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OLTRE - Laboratorio di Storie e Fotografia - Anno 2 N° 11 Ottobre 2015 - www.oltreonline.info Organo di Informazione Università Popolare di Camponogara Direttore Responsabile: Michele Gregolin oltre

Oltre n 11

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Laboratorio di Storie e Fotografia Direttore Responsabile Michele Gregolin

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OLTRE - Laboratorio di Storie e Fotografia - Anno 2 N° 11 Ottobre 2015 - www.oltreonline.info

Organo di Informazione Università Popolare di Camponogara

Direttore Responsabile: Michele Gregolin

oltre

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Martina Pandrin

Francesco Dori

Omar Argentin, Massimo Bonutto, Marco Chinellato, Andrea Collodel, Lucia Finotello, Luisella Golfetto, Enrico Gubbati, Galdino Malerba, Alessandro Pagnin, Paola Poletto, Mirka Rallo, Roberto Tacchetto, Marta Toso, Riccardo Vincenzi.

Francesca Bomben, Tatiana Cappato,Silvia Maniero, Anita Nardo, Angela Tacchetto, Alessandra Toninello. [email protected]@oltreonline.info

© Luisella Golfetto

Michele Gregolin, Martina Pandrin

http://www.oltreonline.infohttp://www.unipopcamponogara.it

Oltre è un progetto editoriale del Corso di Fotografia dell’Università Popolare di Camponogara, Laboratorio Fotografia & Comunicazione.

o l t re c h i s i a m o

Direttore ResponsabileDocente di fotografia

Photo Editor

Responsabile Comunicazione

Redazione

e-mail

Foto di copertina

Impaginazione e grafica

Sito internet

Progetto

Michele Gregolin ([email protected])

Collaboratori esterni

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o l t re e d i t o r i a l e

Era il 1839, pochi anni dopo la scoperta della fotografia che Robert Cornelius si fece il primo autoscatto, ed il fe-nomeno che oggi ci assilla quotidianamente ebbe inizio. Nient'altro che un autoscatto, anche se va di moda oggi chiamarlo “selfie”. Le nuove tecnologie e i social network ci aiutano a diffondere questa nuova mania ormai plane-taria, usata dai comuni mortali fino ai grandi leader della terra, come Barak Obama e Papa Francesco. L'autoscatto nasce fondamentalmente per ritrarre se stessi ed essere allo stesso tempo protagonista ed autore della fotogra-fia. Le prime foto con il tag #selfie sono comparse nel 2004, e quelle pubblicate ad oggi sono circa 23 milioni. Una cosa sicura è che da allora la selfie-mania ci per-seguita ogni giorno; lo si fa per far vedere dove siamo, con chi siamo, lo si fa per farsi fare i complimenti e nello stesso modo aumentare l'ego e la nostra autostima.Mi chiedo: ma siamo veramente arrivati a questo punto? Abbiamo bisogno di postare una foto che ci ritrae per sentirci per un attimo “qualcuno?” La mente umana a volte non ha limiti, e se accettiamo il “selfie” con l'attore preferito, la star del momento, diventa più difficile capire quando, per aumentare i propri “like”, mettiamo a repen-taglio la nostra vita.Nel 2015 le vittime per incidenti legati ai selfie sono state finora dodici, la maggior parte di nazionalità Russa, tanto che il Ministero dell'interno ha creato un manuale sulle norme di sicurezza quando si scatta una foto.La moda crea manie, crea dipendenze, come l'ultimo ri-trovato: il bastone per il selfie; “persone” che allontana-no il proprio smartphone per avere un'inquadratura più ampia, allungando più o meno un nuovo oggetto inuti-le... dimenticando quando con un sorriso e un poca di gentilezza si chiedeva al passante di turno di ritrarti in una foto. Il selfie forse altro non è che una testimonianza della nostra vita odierna, indifesa, evanescente, con una voglia estrema di confermare in questo mondo un nostro istante. Nasconde timori, nasconde paure, un sentirsi infinitamente piccoli, rappresenta in alcuni casi l’unico modo per affermarsi, un momento di gloria tanto piccolo ed effimero che vive giusto il tempo di un “like”.

Michele GregolinDirettore Responsabile

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sommario

il sogno nei cassettiTesto di Marta Toso

Fotografie di Michele Gregolin, Marta Toso

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la storia messa in praticaTesto di Marta Toso

Fotografie di Omar Argentin, Marta Toso

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con la testa tra le nuvole...

viaggio nel tempo

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la milano di gabriele basilicoRubrica a cura di Paola Poletto

Testo di Luisella Golfetto

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Fotografie di M.Bonutto, L.Finotello, L.Golfetto, R.Vincenzi

l 'originale con un "c"Testo di Angela Tacchetto

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considera il maialeTesto di Francesco Dorii

Fotografie di Francesco Dori, Enrico Gubbati, Alessandra Toninello

Fotografie di Omar Argentin, Galdino Malerba, Roberto Tacchetto

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evolutio visio mostra di giovanni cecchinato

Intervista di Michele Gregolin

Testo di Tatiana Cappato

Fotografie di Tatiana Cappato, Roberto Tacchetto

benvenuti all 'EZ's palaceTesto di Francesca Bomben

Fotografie di Massimo Bonutto

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o l t re l a v o r oTesto di Marta Toso

Fotografie di Michele Gregolin, Marta Toso

Abbiamo più volte parlato di come in un tempo in cui tut-to corre veloce, in cui tutto si usa e si butta, stia tornan-do la voglia di riscoprire il passato, le antiche tecniche artigianali, un diverso utilizzo del così prezioso tempo. Come nella fotografia assistiamo ad un timido ritorno alla camera oscura e nella musica apprezziamo il suono non campionato di una chitarra acustica, un altro esem-pio di questa tendenza è la professione dell’artigiano re-stauratore. Ce ne hanno parlato in una intervista corale Valter Poletto, maestro d’arte, restauratore e marango-ne, e i suoi allievi che da anni lo seguono, imparando da lui l’arte di restaurare mobili antichi. I suoi allievi sono di varie fasce d’età e provengono per la maggior parte da altri lavori, chi è ingegnere, chi commerciante e chi in-formatico, uomini, ragazze, lavoratori o pensionati. Alla domanda su cosa spinga ad avvicinarsi a questo tipo di lavoro la risposta è unanime e apparentemente scontata ovvero: la passione. Ma non è affatto scontata quando si cerca di capire: passione per cosa? Per la pialla? Per i chiodi, o la vernice? La passione di recuperare qualcosa del passato che altrimenti verrebbe buttato. La passione di toccare, accarezzare, lavorare un oggetto che ha una storia e sognarla questa storia, perché ogni mobile è di-verso, nessuno è uguale all’altro. I mobili antichi erano fatti da artigiani, non in serie, quindi sono tutti diversi tra loro ed hanno vissuto in modi diversi, non tutti sono stati conservati nel salotto buono. Sono stati custodi di oggetti di famiglia, hanno vissuto cene di Natale, cor-redi nuziali, giochi di bambini, traslochi e molti anche la guerra. Sono finiti per strada, all’umido o al sole, qualcuno può anche essersi reso utile in una stalla. In qualche modo sono arrivati oggi sul banco dell’artigiano e lo fanno sognare, intuendo dai segni che portano nel legno la vita che hanno vissuto, ma anche facendogli immaginare la vita che potranno ricominciare, dopo un lungo e duro lavoro di restauro fatto con passione. Certo, per fare questo lavoro serve anche una certa abilità ma-nuale, ma quella si può imparare e con l’esercizio arriva. Altrettanto importante è di certo la pazienza perché un lavoro fatto bene richiede sempre del tempo, e non c’è solo l’aspetto creativo ma anche quello più tecnico e non ultima la costante lotta per debellare i tarli. Il lavoro di artigiano restauratore inoltre non riguarda solo il legno dei mobili ma anche i loro componenti, come il vetro delle credenze, le specchiere, le cerniere delle ante, le serrature in ferro od ottone delle cassettiere. Proprio per il tempo necessario e per il costo dei prodotti, il restauro dei mobili è diventata una attività di nicchia, ma il pro-dotto finito ha un valore aggiunto che non è stimabile in denaro bensì in soddisfazione per l’artigiano e orgoglio per il proprietario che avrà acquistato un pezzo unico al mondo o in alcuni casi recuperato un oggetto affettiva-mente importante che pensava di avere perduto.

i l sogno nei cassett ila pass ione di toccare

E’ sempre il tempo il fattore chiave, perché come ci spie-ga Valter quello che caratterizza il bravo restauratore, oltre all’umiltà, è il lavorare con serietà e nel rispetto della regola d’arte, impiegando “il tempo che ci vuole”. Valter ha iniziato da bambino la sua attività di marango-ne, già a tre anni piantava chiodi insieme al nonno e con il legno ci è cresciuto. Poi è stato allievo, in seguito pro-fessionista e tuttora è in attività oltre che maestro d’ar-te, sempre crescendo e imparando perché non si finisce mai di imparare e di scoprire e conoscere il legno. Perché come dice lui “il legno è vivo, è lui che si lascia lavorare, si lascia anche piantare il chiodo se tu lo sai piantare, diventa utensile per l’uomo. Scoprire il legno è tornare alla natura e scoprire il rapporto che da sempre ha con l’uomo, da quando il nostro primo antenato ha usato un ceppo come sedia per sedersi. Entrare a contatto con il legno, toccandolo, sentendone il profumo, è come torna-re indietro alle origini, è come una nuova nascita”.

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o l t ree v e n t oTesto di Luisella Golfetto

Foto di Massimo Bonutto, Lucia Finotello, Luisella Golfetto, Riccardo Vincenzi

c o n l a t e s t a t ra l e n u vo l e . . .s e n z a u n a d e s t i n a z i o n e c e r t a

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“In volo nel silenzio della natura, trasportati dal vento e dai sogni…” [Stephen Littleword]. Questa è la sensazione che si prova durante un volo in mongolfiera, alla ricerca di correnti d’aria che tracciano veri e propri sentieri invi-sibili nel cielo, viaggiando in piena libertà, senza motore, senza rumore e senza una destinazione certa. L’idea del volo umano ha sempre affascinato l’uomo sin dall’an-tichità. Ancora oggi si ricorda il mito greco di Dedalo e Icaro: rinchiusi da re Minosse nell’intricatissimo labirinto nell’isola di Creta, tentarono di fuggire fabbricando ali di penne e di cera. Icaro volando si avvicinò troppo al sole, la cera si sciolse ed egli precipitò in mare. L’utilizzo dell’aria calda per far volare un corpo solido, sfruttando il principio di Archimede, risale al III sec. d.C., con la realizzazione di lanterne di carta, denominate lan-terne Kongming, impiegate per segnalazioni militari, nell’antica Cina. La legge di Archimede afferma che ogni corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del volume del fluido spostato: se la spinta ascensionale è maggiore del peso dell’ogget-to, esso si muove verso l’alto. Pertanto l’aria riscaldata all’interno della lanterna rende questa più leggera dell’a-ria circostante, determinando così la sua spinta ascen-sionale. In Europa un primo riferimento ad un pallone ad aria calda è descritto da Giovanni da Fontana nel XV sec., quale idea di un inventore rimasto ignoto. Alla stessa epoca risalgono i primi studi scientifici sul volo compiuti da Leonardo da Vinci. Un originale progetto teorico di aeronave basato sulla spinta idrostatica fu proposto dal padre gesuita Francesco Lana-Terzi nel 1670, ma irrea-lizzabile per la tecnologia dell’epoca perché la sua “nave aerea” pesava di più della spinta ascensionale prodotta. Il primo esperimento vero e proprio, realizzato con un pallone riempito d’aria calda, senza passeggeri a bordo, fu effettuato dai fratelli Joseph-Michel e Jacques-Etienne Montgolfier il 4 giugno 1783 ad Annonay presso Lione, da cui il nome “mongolfiera”. Seguirono altri tentativi: nel settembre dello stesso anno fu eseguito il primo volo con “equipaggio” costituito da un’anatra, un gallo ed una pecora. Gli animali furono adagiati dentro una ce-sta di vimini appesa al pallone e atterrarono sani e salvi dopo un volo di pochi minuti. Ciò incoraggiò il successivo esperimento, realizzato il mese dopo, con un pallone in-nalzato a circa 30 metri da terra e vincolato con corde, con a bordo tre persone, tra cui il giovane medico e fisico francese Jean-François Pilâtre de Rozier. Il 21 novem-bre 1783 lo stesso medico francese insieme al marchese François Laurent d’Arlandes compirono il primo volo libe-ro sorvolando Parigi, sotto gli occhi della corte francese e di una folla immensa. I due amici alimentarono costan-temente il fuoco con paglia per rimanere in quota, rag-giungendo un’altezza di circa 900 metri e coprendo una distanza di circa 12 km in 26 minuti. L’uomo era riuscito a volare. Dopo pochi giorni il fisico Jacques Charles e Marie-Noël Robert salirono in volo su un pallone riempi-to con idrogeno, il gas più leggero dell’aria scoperto nel 1766. Nei decenni successivi i palloni a gas soppiantaro-no le mongolfiere ad aria calda. Un’ulteriore evoluzione si ebbe con l’avvento dei dirigibili che utilizzavano motori per direzionare il velivolo. I primi tentativi al riguardo iniziarono nel 1852 a Parigi con Henri Giffard, fino al fa-moso esperimento del conte F. von Zeppelin che lanciò la sua prima aeronave dal lago di Costanza nel 1900. Il reimpiego dei palloni ad aria calda, e quindi l’evoluzione delle attuali mongolfiere, si ebbe a partire dal 1960, con

la realizzazione del modello Vulcoon dello statunitense Ed Yost, costruito con l’involucro di nylon e un brucia-tore in acciaio alimentato da bombole di gas. L’avven-to di nuovi materiali e soprattutto dei bruciatori a gas propano diedero nuova linfa vitale alle mongolfiere. Una mongolfiera è costituita essenzialmente da tre compo-nenti: un involucro o pallone, un bruciatore e una cesta. L’involucro è realizzato da pannelli di tessuto a base di nylon cuciti insieme per realizzare le forme e i volumi più svariati. Il volume del pallone è proporzionale al carico che si vuole trasportare. Nella parte alta dell’involucro è situata una valvola, denominata paracadute, che fa usci-re l’aria calda, se azionata, facilitando così le operazioni di discesa del pallone. Nella parte bassa del pallone vi è un foro, chiamato gola, attraverso il quale si scalda l’a-ria con la fiamma prodotta dal bruciatore. Quest’ultimo è generalmente doppio ed è alimentato a gas propano, conservato allo stato liquido all’interno di bombole. La cesta, detta anche gondola, è costituita da un intreccio di vimini, ancora oggi considerato l’unico materiale che ga-rantisce la necessaria flessibilità e una buona durata nel tempo. L’intera struttura è rinforzata con tubi di allumi-nio connessi al telaio del bruciatore e legati all’involucro con cavi in acciaio. All’interno della cesta, oltre al pilota e ai passeggeri, si trovano le bombole di gas liquido e la strumentazione di bordo per la navigazione (variometro che misura la velocità di salita e discesa, altimetro, ter-mometro che misura la temperatura interna ed esterna all’involucro, rilevatore di posizione GPS e radio VHF). Le attuali mongolfiere possono ospitare da un minimo di una persona per i modelli piccoli (1000 m ), fino ad una trentina di persone per i modelli giganti (8000 m ). Essendo priva di un motore di spinta e di organi direzionali il suo mo-vimento è legato totalmente alle correnti d’aria: il pilota può solamente regolare la quota di volo, manovrando il bruciatore. Per questo motivo la mongolfiera atterra quasi sempre in un punto differente dal luogo di par-tenza, anche se un attento studio dei venti e delle loro direzioni può consentire al pilota una certa navigabilità. L’equipaggio di una mongolfiera è costituito non solo dal pilota, ma anche da coloro che la seguono da terra du-rante il volo per procedere al recupero dell’attrezzatura dopo l’atterraggio. Per pilotare una mongolfiera è neces-sario ottenere il brevetto di Pilota di Pallone Libero pres-so una scuola abilitata dopo un corso teorico e pratico. L’impiego attuale delle mongolfiere è sostanzialmente sportivo e, grazie alle moderne tecnologie, i palloni ad aria calda sono diventati meno costosi e più manegge-voli di quelli a gas, determinando un grande interesse che ha fatto moltiplicare rapidamente, in tutto il mondo, i raduni degli appassionati del settore aerostatico. Ogni anno si svolgono centinaia di manifestazioni, tra le quali si distingue, per dimensioni e numero di partecipanti, la Albuquerque International Balloon Fiesta, che si svolge nel New Mexico (Stati Uniti). In Italia si svolgono annual-mente dai quindici ai venti raduni, tra i quali si distin-gue il Ferrara Balloons Festival che si svolge nel mese di settembre, ormai giunto alla sua undicesima edizione. La manifestazione si svolge al Parco “Giorgio Bassani”, un’area verde a pochi passi dal centro storico è organiz-zata dal Comune di Ferrara e assegnata in concessione a Ferrara Fiere Congressi. E’ un evento di intrattenimento che include anche altre manifestazioni di carattere spor-tivo, artistico, culturale e di spettacolo. Qui è possibile

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assistere, sin dal primo mattino, alle operazioni di gon-fiaggio, realizzate tramite ventilatori che soffiano aria fredda all’interno dell’involucro, fino al momento in cui è possibile azionare il bruciatore. Si possono osservare le manovre di preparazione per il decollo che si concludono con l’alzarsi in volo dei palloni in un vortice di colori e forme che emozionano non solo i passeggeri, ma anche gli spettatori. Alla manifestazione si possono ammirare, oltre alle mongolfiere tradizionali a forma di goccia rovesciata, anche alcune “special sha-pes”, tra cui l’Arca di Noè, la mongolfiera più imponente tra quelle presenti con ben 6800 m3 di volume, l’Orient Express l’Ape, una piccola mongolfiera “da passeggio”. Sono circa trenta gli equipaggi presenti, provenienti an-che da vari paesi europei. I momenti migliori per alzarsi in volo libero sono due: uno al mattino presto e l’altro al tardo pomeriggio, quando le condizioni meteorologi-che sono ottimali per un volo sicuro. Oltre al volo libero vengono organizzati voli vincolati, con le mongolfiere an-corate a terra in tutta sicurezza, a circa una ventina di metri dal suolo, offrendo la possibilità di ammirare l’area del festival dal cielo. Un momento suggestivo è anche lo spettacolo notturno con le mongolfiere illuminate a ritmo di musica “Night Glow”. Il silenzio del volo fa perdere la cognizione del tempo e dell’altitudine, creando un senso di libertà e distacco da ciò che succede a terra, lasciando una sensazione sicuramente difficile da scordare.“Quando camminerete sulla terra dopo aver volato, guarderete il cielo…perché là siete stati e là vorreste tor-nare” [Leonardo da Vinci]

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o l t ret r a d i z i o n eTesto di Angela Tacchetto

Foto di Omar Argentin, Galdino Malerba, Roberto Tacchetto

Per 12 persone:1 kg di stoccafisso secco250 gr di cipolle½ litro di olio d'oliva non fruttato3/4 sarde sotto sale½ litro di latte frescoPoca farina50 gr di grana grattugiatoUn ciuffo di prezzemoloSale e pepeDopo svariati studi e comparazioni tra le numerose ricet-te utilizzate dai ristoranti del vicentino tra gli anni 30 e 50, la Confraternita del Bacalà regala ai nostri palati e al nostro spirito l'originale formula per la preparazione del Bacalà. La Confraternita nasce nel 1987 a Sandrigo, co-mune in provincia di Vicenza, per iniziativa dell'avvocato Michele Benetazzo in difesa della buona cucina locale. La Confraternita si prefigge alcuni obiettivi primari quali ap-punto ottenere una ricetta ben definita per la preparazio-ne del bacalà, diffondere e fare in modo che i ristoratori servano con continuità questo tipico piatto locale, intra-prendere rapporti anche con altre regioni d'Italia che uti-lizzano lo stoccafisso e approfondire con esperti del set-tore nutrizionale le possibilità di abbinamento di questo piatto con il vino o altri prodotti tipici. Uno dei maggiori meriti resta l'istituzione delle "Giornate Italo-Norvegesi" a Sandrigo. Durante queste giornate vengono investiti nuovi confratelli, alcuni anche di elevato spessore artisti-co e sociale, dando seguito poi ad una serie di iniziative come l'organizzazione di viaggi di istruzione nelle Isole Lofoten in Norvegia, per la visita dei luoghi dove viene pescato, lavorato e commercializzato il merluzzo. I risultati ottenuti da questo forte impegno verso la diffu-sione del Bacalà ha portato grandissimi risultati, come la costituzione di una rete di locali in cui questo piatto viene normalmente inserito nel menu e un flusso di turismo di grossa entità spinto soprattutto dallo spirito dei confra-telli. Si basti pensare a due importanti imprese portate a termine dai confratelli: nel 2007 in barca a vela hanno ripercorso la tratta Venezia-Rost "Sulla rotta del Queri-ni" e nel 2012 con una Fiat 500 "giallo Confraternita" la tratta Rost-Venezia "Via Querinissima" . Queste impre-se sono dedicate alla memoria del mercante veneziano Pietro Querini che per primo importò lo stoccafisso dalla Norvegia. Leggenda vuole che nel 1431 Querini cercasse fortune commerciali al di fuori del Mediterraneo partendo dall'isola di Creta con una nave carica di vino, spezie e cotone, con l'intento di raggiungere le Fiandre. Il suo sogno si infranse presto in un terribile naufragio che gli fece perdere parte dell'equipaggio tra i flutti. Fortunata-mente una delle due imbarcazioni di salvataggio raggiun-se un isolotto deserto coperto di neve sul quale i superstiti

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l'originale con una "c"un piatto dalle antiche origini

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cercarono di sopravvivere, fino a che non approdarono su questo scoglio gli abitanti di un'altra isola che accolsero, nutrirono e curarono i membri dell'equipaggio di Querini che erano riusciti a sopravvivere. L’alimento principale con cui si nutrivano questi popoli era il merluzzo che facevano seccare all’aria per mesi finché non diventava duro come un bastone. La gente del posto lo chiama-va Stockfiss (stoccafisso). Il mercante veneziano tornò a casa portando con sé una scorta di questo alimento che scambiò durante il tragitto con vitto e alloggio. Al suo ritorno l’uso di questo pesce si diffuse nell’entroter-ra veneziano tanto da arrivare ai giorni nostri ad essere inserito nel circuito EuroFir come uno dei 5 alimenti della tradizione italiana. E’ questo che si festeggia a Sandrigo durante la festa del Bacalà, quest’anno arrivata alla sua 28° edizione: la tradizione e l’unione tra popoli che un semplice merluzzo ha potuto creare. Presenti alla ma-nifestazione che si è tenuta domenica 27 Settembre, a conclusione della festa iniziata il 18 Settembre, erano presenti il ministro della pesca della Norvegia Elisabeth Aspaker, il presidente della regione del Nordland Thomas Norvoll e una delegazione di circa 90 persone in rappre-sentanza dell’isola di Rost. In questi giorni Sandrigo si trasforma per far onore a questo che ormai è diventato un alimento radicato nella tradizione popolare e guai a confonderlo con il Baccalà; quando si parla di baccalà con la doppia c si intende il merluzzo salato, non quello secco, e per questo lavorando e parlando del pesce sec-co i vicentini lo definiscono Bacalà.

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o l t rec o l l e z i o n i s m oTesto di Francesco Dori

Foto di Francesco Dori, Enrico Gubbati, Alessandra Toninello

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c o n s i d e r a i l m a i a l ea n i m a l i d a c o l l e z i o n e

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Non è una passione nascosta, quella del Dottore. Fa bella mostra di sé, sopra l’ingresso del suo studio al Lido di Venezia, l’oggetto della sua devozione. Un “porcellone in bronzo” per usare le parole di Renzo Battaglia, odontoia-tra e, come ama definirsi, suinomane.All’interno della sua casa-studio del Lido e della sua “fi-liale” padovana, il Dottore conserva una della più impor-tanti e cospicue collezioni al mondo sul tema. 25 o forse 30 mila oggetti, raccolti in 40 anni di suina passione, ispirati a “Mister Pig” nelle sue diverse declinazioni.Museo Maialido, cosi recita, con una buona dose di iro-nia, l’insegna posizionata all’ingresso dello studio, affac-ciato su una delle principali vie di scorrimento dell’isola veneziana. Quadri, sculture, giocattoli, disegni, fotogra-fie, libri, oggetti utili e perfettamente inutili, occupano ogni angolo, parete, soffitto, vetrina o teca presente.Renzo Battaglia, con il camice da lavoro e la mascherina abbassata, sorride soddisfatto mentre scruta le espres-sioni stupefatte, di chi come noi, quasi inconsapevol-mente, si ritrova in questo caleidoscopio di zampette, code arricciate, grugni curiosi e orecchie appuntite. E’ impossibile, oggettivamente impossibile, non rimanere rapiti da questo luogo insolito e sorprendente. Nel cata-logo fotografico che ha accompagnato la mostra “L’im-magine della fortuna. Le mille facce del maiale” tenutasi lo scorso anno a Padova - dove erano esposte solo una minima parte delle opere della sua collezione, Battaglia ricorda con soddisfazione lo stupore di chi si trova, come curioso o come paziente, nella sala d’attesa del suo stu-dio odontoiatrico. Ben diversa da quella immaginata dal Simenon di Maigret (“triste come la sala d’attesa di un dentista”). Divertimento e ironia, forse una ricetta in-novativa per scardinare una delle paure più ancestrali, quella del dentista appunto. Ogni luogo della casa, da quello più asettico riservato all’attività professionale, ai corridoi, dalle scale per accedere al piano superiore al salotto, dalla sala da pranzo alle camere da letto, pur saturo di immagini e rappresentazioni dell’amato anima-le, emana con forza l’aspetto “umanissimo” di questa passione. Sul collezionismo e sui collezionisti si è detto e scritto tanto. Dal rischio dell’ossessione- compulsione dell’accumulare a quello di un progressivo isolamento o disinteresse per l'ambiente circostante e per le proprie condizioni di vita. Si è detto e scritto, ovviamente anche dei suoi aspetti positivi, su tutti quelli che, ad esempio, tanto hanno dato, alla cultura e all’arte mondiale. In molte occasioni, i collezionisti sono diventati anche i protagonisti di romanzi (dalle statuette di porcellana dell’Utz di Chatwin, alle mosche di Fredrik Sjöberg), quasi sempre scritti da grandi irrequieti, che vedevano il collezionismo come bisogno di controllare, in qualche modo, il caos dell’esistenza. La ricetta del Dottore, (nul-la a che vedere con il perfezionismo o la meticolosità, notoriamente correlati ai disturbi ossessivo-compulsivi), ha però un contorno assolutamente personale. La dispo-sizione un po’ caotica degli oggetti, la mancanza di una precisa catalogazione, l’originalità e la loro eterogeneità (quadro, scultura, disegno, arazzo, oggetto artigianale in vetro, argento, bronzo, ceramica, porcellana, legno, metallo, oggetto etnico, insegna, poster, fotografia, car-tolina d’epoca e moderna, libro antico, libro contempora-neo, articolo di giornale, oggetto di produzione industria-le, gioco, gadget, inserzione pubblicitaria, oggetto d’uso, ecc.”) si accompagna alla vera passione del Dottor Ren-zo, quella della ricerca per incrementare la collezione.

“Setacciando mercatini, sagre, fiere, gallerie d’arte e d’antiquariato, librerie ed ogni altro sito (inclusi quelli telematici) in cui possa annidarsi il mio oggetto del de-siderio”. Una passione che, nata solitaria all’inizio degli anni ’70 con un maialino di vetro di Murano, a cui giorno dopo giorno ha aggiunto nuovi pezzi (da citare l’imper-dibile coppia di maialini in plastica calamitata, barattata con un testo di oculistica all’indomani del relativo esame universitario), ha inevitabilmente contagiato anche la sua famiglia. La figlia Anna in particolare, le cui splen-dide opere (tarsie e sculture in legno in particolare, ov-viamente a tema) hanno il loro giusto spazio, affiancate ad altri capolavori di arte suina (dalla re-interpretazione di Hopper di Bobo Ivancich al Churchill maializzato, esti-matore dell’animale, perché a differenza del cane e del gatto, ti fissa negli occhi). Risalire alle motivazioni iniziali del “tema” non è un’impresa semplice. Renzo, nella no-stra conversazione e nei testi che ha scritto, si richiama alla tradizione montanara delle sue radici, che vedeva nel rito dell’ammazzare il maiale, come un momento di catarsi collettiva, dove l’amico in rosa, compagno di vita, veniva consegnato alle mani del norcino per garantire la sopravvivenza alimentare dei contadini. Momento socia-le, triste e benefico allo stesso tempo, che ha innervato la vita di molte persone nate nella tradizione contadina. Una visione poetica, raccontata in mille sfaccettature da pittori, scrittori, registi e illustratori, come Simone Mas-si ad esempio nello splendido cortometraggio “Dell’am-mazzare il maiale”, già vincitore del Premio David di Donatello per il miglior cortometraggio 2012. Il maiale, certamente sopra ogni altro animale, si presta alle più diverse e contrastanti simbologie e interpretazio-ni oltre che ai pregiudizi popolari. Su tutti, quelli religiosi che dalla sfera alimentare (la prescrizione di non cibarsi della sua carne in quanto impura) arrivano fino alla sfera sessuale e alla relativa deriva terminologica (porco, tro-ia ecc.). Il maiale viene spesso associato all’ingordigia e alla sporcizia (malgrado gli etologi assicurino che ai maiali non piaccia lo sporco, siano animali pulitissimi e non facciano deiezioni dove dormono). La sua immagine popolare, che con mille sfaccettature e variazioni, lo as-socia ad immagini negative o esclusivamente funzionali, ha goduto di recenti “rivalutazioni”, che lo vede come perfetto “cucciolo” da compagnia, dalle grande capaci-tà comunicative (si dice siano grandi chiacchieroni) e di coinvolgimento, amante del gioco e dello stare insieme, al punto da soffrire molto se viene lasciato solo. Anche per il politically correct come per l’immagine, del maiale non si butta proprio nulla!! La visione del Dottore bypas-sa e va oltre i giudizi ed i pregiudizi. Il titolo della Mostra padovana - l’immagine della fortuna – chiarisce in pieno la sua visione, che vede il “porco” come il portafortuna per eccellenza, come un perfetto simbolo di prosperità e di sostentamento (del resto non sono a forma di maia-le i nostri vecchi salvadanai?). Renzo Battaglia, odonto-iatra suinomane, lontano da ogni tensione “animalista” ha concluso il testo che accompagnava la mostra all’ex macello padovano (quale miglior posto per ospitare una mostra simile), con un divertito e divertente richiamo dialettale-alimentare «Suino l’è bel e bon». Noi reduci da una adolescenza ormai lontana e ispirati dalla sua ironia, continuiamo a chiederci “Riuscirà la nostra Miss Piggy a conquistare il cuore dell’amato Kermit la rana? Lo sapremo alla prossima puntata di …

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o l t rel a p a s s i o n eTesto di Tatiana Cappato

Foto di Tatiana Cappato, Roberto Tacchetto

v i a g g i o n e l t e m p o c o n l a m o t o g u z z i

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In queste pagine vi racconteremo la storia del sig. Aurelio, della sua passione per la tecnologia e la meccanica che lo ha portato a collezionare oggetti del passato e a realizzare il suo museo privato di moto Guzzi che, come dice lui, non sono solo pezzi di ferro ma hanno cuore ed anima. Per Aurelio queste moto sono il simbolo dell’ingegno e del-le capacità italiane, simbolo delle famiglie del bel paese perché chi possiede uno di questi bolidi non lo vende ma lo tramanda alle generazioni future, come è accaduto alla sua famiglia dove il padre comprò una Airone Sport 250 che ora è conservata in un posto speciale del suo museo.Arrivati al museo in via Porara a Mirano, Aurelio ci accoglie con l’entusiasmo di un bambino aprendoci una enorme porta blindata dietro la quale è custodito il suo tesoro. Come prima cosa ci mostra orgoglioso una foto che lo ri-trae nel 1975 con alcuni amici e le moto da cross con cui partecipavano alle gare di regolarità. Inizia poi a raccon-tarci qualche aneddoto sulle sue “signorine” a due ruote di cui ne conserva 80 esemplari in questo edificio, alcune più uniche che rare e restaurate tutte personalmente da lui con riverenza “ci vuole rispetto nel mettere le mani su questi capolavori di ingegneria per quell’epoca ma anche per la nostra”. La collezione parte dagli anni venti, ricor-diamo che la Guzzi è nata nel 1921 a Mandello del Lario, e va fino agli anni ‘80 circa. Ogni aspetto del museo è molto curato ed organizzato con una logica ben precisa: al cen-tro della sala del piano terra sono disposte le moto da cor-sa davanti ad un poster gigante con una foto dell’arrivo di una gara con moltissimi spettatori, sul pavimento piastrel-le grigie che ricordano l’asfalto e al centro e ai lati quelle bianche a disegnare una strada. Le moto turistiche sono tutte intorno disposte a ferro di cavallo e sul soppalco, alle pareti molti cartelli ed insegne dell’epoca, della Pirelli e

delle altre marche di ricambi meccanici, una vecchia pom-pa di benzina, sezioni di motore e addirittura una stanza dedicata alle radio e ad altre meraviglie tecnologiche di quegli anni. Gli ci sono voluti 25 anni per trovarle tutte e moltissimi sono stati i chilometri percorsi in lungo e in lar-go per l’Italia e non solo. Gli si illuminano gli occhi mentre ci racconta le storie di ogni singola moto, è palpabile la sua passione ed i suoi ricordi ci conducono in un viaggio nel tempo, nel passato e nella storia. Descrivere tutte le ottanta moto e le loro storie in queste pagine sarebbe im-possibile, bisogna vederle e sentire i racconti dalla voce di chi le ha raccolte, lasciandosi ammaliare dalla gentilezza, passione, semplicità e dalle conoscenze del sig. Rampazzo e di sua moglie Nicoletta, che ci ha accompagnati insieme a lui in questo giro storico. E’ impressionante la quantità di informazioni meccaniche e tecniche che ricorda Aurelio, come la differenza di colore rosso per le moto da corsa e verde per quelle turistiche, ci spiega che la tonalità di ver-de scelta dalla casa madre ricorda i mezzi militari ma non ne connota la funzione in questo caso, ci racconta anche che la Guzzi era l’unica che aveva un serbatoio a parte per l’olio motore che serviva, oltre alla lubrificazione, ad ab-bassare la temperatura dell’olio che percorrendo il circuito in piccoli tubicini per tornar al serbatoio dissipava il calore aumentando così l’affidabilità del motore. Proseguiamo il nostro tour con una delle prime moto prodotte dalla casa di Mandello del Lario, che ha finale di targa numero 55 (la prima messa su strada aveva il 51!) e proviene da San Donà di Piave, subito dopo troviamo una quattro valvole del 1925 tra le prime restaurate da Aurelio, lo stesso mo-dello vinse nel ‘24 il primo Campionato d’Europa con una media di 130 km/h correndo su una pista di terra battuta con il pilota Primo Moretti e recuperata dal nostro colle-

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zionista al consorzio di Senigallia dove veniva usata per trasportare farina. Alla domanda riguardo a quale pezzo fosse più affezionato o quello che non venderebbe mai ha risposto “non ho una preferita, non c’è un’ape regina, tut-te concorrono a fare la collezione” salvo poi mostrarci alla fine del percorso il pezzo forte, la moto di suo padre. Tutti gli esemplari nel museo sono perfettamente funzionanti e provati su strada personalmente da Aurelio; gli abbiamo chiesto il costo di queste moto e il prezzo andava dalle 9 mila alle 12 mila lire alle quali però, bisognava aggiun-gere mille lire per l’impianto elettrico delle luci, ma, visto il costo, fino agli anni trenta uscivano dalla casa senza impianto che venne messo di serie solo dopo quegli anni.Una storia carina che ci ha raccontato è quella di due moto uguali vendute insieme a Napoli ma una era andata a fi-nire a Brescia, lui è riuscito a riunirle dopo 80 anni nel suo museo ed ora sono esposte una di fianco all’altra. La signora Nicoletta ci spiega che la cosa più interessante è la ricerca meticolosa fatta per ogni esemplare: documenti originali, storia, vita, aneddoti e articoli di giornali o ma-nifesti grazie ai quali è possibile capire il periodo storico di questi bolidi. Molti dettagli e accorgimenti particolari sono dovuti proprio al periodo in cui sono state prodotte, un esempio è il fatto che negli anni ‘40 non si potevano immatricolare le moto da corsa a causa della guerra, ma era consentito solo per uso lavorativo, la differenza si vede nella numerazione del telaio, e lui ne ha una immatricolata come motocarro come ci fa vedere dalla punzonatura sul telaio. Il signor Aurelio ci ha spiegato che cerca e conserva solo esemplari originali, nessuna riproduzione, e individua quelle che siano nel miglior stato possibile perché sono più belle, ma anche di carrozzeria il meno restaurate possi-bile, meglio a volte che abbiano anche con un pizzico di

ruggine. Nei primi anni ha restaurato e ridipinto diverse moto poi pentendosene perché hanno perso il loro valore e la loro bellezza non avendo più il colore originale.Ci ha mostrato una vignetta disegnata per un giornale re-lativa ad un pilota scorretto, che guidava una delle moto presenti nel museo, intento a spargere chiodi sulla pista per far scoppiare le ruote degli avversari e che scoperto stava rischiando il linciaggio da parte degli spettatori. Poi una Albatros da corsa prodotta e non modificata dagli in-gegneri o dai piloti, così come è uscita dalla fabbrica, che ha vinto una gara in Australia e che poi non ha più corso. Ci ha parlato del pilota Artur Wheller che era anche un eccellente meccanico e preparava lui stesso le sue moto, mostrandoci l’esemplare con cui ha gareggiato nel cam-pionato del ‘62 ed anche il suo casco. Nel museo è presen-te anche uno dei due unici esemplari di moto da record di velocità con cui la Guzzi ne conquistò ben 14. Tante sono le storie che racconta, ci si potrebbe scrivere un libro e speriamo lo faccia, tante le informazioni storiche e mec-caniche che abbiamo ricevuto, impossibile scriverle tutte, qui ne abbiamo raccontate solo alcune, ma vi consigliamo di andare a trovare il signor Aurelio e le sue Guzzi e di farvi raccontare da lui le interessantissime storie, lasciandovi trasportare in questo meraviglioso viaggio nel tempo che vi farà anche capire la bravura dei meccanici e degli inge-gneri di questa casa motociclistica italiana. Fatevi conqui-stare dalla passione di quest’uomo e di sua moglie, due persone gentili ed alla mano ma molto colte e non andate via senza farvi coinvolgere nelle altre collezioni e passioni di Aurelio come le circa 500 biciclette Graziella o le 800 moto di tutte le marche che conserva in un altro capanno-ne. Chissà, magari in uno dei prossimo articoli potremmo parlare proprio di una di queste sue altre collezioni!

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o l t rem a n i f e s t a z i o n eTesto di Marta Toso

Foto di Omar Argentin, Marta Toso

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“la diffusione della cultura, della musica e dell’arte del XVIII secolo” attraverso un serio ludere. Questo gioco di parole rappresenta appieno l’attività dell’associazione, che parte dallo studio e dalla ricerca per arrivare alla diffusione della cultura mediante il gioco, il piacere della compagnia, il divertimento di appuntamenti che coinvol-gano il pubblico, come la rievocazione storica che si è svolta appunto a villa Sorra.Impressiona come le comparse siano filologicamente co-erenti con l’epoca rappresentata, vestendo abiti ed ac-cessori interamente confezionati a mano. Ma ancora più

sorprendente è come lo siano nei modi, nel muoversi con grazia e nel parlare con garbo, lasciando intuire di aver fatto proprio quel savo-ir-vivre che caratterizza il periodo da cui sono così affascinati. Ecco la spiegazione da parte delle fondatri-ci del perché tra tutti i personaggi storici pro-prio Maria Antonietta generi in loro tanta am-mirazione: “Maria Anto-nietta è un personaggio che affascina per il suo dualismo. Figlia dell’im-peratrice d’Austria, a soli 14 anni lascia il suo Paese, la famiglia e gli amici per trasferirsi in Francia e sposare l’e-rede al trono. Esclusa dalla politica in quanto donna, viene presto cri-ticata per i suoi costosi passatempi e le amici-zie delle quali si circon-da. Allo scoppio della Rivoluzione Francese, Maria Antonietta è una regina odiata dal pro-prio popolo e abban-donata dalla classe no-biliare. Privata di ogni agio e separata dai pro-pri figli, viene rinchiu-sa nella prigione della Conciergerie, ma negli

ultimi anni, fino alla tragica morte, dimostra una forza d’animo e una dignità senza precedenti. Maria Antonietta ha vissuto in un’epoca storica di grandi mutamenti e ha forse affrontato un destino più grande di lei, ma proprio quando viene privata di ogni certezza, dimostra di essere la regina che non era mai stata”.

l a s t o r i a m e s s a i n p ra t i c a

Strani incontri ha fatto lo scorso 6 settembre chi si è recato al parco di Villa Sorra (in provincia di Modena) per una passeggiata domenicale: graziose dame in sontuosi abiti settecenteschi e fieri cavalieri impegnati in attivi-tà apparentemente fuori dal tempo. Non è stato un in-cantesimo, nessuna macchina del tempo, è tutto merito dell’AIMANT Associazione Italiana Maria Antonietta e del-la sua terza edizione della rassegna “Una giornata nel ‘700”. Il parco della villa offre uno scenario suggestivo: laghetti, antiche rovine, ponti e sentieri misteriosi fanno da sfondo ideale per giochi e passatempi d’epoca. Dopo ore di accurata preparazione, con ab-bigliamento, belletto e accessori impeccabil-mente a tema, i figu-ranti sono pronti ad ac-cogliere i visitatori.La giornata si svolge con delle visite guidate pomeridiane che per-mettono al pubblico di immergersi per un po-meriggio nell’atmosfe-ra gaia e frivola di una nobile famiglia della seconda metà del Set-tecento.Durante la passeggia-ta, o per meglio dire la promenade, i visitatori hanno incontrato, negli angoli più pittoreschi del parco, dei tableaux vivants in cui i figuran-ti riproponevano scene tipiche di villeggiatura del tempo: la lettura, il ricamo, il pettegolezzo, il gioco d’azzardo, di so-cietà e campestre, e il corteggiamento.Come nasce il prgetto:L’associazione AIMANT è nata grazie alla pas-sione comune di quattro ragazze per l’ultima re-gina di Francia. Il diret-tivo Aimant è composto infatti da Alice Mortali (presidente), Claudia Solacini (vice-presi-dente), Anna Arivella (segretaria e tesoriere) e la preziosa collaborazione di Jessica Dalli Cardillo (socio fondatore) per gli eventi in costume e rievocazioni storiche (confezionamento abiti).Dalla voglia di incontrarsi e condividere questo interes-se con altri appassionati di storia e di arte si è formato un gruppo più nutrito di persone, e all’attività di ricerca storica si è affiancato il progetto di promuovere

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o l t res o c i a l eTesto di Francesca Bomben

Fotografie di Massimo Bonutto

b e nve n u t i a l l ' E Z 's p l a c er i f u g i o d e l c a v a l l o

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È “il posto” di Evelyne Zedan: uno spazio immerso nella campagna pordenonese ai piedi delle Prealpi Friulane. La scelta del nome è nata da un gioco di assonanze. Suo-na infatti come “Easy Place”, un posto semplice; come semplice è l’idea di fondo che sostiene e anima Evelyne e i volontari che vi operano: offrire agli ospiti del Rifugio una vita da cavallo. E basta. Semplicemente una vita da cavallo. Ma a ben vedere, di easy, qui ce n’è meno di quanto si immagini. La farm sanctuary “Il Rifugio del Cavallo” nasce nel 2008 ed è la prima ONLUS dedica-ta esclusivamente alla cura di questi animali istituita sul territorio italiano. Negli anni dai trailer sono scesi a fa-tica cavalli distrutti dall’agonismo, cavalli ritenuti inutili perché non più redditizi, o cavalli con patologie diven-tate pesanti perché trascurate da troppo tempo; alcuni in condizioni fisiche pietose al limite della sopravvivenza o con aberrazioni psicologiche dovute al sopruso e alla noncuranza con cui erano stati detenuti. Arrivano al Ri-fugio perché sequestrati dalle forze dell’ordine, segnalati da privati o da associazioni animaliste, riscattati da si-tuazioni di sofferenza e degrado che li avrebbero porta-ti a morte certa. Diciannove sono attualmente i cavalli ospitati e in loro compagnia ci sono anche tre asini, due capre, cinque vecchie galline, un branco di cani anziani o con disabilità e vari gatti. Tra i cavalli, quindici sono quelli scartati dall’agonismo, malati, invalidi o salvati da situazioni di degrado e abuso. Alcuni sono dei veri e pro-pri “pacchi viventi”, abbandonati dai proprietari al Rifugio senza più farsi rintracciare, se non addirittura lasciati al cancello di casa. C’è la dolce Cee Tari Baby (Baby per gli amici), pluriblasonata quarter americana, finita poi a vivere sola sotto una tettoia in mezzo ad un campo acquitrinoso senza altro riparo, per la quale non sono valse le segnalazioni di maltrattamento ma che solo il ri-scatto ha salvato. C’è il piccolo Devil, beniamino di tutti, entrato al Rifugio con la laminite in stato avanzato e che fa l'aerosol tutte le sere assistito dall’inseparabile amica, la capretta Giselle. C’è Rumh, vera signora classe 1978, arrivata con patologie respiratorie gravi e in deprivazione sensoriale e sociale. La possibilità di concedersi di intera-gire con i pari e con gli umani è avvenuta dopo l’introdu-zione paziente, graduale e monitorata con altri compagni di paddok. C’è Billy: arabo intelligentissimo al Rifugio… da sempre, che ha vissuto recluso e all’ingrasso in vista della macellazione. «Tutto è iniziato anche a causa tua!» si sente Evelyne ripetergli spesso mentre gli assicura il cellulare che la chiamerà qualora Billy dovesse cadere.Poi c’è il fascinoso Beethoven per il quale c’è voluta tutta l’inventiva, la dedizione e la caparbietà di Evelyne, dei volontari e dei veterinari per dargli sollievo dal cancro al fettone. C’è Beauty: destinato al macello perché feri-to e rimasto cieco ad un occhio. Lasciato agonizzare fra i dolori per mesi senza cure perché, essendo destinato al consumo alimentare, per legge non doveva assumere farmaci antidolorifici. Ora ha cambiato vita e cambiato nome. Si chiama Lucky. La sua fortuna è stata che alcu-ni attivisti venissero a sapere di lui e lo portassero via da quell’orrore. Seconde vite per loro e per tutti gli altri numerosi ospiti. Sì perché il motto di Evelyne Zedan è «Siamo qui e stiamo facendo tutto questo per dare ai ca-valli una seconda possibilità». Una seconda possibilità di essere cavalli e non cavalli al servizio di qualcuno. Cavalli portati lontano dalla schiavitù del lavoro, dalle esibizioni, delle gare, dalle rappresentazioni, delle scommesse, dai giri turistici. Semplicemente cavalli.

Ma chi è Evelyne Zedan? La vita e gli interessi di Evely-ne sono eclettici e versatili almeno quanto lo è il suo passaporto. Di nazionalità francese, è cresciuta in Ger-mania per approdare poi in Italia con un impiego in cam-po editoriale; lavoro che ha poi lasciato per acquistare un’azienda agricola con l’intento di potersi finalmente dedicare a tempo pieno alla passione e all’amore che la accompagnava da sempre per queste creature. «In Italia avevo conosciuto un commerciante. Trattava cavalli che venivano scartati dai circuiti delle gare. I fine carriera: quei cavalli per i quali le porte dei box si era-no finalmente aperte ma che erano attesi, da lì a poco, davanti a quelle del macello. Io mi proposi di rimetterli in salute per permettergli di rivenderli come animali da compagnia. Per molti di loro il destino cambiò». E men-tre Evelyne risaldava il forte legame e l’intesa che da quando era bambina aveva avuto con questi stupendi animali, comprendeva che anche questo non sarebbe bastato a salvarli. Sentiva che c’era qualcosa di forte-mente dissonante. Così prese con sé due cavalli definiti irrecuperabili, abbandonò l’idea di allevarne di propri, e iniziò a dedicarsi a tempo pieno a quelli che avevano bi-sogno di vivere una vita più etica, armonica e a quelli che avevano bisogno di cure mediche e comportamentali. E lo ha voluto fare dandosi come obiettivo quello dell’agire nel maggior rispetto possibile delle esigenze etologiche, tenendo costantemente un’attenzione olistica all’approc-cio salutistico, ricercando instancabilmente il meglio e l’innovativo, senza accanimento e mai trascurando l’aspetto

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sociale e interattivo. Ma allora siamo arrivati davvero in casa della «Donna che sussurra ai cavalli»? No, non fatevi sentire da lei: vi risponderà che noi umani non abbiamo proprio nulla da dire ai cavalli e che faremmo bene a stare in silenzio per una buona volta e metterci in ascolto, perché sono loro - piuttosto - che hanno molto da dirci e da insegnarci. Siamo in casa di chi ha una vita fatta di levatacce mattutine e sorveglianza notturna (con qualsiasi tempo e senza festività), menù personalizzati, medicazioni, protocolli sanitari da rispettare, strigliature e cure, terapie, pulizia, emergenze, studio e aggiorna-mento, accoglienza, formazione. Chi viene al Rifugio e legge le date di nascita dei cavalli che vi sono ospitati solitamente è incredulo e chiede «Ma quanto vive un ca-vallo?». «Con le cure adeguate anche 44 anni, come per Nonnina che ci ha lasciati qualche anno fa e che è finita su parecchi giornali!» Ecco, quando il passato di abusi e incuria ritorna e presenta il suo conto, quando tutte le cure e le attenzioni diventano inefficaci, questo è davve-ro il momento meno easy all’EZ’s Place. Il momento per prepararsi a salutare un amico che ci ha concesso fidu-cia, che ci ha permesso di essergli compagno e che ci sta facendo capire che è arrivato il tempo giusto per poter andare. L’ultima domanda che i visitatori fanno, prima di uscire dal cancello è: «Ma chi paga tutto questo? Il cibo, i sussidi, i veterinari, gli interventi chirurgici, le medicine, i pareggiatori, gli osteopati, i terapisti e tutte le spese per mantenere un posto così grande?». L’EZ’s Place, Ri-fugio del Cavallo è un’associazione senza scopo di lucro che non accede ad alcun tipo di sovvenzione e si mantie-ne soltanto grazie alle donazioni e al lavoro dei volontari. Le istituzioni non tutelano in alcun modo gli equini poiché

non sono considerati degli animali d'affezione (come lo sono i cani, per esempio). Sono invece ritenuti animali da reddito e come tali sottoposti alle leggi della filiera alimentare. È bene concedersi il tempo per informarsi di più su questi animali e fare qualche riflessione prima di contattare un commerciante per volerne acquistare uno: sono creature con esigenze sociali di branco, molto sen-sibili, bisognosi di cure costanti e di attenzioni speciali.E sono molto longevi. Un cavallo che entra in età geria-trica o un cavallo che si infortuna o improvvisamente si ammala, non deve vedere l’esistenza che ha donato in modo così fedele e disinteressato, consegnata senza scrupolo alla mano che lo ucciderà, ma deve trascorrere i suoi anni in un ambiente amorevole con le corrette at-tenzioni e cure.Se volete conoscere le altre storie del Rifugio, conoscer-ne il team di volontari o farne parte; se volete trovare un posto dove far trascorrere la vecchiaia al tuo compa-gno di una vita, venite a conoscere i cavalli e i volontari dell’ “EZ’s Place Rifugio del Cavallo Onlus” a Montereale Valcellina. Se non potete raggiungerci, potete però acce-dere alla formula di adozione a distanza o potete sovven-zionarci tramite il cinque per mille, o con una donazione. Per sapere come fare e per conoscere quali siano le no-stre iniziative, seguiteci in internet

http://www.rifugiodelcavallo.org/http://www.zedanranch.detrovi il “Rifugio del Cavallo” anche su twitter e facebook.Il Rifugio del Cavallo è in via San Martino 94 a Montereale Valcellina, Pordenone.Per contatti telefonici con Evelyne Zedan +39360593236

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o l t rem o s t r a Intervista di Michele Gregolin

evo l u t i o v i s i osulle orme di gabriele basilicomostra di giovanni cecchinatoIncontriamo Giovanni Cecchinato prima della sua impor-tante mostra personale che verrà inaugurata, al Centro Culturale Candiani, il 14 Novembre 2015 e con lui, fo-tografo raffinato e di grande esperienza, cerchiamo di capire le motivazioni e come nasce un progetto così im-pegnativo.

Ci vuoi raccontare da dove parte l’idea?Era settembre del 1996 e al Padiglione Italia, ai Giardini della Biennale di Venezia, venivano esposte 6 sequenze di foto che rappresentavano delle ipotetiche vie di comu-nicazione basate sui due assi Ovest-Est e Nord-Sud del territorio italiano. Le foto erano parte di un progetto di Stefano Boeri ed erano opera di Gabriele Basilico. Il pro-getto mirava a rappresentare questi assi di comunicazio-ne e a far emergere gli spazi inabitati, creando una nuo-va maniera di raccontare fotograficamente gli ambienti urbani che tutti noi viviamo. Il tutto venne poi raccolto

in un libro firmato dai due autori dal titolo “Italy - Cross Section of a Country”. Questo progetto diede modo a Gabriele Basilico di re-introdursi nel florido territorio del Nord-Est, in quel momento ricco di contraddizioni, ma dopotutto conosciuto per via di relazione materna e dunque ancorato ai sentimenti di una gioventù passata nel trevigiano nei momenti di pausa estivi. Nel 2001, in occasione della collettiva “TerraFerma”, Gabriele Ba-silico ripercorre in specifico i luoghi dell’Urbe Mestrina per poi esporli al Contemporaneo di Mestre. In questa esplorazione visiva, egli permette l’emergere di visioni nascoste in una città senza forma, cresciuta a dismisu-ra e senza concetto, motivata solo dall’essere abitata o come si dice “nata per far dormire gli operai”. Ed è lì dove lo incontro e rimango incantato dal suo lavo-ro. Le foto di Gabriele Basilico per me erano “pazze-sche”. Come in maniera magica Escher ci prende in giro e ci stupisce nei suoi percorsi alla Mobius, così Gabriele Basilico mi fece scoprire una città che abitavo ma non guardavo e il suo lavoro mi restò impresso in maniera indelebile. In un bianco e nero essenziale, tramite una percezione personale che lo contraddistingue e ne rende ogni inquadratura una visione esclusiva, alla maniera di un alchimista della realtà che prende il piombo e lo tramuta in oro, lui vide Mestre e la rappresentò sia con critica che con grazia, quasi a far emergere una bellezza che risiede nei dettagli ma si perde nel contesto.

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Non a caso la manovra chirurgica delle inquadrature, in-tese a non includere ciò che disturba ma custodisce solo ciò che può esserne esaltato, permettono a chi fruisce delle immagini di restare stupito di fronte a manufatti fino al momento prima anonimi o addirittura mai scorti. Parlaci più nel dettaglio di questo tuo progetto.Per ciò che mi riguarda, parto dalla considerazione che nell’affrontare la professione di fotografo, spesso i temi e le necessità di adempiere bene ad una commissio-ne, inducono ad esplorare tutte le possibili difficoltà e a trovarne una soluzione adeguata. Solo dopo un duro apprendistato e molte esperienze negative si può crea-re una visione propria. Pertanto come disse Lewis Baltz “Analogamente ad altri sistemi, anche le strategie arti-stiche offrono più informazioni riguardo a se stesse nei momenti di disfunzione rispetto a quando procedono senza intoppi”. Ne consegue che nel procedere della cre-scita professionale, si acquisisce una sensibilità propria ed una capacità di giudizio dovuta ai confronti continui che non hanno niente a che vedere con la visione di mas-sa. Dico ciò perché quando intrapresi nel 2011 l’inizio di questo progetto ero reduce da vari tentativi di visione su Mestre, quasi tutti effettuati con macchine reflex, che pensavo potessero essere sufficientemente apprezzabili ma che, alla fine, non lo erano. Solo con l’introduzionedi una macchina tecnica cominciai a capire come espri-mere la mia visione adeguatamente.

Nello sviluppo del progetto in questi anni, inoltre, il con-fronto con la visione di Gabriele Basilico, mi ha più vol-te interdetto e instillato il dubbio sulla prosecuzione del lavoro, ma si sa, certe idee sono dure a morire. La mia poi verteva sul fatto che mi sarebbe piaciuto poter rive-dere la mia città a distanza dalla sua visione e capirne le evoluzioni o le involuzioni. Mano a mano che il tempo si svolgeva, il modus operandi si è affinato ed i risultati divenivano finalmente apprezzabili. Ed ecco che in que-sto ultimo anno il progetto in toto prendeva una forma propria e poteva esserne apprezzato per completezza e rigorosità. In un incontro con Giovanna Calvenzi, mo-glie del defunto fotografo, le parole emerse sul progetto sono proprio quelle di “completezza e rigorosità”. In un confronto con i docenti dell’Università di Architettura di Venezia, invece, sono emersi i temi di importanza del progetto al fine di una identificazione che permetta alla città di discostarsi dal termine “non luogo”. Insomma un insieme di 57 immagini di largo formato che, sia in bian-co e nero sia a colori, dovranno permettere di esaminare lo sviluppo urbano di Mestre dopo 15 anni dall’esame del famoso fotografo. Perchè Evolutio Visio?Il titolo del progetto incarna e assimila una molteplicità di interpretazioni. Per quanto i termini latini siano inequi-vocabili, a seconda della visione mi piace sperare che le risultanze possano cambiare.

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Evolutio nel termine latino sottintende un atto, che non ha niente a che vedere con la logica Darwiniana in sé, ma include invece il gesto di svolgere un volu-me od un plico. Io l’ho sostituito con il gesto, o meglio con quello che è l’atto fotografico. Nella Visio, invece, viene inteso il punto di vista od il concetto, il ritengo sia la base di ogni singolo progetto, la partenza da un concetto. Assieme possono dare l’idea di essere geni-tori di un evoluzione sia della maniera di guardare siadella possibile maniera di vedere o vivere la città. In questo titolo si concentra tutto il progetto fotografico e la spiegazione che si può avere su di esso, lasciando neutro ogni ragionamento in loco e tuttalpiù riman-darlo a posteriori se vi è necessità di esso.

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o l t rer e d a z i o n e A cura dell’Università Popolare di Camponogara

un servizio di oltre diventa mostra fotografica

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Un servizio fotografico realizzato dalla nostra redattrice Mirka Rallo, e pubblicato su Oltre N 4 Marzo 2015 è diventato una mostra al Photoshow, prestigioso salone della fotografia in programma a Milano dal 23 al 25 ottobre. Invitiamo tutte le persone che avranno modo di visitare il Pho-toshow di Milano di soffermarsi alla visione del progetto fotografico della nostra redattrice.Le foto realizzate sono state presentate ad un concorso fotografico, e da li segnalate per far parte della mostra. Questa partecipazione, ci rende orgogliosi e dimostra che nel percorso del nostro Laboratorio, si possono creare delle situazioni interessanti per i singoli redattori, dando loro la visibilità che spesso hanno bisogno, ma che poche strutture mettono a disposi-zione. A Mirka Rallo vanno i complimenti del Direttore e di tutta la redazione di Oltre.

al photoshow di milano

camponogara fotograf ia IV edizioneL’università Popolare di Camponogara ha il piacere di invitarvi alla IV rassegna Camponogara Fotografia. Gli incontri si svolgeranno presso l’aula Consiliare del Comune di Camponogra, Piazza Mazzini 1. Incontri: venerdì 20 Novembre Alberto Roveri, venerdì 11 Dicembre Ettore Ferrari, venerdì 22 Gennaio Camilla Morandi, venerdì 5 Febbraio Alessandro Bianchi, Venerdì 19 Febbraio Umberto Verdoliva, venerdì 4 Marzo Giulio Ciamillo.La rassegna è accreditata all’Ordine dei Giornalisti, per i crediti formativi.Il costo per accedere alla sarata è di € 5.00. Direttore artistico della rassegna Michele Gregolin.

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I l m o n d o s u l l a p u n t a d e l l a l i n g u a

o l t reu . p . c Testo di Anita Nardo

“Imparate una nuova lingua e avrete una nuova anima.” Così recita un proverbio ceco.In Africa invece si dice che “ Un uomo che parla una lingua vale un uomo, un uomo che parla due lingue vale due uomini, un uomo che ne parla tre vale tutta l’umanità”.Quando decidi di imparare una lingua o di migliorare la tua conoscenza di questa, lo fai perché vuoi capire di più ciò che gli altri ti dicono, vuoi esprimere al meglio ciò che intendi dire, vuoi viaggiare altrove, conoscere, scoprire, entrare in relazione con gli altri, ma anche leggere capo-lavori della letteratura senza la mediazione di un tradut-tore o vedere un film straniero senza doppiaggio…in altre parole vuoi aprire le finestre sul mondo e comunicare con esso. Chi decide di impegnare un po’ del suo tempo per rimettersi in gioco con lo studio di una lingua stranie-ra sa che sta facendo un ottimo investimento, non tanto perché “ è costretto a farlo per lavoro”, quanto perché può toccare con mano il progresso della sua conoscenza. Certo, all’inizio è come in una palestra, dove si fatica un po’, bisogna esercitarsi e non tutto viene facile al primo giorno, ma con l’intraprendenza e la perseveranza, che poi sono il motto dell’Università Popolare, la lingua un po’ alla volta si scioglie, gli errori diminuiscono e si ca-pisce sempre qualcosa in più, si acquista sicurezza, vo-glia di parlare, partire, mettersi alla prova. All’Università Popolare di Camponogara i corsi di lingua sono sempre stati una delle colonne portanti: gran parte dei corsisti scelgono proprio questi e in ognuna delle sedi dell’Asso-ciazione sono sempre presenti. Negli anni c’è stato un continuo incremento dell’offerta, sia in termini di numero di corsi sia di diversità di idiomi insegnati.

All’inizio c’erano l’inglese, indispensabile, il francese, af-fascinante, il tedesco, sempre utile e poi sono arrivati lo spagnolo, il giapponese, il russo, il cinese, il greco, l’arabo e il portoghese.Assieme alle lingue più parlate, più “spendibili” nel mon-do del lavoro, le persone hanno potuto scegliere anche quelle più esotiche, musicali, la lingua parlata dalla per-sona amata…Nell’anno accademico 2014-2015 il dipartimento di Lin-gue si è cimentato con due nuovi progetti , due esperi-menti: “Cinema Nights” un cineforum in inglese con di-battito in lingua e i corsi estivi ideati per bambini uscenti dalla primaria che inizieranno l’avventura della scuola secondaria “ Summer Step Up”, ed “ España kilometro 0”. Entrambe le esperienze hanno avuto un buon esi-to e hanno messo in evidenza come le persone abbia-no voglia di provare cose nuove. Il Dipartimento ha così gettato i semi per nuovi progetti che intende riprende-re ed arricchire in futuro, ampliando le iniziative anche altre lingue. Tutto rientra nella mission che l’Università Popolare da sempre si prefigge, offrire la possibilità di continuare a formarsi e ad imparare per tutta la vita, è il famoso Long Life Learrning, e quello di creare aggrega-zione tra persone, consolidare le comunità, non solo di Camponogara, dove l’Associazione è nata ma anche nei comuni che adesso raggiunge con le sedi. Ci piace l’idea di contribuire a creare nel nostro territorio una rete fatta di relazioni tra persone e crediamo che saper comunica-re con gli altri e capirli sia un modo per abbattere muri e frontiere che tra le persone non dovrebbero esistere.

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o l t re s c a t t o Testo di Paola Poletto

E’ il 1978 quando Marco Romano e Augusto Cagnar-di dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, decidono di stimolare nei lettori della loro rivista una discussione sulla trasformazione della città di Milano e chiedono al fotografo Gabriele Basilico di realizzare un servizio fotografico sulla città. Basilico, ispirandosi ai lavori di archeologia industriale in bianco e nero di Bernd e Hilla Becher, promotori della scuola di Düsseldorf, dà vita ad un progetto fotografico nuovo ed originale, caratteriz-zato dalla presenza di costruzioni industriali, in grado di indagare l’animo più profondo della metropoli. Dalla primavera del 1978 e per due anni, in sella ad un mo-torino e accompagnato solo dalla macchina fotografica e da una mappa 1:5000, si aggira in diverse zone della città, partendo dal Vigentino, alla ricerca delle testi-monianze architettoniche più marcate ed inizia a cata-logare le aree dismesse di Milano attraverso immagini metafisiche.La città di Basilico non è mai fatta di “immagini ru-bate”, com’è nello stile dei reporter. Gabriele adotta quel modo analitico che segna la grande fotografia do-cumentaria del Novecento e che troviamo in Eugène Atget, Charles Marville, in August Sander; un modo che è alla base dello sguardo aperto e democratico di Walker Evans, suo maestro, e caratterizza la metodi-cità concettuale di Bernd e Hilla Becher. Per Basilico l’azione fondamentale è lo sguardo, che deve trovare

la giusta misura tra il fotografo, l’occhio e lo spazio. Ciò comporta tempo e si deve sapere prima cosa guar-dare. Fotografare una città significa fare scelte tipolo-giche, storiche, oppure affettive, ma più spesso vuol dire cercare luoghi e creare storie, relazioni anche con luoghi lontani archiviati nella memoria, o addirittura luoghi immaginari. Questi luoghi sono strade, edifici, piazze, scorci, orizzonti, più raramente vedute pano-ramiche, che alla fine si risolvono in un viaggio, un percorso dentro la città. Il compito del fotografo è di lavorare sulla distanza, di prendere le misure, di tro-vare un equilibrio tra un qui e un là, di riordinare lo spazio, di cercare infine un senso possibile del luogo. “La città era semideserta e un vento straordinariamen-te energico aveva ripulito l’orizzonte (…). Per la prima volta ho visto le strade e le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide e isolate su un cielo inaspettatamente blu, dove la visione consueta diventava improvvisa-mente inusuale. Ho visto così, come se non l’avessi mai visto prima, un lembo di città senza il movimento quotidiano, senza le auto parcheggiate, senza gente, senza rumori. Ho visto l’architettura riproporsi, filtrata dalla luce, in modo scenografico e monumentale. (…) Il mio rapporto di fotografo con lo spazio urbano e l’ar-chitettura (…) si è arricchito di nuovi elementi emozio-nali fino a ricomporsi, nella pratica del fotografare, in una serie di atteggiamenti costanti come codici visivi

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che spontaneamente si ripetono, generando una sor-ta di alfabeto”. L’essenziale sta quindi nell’osservare attentamente il paesaggio e farlo aderire alla propria dimensione percettiva; è stare in un posto e guardare in un punto. La centralità non è solamente una visione estremamente simmetrica dalla prospettiva centrale, ma è una centralità un po’ nascosta, che sta a metà tra quello che l’occhio percepisce camminando e quello che realmente vede. È il luogo steso che suggerisce dove stare e cosa vedere; è una visione collettiva calma dove tutto si rallenta e l’artificio della veduta è ridot-to quasi a zero L’inquadratura è molto semplice: è un rettangolo posto sull’orizzonte dove è il fotografo stes-so che decide quante informazioni dare, se usare un grandangolare o un tele, un campo stretto o largo, ….il tutto mantenendo il massimo dell’equilibrio. Gabriele trova così la sua dimensione e alla fine del viaggio nel-le periferie pubblicherà ‘Milano. Ritratti di fabbriche’, un libro che segna in modo significativo l’avvio della sua lunga ricerca sul paesaggio urbano e sulle sue mo-dificazioni nel passaggio alla fase postindustriale; libro che diventerà pietra miliare della storia della fotografia italiana di questo genere. Oltre 200 fotografie ridanno una dignità estetica alla periferia industriale milane-se abbandonata e senza storia, che raccontano com’è cambiata la città negli ultimi anni. Ma soprattutto nel libro emerge non solo la grande capacità di indagare (che può contare sulla formazione di architetto per ot-tenere risultati di grande valore compositivo), ma an-che la sua raffinata cultura fotografica, che lo rende uno dei migliori fotografi degli spazi urbanistici, figura unica che fino ad allora non era mai esistita. L’opera di Basilico si colloca nel punto in cui si incro-ciano più questioni: l’osservazione del paesaggio an-tropizzato stretto tra la fine della storia e la fine della natura, la riflessione sulla condizione di attesa e di-sorientamento dell’uomo contemporaneo, il significato dell’arte nell’epoca del più acuto sviluppo tecnologico. In questo senso la città, espressione massima del pro-cedere dell’azione umana sul territorio, nelle sue de-clinazioni più diverse, dal centro storico alla periferia, dall’urbanizzazione diffusa alla crescita delle grandi in-frastrutture, fino alle forme massime della metropoli e della megalopoli, è stata la sua ossessione; non si è fermato mai, ma ha studiato il fenomeno in Italia, Eu-ropa, Medio Oriente, Asia, America del Nord e del Sud.

Gabriele Basilico (Milano, 12 agosto 1944 – Milano, 13 febbraio 2013) è uno dei più noti fotografi docu-mentaristi europei. Esordisce alla fine degli anni ses-santa con fotografie di indagine sociale e dopo la lau-rea in Architettura al Politecnico di Milano (1973), si dedica alla fotografia con continuità. Il primo incarico internazionale è del 1984, quando viene invitato a partecipare, unico italiano, alla Mission Photographi-que de la DATAR, l’importante progetto di documen-tazione delle trasformazioni del paesaggio contem-poraneo voluto dal governo francese. Dopo qualche anno, nel 1990, riceve a Parigi il “Prix Mois de la Pho-to” per la mostra e il libro Porti di Mare. Nel 1991 con un importante progetto sulla città di Beirut, devasta-

ta da una guerra civile durata quindici anni, la sua no-torietà si sposta a un livello ancora più decisamente internazionale. Invitato alla Biennale di Venezia del 1996 con la mostra Sezioni del paesaggio italiano/Italy. Cross Sections of a Country, in collaborazione con Stefano Boeri, riceve il premio “Osella d’oro” per la fotografia di architettura contemporanea. La sua ricerca va sempre più allargandosi alle grandi metro-poli del mondo; nel 2010-2011 lavora su Istanbul, Shanghai, Rio de Janeiro. Nel 2012 partecipa alla XIII Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia con il progetto Common Pavilions, ideato da Adele Re Rebaudengo e realizzato in collaborazio-ne con Diener & Diener Architekten, Basilea. Basi-lico ha sempre intrecciato il suo instancabile lavoro fotografico sulla morfologia e le trasformazioni della città e del paesaggio contemporaneo con pubblica-zioni, attività seminariali, lezioni, conferenze, rifles-sioni condotte anche attraverso la parola scritta. Con metodi diversi ma sempre fedeli allo stile descrittivo, ha creato una ininterrotta narrazione dei luoghi, in-dagando le singole città e al tempo stesso ponendole in relazione tra loro, restituendo la straordinaria ar-ticolazione degli scenari urbani nei quali vive l’uomo contemporaneo.

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