia espresso riferimento solo ai contratti atipici, è opinione ormai largamente diffusa che, a seguito dell’adozione della teoria della causa concreta23, detto controllo si estenda a tutte le tipologie contrattuali, e pertanto anche ai contratti tipici. Se infatti non è più corretto affermare che la causa è la funzione economico-sociale del contratto, ma la sintesi degli effettivi e reali interessi che il negozio mira a perseguire, la sua valutazione in termini sia di liceità che di meritevolezza diviene essenziale per tutti i contratti, sia innominati che nominati. Venuta infatti meno la matrice ideologica che aveva spinto ad elevare la causa quale mezzo di controllo dell’utilità sociale del contratto, la nozione di causa tipica è apparsa nel tempo del tutto insoddisfacente. Si era invero giunti a trascurare la realtà di ogni singolo contratto, degli interessi reali che di volta in volta il contratto è diretto a realizzare e che sottostanno al modello tipico utilizzato24. Ogni tipo contrattuale realizza un assetto di interessi, ma questo è quello voluto dal legislatore, e non dalle parti. Le parti collocano il loro assetto di interessi nell’ambito di una disciplina già formalmente prevista, oppure realizzano contratti atipici. Qualora tuttavia si utilizzasse uno schema tipico, che postula la tutela di interessi voluti dal legislatore, in realtà sarebbe comunque possibile mascherare la presenza di interessi immeritevoli di tutela. Si pensi a tal proposito ai negozi indiretti, volti al conseguimento di un risultato ulteriore rispetto a quello “normale”, tipico, previsto per il negozio. Solo qualora in questa ipotesi avessimo riguardo della causa concreta del negozio, sarebbe agevole accertare che il fine ulteriore incide sulla causa concreta, rendendola addirittura incompatibile col

tipo legale25. La causa concreta diviene, pertanto, un vero e proprio anello di congiunzione tra l’autonomia privata e l’ordinamento, poiché è il vero strumento attraverso il quale l’ordinamento può controllare questa autonomia, che si dimostra oggigiorno in constante espansione. Lo strumento della meritevolezza ricorre per cercare di dare una risposta ai timori che sorgono nell’alveo della specifica materia qui in esame, relativamente all’elevato tasso di frodi ed abusi. Il suo utilizzo implica un’attenzione ed una cautela da parte dell’operatore pratico estremamente significativa. Soggetti deputati a vagliare la sussistenza di meritevolezza. Il requisito di meritevolezza senz’altro è oggi protagonista di momenti di esaltazione, al pari dell’autonomia negoziale, e rappresenta uno strumento di controllo irrinunciabile dinnanzi al dilagare di detta autonomia. Ed ecco il motivo per cui si pone quale presupposto fondamentale per vagliare l’ammissibilità del contratto di affidamento fiduciario: secondo il suo teorizzatore26, il programma dell’affidamento deve essere meritevole, in quanto le intese siano convenute per atto inter vivos, ai sensi del secondo comma dell’art. 1322, co. 2, cod. civ. Spetterà al giudice riscontrare la sua presenza nelle concrete vicende. Il primo soggetto che probabilmente si trova a contatto con il contratto di affidamento fiduciario, è però il notaio, posto che il giudice viene ad essere interpellato più che altro in una fase patologica del contratto e successiva alla sua stipulazione. Il notaio è il primo a potersi rendere conto della sussistenza del requisito di meritevolezza, nel momento in cui redige l’atto, e pertanto potrebbe essere individuato come il primo soggetto responsabile di questo controllo. Tuttavia, titubanze emergono nel voler considerare i notai dei veri e propri nuovi censori. Tecnicamente, inoltre, non si deve dimenticare che, ai sensi dell’art. 27 della legge notarile27 “il notaro è obbligato a prestare il suo ministero ogni volta che ne è richiesto” e, ai sensi dell’art. 28 della suddetta legge, egli non può ricevere atti solo e soltanto se “essi sono espressamente proibiti dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico”. Se pertanto il notaio, nell’espletare i controlli a lui demandati, adducesse che un atto quale il contratto di affidamento fiduciario è sì lecito (e quindi conforme alla legge, all’ordine pubblico ed al buon costume), ma non meritevole di tutela, egli non potrebbe di certo sostenere sensatamente che l’atto è espressamente proibito dalla legge e manifestamente contrario all’ordine pubblico o al buon costume28, dovendo pertanto provvedere alla sua redazione. Sussiste infatti senz’altro un’importante differenza tra liceità di cui all’art. 1343 cod. civ. e la meritevolezza. Già con la visione “sociale” dell’autonomia privata

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“Unicamente grazie a questo ulteriore controllo di meritevolezza la generale illimitata

responsabilità del debitore potrà trovare limitazione, diversamente si finirebbe per

svuotare di contenuto l’art. 2740 cod. civ.”

patrocinata tra il terzo ed il quinto decennio del Novecento da Emilio Betti, la liceità è stata descritta come una condizione necessaria ma non sufficiente per la tutela: l’interesse potrà dirsi meritevole solo qualora possegga un quid pluris29. Tuttavia, questo tipo di orientamento ravvisa nella meritevolezza l’esigenza avvertita dal legislatore del 1942 di sottoporre il regolamento contrattuale ad un controllo in termini di utilità sociale ed economica; si tratta di un’idea che quindi esprime l’ideologia corporativistica dell’epoca, che non può più essere accettata nell’attuale sistema liberal-democratico. Sicuramente competente per il vaglio di meritevolezza è invece il giudice, che dovrà compierlo dopo che il contratto è stato posto in essere, e dopo che a lui si siano rivolti i creditori: sarà chiamato a valutare se possono sussistere ipotesi concrete di decurtazioni patrimoniali con finalità lesive per le ragioni dei creditori. Tuttavia, perplessità sorgono anche circa l’entità del potere che viene in tal caso conferito ai giudici stessi nell’esprimersi su un tale controllo: ai giudici infatti viene ad essere demandato il compito di applicare il diritto, e non di crearlo. Si vuole evitare che in tal modo si ricada in una situazione di completa arbitrarietà, a seconda di quelle che sono le ideologie personali dei giudici30. Il giudizio di meritevolezza infatti comporta un controllo del giudice esteso a tutti i contratti, tipici e atipici che siano, ed è aperta ad applicazioni non uniformi che poco si prestano a puntuali controlli. L’argine così rappresentato della meritevolezza degli interessi, appare molto debole, poiché in balia di un potere troppo grande affidato al giudice. La meritevolezza infatti (così come la buona fede, la ragionevolezza) non ha un significato intrinseco, ma ne assume uno diverso a seconda della ratio della singola disposizione nonché del sistema giuridico in cui opera. Il giudice è tenuto a rimanere soggetto alla sola legge, e l’esercizio di tale potere non può e non deve ricadere in un arbitrio, nonostante il margine assai ampio di discrezionalità; d’altra parte, non può negarsi come nella realtà delle cose spesso i giudici non siano propriamente lo specchio della morale corrente, riflettendo fedelmente idee e convinzioni del loro tempo ed ambiente, ma piuttosto esprimano ideologie personali. Contratto di affidamento fiduciario e atti di

destinazione patrimoniale: meritevolezza a confronto. Nel contesto del contratto di affidamento fiduciario, viene ad essere previsto un controllo di meritevolezza del programma dell’affidamento, secondo i dettami dell’art. 1322, co. 2, cod. civ. Facendo un salto temporale indietro sino al 2006, il legislatore, introducendo l’art. 2645-ter nel nostro codice civile, per la categoria degli atti di destinazione patrimoniale avrebbe specificato (secondo l’opinione oggigiorno prevalente) che detto giudizio si caratterizzi per essere particolarmente qualificato e diverso da quello di cui all’art. 1322, co. 2, cod. civ. Il controllo di meritevolezza previsto dall’art. 2645-ter cod. civ., segnatamente, è innanzitutto svolto soltanto ai fini della separazione patrimoniale. Il negozio di destinazione sarebbe pertanto già di per sé meritevole ai sensi dell’art. 1322 cod. civ., e solo qualora superi anche il vaglio di meritevolezza ulteriore di cui all’art. 2645-ter cod. civ. sarà opponibile ai terzi creditori e aventi causa. Non superare quest’ultimo controllo di meritevolezza comporta, come implicitamente presuppone la norma, soltanto una destinazione valida ma manchevole dell’effetto della separazione patrimoniale31. Questo perché destinare e separare sono due concetti assolutamente differenti, così come l’efficacia obbligatoria tra le parti e l’opponibilità della separazione ai terzi32. Unicamente grazie a questo ulteriore controllo di meritevolezza la generale illimitata responsabilità del debitore potrà trovare limitazione, diversamente si finirebbe per svuotare di contenuto l’art. 2740 cod. civ.. Si tratta un controllo radicalmente diverso dall’art. 1322, co. 2, cod. civ., in quanto innanzitutto non è un controllo propriamente interno all’atto, bensì esterno, poiché non limitato soltanto alla causa concreta, ma riguardante anche il rapporto tra bene destinato e valore del patrimonio residuo, nonché richiedente la valutazione comparativa tra l’interesse oggetto della destinazione e gli interessi dei terzi creditori eventualmente sacrificati. Infine, si tratta di un controllo propriamente dinamico, poiché copre tutta la durata della destinazione, come avviene per qualsiasi contratto di durata, e quindi secondo una semplice conseguenza della logica. Secondo un ragionamento logico-deduttivo, pertanto, sorgono perplessità circa la qualificazione del controllo di meritevolezza del contratto di affidamento fiduciario. Esso infatti viene ad essere descritto come il controllo di cui all’art. 1322, co. 2, cod. civ. dallo stesso Professor Lupoi che lo ha concettualizzato33. Proviamo però ad avanzare un ragionamento sillogistico: poniamo innanzitutto come prima premessa maggiore quella per cui l’atto di destinazione ex art. 2645-ter cod. civ. genera, una volta trascritto, una separazione patrimoniale; si

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12 Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – Mag. 2016

“l’interesse promosso dalla creazione di una proprietà

nell’interesse altrui deve essere potiore rispetto a quello dei creditori del

disponente”

tratta di una separazione “unilaterale”, in quanto, anche se è vero che soltanto i creditori che hanno pretese correlate ai beni vincolati possono aggredire i beni stessi ed i loro frutti, è altresì vero che gli stessi possono anche agire sul restante patrimonio del titolare dei beni destinati, anche se sussidiariamente34. D’altra parte, si deve osservare come con il contratto di affidamento fiduciario si realizzi invece una segregazione patrimoniale, anche detta “separazione bilaterale”, in cui vi è un’assoluta incomunicabilità tra i beni che costituiscono il fondo affidato ed il residuo patrimonio dell’affidante, ed inoltre i beni affidati non sono soltanto sottratti ai creditori dell’affidante, ma anche a quelli dell’affidatario (come avviene per i trusts)35. Poniamo ora la premessa minore: ciò che si verifica, una volta generata la separazione patrimoniale è che per l’atto di destinazione venga richiesto un controllo di meritevolezza maggiormente qualificato, il quale condiziona la separazione “unilaterale” del patrimonio destinato, in quanto diversamente l’atto potrebbe anche essere caratterizzato da una destinazione valida, ma pur sempre manchevole dell’effetto della separazione patrimoniale. Poste le premesse, giungendo ad una prima conclusione, si può dedurre che così come per l’atto di destinazione viene ad essere richiesto un controllo di meritevolezza maggiormente qualificato, poiché funzionale alla separazione patrimoniale stessa, anche per il contratto di affidamento fiduciario dovrebbe essere richiesto un controllo di meritevolezza più intenso. Ciò in quanto se l’atto di destinazione comunque sia dà vita ad una separazione patrimoniale “unilaterale”, quella che si viene a creare con il contratto di affidamento fiduciario è d’altro canto una

segregazione, che comporta l’impossibilità assoluta di aggredire i beni del fondo affidato da parte dei creditori generali sia dell’affidante che dell’affidatario, nonché l’impossibilità per i creditori speciali del fondo affidato di aggredire il patrimonio personale dell’affidante. Dato che il controllo di meritevolezza di cui all’art. 2645- ter cod. civ. è previsto al fine di giustificare una limitazione della responsabilità patrimoniale, anche per il contratto di affidamento fiduciario il controllo di meritevolezza dovrebbe rappresentare una valutazione comparativa tra l’interesse sacrificato, ossia quello dei creditori generali (che anche in questo caso, seppur in buona fede, non possono aggredire il patrimonio segregato), e l’interesse posto alla base dell’affidamento fiduciario stesso. La destinazione è infatti cosa diversa e ulteriore rispetto alla separazione, e non deve pertanto essere qui presa in considerazione. Il punto di partenza per entrambi gli istituti qui esaminati è infatti sempre la separazione-segregazione, per la quale viene ad esplicarsi il controllo di meritevolezza, e questo è il solo presupposto da osservare. Continuando con il ragionamento deduttivo, possiamo porre un’altra premessa maggiore: il controllo di meritevolezza di cui all’art. 2645-ter cod. civ. abbiamo visto essere un controllo diverso rispetto a quello di cui all’art. 1322, co. 2, cod. civ., poiché inoltre copre tutta la durata della destinazione. Se cioè, nel corso della destinazione, venisse meno l’interesse meritevole di tutela di cui all’atto, come normalmente avviene per qualsiasi contratto di durata (seppur l’atto sia risultato meritevole e legittimamente trascritto al momento della stipulazione) esso muterebbe, trasformandosi in un atto immeritevole. Essendo il contratto di affidamento fiduciario un contratto di durata, anche per questo si dovrebbe contemplare un controllo di meritevolezza dinamico, con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare in base alle specifiche circostanze del caso concreto. Ancora, visto il coinvolgimento degli interessi del creditore del disponente nel caso previsto dall’art. 2645-ter cod. civ., la meritevolezza in tal caso deve essere intesa necessariamente nel senso che “l’interesse promosso dalla creazione di una proprietà nell’interesse altrui deve essere potiore rispetto a quello dei creditori del disponente”36. Posto che le posizioni soggettive spettanti all’affidatario fiduciario sono essenzialmente eterogenee rispetto alle altre delle quali egli sia titolare, anche nel contratto di affidamento fiduciario si può rinvenire una forma di proprietà nell’interesse altrui37, la quale richiede pertanto un controllo di meritevolezza peculiare e differente da quello di cui all’art. 1322, co. 2, cod. civ. Seguendo questo semplice ragionamento, pertanto, anche per il contratto di affidamento fiduciario deve essere richiesto un più intenso vaglio circa la meritevolezza degli interessi sottostanti il programma. Solo e soltanto qualora si superasse questo vaglio sarebbe possibile giustificare il fatto che i beni oggetto dell’affidamento vengano sottratti alla garanzia generica rappresentata dall’intero patrimonio dell’affidante, per un periodo di tempo che potrebbe essere anche molto lungo poiché stabilito in funzione del programma e tra l’altro non determinato da alcuna norma di legge. Ovviamente questo atteggiamento restrittivo che già è stato utilizzato per l’atto di destinazione di cui all’art. 2645-ter cod.

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civ., inevitabilmente comporterebbe un uso più limitato del contratto di affidamento fiduciario, così come ha, a dieci anni dalla introduzione della norma, comportato uno scarso successo per l’atto di destinazione. Occorrerà infatti anche qui valutare l’adeguatezza tra patrimonio affidato e scopo perseguito (che ovviamente dovrà essere anche lecito), non soltanto al momento della stipulazione del contratto, ma durante tutto il corso della sua esecuzione. Anche la durata stessa del contratto potrebbe essere sproporzionata rispetto allo scopo dell’affidamento. Meritevolezza d’altronde significa anche valutare la capienza del patrimonio residuo dell’affidante: se infatti il patrimonio residuo a seguito della segregazione rimane incapiente, l’atto sarà valido, lecito, ma non meritevole, e pertanto soggetto a revocatoria nei limiti previsti dalla legge (ex art. 2901 cod. civ). Nel caso in cui il contratto di affidamento fiduciario non persegua un interesse altrui, ma proprio, poiché beneficiario dell’affidamento, la valutazione circa la meritevolezza dovrà essere fatta caso per caso: il contratto riesce a prevenire possibilità di vantaggio indebito, impedendo che egli possa volgere il patrimonio affidato a proprio favore se non nei limiti e per le finalità del programma. Tuttavia, non è una buona prassi quella di configurare l’affidatario fiduciario quale beneficiario, poiché ciò potrebbe comunque favorire intenti fraudolenti38. In queste ipotesi, è avanzabile (in aggiunta all’azione revocatoria, qualora ne sussistano i presupposti) un’azione specifica di accertamento della meritevolezza, per tutta la durata dell’affidamento, diretta a rendere l’atto inefficace ed inopponibile nei confronti dei creditori, quando l’interesse di questi risulti essere prevalente rispetto all’interesse perseguito con l’affidamento. Questa interpretazione è semplicemente espressione del principio di atipicità del diritto d’azione, che trova fondamento nell’art. 24 della Costituzione39, Infine, attraverso la previsione di un controllo di meritevolezza maggiormente qualificato, esso non sarebbe rimesso al totale arbitrio dell’interprete, prevedendosi comunque un vaglio di maggiore precisione. Il bilanciamento degli interessi contrapposti, in particolare, verrebbe effettuato sulla base della gerarchia degli interessi e dei valori che il sistema giuridico vigente impone all’interprete, e quindi non ci si abbandonerebbe completamente alla discrezionalità dei giudici. Liceità e meritevolezza. È stato tuttavia sostenuto40 che il controllo di meritevolezza a cui sottoporre l’atto di destinazione di cui all’art. 2645-ter cod. civ. sarebbe semplicemente quello ai sensi dell’art. 1322 cod. civ., e non quindi un controllo maggiormente qualificato, che comporterebbe una applicazione restrittiva (e quindi quantitativamente scarsa) della fattispecie. Questa teoria parte dall’assunto per cui “ogni interesse lecito sia meritevole di tutela e giustifichi la destinazione dei beni”41. Qualora fosse meritevole qualsiasi interesse semplicemente lecito, nulla quaestio, poiché ovviamente non si richiederebbe alcuna valutazione particolare degli interessi. Inoltre l’atto sarebbe impugnabile solo per contrarietà a norme imperative, illiceità della causa, dell’oggetto, o del motivo. Inoltre, partendo dal presupposto per cui le regole e principi che il giudice deve utilizzare per svolgere detta valutazione di liceità sono ampiamente puntualizzate, non si porrebbero neppure problemi di indeterminatezza circa i poteri attribuiti al giudice. Non verrebbe in definitiva richiesto di sindacare alcunché, al di fuori della liceità, per ogni singolo caso di specie. Ovviamente, qualora ci accostassimo a questa interpretazione, anche per programma statuito nel contratto di affidamento fiduciario non

“Meritevolezza d’altronde significa anche valutare la

capienza del patrimonio residuo dell’affidante: se

infatti il patrimonio residuo a seguito della segregazione

rimane incapiente, l’atto sarà valido, lecito, ma non

meritevole, e pertanto soggetto a revocatoria nei limiti previsti dalla legge (ex

art. 2901 cod. civ)”

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avrebbe alcun senso una verifica circa la sussistenza una specifica meritevolezza. La meritevolezza richiesta per il programma dell’affidamento sarebbe semplicemente quella di cui all’art. 1322, co. 2, cod. civ. Ciononostante, l’affermare che siano meritevoli di tutela tutti gli interessi leciti, e che, pertanto, il legislatore formulando l’art. 2645-ter cod. civ. nel 2006 non possa aver inteso un significato della meritevolezza diverso da quello già previsto nel 1942, è di per sé errato. Questo ci è stato agevolmente insegnato dalla grande crisi globale dei subprime, che ha visto il suo culmine nel 2008, la quale ha messo in luce il problema dei derivati finanziari42. Questi ultimi infatti, pur nascendo con una funzione propriamente di copertura dei rischi, sono poi nella realtà dei fatti stati utilizzati per finalità assolutamente speculative. Pur rimanendo rispettoso della propria veste formale, qualora un derivato finanziario raggiungesse una funzione speculativa, potrebbe essere colpito da nullità: il mezzo utilizzabile dal giudice per compiere un vaglio del derivato stesso è la causa concreta, in maniera tale da poter comprendere il reale ed effettivo assetto di interessi sottostante, ossia la reale dinamica contrattuale. Ed è proprio quindi la causa concreta, nei termini in cui ce ne ha parlato la Cassazione nel 200643, lo strumento grazie al quale il giudice può e deve sindacare la meritevolezza dei contratti derivati finanziari (e non solo, ovviamente). Diversamente, rimarremmo ancorati alla concezione di causa come funzione economico-sociale del contratto, ormai espressamente superata dalla Corte di legittimità in quanto non in grado di decodificare il vero assetto di interessi realizzato dai contraenti, giungendo alla necessaria conclusione per cui ogni volta che il contratto è di per sé lecito, esso sarebbe automaticamente meritevole. Pertanto, conclusione necessaria è quella per cui non c’è assolutamente identificazione tra questi due giudizi, diversamente tutti i contratti leciti sarebbero sempre e comunque produttivi di effetti. (Segue) Osservazioni conclusive a sostegno della tesi: confronto con il trust interno La tesi che vede l’ammissibilità di un contratto di affidamento fiduciario solo quando intensamente e particolarmente meritevole di tutela in base al caso concreto, potrebbe trovare un’ulteriore conferma qualora si consideri che anche per il trust domestico è stato richiesto il rispetto dei più rigidi criteri di meritevolezza di cui all’art. 2645- ter cod. civ.44 Non si vedrebbe infatti il motivo per cui i trusts interni per avere libero ingresso nel nostro ordinamento, dovrebbero superare positivamente il solo sindacato di liceità, quando per rendere opponibili gli effetti degli atti di destinazione è necessario superare anche il diverso vaglio di meritevolezza, che è, tra l’altro, più intenso di quello previsto all’art. 1322, co. 2, cod. civ. Sarebbe infatti a dir poco assurdo permettere ai privati di porre in essere una separazione patrimoniale solo in vista di determinati interessi particolarmente meritevoli, finendo dall’altra parte per consentire una segregazione con i trusts, attraverso il rinvio a norme appartenenti ad ordinamenti stranieri. Seguendo lo stesso filo logico, ammettendo per il contratto di affidamento fiduciario un semplice controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322, co. 2, cod. civ., non particolarmente qualificato, o peggio, limitato ad un accertamento di liceità, l’ordinamento giuridico finirebbe per cadere in contraddizione con sé stesso. Il fatto che la previsione di una meritevolezza maggiormente qualificata sia stata di ostacolo ad una applicazione quantitativamente ampia della fattispecie degli atti di destinazione ex art. 2645-ter cod. civ. può senz’altro esser vero, così come può esser vero che questo comporterebbe un ostacolo per l’adozione del contratto di affidamento fiduciario. Tuttavia, ciò dovrebbe essere visto nell’ottica di una giustificazione sul piano sociale del ricorso ad uno strumento destabilizzante per assetti di interessi fino a questo momento particolarmente tutelati, anche al prezzo di sacrificarne altri, all’esito di una valutazione comparativa. Pertanto, si può concludere che unicamente in presenza di interessi meritevoli di tutela così come individuati secondo l’interpretazione che è stata data all’art. 2645-ter cod. civ., il contratto di affidamento fiduciario potrebbe sicuramente produrre quell’effetto segregativo, senza che il sistema ricada in alcuna ipotesi di incoerenza. NOTE

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(1) Cfr. M. LUPOI, Il contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014, 312 ss.: “Gli interessi in parola si muovono su due distinti piani [...]: gli interessi delle categorie o dei singoli, i quali nulla sanno e nulla vogliono sapere dei concetti giuridici che saranno chiamati in campo e guardano unicamente a un risultato che ai loro occhi sia al tempo stesso giusto e sicuro; e gli interessi dell’ordinamento il quale si esprime invece per mezzo dei concetti e delle regole che da essi derivano, ma proprio dai primi e dalle seconde rimane poi avviluppato, scopre allora di non riuscire a evolversi e accoglie con favore tutti quelli stimoli esterni – dal diritto comunitario al diritto globalizzato – che in passato sarebbero stati per lo più respinti con indignazione. Questi stimoli esterni sono stati spesso, a loro volta, prodotti dalla risposta data agli interessi delle categorie o dei singoli, per avventura proprio quegli interessi che il nostro ordinamento non aveva percepito o ai quali, pur avendoli percepiti, non era stato in grado di rispondere. [...] Il rilevante impegno profuso da pratici e teorici in direzione di innovazioni normative è manifestamente carente perché si è mosso dall’alto verso il basso e dunque nella direzione precisamente contraria a quella ora suggerita”. (2) Essendo di recentissima teorizzazione, il contratto di affidamento fiduciario è quindi ancora carente di supporto giurisprudenziale e dottrinale. Una prima, significante pronuncia (3) Il negozio fiduciario è stato lasciato in balia dell’elaborazione interpretativa, non avendo la fiducia mai trovato uno spazio legislativo. Per tali motivi esso non è mai riuscito ad apprestare una tutela effettiva a tutta una serie di situazioni affidanti (motivo per cui si è sentita l’esigenza di far ricorso al trust). Conformemente alla concezione classica della fiducia, premesso il trasferimento pieno della proprietà, la relazione tra le parti sarebbe regolata da un rapporto di carattere obbligatorio. La giurisprudenza (Si veda, tra le altre, Cass. Civ, 7 agosto 1982, n. 4438, in Massimario del Foro italiano, 1982, 926 ss.; Cass. Civ, 29 maggio 1993, n. 6024, in Foro italiano, 1994, 2495 ss.) sembra inoltre prediligere, in merito alla struttura del negozio fiduciario, la teoria dei negozi strutturalmente collegati, ed in particolare secondo molti autori sarebbe preferibile ricondurre il negozio con efficacia obbligatoria, circa la sua qualificazione, al contratto di mandato (G. DIURNI, voce “Fiducia e negozio fiduciario”, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. VIII, 1992, 288 ss.). Si applicherebbe pertanto, visti i poteri gestori concessi al fiduciario, il regime giuridico proprio del mandato; in particolare, in riferimento alla proprietà del mandatario, il fiduciario acquista una proprietà piena sui beni, i quali non vengono a costituire un patrimonio separato (Cfr. P. GALLO, Il contratto fiduciario, in I contratti di destinazione patrimoniale, a cura di R. Calvo - A. Ciatti, in Trattato dei contratti, diretto da E. Gabrielli - P. Rescigno, Torino, 2014, 55 ss.). Conseguenza di questo tipo di impostazione è innanzitutto l’impossibilità per il fiduciario di disporre in modo efficace della proprietà in favore dei terzi. In secondo luogo, sussiste l’assoluta l’inopponibilità della fiducia nei confronti dei terzi aventi causa e dei creditori del fiduciario, ed infine, qualora il fiduciario disponesse dei beni fiduciari in violazione delle istruzioni ricevute, egli non commetterebbe appropriazione indebita. Ultimo particolare, è quello per cui se fossimo nel campo del mandato, a seguito della morte del mandante si realizzerebbe l’estinzione del mandato (a meno che non sussista pericolo nel ritardo). Pertanto questa soluzione condurrebbe all’ipotesi che, in caso di morte del fiduciante, ci sarebbe una cessazione delle attività realizzatrici del programma alla cui realizzazione si era impegnato il fiduciario. L’assoluta inadeguatezza della concezione tradizionale della fiducia, specie se paragonata al trust, emerge maggiormente proprio da questi punti. (4) Art. inserito ex D.L. 30.12.2005 n. 37, convertito in legge 23.2.2006 n. 51 (art. 39 novies). Per via delle caratteristiche intrinseche degli atti di destinazione (profilo “statico” e “passivo” della destinazione, separazione unidirezionale del patrimonio; Cfr. B. FRANCESCHINI, Atti di destinazione (2645-ter c.c.) e trust, in Trust, Torino, 2008, 265 s.), essi infatti non possono di certo rappresentare l’alternativa italiana competitiva rispetto ai trusts, ed è per questo motivo che, dal punto di vista della ricaduta operativa, a distanza di quasi dieci anni l’istituto non ha avuto sicuramente un esito quantitativamente significativo. (5) Per “trust interno” si intende un trust nel quale tutti gli elementi costitutivi, soggetti e beni, con esclusione ovviamente della sola legge applicabile, sono italiani. L’espressione è stata coniata dal Professor M. LUPOI, Il trust nell’ordinamento giuridico italiano dopo la Convenzione dell’Aja del 10 luglio 1985, in Vita notarile, 1992, 976 s. Per quel che riguarda in particolare il dibattito di cui è stato oggetto per lungo tempo il trust interno, esemplificativo è il botta e risposta infuocato tra Maurizio Lupoi e Francesco Gazzoni nei primi anni del Duemila: F. GAZZONI, Tentativo dell’impossibile: osservazioni di un giurista “non vivente” sul trust e trascrizione, in Rivista del notariato, 2001, 11 ss.; M. LUPOI, Lettera ad un notaio conoscitore del trust, ivi, 2001, 1159 ss.; F. GAZZONI, In Italia tutto è permesso, anche quello che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi sul trust ed altre bagattelle), ivi, 2001, 1247 ss.; F. GAZZONI, Il cammello, il leone e il fanciullo e la trascrizione del trust, in Rivista del notariato, 2002, 1107 ss.; F. GAZZONI, Il cammello, la cruna dell’ago e la trascrizione del trust, in Rassegna di diritto civile, 2003, 953 ss. (6)La cui attuazione è rimessa all’affidatario che a tanto si obbliga. Cfr. M. LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008, 201 s. (7)La conclusione a cui si è giunti, è quella per cui in realtà è l’Italia stessa, ratificando la Convenzione, che avrebbe considerato il trust non incompatibile con il suo ordinamento interno;

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“convergenza digitale” lo strumento elettronico di

elaborazione assurge al ruolo di vero e proprio elemento costitutivo della situazione

giuridica soggettiva

secondo il Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, in Trusts e attività fiduciarie, 2004, 67 ss.: “Non è revocabile in dubbio, infatti, che gli Stati firmatari della Convenzione, pur considerando il trust come un "istituto peculiare creato dai tribunali di equità dei paesi di common law", hanno espressamente convenuto di stabilire "disposizioni comuni relative alla legge applicabile ai trust" e di risolvere in nuce "i problemi più importanti relativi al suo riconoscimento" [...] dimostrando quindi di considerare l'istituto, sia pure per il tramite delle disposizioni suddette, non incompatibile con gli ordinamenti interni". In altri termini, sostenere che il trust è inconciliabile col diritto positivo italiano non ha significato perché, per addivenire a tale conclusione, bisognerebbe affermare che tutta la legge 16 ottobre 1989 n. 364 si ha per non scritta.” Lo scetticismo che da sempre ha caratterizzato la disciplina del trust, si deve al fatto che spesso esso è stato visto come uno strumento per distrarre patrimoni, agire in frode ai creditori, eludere il fisco, o aggirare norme inderogabili ad esempio in materia di successione. A tal proposito si segnala l’entrata in vigore d’urgenza del D.L. del 27 giugno 2015, n. 83, introduttivo dell’art. 2929-bis cod. civ. Il suddetto articolo sembra essere stato concepito proprio per porre una possibile soluzione al problema delle frodi ai creditori. Possono infatti essere oggetto di esecuzione forzata i beni immobili o mobili registrati sottoposti a vincolo di indisponibilità, per il solo fatto che il creditore ritenga di essere pregiudicato dal vincolo o dalla donazione, e senza alcun permesso del giudice; si è introdotta infatti una sorta di presunzione per cui questo tipo di atti siano stati stipulati in frode al creditore stesso. Precedentemente a tale riforma, la tutela accordata al creditore prevedeva comunque sia l’instaurarsi di un procedimento giudiziario ordinario nel corso del quale il creditore avrebbe dovuto provare le ragioni del proprio danneggiamento, e solo a seguito di tale procedimento il giudice avrebbe potuto dichiarare l’inefficacia del trasferimento nei confronti del creditore procedente, e il creditore avrebbe potuto soddisfarsi sui beni del debitore. Ovviamente non può non osservarsi come ciò comporti una gravissima ed indubbia lesione del diritto alla difesa del debitore (nonché del terzo che ha ricevuto i beni) e ciò in nome della mera protezione accordata ai creditori, per difenderli da eventuali frodi. (8) I patrimoni segregati e separati rappresentano figure con le quali l’esperienza giuridica italiana sta acquistando sempre maggiore familiarità, vista la loro grande diffusione in molteplici settori del nostro ordinamento giuridico. In realtà i due termini sono spesso utilizzati come sinonimi, ma le realtà alle quali questi fanno riferimento sono diverse. Il carattere differenziale fra patrimoni segregati e separati si individuerebbe nella diversa intensità del vincolo: nel momento in cui parliamo di patrimonio segregato, infatti, facciamo riferimento ad un effetto diverso dalla pura separazione patrimoniale. Mentre nel caso della separazione non si impedisce una limitata comunicabilità fra patrimonio separato e patrimonio generale del disponente, la segregazione nasce dell’ambito del trust ed indica una assoluta incomunicabilità bidirezionale del patrimonio di cui il trustee è titolare. Spesso tuttavia, il nostro diritto legislativo non si pone in termini rigorosi rispetto a questa incomunicabilità bidirezionale, ricadendo più semplicemente nella configurazione di patrimoni separati. Ovviamente questo fenomeno però intacca uno dei cardini fondamentali del nostro ordinamento, ossia quello della universalità ed unicità del patrimonio del soggetto giuridico, di cui costituisce espressione la genericità della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 cod. civ. Sul punto G. TUCCI, Segregazione di patrimoni, atti di destinazione e affidamenti fiduciari nel governo della famiglia, in Scritti in onore di Francesco Capriglione, Padova, 2010, 1041 ss. (9) Cfr. M. LUPOI, Il contratto di affidamento fiduciario, in Rivista del notariato, 2012, 517 s.� (10) In tal senso, si sottolinea come il trasferimento della proprietà dall’affidante all’affidatario, investendo quest’ultimo di determinati poteri correlati, non ne condiziona l’esercizio secondo moduli predeterminati e rigidi paradigmi: l’esercizio di tali poteri infatti si adegua proprio agli interessi e alle funzioni che il titolare di quei poteri valuterà di espletare. Cfr. F. ALCARO, Gestioni e affidamenti fiduciari: appunti (poteri, attività e destinazioni), in Vita notarile, 2014, 713 s. (11) Ciò non deve far confondere il contratto di affidamento fiduciario con un contratto a favore di terzi, poiché i beneficiari possono anche essere parti del contratto sin dall’inizio, e non semplicemente individuati o individuabili; nel caso in cui siano parti, si applicheranno gli artt. 1411 ss. cod. civ. (ossia gli articoli relativi al Capo IX, “Del contratto a favore di terzi”). (12) Si tratta di un assetto negoziale polifunzionale che si basa su un tipo contrattuale unitario. Cfr. M.LUPOI, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 385 s. (13) Cfr. A. FEDERICO, La trascrizione degli atti di destinazione, in I contratti di destinazione patrimoniale, a cura di R. Calvo - A. Ciatti, in Trattato dei contratti, diretto da E. Gabrielli - P. Rescigno, Torino, 2014, 610 s. (14) Cfr. E. GABRIELLI, Il contratto e le sue classificazioni, in I contratti in generale a cura di E. Gabrielli, in Trattato dei contratti, diretto da E. Gabrielli - P. Rescigno, Torino, 2006, 40 ss. (15) Relativamente alla attuale centralità e valenza dell’art. 2740 cod. civ. sono sorte non poche polemiche ancora “calde”, soprattutto a seguito di un procedimento di vera e propria disgregazione del principio di unità ed indivisibilità del patrimonio, e del conseguente venir meno della corrispondenza tra il soggetto da un lato, ed un suo singolo patrimonio ed una singola responsabilità dall’altro. Si è infatti passati da un sistema che concepiva il patrimonio come indistaccabile dalla persona, ad un sistema, quale quello odierno, in cui sicuramente sono ritenuti ammissibili fenomeni di frammentazione patrimoniale. Per questo motivo il Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, , in Trusts e attività fiduciarie, 2004, 67 ss., ha affermato infatti che “L’unitarietà della garanzia

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patrimoniale di cui all’art. 2740 cod. civ. non può valere come un “dogma sacro ed intangibile” del nostro ordinamento”; nello stesso senso anche il Trib. Reggio Emilia, 14 maggio 2007, in Giurisprudenza di merito, 2008, 717 ss. (16) Cfr. A. FEDERICO, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 579 s. La responsabilità patrimoniale del debitore ex art. 2740 cod. civ., le cui limitazioni “non sono ammesse se non nei casi previsti dalla legge”, troverebbe una espressa limitazione in virtù dell’art. 2645-ter cod. civ., fermo restando che la tutela della posizione del ceto creditorio è comunque assicurata dalla possibilità di esercitare l’azione revocatoria.�In verità, proprio con l’introduzione di questa norma, una limitazione si avrebbe non più solamente nei casi espressamente previsti dalla legge, bensì ogni volta in cui gli interessi sottesi all’atto di destinazione risultino concretamente meritevoli di tutela alla luce di valori dell’ordinamento giuridico. L’introduzione dell’art. 2645-ter cod. civ. apre la strada ad una nuova e più ampia lettura del principio di cui all’art. 2740 cod. civ., maggiormente in linea con le nuove esigenze che si esplicano per mezzo dell’autonomia privata.� (17) Sul punto, espressivo di questa concezione R. NICOLÒ, voce Alea, in Enc. dir., vol I, Milano, 1958, 1024 ss.; dalla lettura emerge come per l’autore (che ha rivestito una posizione di rilevanza nella redazione del libro IV del codice civile) le parti siano considerate assolutamente libere di stipulare il contenuto contrattuale, senza che nessuno possa pretendere di sindacarlo. (18) D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo); segnatamente, si prenda in considerazione il vecchio art. 1469-bis cod. civ., oggi art. 33 cod. cons. (e ancor più nel dettaglio, il primo comma: “Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.”), dalla lettura del quale emerge agevolmente uno squilibrio di status strutturale tra i contraenti (consumatore e professionista), da cui discende come il contratto non possa essere completamente avulso da ogni controllo da parte di soggetti terzi, ma anzi, esso deve necessariamente essere sottoposto ad un controllo da parte dell’ordinamento se vuole considerarsi giusto ed equo. Sul punto, C.M. BIANCA, Diritto Civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, 374 s., nota 5, richiama G.ALPA, Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, Commentario degli articoli 1469-bis-1469-sexies del Codice Civile, a cura di G. Alpa - S. Patti, vol. 2, Milano, 1997, I, XXV: “l’approvazione della direttiva comunitaria segna l’autentica svolta nell’esperienza italiana in materia di contratti per adesione e di contratti dei consumatori, ed impegna la dottrina ad una riflessione collettiva sia sulle modalità di recepimento sia sull’incidenza che il nuovo regime potrà avere sulla stessa disciplina generale del contratto”. (19) Legge 27 luglio 1978, n. 392, la quale ha previsto che, per quanto attiene i contratti di locazione ad uso abitativo, il canone non può essere libero, ma deve essere prefissato a livello legislativo sulla base di alcuni criteri determinati dalla legge (ad esempio, l’anno di costruzione della casa, i metri quadri, il numero di vani, e così via). Ogni elemento preso in considerazione ha un suo coefficiente, e sulla base di questi coefficienti si giunge ad un canone definito “equo”. Per la prima volta quindi il legislatore interviene sull’autonomia privata. (20) Cfr. E. GABRIELLI, Il contratto e le sue classificazioni, in I contratti in generale a cura di E. Gabrielli, in Trattato dei contratti, diretto da E. Gabrielli - P. Rescigno, cit., 53 s. (21) Cfr. M. BIANCA, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, in Rivista di diritto civile, 2011, 812 s. Nello specifico, l’autrice sottolinea come la meritevolezza debba essere intesa non come limite dell’autonomia negoziale, ma come vero e proprio “predicato” della stessa. (22) “Solitamente” perché per quanto invece riguarda altri atti come, ad esempio, l’atto fiscalmente elusivo, esso è valido e lecito, ma è inopponibile alla amministrazione finanziaria (art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, ai sensi del quale: “Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.”)�. (23) Cfr. V. ROPPO, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Rivista di diritto civile, 2013, 275 ss. (24) Cfr. C.M. BIANCA, Diritto Civile, 3, Il contratto, cit., 450 ss. (25) Cfr. C.M. BIANCA, Diritto Civile, 3, Il contratto, cit., 485 ss. (26) Cfr. M. LUPOI, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 161 s. (27) L. 16 febbraio 1913, n. 89, in www.giustizia.it. (28) Sul punto, anche se in tema di controllo di meritevolezza circa l’art. 2645-ter cod. civ., A. GENTILI, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645-ter c.c., in Studi in onore di Nicolò Lipari, Milano, 2008, 1139 s. (29) Cfr. E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, 1994 (rist.), 191 ss. (30) Sul punto, anche se in tema di controllo di meritevolezza circa l’art. 2645-ter cod. civ., A.

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GENTILI, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645-ter c.c., cit., 1140 s. (31) Cfr. A. FEDERICO, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 586 ss.� (32) Cfr. B. FRANCESCHINI, Atti di destinazione (2645-ter c.c.) e trust, in Trust, Torino, 2008, 263 s. (33) Cfr. M. LUPOI, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 161 s. (34) Cfr. B. FRANCESCHINI, Atti di destinazione (2645-ter c.c.) e trust, cit., 264 s. (35) Cfr. M. LUPOI, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 314 ss. (36) Così A. GAMBARO, La proprietà, in Proprietà e possesso, a cura di A Gambaro - U. Morello, in Trattato dei diritti reali, diretto da A. Gambaro - U. Morello, Milano, 2008, 339 s. (37) È lo stesso M. LUPOI, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 367 s. che usa l’espressione “un altro modo di possedere”, utilizzata proprio in riferimento alla proprietà nell’interesse altrui da A. GAMBARO, La proprietà, cit., 338 s., anche se il primo utilizzo di questa espressione si deve a P. GROSSI, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica post-unitaria, Milano 1977. Il testo di Grossi, richiamato da Lupoi alla nota 85, tuttavia si concentra più che altro sul tema delle proprietà collettive. (38) Cfr. M. LUPOI, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 414 ss. Questo tipo di sospetto emerge proprio dalla ultima pronuncia della Cass. Civ, Sez. V tributaria, 25 febbraio 2015, n. 3886, in www.ilcaso.it (39) In sostanza, si ripercorre l’idea chiovendiana per cui il processo è dato dalla strumentalità rispetto al diritto sostanziale (“il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire”, cit. G. CHIOVENDA, Principii di diritti processuale civile, Napoli, 1965, 81 s.). Le azioni processuali sono tante quanto le norme che possono attuarsi. Sarebbe pertanto possibile esperire qualsiasi azione, anche se non espressamente prevista da alcuna norma processuale o sostanziale, se essa è necessaria a tutelare una situazione giuridica soggettiva attribuita al privato. Sul punto, cfr. A. PROTO PISANI, Introduzione sulla atipicità della azione e la strumentalità del processo, in Foro italiano, 2012, 1 ss. (40) A. GENTILI, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645-ter c.c., cit., 1123 ss.� (41) Così A. GENTILI, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645- ter c.c., cit., 1136 s. (42) Nel derivato [...], l’oggetto del contratto è costituito da uno scambio di differenziali a determinate scadenze, mentre la sua causa risiede in una scommessa che entrambe le parti assumono” e nel conseguente scabio di rischi. Questa la definizione secondo la Corte Appello Milano, 18 settembre 2013, n. 3459, in www.derivati.info. (43) Cass. Civ, sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2007, 299 ss.: “[...] si elabori una ermeneutica del concetto di causa che [...] affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d’altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell'orbita della dimensione funzionale dell'atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l'uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale.” (44) Cfr. D. ROSSANO, Trust interno e meritevolezza degli interessi, commento a Trib. Trieste, 19 settembre 2007, in Notariato, 2008, 268 ss.

Ottenuta a pieni voti la Laurea Magistrale presso l’Università di Bari, Francesca Solimini ha partecipato con merito al Corso di diritto Americano tenutosi presso la Southern California of Los Angeles, per approfondire la propria conoscenza dei principi di Common Law.

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L’arte della negoziazione nelle trattative con partner cinesi e giapponesi (Ia Parte)

. I Partner Asiatici. Cina. Spesso accade che la sfida della mutua comprensione tra operatori occidentali e cinesi si scontri con una certa incompatibilità di fondo, che deriva dalla diversità della cultura di provenienza, ma che poi trova terreno fertile su una diffusa ritrosia a concedere fiducia a chi non pensiamo non desideri comprendere i nostri desideri e le nostre abitudini. Altrettanto frequentemente è possibile ascoltare le lamentele di coloro che, nel tentativo di concludere affari in Cina, si dichiarano apertamente delusi dell'andamento della trattativa e sostengono che i negoziatori cinesi sono inefficienti, indiretti o persino disonesti, mentre dall’altro lato, similmente, si possono percepire le lagnanze di uomini d'affari cinesi che ritengono i negoziatori occidentali troppo aggressivi, impersonali ed impazienti, poco avvezzi all’arte della negoziazione e molto interessati alla definizione dell’accordo, con poco riguardo alla sua futura esecuzione. A questo proposito, risulta utile riflettere sul seguente aspetto, che è invero imprescindibile per inquadrare con maggiore precisione la filosofia che muove l’interlocutore cinese. Non deve essere infatti sottovalutato che gli ideogrammi che compongono il sostantivo Cina, 中国 – Zhōngguó – assumono il significato letterale di “Regno di Mezzo”, ponendo in tal modo, anche dal punto di vista morale e spirituale, sebbene nell’ottica cinese, lo stesso Paese su un piano centrale e più alto rispetto alle società occidentali o comunque esterne. Naturalmente, la visione sino-centrica di cui poc’anzi non è sufficiente a spiegare quali comportamenti ci si può attendere. Vi sono principi morali che non possono essere sottovalutati, e tantomeno disattesi, e che caratterizzano profondamento il comportamento di qualsiasi cittadino cinese. I principi che analizzeremo tra breve e che concorrono a comporre un tale atteggiamento complessivo sono la modestia, la pazienza, il rispetto per la gerarchia, l’onore, la lealtà e la tradizione. Si tratta ovviamente di concetti ideali, ma che trovano la loro applicazione pratica soprattutto nelle fasi preliminari di un rapporto di affari, quando si ritiene necessario ed imprescindibile costruire il rapporto personale con l’altra parte. Dunque ciò significa, considerando detti principi e traducendoli in termini commerciali e giuridici, e pur nella consapevolezza del risultato che ci si propone di raggiungere, che per la parte Cinese il rapporto complessivo che si instaura tra le parti è idealmente di gran lunga più importante dell’obiettivo commerciale immediato. Conseguenza diretta di tale modo di pensare è la naturale predisposizione degli operatori cinesi a trattative di lunga durata. Si tenga comunque presente che nell’affrontare i principi base che caratterizzano il modo di sentire dei nostri partner cinesi e che devono essere rispettati e conosciuti per poter avere migliori possibilità di successo, faremo riferimento a stereotipi, diffusi nel pensiero generale e riferiti al mercato cinese, ma che certamente hanno in sé un significato

Francesco De Sanzuane

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limitato se riferiti ad un paese con oltre un miliardo di abitanti; ugualmente accetteremo nella descrizione dei comportamenti degli uomini d’affari occidentali stereotipi certamente esagerati rispetto alla realtà dei fatti. Quel che rimane certo, in ogni caso, è che la conoscenza delle basi della cultura cinese applicate al mondo degli affari è la chiave principale, e riteniamo imprescindibile, per garantire le maggiori possibilità di successo di qualsiasi tipo di affare o rapporto, anche extra commerciale. A questo proposito, si rende utile una ultima riflessione introduttiva. Sebbene negli ultimi anni la tendenza dei cittadini cinesi sia quella di spostarsi nelle città, dove è possibile trovare maggiori e diverse opportunità di impiego, non deve essere sottovalutato che ancora i due terzi della popolazione vivono in comunità rurali, e la flessione economica di questi ultimi anni pare aver lanciato una sorta di “contro esodo” verso le campagna per molti cittadini, e proprio da questo deriva il comune sentire, per il quale la cellula principale della società è la collettività e non il pensiero individuale; la sopravvivenza del gruppo, infatti, dipende direttamente dalla cooperazione e dell'armonia tra i suoi componenti1. Sono concetti che le nuove generazioni, quelle più ricche, la borghesia cinese per intenderci, cerca di dimenticare facendo sfoggio della propria ricchezza, con comportamenti di spiccata ispirazione occidentale. Ma comunque essi rimangono e trovano sempre applicazione. In altre parole, la prima cosa che un uomo d'affari cinese si aspetta dal suo interlocutore straniero è la disponibilità a cooperare a lungo termine, disponibilità che deve essere dimostrata sin dalla fase delle trattative, che per essere fruttuose difficilmente potranno assumere a principio prevalente il carattere della celerità. Questa visione unitaria, fortemente olistica dell’esistenza si riverbera ed influenza la preparazione e lo svolgimento della negoziazione. Non è dunque sbagliato affermare che gli operatori Cinesi sono più preoccupati dei mezzi che del risultato, del modo piuttosto che del traguardo Le Differenze Allo scopo di fornire un primo esempio concreto dei principi che abbiamo richiamato poco sopra, si rende utile schematizzare gli aspetti che costituiscono concretamente le differenze intercorrenti tra occidentali e cinesi e che, nella seguente tabella, trovano la propria origine nell'appartenenza dei due gruppi a contesti culturali e sociali profondamente opposti

OPERATORI OCCIDENTALI OPERATORI CINESI I principi culturali di base ed il modo di pensare

Individualista Collettivista Egalitario Gerarchico Orientato alla ricerca di informazioni

Orientato allo sviluppo della relazione

Riduzionista Olistico Sequenziale Circolare Alla ricerca della verità Alla ricerca della via Cultura dell’argomentazione

Cultura della contrattazione

Il modo con il quale è affrontata una trattativa

"la prima cosa che

un uomo d'affari cinese si aspetta

dal suo interlocutore straniero è la disponibilità a

cooperare a lungo termine,

disponibilità che deve essere

dimostrata sin dalla fase delle

trattative, che per essere fruttuose

difficilmente potranno

assumere a principio

prevalente il carattere della

celerità”

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Riunioni veloci Lunghi processi di avvicinamento Atteggiamento Informale Atteggiamento formale Contatto diretto Avvicinarsi tramite intermediari

Scambio di informazioni Piena autorità Autorità limitata Diretto Indiretto Prima la proposta

Prima la spiegazione

Mezzi di persuasione

Aggressività Interrogare Impazienza Perseveranza

Desiderio riposto nell’accordo

Ottenere un buon affare Ottenere una relazione di lunga durata

Da questo breve schema, appaiono in tutta evidenza le profonde diversità esistenti in relazione all’approccio alla negoziazione, ma anche e soprattutto rispetto all’obiettivo finale che ci si propone di raggiungere. A questo proposito, per scongiurare il pericolo di perdite di tempo, di denaro e di fiducia nei propri mezzi e nel mercato che si desidera affrontare, è necessario approfondire e riflettere su alcuni di questi principi, che attingono dalla realtà filosofica del Confucianesimo, naturali per un operatore cinese e la cui conoscenza può segnare la differenza tra il successo di una trattativa e la sua definitiva compromissione. Tra le coppie di termini posti in relazione, particolarmente significative sono quelle che esprimono la distribuzione del potere decisionale e la sua rappresentazione verso l’esterno. È infatti facile intuire che, a fronte del maggior piglio che caratterizza gli uomini d'affari occidentali, che abbiamo definito individualisti, egalitari ed aggressivi, comportamenti che invero ne testimoniano spesso l'ansietà e l'insicurezza, sarà semplice per i soggetti cinesi rispondere con comportamenti dilatori e con richieste di rinvio delle decisione, per lo più per un mero atteggiamento tattico defatigante, che fanno parte del loro naturale modo di agire e che, automaticamente, li pongono in una posizione di vantaggio, soprattutto se il maggiore interesse nel concludere l’affare può essere ricondotto all’operatore straniero (occidentale).

“Chi e prudente ed aspetta con pazienza colui che non lo é, sarà vittorioso” (Sun Tzu)2 Dunque, esprimere direttamente le proprie impressioni sullo svolgimento della trattativa, ad esempio lamentandosi per la sua lentezza, è fortemente sconsigliato in quanto rischia di compromettere i buoni rapporti instauratisi in precedenza e, in ogni caso, pone in nostro interlocutore in posizione vantaggiosa. I Principi filosofici - 关系- guānxi. relazioni personali La definizione "relazione personali” è di facile lettura e fa riferimento alla posizione che un soggetto riveste nell'alveo delle proprie conoscenze. A questo proposito è bene sottolineare che gli operatori occidentali, quando si pongono di fronte a persone che non conoscono, sono soliti porre al primo posto sé stessi, e dunque presentarsi, facendo riferimento alle proprie informazioni personali, alle relazioni con altre persone del settore, se non anche la propria eventuale notorietà, per ottenere prestigio agli occhi del proprio interlocutore. I cinesi, all’opposto, preferiscono mettere in primo piano il prestigio e la credibilità acquisiti tra il gruppo del quale fanno parte, nella cerchia dei diretti partner d’affari o di conoscenti, amici e più stretti collaboratori. Sebbene tale principio si sia con il tempo affievolito per importanza, in conseguenza della repentina apertura del mercato a soggetti stranieri che ha comportato l’adozione di alcune abitudini di origine squisitamente occidentale, è indubbio che far affidamento su un contatto diretto, ad esempio tramite un conoscente o un collaboratore della persona che si intende contattare, rappresenta ancora oggi un elemento di notevole importanza, che può essere validamente sfruttato per organizzare ed affrontare il primo contatto con maggior sicurezza ed in modo più consono alle aspettative del nostro interlocutore. In altre parole, avere a propria disposizione l’opportunità di contare su un rapporto personale diretto per avvicinare il nostro futuro interlocutore implica l’inizio di una trattativa molto lunga caratterizzata, prima

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I cinesi, all’opposto, preferiscono mettere in primo piano il prestigio e la credibilità

acquisiti tra il gruppo del quale fanno parte, nella cerchia dei diretti partner d’affari o di conoscenti, amici e più stretti collaboratori

ancora che dalle reciproche concessioni di natura, da un lungo processo di conoscenza reciproca3. La lunghezza della durata delle trattative o il loro lento intercedere, normale per gli operatori cinesi, ma quasi sempre considerato inutile e snervante per gli occidentali, sono ritenute fondamentali ed ignorare le regole che abbiamo appena richiamato non è una semplice mancanza di tatto: agli occhi degli uomini di affari cinesi appare infatti come una mancanza di rispetto, difficilmente comprensibile in una persona che chiede di iniziare un rapporto di collaborazione commerciale facendo ricorso a delle referenze, o meglio alle raccomandazioni di una persona conosciuta. Non rispettare il principio di reciprocità a cui abbiamo poc’anzi rinviato, huíbào in lingua cinese (回报 – che esprime il concetto di reciprocità) significa in buona sostanza assumersi il duplice rischio di compromettere la possibilità di raggiungere un accordo e quello di crearsi una cattiva fama nel mercato. Oltre a mettere in cattiva luce la persona che si è impegnata per organizzare l’incontro e che, per colpa del nostro comportamento, potrebbe a sua volta essere considerata poco affidabile o addirittura non gradita, come vedremo in riferimento al prossimo principio. 中间人 – zhōngjiānrén. L’intermediario. Strettamente legato al principio “guānxi” è il concetto di “zhōngjiānrén”, l’intermediario. Quando possibile, è sempre bene farsi presentare da un intermediario, che conosca il nostro corrispondente o che sia conosciuto o noto nell’ambiente. Infatti, esattamente come accade a chi si affaccia

sul mercato cinese e che, per diverse ragioni, è spesso guardingo e sospettoso nei confronti del proprio interlocutore, similmente può essere detto per gli operatori cinesi, che nutrono altrettanto sospetto nei rapporti d’affari con gli stranieri. La presenza di un intermediario può superare questa diffidenza iniziale e creare le basi per la nascita tra le parti di quelle relazioni personali che abbiamo definito in precedenza. Il primo passo da compiere, dunque, è cercare di impostare la relazione sul piano personale, tramite l’individuazione dell’intermediario migliore. Tale ruolo può essere rivestito anche un non professionista, che tuttavia possa vantare una relazione personale con la nostra controparte. Un buon intermediario si rende spesso necessario anche successivamente, nel pieno dello svolgimento della trattativa. La dinamica della negoziazione fa sì che spesso gli operatori cinesi, interrogati su argomenti delicati sui quali non hanno ancora preso una decisione o per i quali ritengono di aver bisogno di tempo ulteriore per decidere, preferiscano non rispondere direttamente con un rifiuto, al fine di conservare il più possibile i buoni rapporti formali, e preferiscano modificare l’oggetto del discorso, oppure forniscano risposte vaghe o ambigue (a titolo di mero esempio "hái bù cuò” 还不错 – “non sembra male”; “hái hǎo - 还好” – “pare che possa andare” – o ancora “hái xíng” 还行 – “pare passabile”), frasi che sovente testimoniano anche la scarsa soddisfazione su come si sta sviluppando la trattativa e la volontà di sottrarvisi il prima possibile. L’intermediario può leggere con maggiore chiarezza tali comportamenti e fare la differenza, consigliando il miglior atteggiamento da prendere in ogni circostanza. Caso di scuola è quello in cui l’uomo d’affari occidentale, spazientito dalla lentezza della sua controparte cinese, comincia a tempestare il proprio interlocutore con continue domande, dirette e perentorie, arrivando a chiedere anche cosa la controparte pensi dei termini dell'affare proposto e le ragioni della sua titubanza. Normalmente, la risposta della controparte cinese assume forme del tipo "Ci permetta di studiare il punto con più calma" o simili, il che equivale quasi sempre ad una, tacita, perdita di interesse nell’affare o, in ogni caso, ad un atteggiamento di chiusura. Tale pericolo può essere scongiurato interpretando i segnali che la controparte cinese manda con il proprio comportamento e suggerire le giuste domande o quale atteggiamento seguire. Ci sia permessa una ulteriore precisazione, che discende dall’esperienza diretta nella conduzione di

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alcune trattative alle quali si è partecipato e che si sono concluse con reciproca soddisfazione per tutte le parti coinvolte. Non è assolutamente necessario porre in essere atteggiamenti volti ad indagare sulle ragioni di un eventuale temporaneo rifiuto di concludere l’affare. Non lo è perché non servirebbe. Non lo è in quanto risulterebbe offensivo e fuori luogo (ciò sarebbe vero anche nell’educazione occidentale, ma spesso si fa finta di dimenticarsene). Se il rifiuto non è assoluto o definitivo, o come abbiamo avuto modo di ricordare in precedenza, esso semplicemente si traduce in una mancata risposta, è necessario fare un passo indietro e analizzare nuovamente i termini dell’accordo che si ritiene assodato siano stati condivisi o accettati. Con tutta probabilità, è in uno di questi termini che si cela la vera ragione della ritrosia del partner cinese. Dunque, sollevare nuovamente il discorso sui punti più discussi in precedenza, ad esempio ponendo alcuni quesiti come “i termini di consegna sono dunque accettabili?” o ancora “la garanzia sulla qualità dei prodotti potranno essere estese”, risulterà essere molto utile per rinnovare l’interesse nella trattativa del nostro partner e raggiungere il nostro scopo finale. 社会等级 - shèhuì děngjí. Stato sociale. Spesso gli operatori occidentali trovano difficile comprendere le formalità degli uomini d'affari cinesi. Dimenticando spesso che le proprie abitudini professionali possono a loro volta apparire singolari o non necessarie. L'etichetta è importante e protendere per un approccio eccessivamente informale, pur tenendo un comportamento amichevole, non è una buona strategia in un paese dove i valori dell'obbedienza e della deferenza nei confronti del proprio superiore, o di un ospite, prendono sempre il sopravvento. A questo proposito deve essere detto che uno degli errori più gravi che si possono commettere è quello di affidare le trattative ad un rappresentante della società che, seppur preparato, ricopre un ruolo di livello basso all’interno dell’organigramma aziendale, o che potrebbe essere considerato troppo giovane in relazione all’importanza dell'affare che si intende concludere. Il rischio che si corre è che il nostro corrispondente possa pensare "Lei ha l'età di mio figlio!”, riducendo così automaticamente la sua autorità e ponendolo in posizione svantaggiosa. Ma come possiamo comportarci in tutti quei casi in cui, per preparazione specialistica e per attitudine, il soggetto che meglio può condurre la trattativa non riveste ancora un ruolo elevato nell’organigramma aziendale? Per rispondere a questa domanda e sempre, almeno nelle fasi cruciali della negoziazione, è sempre bene far accompagnare tale soggetto da un esponente di più alto grado della società. Il mancato rispetto di un tale accorgimento, infatti, potrebbe essere considerato alla stregua di un atteggiamento di scarsa considerazione e di sottovalutazione nei confronti della controparte; non presentarsi nella persona di un dirigente di grado almeno pari rispetto a quello ricoperto dall’interlocutore, sarebbe dunque un comportamento passibile di una interpretazione negativa, perché esprimerebbe una mancanza di interesse e di rispetto per le capacità della nostra controparte e per l’importanza stessa dell’affare. 人际和谐 - rén jì héxié. Armonia interpersonale Ci sono due proverbi cinesi che ben rendono con sufficiente chiarezza il significato di tale principio “rén jì héxié” – armonia interpersonale. “Un uomo senza sorriso non potrà aprire un negozio” e “Un buon carattere e la gentilezza producono denaro”. Essi ci danno l’idea dell’importanza che i cinesi danno all’armonia tra le parti, armonia che deve caratterizzare la trattativa in ogni momento. Tale predisposizione spiega in parte anche la sovente “circolarità" delle risposte che molto spesso gli uomini d’affari cinesi utilizzano, in quanto risposte troppo

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“A questo proposito deve essere detto che uno degli errori più gravi che si possono commettere è quello di affidare le trattative ad un rappresentante della società che, seppur preparato, ricopre un ruolo di livello basso all’interno dell’organigramma aziendale, o che potrebbe essere considerato troppo giovane in relazione all’importanza dell'affare che si intende concludere”

esplicite e negative rischierebbero di compromettere i buoni rapporti tra le parti. Infatti, se il rispetto e la responsabilità sono punti cardini di una relazione gerarchica, tipica del mondo occidentale, l’armonia interpersonale è altrettanto importante negli usi cinesi. Ciò spiega anche il perché in occidente la discussione preliminare può richiedere pochi minuti, mentre in Cina possono essere necessari anche diversi giorni, che includono visite, inviti ad eventi culturali o sportivi e lunghe cene, dove tutto è volto a creare un clima di confidenzialità tra le parti, ma durante i quali niente o quasi viene detto sul vero motivo della visita. In altre parole, lo scopo di queste lunghe a tratti faticose riunioni è quello di valutare non solo l’intenzione delle parti e la loro onesta intellettuale, ma anche porre le condizioni perché le stesse possano continuare le trattative nelle migliori condizioni possibili. La fiducia che si intende creare tramite la frequentazione è necessaria per aver conferma delle buone intenzioni, o se preferiamo della “buona fede”, delle parti coinvolte. Si ricordi inoltre che, nonostante la Repubblica Popolare Cinese si sia recentemente dotata di una normativa completa, ispirata alle norme internazionali afferenti alla materia contrattuale, la fiducia reciproca e la buona fede sono concetti tutt’ora fondamentali per il buon andamento della trattativa e per la prosecuzione del rapporto anche successivamente alla sottoscrizione dell‘accordo. Il concetto di fiducia nella Cina moderna si intrinseca, dunque, nel concetto di “affidamento” e di integrità, o competenza, che può essere riconosciuto ad una persona, che agisce in ossequio a tali principi e qualità4. E ciò nonostante il concetto di buona fede, o di fiducia sia spesso percepito in senso esclusivo da ciascun soggetto, come se facesse riferimento all’interpretazione più corretta di detto principio, anche quando è ormai noto che in quasi tutte le culture, una persona degna di fiducia lo è in quanto, ed anche volendo aggiungere quasi a protezione della propria capacità di discernimento la locuzione – tipicamente occidentale -“in determinate circostanze”, meritevole di essere creduto, per le condotte che ha posto in essere e per i risultati che ha conseguito. D’altro canto, la fiducia è l’elemento che ci permette, anche se “a certe condizioni”, di programmare il futuro e, dunque, di assumere rischi che, altrimenti, non ci sentiremmo mai di affrontare. 整体观念 - zhěngtǐ guānniàn. Concezione Olistica In tutte le occasioni nelle quali saremo chiamati a condurre una trattativa in Cina, dovremo essere mentalmente preparati a discutere simultaneamente tutti i termini dell'accordo, anche senza seguire un ordine logico. Nulla è concordato sino a quando non si è raggiunto l’accordo su tutto. Dunque, la propensione occidentale di considerare un contratto articolo per articolo è destinata ad essere disattesa, in quanto tale impostazione non è culturalmente accettabile per i nostri partner cinesi, e non per cattiva volontà, ma per abitudine e cultura. Questo atteggiamento deriva dalla concezione olistica con la quale i cinesi conducono le proprie relazioni d’affari. I cinesi, infatti, sono soliti procedere iniziando con una discussione generale sui punti di interesse comune tra le parti. La richiesta immediata di concludere il contratto non è apprezzata, in quanto viene interpretata come il segnale che la controparte mette al primo posto il denaro e gli espedienti per arrivare immediatamente al profitto. Sia anche ritenuto che gli incontri di affari sono eventi sociali importanti, utilizzati per consolidare i rapporti personali. È necessario precisare che il principio filosofico olistico si basa sulla concezione che il valore e le proprietà di un determinato sistema, ad esempio il corpo umano, non possono essere valutate e spiegate esclusivamente tramite la considerazione e la semplice somma dei sui componenti, nel nostro esempio

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le semplici cellule. Su questa base, possiamo dire che per un uomo d’affari cinese, il contratto assumerà un valore molto più alto rispetto all’insieme delle clausole che lo compongono e, di conseguenza, trattare contemporaneamente più aspetti dell’accordo sarà ritenuto normale, in quanto è un comportamento rivolto all’obiettivo finale, che è complessivo e non individuale, e che supera in valore le singole disposizioni che ne fanno parte. A questo proposito, l’uso di una semplificazione ci permetterà di rendere più comprensibile il significato di tale principio. Gli operatori occidentali sono soliti impostare la discussione per tappe determinate, in una serie di piccole questioni da discutere: prezzo, quantità, garanzia, spedizione, modalità di pagamento e via dicendo. E per ogni argomento, è necessario tipizzare una soluzione, trascriverla nel testo contrattuale e, di conseguenza, approvarla definitivamente e passare oltre. Gli operatori cinesi, invece, hanno la tendenza a discutere di tutte queste materie contemporaneamente, saltando da un argomento all'altro; la sensazione provata dalla controparte straniera è quella di non arrivare mai ad una definitiva soluzione dei termini chiave dell'accordo. Anche se questa sensazione è sbagliata, perché effettivamente, in modo forse per noi convulso e disordinato, i termini dell’accordo stanno trovando la propria definizione. In altre parole, se per un occidentale la negoziazione è conclusa quando si è conclusa la discussione su tutti i punti della ipotetica lista che abbiamo citato poc’anzi, al contrario deve dirsi per un cinese, che solo dopo aver trattato “sommariamente” tutti questi punti si sentirà nella posizione di cominciare a considerare il futuro rapporto nel suo complesso, tornando più volte sugli argomenti trattati. A questo proposito è consigliabile “tenere i nervi saldi” e non cominciare a fare concessioni, spesso non necessarie, per sveltire le operazioni e la trattativa. La domanda più naturale che viene da porsi, arrivati sin qui, consiste nel chiedersi quando si può confidare che la trattativa si stia svolgendo proficuamente. Al di là dell’ovvio, ovvero quando l’accordo è siglato, un buon segnale è costituito dalle ripetute domande che la nostra controparte ci pone, interrogandoci su un punto determinato dell’accordo e che hanno il compito di permettere l’acquisizione di maggiori informazioni sul particolare che, evidentemente, è considerato di basilare importanza dal nostro corrispondente. Una volta raggiunta la piena consapevolezza di quel determinato punto,

probabilmente sarà possibile concludere l’accordo. Pur potendo apparire in un primo momento come una inutile dilatazione dei tempi, si tenga presente che la richiesta di un nuovo appuntamento per discutere un punto specifico dell'accordo deve essere inteso, il più delle volte, con favore, in quanto testimonia la volontà di discutere più approfonditamente l'argomento, non ancora chiaro, in vista dell'accettazione definitiva. Inoltre, altresì positivamente devono essere considerate le brevi pause richieste dal nostro interlocutore per conferire con i propri collaboratori: con tutta probabilità, tale comportamento si tradurrà nell’imminente presa di posizione e nella successiva decisione. 节俭 – jiéjiǎn Parsimonia La tradizione cinese porta con sé una spiccata tendenza al risparmio, dovuta ai lunghi periodi di carestia e povertà che ne hanno caratterizzato la storia ultra millenaria. Da qui deriva l’abitudine degli operatori cinesi di ottenere il prezzo migliore in qualsiasi circostanza, a volte anche a discapito di altri aspetti che nella pratica potrebbero risultare maggiormente utili ed economicamente convenienti; altresì, altra conseguenza è la loro riluttanza a concedere riduzioni sul prezzo senza prima avere la certezza di ottenere una contropartita ritenuta ragionevole. Per raggiungere tale scopo, sovente gli operatori cinesi utilizzano il “silenzio” come mezzo di persuasione, contando proprio su quello che deve considerarsi il vero tallone di Achille degli occidentali, la loro proverbiale impazienza. Difendendo la propria posizione, ad esempio sul prezzo, ma ciò vale per qualsiasi aspetto dell’accordo, l'arma preferita dei nostri corrispondenti sarà dunque l'attesa, il silenzio, uniti alla pazienza, ovvero l'allungamento dei tempi della trattativa.

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Questo comportamento, come detto, si basa sul fatto che essi si aspettano delle concessioni reciproche, ed in particolar modo sul prezzo. Nel momento in cui l’operatore cinese presenterà un’offerta realmente competitiva in relazione al prezzo, sia esso di acquisto o di vendita, quello sarà il momento per porre domande a nostra volta su altre questioni, ad esempio sul programma della spedizione o sulle garanzie, distogliendo l’attenzione dall’argomento. Ciò per evitare che la nostra controparte comprenda che per noi è il prezzo, come la maggior parte delle volte accade, il punto più importante dell’accordo. O quanto meno l’aspetto che più di altri influisce sulle nostro capacità decisionali. Senza dubbio una strategia di questo tipo richiederà più tempo, ma sicuramente darà i migliori frutti. Su queste premesse ed in conclusione, possiamo provare ad immaginare il pensiero di un uomo d’affari cinese che si trovi in tale circostanze: “Faccio una concessione e mi aspetto di riceverne una di pari valore”. 吃苦耐劳 - CHĪKǓ NÀI LÁO Pazienza, Resistenza, Determinazione nel lavoro I cinesi sono noti per la loro etica in rapporto al lavoro e per la loro costanza. Dove gli occidentali mettono al primo posto il talento e le capacità personali come chiave per il successo, i cinesi pongono la perseveranza come elemento più importante ed onorevole, che distingue la persona normale nella società

civile. Il duro lavoro, anche in condizioni disagiate, assume i contorni di un'ideale, che rende la persona degna di rispetto ed onore. Ai nostri fini possiamo rilevare che tali aspetti si evidenziano con particolare forza in due momenti attinenti alla trattativa. Il primo è quello della preparazione dell’incontro, che da parte cinese avviene in modo molto accurato e con grande dispendio di energie. Il secondo è direttamente connesso allo svolgimento della negoziazione: gli operatori cinesi si aspettano, come la cosa più normale e naturale, che la trattativa sia lunga e difficile; solo così si potrà veramente affermare l’importanza del rapporto commerciale che si intraprenderà in futuro. In altre parole, un accordo concluso in poco tempo é anche poco prestigioso. D’altro canto, è bene non dimenticare che se nel corso della discussione il nostro proferisse una frase del tipo “questo non e ̀ un gran problema”, per quanto sopra segnalata, dovremo invece fare grande attenzione a quanto sta accadendo perché molto spesso detta un pensiero che può esprimere esattamente il contrario, ovvero una criticità che necessità una immediata indagine in merito alla natura dell’ostacolo e cercare delle soluzioni. Gli elementi chiave della negoziazione Dunque, nel tentativo di trarre le fila del nostro studio, per operare in questo quadro complessivo, è necessario rispettare tre regole. La prima è quella di fare domande. In particolare, fare più domande anche sullo stesso argomento o in relazione ad una questione particolarmente discussa o di particolare interesse per la controparte: un tale atteggiamento esprimerà la volontà di comprendere esattamente le ragioni e le necessità del nostro interlocutore e dimostrerà che siamo disposti a comprenderne le ragioni nel tentativo di trovare un compromesso accettabile. Un buon esempio potrebbe essere: “Notiamo che questo argomento è di notevole importanza per voi, potreste ripeterci le vostre necessità?”. In secondo luogo, mostrare pazienza, dando spiegazioni sulla propria situazione, “scoprendo abilmente le proprie carte". Può essere una buona strategia illustrare la situazione della propria società, le proprie necessità e preferenze facendo tuttavia attenzione, con ciò, di non sconfinare nell’auto promozione. In taluni casi, non è neppur sconsigliato fornire alla nostra controparte cinese informazioni sui nostri concorrenti nel mercato o condurre l'oggetto della discussione su argomenti “accessori” all’oggetto vero e proprio del contratto, ad esempio proponendo la possibilità di ospitare nel nostro paese i nostri

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Avvocato, docente e seminarista, esperto in Diritto internazionale e dei Contratti, Francesco De Sanzuane è Direttore responsabile di “Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali” ed autore di numerosi articoli, approfondimenti e pubblicazioni

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interlocutori, offrendo loro una visita per una dimostrazione o mettere a disposizione dei tecnici della controparte la possibilità di partecipare a brevi corsi di aggiornamento. Una tale apertura, infatti, al di là delle evidenti conseguente pratiche, consiste un vero e proprio atteggiamento positivo e concreto e con il quale è possibile dare dimostrazione della sincera intenzione di coinvolgere il partner nella comprensione di tutti gli aspetti essenziali del rapporto economico che si desidera instaurare. In terzo luogo, dimostrare pazienza e perseveranza in ogni momento della negoziazione. I cinesi raramente decidono qualcosa individualmente (le decisioni vengono prese sempre collegialmente) e, allo stesso tempo, conoscono molto bene che il protrarsi dei tempi è un punto a proprio favore. Il miglior metodo per trattare con operatori cinesi è imparare ad utilizzare le loro stesse astuzie, dimostrando temperanza, riconsiderando, anche quando non necessario, le singole clausole sulle quali l’accordo è già stato raggiunto e dando importanza continua alle domande della controparte cinese. La complessità dell’argomento consiglia di procedere ad un’ulteriore semplificazione, nella quale considereremo le due fasi fondamentali nelle quali il processo di negoziazione può essere idealmente separato. La prima fase può essere definita la fase "tecnica", molto dettagliata e lunga, durante la quale sarà necessario presentare la società nella persona di un componente di spicco dell'organigramma societario, esperto e preparato sugli aspetti tecnici dell'affare. Le società cinesi, di grandi dimensioni, ma non solo, sono solite affrontare la trattativa presentandosi in persona di due diversi “team”, quello tecnico prima e quello che si occuperà di definire gli aspetti più squisitamente commerciali poi.

In termini generali, la prima fase è necessaria per dimostrare la propria competenza sostanziale sulle questioni afferenti alla collaborazione che si intende intraprendere, in modo che la controparte cinese, ma vale naturalmente sempre anche il contrario, possa verificare efficacemente i vantaggi che essi potranno trarre. Se si decide di operare con due gruppi, quello tecnico prima e quello commerciale poi, con tutta probabilità il secondo gruppo attenderà molto prima di entrare fattivamente in azione, ma in ogni caso sarà necessario che entrambi collaborino sin dall’inizio, per poter pianificare la strategia migliore, allo scopo di non dimenticare o trascurare nessun aspetto che poi potrebbe assumere rilevanza durante la seconda fase. Come detto in precedenza, per i cinesi, un contratto è soprattutto un accordo che deve essere basato sulla fiducia reciproca; tale concezione supera il valore legale del documento, quanto meno nell’accezione che ad esso viene data dagli operatori occidentali. Tenendo conto di tale principio di massima, e ricordando ancora una volta che la Cina ha un approccio culturale fondamentalmente orientato alla leadership, il gruppo di negoziazione, o i due gruppi, potranno essere composti anche da tecnici e professionisti, ma in ogni caso la controparte cinese cercherà sempre di ottenere un contatto diretto con la persona che ricopre il gradino più alto della società o che, effettivamente, ha l'autorità per prendere le decisioni definitive. Per questo, agli incontri non potrà mai mancare l’amministratore delegato o il titolare d’impresa, che ovviamente avrà il potere di dare la sua approvazione definitiva ai singoli accordi, anche parziali, raggiunti di tempo in tempo. In alternativa, la persona incaricata di condurre le trattative dovrà poter provare di essere stata investita di tutti i poteri necessari e di poter assumere, se non la decisione definitiva, obblighi e impegni formali per la società. In altre parole, essere in grado di comporre un gruppo affiatato, che sia consapevole delle abitudini di negoziazione cinesi, prima ancora che delle questioni tecniche o commerciali, significherà avere maggiori possibilità di successo. In conclusione, per poter affrontare con profitto una trattativa e poter entrare in affari con un operatore cinese, la conoscenza preventiva di tali principi è requisito fondamentale. Muoversi con largo anticipo, imparare le regole del gioco, prevedere più incontri e viaggi, non pretendere immediati risultati, ma coltivare le conoscenze personali acquisite con il tempo sono dunque il modo migliore, e più redditizio, per costruire rapporti commerciali fondati sulla fiducia, di lunga durata e, dunque, per sviluppare i propri affari in modo duraturo in Cina.

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Rubrica: il professionista risponde. “Privacy: Il ruolo del data protector all’asta”

a cura dell’avvocato Giuseppe Serafinii

La figura del Data Protection Officer (più semplicemente DPO, ma in italiano, Responsabile della Protezione dei Dati), oltre ad essere contemplata, in misura del tutto marginale, nel provvedimento del Garante Privacy, in materia di Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), del 4 giugno 2015, con riferimento agli obblighi di notificazione dei cosiddetti ‘Data Breach’, o violazione di dati personali, è disciplinata, in modo puntuale, in alcune previsioni del nuovo Regolamento comunitario, in materia di protezione dei dati personali (c.d. General Data Protection Regulation), di recente approvazione, nell’ottica di individuare, all’interno di organizzazioni complesse, un soggetto cui demandare il coordinamento della necessaria attuazione delle norme in materia, in corso di emanazione. La ragione della individuazione, per legge, all’interno di una organizzazione, di una figura ad hoc, anche per la gestione di situazioni di crisi, quali sono gli incidenti informatici, parimenti in grado di interagire con le risorse interne aziendali, per accertare la causa della violazione, mitigarne�le conseguenze pregiudizievoli e rapportarsi quindi con le Autorità di controllo, si comprende, con facilità, facendo mente locale ai danni, non solo reputazionali, conseguenti a violazioni della sicurezza di un’impresa o di un ente pubblico, provocati da episodi di hacking e/o concorrenza sleale, verificatisi di recente anche a danno di importanti multinazionali, della sicurezza informatica e non. Quando è obbligatoria la nomina L’art. 35 del Regolamento comunitario, nella sua ultima formulazione, prevede l’obbligo di designazione di un responsabile della protezione dei dati quando il trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico, o le attività principali consistono in trattamenti che, per loro natura, campo di applicazione e/o finalità, richiedono�il controllo regolare e sistematico degli interessati su larga scala, oppure, in ne, quando le attività principali consistono nel trattamento, sempre su larga scala, di categorie particolari di dati. Nel dettaglio, l’art. 37 del Regolamento dispone che il DPO dovrà informare e consigliare il titolare del trattamento, vigilare sull’attuazione e sull’applicazione delle politiche in materia di Data Protection, veri care l’attuazione e l’applicazione del Regolamento, garantire la conservazione della documentazione relativa�ai trattamenti, e, per quanto�qui ci occupa, specificamente, controllare che le violazioni dei dati personali siano documentate, notificate e comunicate. Dovrà inoltre controllare che il titolare o il responsabile del trattamento effettui la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati e quindi esercitare una funzione da “punto di contatto” per il Garante per la protezione dei dati personali. L’analisi delle norme appena richiamate ci consente di tratteggiare la gura del Privacy Officer, come quella di un soggetto il cui ruolo è fondamentale, nelle dinamiche attuative degli obblighi di legge all’interno di una organizzazione, e in particolare, come vedremo, in quelle relative alle strategie di reazione ai c.d. incidenti informatici. Che possiamo definire, come: qualsiasi violazione della sicurezza che comporta, anche accidentalmente, la distruzione, la perdita, la modifica, la rivelazione non autorizzata o l’accesso ai dati personali. Le competenze richieste Nel quadro descritto, il DPO è gura in grado di praticare due distinti domini di conoscenza. Da una parte, quello della Sicurezza delle Informazioni, inteso quale quello che ha ad oggetto lo studio dei metodi, delle tecniche e delle teorie dirette ad assicurarne la riservatezza, l’integrità e la disponibilità. Dall’altra, quello della ‘protezione legale dei dati personali’, che trova, invece, la sua declinazione nei vari contenuti delle norme di legge vigenti in materia. Tanto più ove si consideri come il requisito A.18.1 della Norma ISO 27001:2013�- Compliance with legal and contractual requirements - preveda che, il rispetto delle leggi vigenti�in materia di Data Protection, sia cogente, non solo con riferimento alla soggezione dell’organizzazione, alle sanzioni in esse previste, irrogabili da parte delle competenti Autorità di controllo, ma anche, con riferimento alla possibilità dell’Ente accreditato, di certi care l’Organizzazione stessa.

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Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – Giu. 2015

Giuseppe Serafini, avvocato, BSI - ISO/IEC 27001:2013 Lead Auditor; Master Privacy Officer; Perfezionato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano in Digital Forenscis, Cloud & Data Protection. Già docente di Informatica Giuridica presso la Scuola di Specializzazione in Professioni Legali di Perugia, L. Migliorini e collaboratore della cattedra di Informatica Giuridica della Facoltà di Giurisprudenza di Perugia; Relatore ed autore di numerose pubblicazioni in materia di Sicurezza delle Informazioni e Diritto delle nuove Tecnologie. Associato Cloud Security Alliance Italy Chapter e Digital Forensics Alumni.

Riv. delle Imprese e dei Mercati Internazionali

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Tra i compiti del DPO sopra menzionati, riferibili a un momento organizzativo-documentale della vita di una impresa o di un ente pubblico, sono particolarmente significativi, al ne di comprenderne il ruolo, finella gestione degli incidenti informatici, sia quelli relativi al controllo sulla effettuazione, da parte del titolare, della valutazione d’impatto sulla protezione dei dati (il c.d. Privacy Impact Analysis), sia quelli relativi alla notificazione delle violazioni all’autorità di controllo. Privacy Impact Analysis Riteniamo utile sottolineare, nel quadro degli obblighi di sicurezza la cui attuazione afferisce al ruolo del D.P.O., quelli relativi al Privacy Impact Analysis, poiché, da un punto di vista concreto è proprio in questa sede che, con il parere del DPO saranno gettate le basi, all’interno di una Organizzazione, di quel processo di analisi del rischio - valutazione, mitigazione ed eventuale trasferimento - che costituisce il fondamento logico di ogni strategia di prevenzione del veri carsi di violazioni della sicurezza sui dati. Diventa altresì evidente che, per essere concretamente efficace, con riferimento a situazioni di “incident handling” e “incident response”, sarà necessario, per esempio, che il designato DPO abbia la capacità di effettuare ispezioni, consultazioni, attività di documentazione e analisi di file di registro. Infatti, l’art. 31 comma 3 lett. b) del Regolamento comunitario, dedicato alla notificazione della violazione dei dati personali, precisa che la notifica della violazione deve indicare il nome e le coordinate di contatto del responsabile della protezione dei dati presso cui ottenere più informazioni. Conclusioni La circostanza che tale ultima disposizione individui nel DPO il punto di contatto, tra l’organizzazione che ha subito una violazione dei dati, e l’Autorità di controllo che deve venirne a conoscenza secondo procedure scandite da tempi certi e contenuti normativamente predeterminati, esprime a nostro avviso in modo chiaro la centralità del ruolo del D.P.O. nella gestione degli incidenti informatici. Egli non solo dovrà�agire, preventivamente, all’interno dell’organizzazione, coordinando l’attuazione delle misure di sicurezza, ab origine, imposte dalla norma per evitare che si veri chino incidenti informatici, ma nel caso in cui l’incidente si veri chi, dovrà anche essere in grado, contenendo gli effetti negativi dell’incidente stesso, di relazionare in modo puntuale all’Autorità di controllo su quanto accaduto.

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Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali

Bimestrale di Divulgazione giuridica ed economica Autori Vari – AA.VV.

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Numero II/2015