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Sovera edizioni rivista close up n. 4 bimestrale di critica e informazione cinematografica

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ISTRUZIONI PER L’USO

Non da ieri le serie tv (soprattutto quelle Made in Usa) hanno

conquistato il cuore di molti cinefili che le ritengono – spesso

non a torto – più innovative e avvincenti della maggior parte del

cinema oggi prodotto al mondo. Inoltre “sempre più frequen-

temente, - come si scrive nell’Introduzione alla sezione - si ha

l’impressione che in esse sia in corso un travaso di una serie di

caratteristiche che – per pregiudizio e abitudine, specialmente

nel nostro paese – si tende ad attribuire al cinema, in particola-

re quello hollywoodiano”. È per questo motivo (e tanti altri) che

il presente numero della nostra rivista consacra i suoi fili rossi

all’analisi e al funzionamento della serialità americana e italia-

na, per cercarne di sceverare pregi e difetti in un raffronto rav-

vicinato che affronta nodi teorici di particolare importanza so-

prattutto nell’intervento di Luca Bandirali e Enrico Terrone La

terrazza sul mondo. E a completare questo primo tentativo di analisi

sul campo, due interviste ad Antonello Grimaldi e Stefano Solli-

ma a cui rispettivamente si debbono due delle serie più riuscite

nel recente panorama televisivo nostrano e cioè Il mostro di Firenze e

Romanzo criminale. Novità anche riguardo al “Focus on” che per la

prima volta nella storia di «Close-Up» è dedicato a un Festival e in

particolare a quello che unanimemente viene considerato la più

grande kermesse cinematografica al mondo (il che non significa

la migliore o la più raffinata) e cioè Cannes. In questa maniera

– date le caratteristiche di qualità spettacolare del Concorso sul-

la Croisette – si realizza anche un ampio e significativo spaccato

della prossima stagione cinematografica nel nostro paese, dato

che la stragrande maggioranza dei film presentati rappresenterà

il sale della programmazione 2012 - 2013. A completare questo spe-

ciale Cannes un’ampia intervista al maestro dell’horror italiano,

Dario Argento. E poi, per concludere, le nostre tradizionali rubri-

che, dove ci piace ricordare, tra gli altri interventi, una approfon-

dita intervista ai fratelli Manetti in “Osservatorio italiano” e il

racconto cinematograficografico Il cinema del padre di Alvise.

UGiovanni Spagnoletti

CLO

SE U

P

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CLOSE UP Storie della visione

anno XV n. 4 (nuova serie)

settembre-ottobre 2012

DirettoreGiovanni Spagnoletti

CaporedattoriSimone Ghell i

Luca Lardieri

RedazioneSimone Arcagni, Si la Berruti,

Giovanna Branca, Giampiero Francesca,

Simone Isola,Alessandro Izzi, Antonio V. Spera, Edoardo Zaccagnini

Hanno collaborato a questo numero Luca Bandiral i , Sofia Bonicalzi, Paola

Casel la, Stefano Di Pace, Nicola Falcinel la, Marco Giacinti,

Matteo Gall i , Marco Grosoli , Barbara Maio, Jacopo Nacci,

Adriana Marmirol i , Enrico Terrone.

Progetto graficoMatteo Bel l isario

ImpaginazioneDaniele Benedetti

RedazioneVia Dei Sardi, 32 - 00185 Roma

[email protected]

Close-up sul webwww.close-up.it

Editore Sovera Multimedia s.r. l

Amministratore Unico Claudia Iacometti

Salvatore Merra

Autorizzazione TribunaleIn attesa di registrazione presso

i l Tribunale di Roma

AmministrazioneSovera Multimedia

Via Vincenzo Brunacci n. 55 - 00146 Roma

StampaTipolitografia CSR - Roma

Via di Pietralata, 157 - 00158 Roma

U Aniello Arena

in REALITYdi Matteo Garrone

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FILIROSSI 6

FOCUS ON 42

RUbRICHE

U OSSERVATORIO ITALIANO a cura di Edoardo Zaccagnini 84

U IPERMEDIA a cura di Sila Berruti 91

U RACCONTI DI CINEMA a cura di Simone Ghelli 95

U CULT MOVIE a cura di Antonio Valerio Spera 99

U CINEMA bUYERS a cura di Alessandro Izzi 102

SOM

MA

RIO

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C'ERA UNA vOLTA IL PICCOLO SChERMO fORME E LINgUAggI dELLE SERIE TELEvISIvE CONTEMPORANEE

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INTERVISTA A PAOLO SORRENTINO 9 U Le conseguenze dell’amore

LE MASSE, LA LOTTA DI CLASSE, I TESTI gRAMSCIANI 21 U Appunti sulla ricezione del cinema politico

italiano tra anni Sessanta e Settanta

fILIRO

SSIa cura di Luca Lardieri

INTRODUZIONE 8

LA TERRAZZA SUL MONDO 10di Luca Bandirali e Enrico Terrone

FORME E gENERI NELLA TV SERIALE STATUNITENSE 19di Barbara Maio

LA SITUAZIONE ITALIANA: EPPUR SI MUOVE 24di Adriana Marmiroli

INTERVISTA AD ANTONELLO gRIMALDI: TRA TV gENERALISTA E PAY-PER-VIEw 34di Giovanna Branca

INTERVISTA A STEFANO SOLLIMA 38di Giampiero Francesca

fILIRO

SSIa cura di Giovanna Branca

e Giampiero Francesca

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SETT. OTT. 2012

INTRODUZIONE

Le serie tv americane non sono un

fenomeno che si è imposto all’at-

tenzione solo di recente, né è co-

sa nuova l’altissima qualità media che

hanno raggiunto, che le ha rese all’a-

vanguardia nel mondo intero. Sempre

più frequentemente, però, si ha l’im-

pressione che in esse sia in corso un

travaso di una serie di caratteristiche

che – per pregiudizio e abitudine, spe-

cialmente nel nostro paese – si tende

ad attribuire al cinema, in particolare

quello hollywoodiano. I movimenti in-

consci dell’immaginario collettivo, che

il cinema americano ha sempre cataliz-

zato, magnificato, solleticato e maga-

ri piegato ideologicamente, sembrano

trovarsi oggi tanto più sul piccolo che

sul grande schermo. Le serie tv di suc-

cesso si moltiplicano, crescono espo-

nenzialmente i costi di produzione, lo

scarto estetico con il cinema è ormai,

ma forse è sempre stato, inesistente.

I due medium, pur correndo su bina-

ri paralleli, hanno però un percorso

osmotico che affonda le sue radici negli

stessi tempi della nascita della televi-

sione; da subito croce del cinema, ma

da cui esso ha anche acquisito forze

nuove (basti ricordare la formazione

televisiva di tanti grandi registi come

Robert Altman o Micheal Mann).

È impossibile usare le sole categorie

cinematografiche per rapportarsi al

variegato e multiforme mondo delle se-

rie tv; tuttavia uno sguardo che consi-

deri lo stretto rapporto delle due forme

espressive è necessario per iniziare co-

erentemente a interrogarsi sulle serie

televisive senza i pregiudizi tradiziona-

li che le inquadrano come sorelle mino-

ri della settima arte.

Del cinema esse ereditano i generi – dal

noir al gangster, dall’horror al polizie-

sco – che rielaborano e, in certi casi,

fanno risorgere a nuova vita. È questo,

ad esempio, il caso del western, ormai

quasi dimenticato sul grande schermo,

e assai fiorente in tv, come dimostrano

i successi di serie come Deadwood e Hell

on Wheels. Generi che, una volta appro-

dati sul piccolo schermo, si mescola-

no e fondono fra loro, trovando nuove

soluzione stilistico-narrative, come

nel caso di The Walking Dead, notevole

esempio di contaminazione di generi

diversi.

Dal cinema arrivano poi sempre più

registi che si cimentano nella pro-

duzione televisiva: Martin Scorsese,

Steven Spielberg, Micheal Mann, J.J.

Abrams. Il passaggio continuo di que-

sti autori dall’uno all’altro medium è

forse una delle manifestazioni più evi-

denti dell‘osmosi che accomuna questi

due mezzi di comunicazione. Registi

che diventano produttori, perdendo il

ruolo di star e primum movens della

creazione artistica, sdoganata defini-

tivamente e onnicomprensivamente

dalla Nouvelle Vague, per restituire il

testimone agli sceneggiatori, veri pro-

tagonisti nella creazione del prodot-

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to televisivo. Attraverso di loro passa

quel legame fortissimo con l’attualità

e l’immaginario contemporaneo che è

quasi sempre la forza principale dell’u-

niverso tv. Fra le pieghe di storie e rac-

conti, anche quelli apparentemente

più superficiali, è infatti possibile scor-

gere un quadro molto dettagliato della

nostra contemporaneità. In queste se-

rie «il messaggio nascosto può essere

più importante di quello evidente, poi-

ché questo messaggio nascosto sfuggi-

rà ai controlli della coscienza, non sarà

evitato dalle resistenze psicologiche

nei consumi, ma probabilmente pene-

trerà il cervello degli spettatori». Così

i confini della morale vengono spinti

oltre soglie impensabili nel cinema co-

siddetto “mainstream” (assimilabile

alle serie tv per i numeri e la trasversa-

lità della propria utenza), così come la

profondità della riflessione sugli even-

ti contemporanei. Basti l’esempio di

Dexter, che fa dell’immedesimazione in

un serial killer il terreno su cui sondare

il “passeggero oscuro” di ogni spettato-

re. O quello di Homeland, che porta sul

piccolo schermo la paranoia da assedio

esplosa nel post 11 settembre.

Scelte apparentemente rischiose ma

quasi sempre premiate da un pubblico

desideroso, che ciò sia conscio o meno,

di rielaborare i propri sogni e incubi at-

traverso le immagini in movimento.

Infatti, come scriveva Oscar Handlin,

la cultura popolare «conserva un carat-

tere funzionale, nel senso che essa è

strettamente in relazione con i bisogni

avvertiti e i modi familiari espressi dal-

la gente a cui si rivolge». Un compito da

sempre assolto dal cinema.

Nel cercare di iniziare un percorso tra

questi temi, è doveroso chiedersi a che

punto ci troviamo nel nostro paese.

Per questo abbiamo cercato di dare un

quadro generale della situazione ita-

liana, intervistando anche due registi

che – non a caso venendo a contatto

con il metodo produttivo principe del-

la tv americana: la Pay tv – hanno re-

alizzato due delle serie più riuscite nel

panorama televisivo nostrano: Romanzo

criminale (Stefano Sollima) e Il mostro di Fi-

renze (Antonello Grimaldi). A differenza

dei principali sistemi europei e del si-

stema americano, tutti caratterizzati

da un grande dinamismo produttivo,

la situazione italiana appare stagnan-

te. Viziato dal permanere di alcune

anomalie strutturali (l’assenza di un

reale mercato e di un rigido duopolio,

la compenetrazione di broadcaster e

producer), il nostro sistema produttivo

sembra più attento al mantenimento

della propria platea di fruitori che alla

ricerca di una nuova possibile audien-

ce. Una condizione di insostenibile sta-

si per cui, come scrive Mihaela Gavrila,

«al mercato italiano si chiede un po’ di

strategia in più, un pizzico di coraggio

nell’investire in innovazione, dando il

tempo ai singoli produttori di accredi-

tarsi presso i propri pubblici e, soprat-

tutto, una maggior fiducia nei fruitori

e nella loro capacità di essere interpreti

attivi della società che cambia».▪

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La TERRaZZa sUL mONDOSERIE Tv: ONTOLOgIA, ESPERIENZA, SCRITTURA

di Luca Bandirali e Enrico Terrone

Immagini e narrazioni

Da un punto di vista strettamente for-

male una serie tv è indistinguibile da

un film. Sempre di immagini in movi-

mento si tratta, nell’uno come nell’al-

tro caso. Fino a qualche decennio fa si

potevano forse distinguere i due oggetti

al livello tecnico-materiale: le immagi-

ni in movimento del film erano infatti

realizzate con un sistema di registra-

zione fotochimico, le serie tv, invece,

attraverso sistemi elettronici. Tuttavia

l’avvento del digitale, che ha rimpiaz-

zato l’elettronica analogica in ambito

televisivo e sta progressivamente rim-

piazzando la tecnologia foto-chimica

in ambito cinematografico, sembra

rendere questa strategia di differenzia-

zione del tutto obsoleta.

Posto che i film e le serie tv apparten-

gono allo stesso genere ontologico, che

è quello delle immagini in movimento,

resta dunque da stabilire se nel caso

delle serie sia possibile specificare delle

caratteristiche peculiari. A questo sco-

po, occorre spostare l’attenzione dalla

semplice forma visiva dei nostri ogget-

ti alle loro proprietà relazionali, cioè al

modo in cui le serie sono concepite dai

loro realizzatori e sono usate dagli spet-

tatori. La prima cosa che salta all’oc-

chio procedendo in questo modo è che

le serie tv non sono soltanto immagini

in movimento, bensì narrazioni attraverso

immagini in movimento: esse rappresenta-

no un mondo e raccontano una storia.

Questo aspetto non ci basta però per

differenziare le serie tv dai film, dal

momento che la maggior parte dei film

della storia del cinema sono anch’es-

si narrazioni attraverso immagini in

movimento. Tuttavia se ci concentria-

mo sul modo in cui queste narrazioni

si attuano, troviamo una differenza

importante: i film raccontano la loro

storia in un unico testo, mentre le se-

rie tv articolano la propria narrazione

in puntate e stagioni. Vale a dire che la

narrazione del film si svolge su un solo

livello, mentre quella delle serie si svol-

ge su tre livelli: la puntata, la stagione

e la serie nella sua interezza.

Proviamo adesso a considerare alcune

possibili obiezioni. Per prima cosa, un

critico di questa definizione potrebbe

farci notare che ci sono dei film, come

ad esempio The Royal Tenenbaums (I Te-

nenbaum, 2001) di Wes Anderson, che

hanno un’esplicita articolazione nar-

rativa in capitoli, ciascuno introdotto

da un apposito cartello, eppure nes-

suno si è mai sognato di considerare I

Tenenbaum una serie tv. La contro-obie-

zione in questo caso è semplice: nessun

esercente si è mai sognato di proietta-

re I Tenenbaum un capitolo alla volta,

in momenti diversi. L’articolazione

narrativa delle serie tv non è soltanto

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strutturale ma anche pragmatica: non

riguarda soltanto come è organizzata

la narrazione al suo interno, ma anche

il modo in cui essa è utilizzata. Insom-

ma, la narrazione de I Tenenbaum sarà

anche articolata in capitoli, ma non è

fatta per essere vista a capitoli: è fat-

ta per essere vista tutta in una volta,

dall’inizio alla fine.

Puntate e stagioni

A questo punto il nostro critico può

appellarsi a un’altra famiglia di film:

quelli giustappunto definiti “seriali”,

dai vecchi serial cinematografici degli

anni ‘30 come Buck Rogers e Flash Gordon,

fino alla loro reincarnazione postmo-

derna nelle saghe di Star Wars o di Alien,

passando per la sempiterna epopea di

James Bond e arrivando sino a serie ci-

nematografiche contemporanee come

quelle del Signore degli anelli o di Harry Pot-

ter. Come può aiutarci la nostra defini-

zione a distinguere le serie tv da questa

famiglia di film?

Per rispondere difendendo la specifi-

cità delle serie, possiamo appellarci a

due tipi di considerazione. Innanzitut-

to possiamo notare che ciascuno di que-

sti film possiede a livello pragmatico

un’autonomia che non è concessa agli

episodi delle serie tv. Ciascun episodio

di James Bond o di Guerre stellari è valuta-

to innanzitutto come un’opera a sé,

non come parte di un’opera più ampia.

L’apprezzamento si rivolge in primo

luogo al singolo film e solo in seconda

battuta alla serie nel suo complesso.

Con le serie tv avviene tendenzialmen-

te il contrario. Se nel caso del cinema

abbiamo degli episodi che concorrono a

formare una serie, nel caso delle serie

tv abbiamo un’opera seriale che si ar-

ticola in episodi. Insomma, la serialità

cinematografica funziona considerata

in modalità bottom-up (si procede dalle

parti al tutto), mentre la serialità tele-

visiva è di tipo top-down (si procede dal

tutto alle parti). In una serie tv gli epi-

sodi si danno fin da subito come parti

di un tutto più ampio, e non come ope-

re a sé che possono poi anche contare

come episodi.

C’è poi un secondo argomento, assai

più dirimente. Anche volendo ammet-

tere che la serialità cinematografica e

quella televisiva condividano la sud-

divisione della storia in episodi, resta

il fatto che l’articolazione seriale del

cinema non contempla le stagioni.

Possiamo dunque concedere al nostro

critico che ci siano delle opere cine-

matografiche articolate in episodi, ma

per distinguere le serie dai film ci re-

sta comunque da giocarci la carta delle

stagioni. Serie cinematografiche come

quella di James Bond, di Alien o di Harry

Potter non hanno nulla di paragonabi-

le alle stagioni. Si potrebbe provare a

ipotizzare una struttura di stagione per

le due trilogie di Star Wars, ma si tratte-

rebbe di un uso improprio del termine,

dal momento che la serie di Star Wars è

in realtà un’esalogia suddivisa in due

trilogie per mere contingenze produt-

tive, mentre la stagione nelle serie tv

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è una suddivisione narrativa con un

respiro ben maggiore e con una ragion

d’essere molto più robusta.

Film e telefilm

Al nostro critico resta ancora un’ulti-

ma mossa, che consiste nel chiederci

di immaginare – ammesso che non si

riesca a trovare qualcosa di simile nella

storia del cinema – un ciclo cinemato-

grafico articolato non solo in episodi e

trilogie, ma in stagioni vere e proprie.

Non sarebbe forse questo un caso di se-

rialità cinematografica indistinguibile

dalla serialità televisiva? La nostra ri-

sposta in questo caso sarebbe del tutto

conciliante: sì, hai ragione, è davvero

un caso esemplare di serialità televisi-

va che per qualche ragione contingen-

te è stato proiettato al cinema. Non

c’è nulla, nella definizione che stiamo

cercando di dare, che leghi la specifi-

cità delle serie tv al mezzo televisivo o

alla distribuzione televisiva. La nostra

caratterizzazione ontologica delle serie

tv si basa sulla struttura narrativa pun-

tata-stagione-serie. Se qualche serie

cinematografica esibisce questa strut-

tura, non abbiamo nulla in contrario

nel considerarla come una serie tv a

pieno titolo. Semplicemente ci limitia-

mo a notare che il medium televisivo,

e a maggior ragione con le sue attuali

mutazioni e propaggini digitali, si pre-

sta molto meglio alla distribuzione di

un’opera così articolata di quanto non

possa fare il medium cinematografico,

che segue procedure molto più lente e

macchinose per trasmettere l’opera al

suo pubblico.

D’altra parte la nostra definizione con-

sidera ugualmente il caso di opere nar-

rative seriali concepite per la televisione

ma che non costituiscono serie tv genu-

ine. Innanzitutto possiamo escludere

dal novero delle serie tv opere televisive

come gli sceneggiati e i film a episodi,

la cui struttura narrativo-pragmatica è

piuttosto affine a quella delle trilogie e

delle polilogie cinematografiche.

Procedendo su questa strada, possia-

mo escludere anche quelle produzioni

televisive, tradizionalmente designa-

te come “telefilm”, che posseggono

un’articolazione in episodi – spesso

anche numerosissimi episodi – ma che

difettano di una genuina articolazio-

ne in stagioni. Al limite, nel caso dei

telefilm, l’articolazione in stagioni ha

valore soltanto a livello pragmatico,

produttivo e distributivo, ma non sul

piano narrativo ed estetico. Nessuno

insomma parla delle stagioni dei tele-

film come di opere a sé stanti, con una

propria chiusura narrativa che le rende

apprezzabili e valutabili di per sé. Nes-

suno considera le stagioni di Perry Mason

o de L’ispettore Derrick come si considera-

no le stagioni de I Soprano o di Mad Men.

Lo stesso discorso vale per le cosiddette

“soap opera”, altre narrazioni compo-

ste da una pletora di episodi che però si

accumulano linearmente, senza che ci

siano dei blocchi narrativi, paragona-

bili alle stagioni, a scandirne il flusso.

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Tempi e mondi

Definite come “Narrazioni attraverso

immagini in movimento, articolate

in puntate e stagioni”, le serie tv, a di-

spetto del nome con cui le si designa, si

caratterizzano non più come medium

tecnologico, ma come medium arti-

stico, cioè come un sistema specifico

di rappresentazione e di comunicazio-

ne. Le serie tv permettono insomma

ai loro realizzatori di instaurare con i

propri spettatori una forma di contat-

to che non ha eguali nelle altre arti. In

particolare, nessuna altra forma d’arte

comporta una condivisione di tempo

così cospicua. L’unico caso in qualche

modo paragonabile è quello del roman-

zo, in cui lo scrittore, i personaggi e i

lettori si trovano spesso a condividere

una quantità ingente di tempo: il ro-

manziere trasforma il proprio tempo

personale in tempo narrativo che il let-

tore ritrasforma in tempo personale.

Nel caso della letteratura abbiamo pe-

rò a che fare con temporalità astratte,

concettuali, difficilmente commensu-

rabili. Il lettore ha un proprio tempo di

lettura soggettivo che varia da quello

degli altri lettori, inoltre il tempo in-

vestito dallo scrittore non è diretta-

mente quantificabile e spesso non lo

è nemmeno il tempo vissuto dai per-

sonaggi. Invece una serie di quaranta

ore comporta di per sé un investimento

temporale di quaranta ore da parte del-

lo spettatore, al quale corrispondono

come minimo quaranta ore della vita

dei personaggi (normalmente molte di

più, a parte il caso limite di una serie

come 24), e come minimo quaranta ore

di vita sul set (normalmente molte di

più, a parte un ipotetico caso limite

di una serie costruita come un reality

show). Questa condivisione di tempo-

ralità fra spazi e mondi differenti, a

ben pensarci, è qualcosa di enorme, di

unico e di straordinario. Nessuna altra

forma d’arte si è mai approssimata così

tanto all’estensione del tempo vissuto,

con l’ambizione non solo di riprodurlo,

ma anche di imporgli una struttura e

un’articolazione, e di attribuirgli un

senso e un valore.

Le serie tv sono un’arte del tempo come

I Kiefer Sutherland in 24

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forse nessuna arte lo è mai stata pri-

ma. E forse proprio per questo le serie

tv fanno del tempo, ossessivamente,

il proprio tema. Il viaggio nel tempo è

uno dei motivi più ricorrenti nelle serie

tv (da Lost a Heroes, da Life on Mars a Mi-

sfits). E anche nelle serie più realistiche

l’idea del viaggio nel tempo affiora co-

munque spesso e volentieri attraverso

intere puntate che esplorano il passato

dei personaggi (si considerino ad esem-

pio l’episodio 7 della prima stagione dei

Soprano, oppure l’episodio 9 della pri-

ma stagione di Gossip Girl). Il presente

delle serie non basta mai a se stesso, è

in continua tensione verso il passato e

verso il futuro.

Finestre e terrazze

Dunque una serie tv è una forma di

narrazione attraverso immagini in mo-

vimento che si caratterizza non solo per

essere articolata in puntate e stagioni,

ma anche per comportare un cospicuo

interscambio temporale al crocevia fra

temporalità differenti: quella dei rea-

lizzatori, quella dei personaggi e quella

degli spettatori. Questa seconda carat-

teristica suggerisce un interessante co-

rollario che contribuisce a completare

la nostra definizione: una serie tv non

può essere né un documentario né un

cartone animato. Questi due tipi di

narrazione possono infatti soddisfare

senza problemi l’articolazione in pun-

tate e stagioni, ma non il criterio della

triplice temporalità. Al documenta-

rio manca infatti l’investimento sulla

temporalità dei personaggi, mentre

le serie d’animazione non rendono in

maniera adeguata l’investimento sulla

temporalità dei realizzatori, a cui viene

a mancare la dimensione percepibile

del lavoro degli attori sul set. Soltan-

to nella forma “live action” le serie tv

si offrono direttamente come sovrap-

posizione di tre differenti temporalità

direttamente e distintamente esperibi-

li. Soltanto nella forma “live action” le

serie tv si danno come una forma d’arte

caratterizzata dal fatto che realizzato-

ri, personaggi e spettatori mettono in

comune i propri tempi, crescono insie-

me (anche se lungo linee differenti),

invecchiano insieme.

Seppure esteso temporalmente, il film

mantiene una forma di limitazione,

un’incorniciatura, che lo accomuna ai

dipinti, e che ha dato adito alla celebre

metafora della “finestra sul mondo”.

Alle serie tv questa metafora della fine-

stra sembra invece stare stretta. Se pro-

prio si vuole usare una metafora, più

che una finestra sul mondo abbiamo a

che fare con una terrazza, o addirittura

con un intero edificio. Un edificio co-

struito dai realizzatori e che permette

agli spettatori di affacciarsi sul mondo

dei personaggi, scambiando con questi

e con quelli ciò che si ha di più prezio-

so: il proprio tempo.

Storia e struttura

Le serie tv hanno, come abbiamo fin

qui cercato di mostrare, una peculia-

re struttura ontologica, ma in quanto

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opere dell’ingegno umano esse sono

caratterizzate da una altrettanto essen-

ziale dimensione storica. In tal senso è

fondamentale riconoscere che la nuova

serialità televisiva si è affermata verso

la fine degli anni Novanta, a partire da

una rivalutazione della drammaturgia

che ritrova la sua centralità in un si-

stema produttivo (quello statunitense)

che effettivamente non l’ha mai del

tutto marginalizzata, ma di certo ha

concesso molto, a fasi alterne, al regi-

sta-autore: si pensi al New American

Cinema e a quanto il suo arco di vita sia

stato segnato dalla tensione fra raccon-

to e visionarietà, fra struttura arche-

tipica e insofferenza della medesima

struttura.

La centralità della drammaturgia nel

campo delle serie non rappresenta pe-

rò banalmente un ritorno al racconto, in

un clima di nostalgia della classicità:

al contrario, proprio in questo campo

si è svolta e si svolge ancora al presente

un’instancabile sperimentazione sulle

strutture narrative, in un laboratorio

che non è quello dei festival culturali-

sti, dei tappeti rossi per i divi della mac-

china da presa, ma è un laboratorio che

produce cultura di massa. Quando si

dice “sperimentazione” a livello dram-

maturgico si fa riferimento per esem-

pio a soggetti non convenzionali, come

quello di United States of Tara (una donna

schizofrenica riesce a tenere in piedi

la famiglia, con la complicità di figli e

marito: niente male per una commedia

televisiva!), oppure a strutture non li-

neari come quella di How I Met Your Mo-

ther (una sit-com in cui una voce nar-

rante collocata nel 2030 muove le fila

di un racconto che si svolge vent’anni

prima, con continui, vertiginosi flash-

back interni, simultaneità di eventi ge-

stita tramite split-screen).

Orizzontale e verticale

In una prospettiva storica, l’articola-

zione puntata-stagione-serie si può

analizzare in termini di orizzontalità

(lo sviluppo della narrazione di puntata

in puntata, di stagione in stagione) e

verticalità (lo sviluppo della narrazione

all’interno della singola puntata). In

rapporto alle serie tv contemporanee,

la struttura del telefilm era molto più

“verticale”, ossia tendeva a raccon-

tare una storia che aveva inizio e fine

all’interno dell’episodio, per poi ritro-

vare nell’episodio successivo gli stes-

si personaggi nello stesso mondo ma

alle prese con una nuova vicenda. Per

essere verticale, un racconto seriale de-

ve “chiudere” e saturare tutte le linee

narrative; l’orizzontalità, ossia il fatto

che la storia abbia una sua continuità

episodio dopo episodio, nei telefilm

è garantita soltanto dal personaggio.

All’opposto, la soap-opera ha un asset-

to orizzontale molto piatto, nel senso

che la vicenda non si conclude mai, ma

affastella azioni e situazioni i cui effet-

ti si propagano sugli episodi successivi,

senza soluzione di continuità.

Il tratto distintivo della nuova seriali-

tà, che ha il punto di forza nella dram-

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maturgia, si trova invece nella combi-

nazione tra orizzontalità e verticalità:

l’episodio ha una premessa narrativa

precisa, un punto di crisi, delle svolte,

un climax e un finale, dunque è un’u-

nità di racconto perfettamente com-

piuta (verticalità); tuttavia nel mentre

sviluppa l’unità di racconto, l’episodio

si prende carico anche di tutta la ma-

cro-storia che conduce al termine della

stagione, e che all’occorrenza rilancia

alla stagione successiva. Le prove gene-

rali di questo tipo di struttura si fecero

già nel corso degli anni Novanta con

X-Files, inizialmente compresso nello

spazio-tempo dell’episodio e poi, a par-

tire dalla terza stagione, fortemente

articolato in una dimensione verticale

(il caso da risolvere) e in una dimensio-

ne orizzontale (la vicenda dell’invasio-

ne aliena).

Analisi e sintesi

Un’altra caratteristica che segna l’evo-

luzione storica delle serie tv è la varietà

dei concept, dei soggetti. La televisione

di un tempo era il piccolo contenitore

di racconti quotidiani, che si collocava-

no sì in un sistema dei generi, ma in

versione ridotta; invece oggi possia-

mo dire che, rispetto ai generi, la serie

pratica un’estensione: per esempio, il

mondo di Sulle strade della California era

più piccolo e più semplice di quello di

un omologo lungometraggio cinema-

tografico di genere poliziesco, per cui

valeva la disuguaglianza “FILM > TV”.

Mentre oggi le proporzioni si sono in-

vertite: può un action-movie racconta-

re il dipanarsi di una strategia terrori-

stica di livello mondiale, minuto per

minuto, in modo dettagliato e credibi-

le? No. La serie tv 24 l’ha fatto. Può un

western raccontare la nascita di una

città mattone per mattone? No. La se-

rie tv Deadwood l’ha fatto. L’aspirazione

del cinema, da un certo punto di vista,

è spesso stata proprio questa: si pensi a

certe figure retoriche come la sequen-

za a episodi o il sintagma a graffa, o

banalmente alla semplice ellissi, che

cercano di contrarre il tempo, di sele-

zionare le situazioni, di far cadere dalla

struttura i tempi morti, inessenziali.

La nuova serialità sembra rispondere

proprio a quella aspirazione al romanzo

di tanto cinema narrativo. La serialità

può sfuggire alla condanna alla sinte-

si del gesto, che nel cinema ha portato

tante volte alla ricerca del fatidico, del

cruciale, del solenne, del memorabile,

del decisivo (nel dialogo, nella ricerca

del climax), e può distendersi in una

più stratificata costruzione dei caratte-

ri, e in una causalità meno serrata; op-

pure può estendere il numero dei per-

sonaggi potenzialmente sviluppabili,

e diluire il momento dell’affermazione

del tema episodio dopo episodio, per-

ché invece di un climax solo ne ha die-

ci, o venti, o cento. La condanna alla

sintesi degli eventi, croce e delizia del

cinema, nelle serie tv si rovescia in una

quasi illimitata possibilità di analisi di

questi stessi eventi e del mondo in cui

essi accadono.

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Conflitti e personaggi

Prendiamo in esame il conflitto inte-

so come condizione necessaria perché

si possa dire che esiste una storia. Il

conflitto drammaturgico, nella sua

declinazione cinematografica, è nella

maggior parte dei casi incentrato su

un’opposizione semplice fra due per-

sonaggi; questo è determinato, come

si diceva prima, dalla “taglia” del rac-

conto cinematografico, che non può

consentire di sviluppare un gran nu-

mero di personaggi, e pertanto può of-

frire tendenzialmente un protagonista

ben delineato e un oppositore che lo sia

altrettanto. Ma per accedere a un’au-

tentica complessità narrativa, in cui

il conflitto si sviluppa in profondità, è

importante allestire una rete di opposi-

zioni, di cui fornisce un’agile rappre-

sentazione il modello che John Truby

(in Anatomia di una storia, Dino Audino,

Roma 2009) chiama “opposizione qua-

drangolare”, con un protagonista e tre

antagonisti.

Seguendo il ragionamento di Truby,

anzitutto gli antagonisti devono attaccare

il punto debole del protagonista in modo diver-

so. Ebbene, se facciamo riferimento

alla prima stagione della serie epico-

fantasy Trono di spade, vediamo che il

protagonista Ned Stark, schivo e leale

uomo del Nord, si trova in conflitto con

almeno tre antagonisti principali (la

regina, il fratello-amante di lei, l’in-

fido consigliere) che in quanto privi

di scrupoli lo sconfiggono sul terreno

scivoloso dell’intrigo, strisciando fra i

corridoi del palazzo come ombre, e non

affrontandolo mai a viso aperto, laddo-

ve l’eroe è più attrezzato; tuttavia lo af-

frontano in modo diverso, perché una

ordisce una fitta trama che lo metta in

cattiva luce, l’altro lo ferisce a tradi-

mento, l’altro ancora si finge suo ami-

co per poi tradirlo. Poi, nel “quadrato”

di Truby, è importante che gli antago-

nisti non siano in conflitto con il solo

protagonista, ma che ci sia tensione

anche fra loro. Ciò avviene in tantis-

sime serie, perché c’è la possibilità di

allestire adeguatamente tali conflitti

secondari: si pensi alla prima stagione

del teen drama One Tree Hill, in cui un

figlio illegittimo confligge con il padre

e con il figlio riconosciuto da quest’ul-

timo, e con i vari membri della squadra

di basket del liceo, ma a loro volta tutti

questi personaggi hanno degli scontri

forti fra di loro.

Truby aggiunge che questa partita a

quattro (o più di quattro) deve essere

sostanzialmente uno scontro di valori,

rispetto ai quali i personaggi devono

essere molto distanti fra loro: questo è

vero per il cinema, mentre nella nuo-

va serialità televisiva è possibile creare

conflittualità più sfumate e archi di

trasformazione più lunghi e flessibili,

per cui la distanza fra i personaggi può

essere molto variabile.

L’ultimo suggerimento di Truby è quel-

lo di passare dal quadrato al cubo, ossia

quello di far lavorare il quadrato non

soltanto al livello degli individui, ma

anche a quello delle aggregazioni e de-

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gli orizzonti. Insomma, i grandi con-

flitti narrativi non riguardano soltanto

i singoli personaggi, ma finiscono per

coinvolgere anche i gruppi sociali in

cui i personaggi si aggregano, le comu-

nità alle quali appartengono, le epoche

in cui si trovano a vivere.

Questo principio drammaturgico sulla

carta ci sembra davvero affascinante,

ma ci fa anche pensare che davvero il

film sia un oggetto troppo piccolo per

sviluppare organicamente la conflit-

tualità, non solo in “superficie” (con-

flitti fra i personaggi) ma anche in

volume (conflitti fra personaggi, ag-

gregazioni e orizzonti), mentre è nor-

male che questa pluralità di conflitti si

realizzi nell’ambito delle serie tv, come

testimoniano le già citate Trono di spade

e 24, ma anche opere quali West Wing,

Mad Men, Tudors, Roma.

Non si vuole certo negare che nella sto-

ria del cinema ci siano stati tentativi

imponenti – da Bronenosets Potyomkin (La

corazzata Potemkin, 1926) di Sergej M.

Ejzenstejn a Senso (1954) di Luchino Vi-

sconti, da Roma città aperta (1945) di Ro-

berto Rossellini a 2001: A Space Odyssey

(2001: Odissea nello spazio, 1968) di Stanley

Kubrik – di costruire narrazioni i cui

protagonisti non siano soltanto singoli

individui, ma gruppi sociali composi-

ti, comunità, epoche, mondi intera-

mente coinvolti nel conflitto e nella

trasformazione. Tuttavia, soltanto

con le serie televisive questa possibili-

tà non richiede più una rottura degli

schemi canonici, non dipende più dal

genio di questo o quell’autore, ma en-

tra a far parte della struttura stessa del

medium narrativo. Anche quando il

protagonista c’è e si impone indiscuti-

bilmente (pensiamo a Jack Bauer in 24,

a Donald Draper in Mad Men, e a Dexter

e al Dottor House nelle serie eponime),

tuttavia gli altri personaggi non si ri-

ducono a semplici antagonisti o deute-

ragonisti: sono invero i protagonisti di

un proprio plot che si intreccia con gli

altri plot, dimostrando allo spettatore

che persino l’individuo più ecceziona-

le può contare come eroe soltanto se in-

serito in una rete di relazioni, in una

comunità, in una realtà sociale, in un

mondo storico.▪

I Michael C. Hall in DEXTER

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