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TITOLO OCCHIELLO XX xxxxxx 2010 ANNO I NUMERO X APERIODICO XXXXX XXXXXX NEL 2010 WWW.DOGONREVIEW.ORG CHIESTI DUE SECOLI DI CARCERE PER UNA BANDA DI SPACCIATORI Le promettono droga, poi la violentano ANNO II NUMERO 1 04 FEBBRAIO 2011 APERIODICO DROGATO IN OVERDOSE NEL 2010 WWW.DOGONREVIEW.ORG O W W

WOM - ANNO II - NUMERO 1

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WOM - ANNO II - NUMERO 1 Aperiodico drogato in overdose nel 2010

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TITOLOOCCHIELLO

XX xxxxxx 2010 ANNO I NUMERO X

APERIODICO XXXXX XXXXXX NEL 2010

WWW.DOGONREVIEW.ORG

Chiesti due seColi di CarCere per una banda di spaCCiatori

Le promettono droga, poi la violentano

ANNO II NUMERO 104 FEBBRAIO 2011

APERIODICO DROGATO IN OVERDOSE NEL 2010

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L E T T E R A V I ( p r i m a p a r t e ) - F E U I L L E T O N - S A L O T T I A S S O C I A L I

E D I T O R I A L EI L V I A T I C O D E L L ’ U S C I T A N E L S È

A voler dar adito ad un delirio di Freud, ogni volta che vi è un tabù, qualcosa di molto importante è nascosto: la nudità di Dio. Dio è nudo, ma il tabù, le maniere e le convenzioni sono

lì a ricamare dei mutandoni per velarne la nudità e dare un volto a niente. Come quando un bambino che teme il buio, che non vi sia niente, nasconde quel niente, proiettandovi una sagoma, un viso, terribile e fascinante. Le prime esperienze del sacro sotto lenzuo-la umidicce. Ma perché il sacro spaventa tanto? Perché - per stare in linea col taglio editoriale di questo numero - ad esempio, delle piante che in molte civiltà venivano considerate il viatico al sovra-regno, la carne degli dei, vengono considerate fuori legge e il suo uso penalizzato? E’ solo una questione di igiene sociale? Ma fi n dove può andare l’idea d’igiene nella mente della società? Sem-plicemente al delirio che ogni giorno è possibile riscontrare se per malocchio capita di cadere con gli occhi sui titoli dei rotocalchi giornalistici che sono ormai spacciati gratuitamente in tutte le me-tropolitane e stazioni di servizio. Le informazioni dei quotidiani non fanno male, anzi tendono a mantenere il carnaio in pieno mo-vimento senza che la maggior parte manco sembra accorgersene. Mentre le informazioni che si ricevono attraverso l’ingestione di certi tipi di piante (cannabaceae, solanacea, funghi allucinogeni, oppiacei...) sembra non siano idonee. Ma tutti si drogano, no-nostante l’innegabilità della cosa, altrimenti come si terrebbe in piedi il mercato? Certo le droghe circolano, ma non vi sono più né i riti né gli dei che accompagnano la loro ingestione. Questo nel mercato. Perché il culto delle piante non è certo un vizio che una legge possa pensare d’abolire. Finisce sempre come per ogni proibizionismo. La volontà di drogarsi è insita nell’uomo come in ogni animale. Perché l’uomo berrebbe il caff è? Perché mangerebbe? Anche mangiare modifi ca l’apparato cerebrale alla stessa maniera delle piante ‘drogate’. Si scade nell’idea della dipendenza e si pensa che le droghe siano un male sociale solo perché chi fa uso di dro-ga per dipendenza, il tossicomane della strada, il giovinello che si spara un porro, egli è già dipendente in sé, al di là della droga. Egli dipenderà dalla moda, dalla parola degli amici, dalla parola data, egli è dipendente dal proprio mondo e schiavo dei suoi aff etti. Per questo motivo la droga un tempo era custodita dagli sciamani. Non perché fosse un reato assumerle, ma perché l’esperienza richiede-va un certo sapere. Allucinare la mente. Quando una mente viene sollecitata essa subisce una serie di variazioni repentine. Se chi si assume l’onere di farsi attraversare da tali sommovimenti non ha una prontezza di spirito e una capacità di autocontrollo sovra ra-zionale, egli sarà infestato dalle visioni, dalle quali non ricaverà che uno sciabordio di visioni opprimenti. Le mente si dipana, e le voci si fanno sentire. Ci si accorge che la mente è una sorta di dondolio, come una risacca marina ininterrotta. Ma questo a patto d’aver ap-preso a togliere i denti alle serpi. Perché le immagini che invadono una mente che si dipana sono il fl usso di sensazioni che mordono la mente. Questa si sentirà oppressa fi no al momento in cui non avrà imparato a distaccarsi dalle sensazioni, eliminandone la presa su se stessi. In questo modo, anche qualora qualcuno assumesse un peyotl, o della cannabis o similia, non sarebbe per questo un drogato. Egli non dipenderebbe dalla droga, la sua dipendenza di-venterebbe solo una cerimonia, un sistema, una porta, una chiave,

per accedere a tempo debito nei boudoir degli dei - come un tempo venivano chiamate le voci e le immagini che decoravano il cosmos disegnato nell’intercapedine cranica del veggente. Il problema con la droga sembra essere lo stesso che si pone con qualsiasi altro tipo di comportamento che tende a elidere dalla mente la preminenza d’un Io. La follia è condannata col criterio medico, l’orgasmo con-dannato col criterio morale, la droga col codice penale, e ciò che sembra accomunare le tre è il fatto che nella follia, nell’orgasmo e nella droga l’io che nella doxa corrente dovrebbe mantenere il controllo pianifi catore del pensiero, venga scalzato da una potenza repentina e onnicomprensiva, che mette l’uomo in un stato di gau-dio controverso. Perché chi si fa prender da follia dall’orgasmo o dalla droga, non gioisce superfi cialmente come chi stira un sorriso di fronte a un viso sconosciuto. Ma in tutti e tre i casi, il corpo -la mente, l’individuo nella sua interezza sono messi in gioco. Il deli-rio non è la casetta delle fate, per questo meglio che i non iniziati stiano lontani da follia sesso e droga, rischiando di diventarne delle sanguisughe dipendenti che non godrebbero più di alcun eff etto benefi co, e non farebbero che perpetrare il commercio delle cose, reiterando astinenza e assuefazione. Uscir da sé, equivale accostarsi alla morte, trovarsela faccia a faccia, in piena coscienza, osservarla, non è forse per questo che Bataille ricorda una vecchia espressione popolare dell’antico francese, la petite morte, con la quale veniva designato l’orgasmo? Fuori si se è il doppio in noi, l’Horla si ri-sveglia. Ma questo terrore è fascinante. Come il buio occhieggiato da sotto lenzuola simili a un sudario, da cui il bambino sbircia, temendo e sperando. Nel terrore, mescolato con esso, unica cosa in realtà, giace l’ebbrezza. Vi è una storia, che dalle gazzette pari-gine ci trasporta al cosmico, che può far luce su tali avvenimenti. L’ebbrezza e la morte. Soma, dio e pianta dell’ebbrezza, svela qui il suo rapporto col puzzo di carogna, e fornisce forse la più profonda ragione, quella psichica di quel certo delirante tabù dell’uscir di sé:“Negli ultimi anni di Baudelaire, i vignettisti parigini lo irridevano come il poeta della Charogne. Più delle poesie erotiche, era quello il testo scandaloso per eccellenza. Nessun poeta - si diceva - aveva mai osato accostare il corpo dell’amata e la carogna abbandona-ta di un animale. Eppure qualcuno aveva preceduto Baudelaire, con audacia non minore, nel parlare di una carogna. Si trattava di

Yajnavalkya, se a lui si attribuiscono certe parole che si incontrano nel quarto kanda dello Satapatha Brahmana: “Gli dèi dispersero in parte quell’odore e lo deposero negli animali domestici. E’ questo l’odore di carogna negli animali domestici: perciò non ci si deve tappare il naso all’odore di carogna, questo è l’odore del re Soma”. Due fi gure - la donna amata e il re Soma - si rivelano nel fetore della carogna. Per Baudelaire, con un brivido di ripulsa e di segreto compiacimento. E’ l’orrore che si spalanca dietro l’apparenza, come i moderni sospettano. Perciò sono così frenetici. Fuggono, non si soff ermano, hanno paura che l’apparenza si trasformi sotto i loro occhi. Per Yajnavalkya, invece, l’accettazione è completa. Anzi si collega a una prescrizione che viene imposta a un senso molto pri-mitivo: l’olfatto, restio a obbedire. Qualcosa di remoto e possente doveva essere sottinteso in quella proibizione. Si doveva risalire al momento più pauroso per gli dèi, quando Indra aveva scagliato la folgore sull’informe Vrta, ma non era aff atto sicuro di averlo ucci-so. Allora si nascose. Acquattati dietro di lui, altrettanto dubitosi e terrorizzati, erano gli dèi. Dissero a Vayu, Vento: “Vayu, scopri se Vrta è morto o vivo; perché tu sei il più veloce fra di noi: se vive, tornerai subito qui”. Vayu accetto’, dopo aver chiesto una ricom-pensa. Quando torno’, disse: “Vrta è ucciso: fate con l’ucciso quello che volete”. Gli dèi si precipitarono. Sapevano che il corpo di Vrta era gonfi o di soma, perchè dal soma Vrta era nato. Ciascuno voleva saccheggiare il cadavere, attingerne la porzione più grande. Si ac-corsero che il soma puzzava: “Aspro e putrido si eff ondeva verso di loro: non era adatto per essere off erto né era adatto per essere be-vuto”. Allora chiesero di nuovo aiuto a Vayu: “Vayu, soffi agli sopra, rendilo appetibile per noi”. Vayu chiese un’altra ricompensa. Poi si mise a soffi are. Il lezzo cominciava a disperdersi. Gli dèi lo depo-sitarono nell’odore di carogna che è negli animali domestici. Poi Vayu soffi ò ancora. Finalmente il soma si poteva bere. Gli dèi con-tinuarono a disputarsene le parti. Intorno, il mondo era cosparso di fetide carogne. Ma anche il loro era il soma. Agli uomini sarebbe spettato ricordarlo. Se le incontravano, non avrebbero dovuto tap-parsi il naso. Durissime le esigenze dei ritualisti: il soma, la pianta inebriante che cresce sulla montagna Mujavant, poteva anche far-si trovare sempre più di rado, poteva anche sparire, ma i riti che la celebravano sarebbero continuati, identici. All’unico si sarebbe dato un sostituto. Passo fatale. Il rito si sarebbe celebrato con un’al-tra pianta, sprovvista dei poteri del soma. Ma sarebbero rimasti gli inni. E se un giorno, vagando, si fosse incontrata la carogna di un animale, era proibito turarsi il naso. Perché anche in quel corpo disfatto, come in tutti i corpi, un giorno si era depositato il soma. Anzi, quell’odore repellente era il “segno distintivo del re Soma”. Il soma è il bene allo stato grezzo. Già intollerabile in sé, diventa ancor più intollerabile quando si mescola con il “male di Morte”, papma mrtyuh. Appunto allora occorre accettarlo, inalarlo, lasciare che penetri in noi. Il bene è qualcosa contro cui la natura si rivolta. Ma bisogna domarla. A questo servono i riti. E neppure questo era suffi ciente, per i ritualisti. Il pensiero deve estendersi anche al caso. Anche all’incontro imprevisto con la carogna di un animale, men-tre si cammina in una zona poco “battuta” e la coscienza s’allerta avvertendoci, come un sussurro sibillino, che quell’odor di baga-scia, è il sentore dell’ebbrezza del Sé.

Lo spazio di colpo s’immensifi ca. Una sorta di scoramento che non appartiene al mio essere, ma sembra sia uno stato di fatto, di tutto l’organismo del cosmo intero, occlude e invade ogni cosa sia possibile chiamare essere. Sento stelle spegnersi, ecclissi di sole, e un gelo d’ombra invade il mio corpo che sembra d’un istante nientifi care. Ho fatto a pezzi tutto, e ridere sui cocci e i vetri rotti non è sempre facile, sopratutto quando ci si tagliuzza con le affi -lature delle cose rotte. Ho rotto con Joseph, ho rotto un quadro che ritenevo di alcun valore sulla testa di Anicet Charles Gabriel Lemonnier, e non ne sono aff atto pentita, ho rotto col presidente e lo stato, con il ricorso alle urne, ho rotto col mondo, e quello che è rimasto è una mente critica che non puo’ più immaginare, gioire, fare come se il mondo fosse chiuso nell’ipotalamo e da li’ eruta, creare al ritmo del proprio desiderio, ma non puo’ che constatare. Sembra che il mondo, anche quando grazie al lento apprendimen-to del desiderio reiterato e disvoluto sembrava esser scavalcato, riappare invece nelle fatezze d’un mostro dalle fauci sghignazzan-ti, in cui uomini si dibattono con la frenesia di lupi al macello, tutto è male, la sensazione d’esser un io prende il sopravvento, la conseguenze è la perdita della lucidità contemplativa e l’entrata in uno scenario ossesso di paranoie. E vedo quel gesto di Joseph, lo

svolazzo della gonna di Simone, quella battuta di René, « l’uomo è un bipede senza piume incapace di razionalizzare PiGreco  », come segni di cose che si presentano ai miei occhi COME degli enigmi. Gesti che forse non aveva voluto dire niente, di punto in bianco, diventano dei nuclei decisivi attorno ai quali far volteg-giare nodi scorsoi di domande senza risposta. Risuona in me un dubbio unico, non tanto delle domande ben formulate. Non mi pongo alcun pensiero. Ma è il pensiero che si impone, attraverso me, prende forma, carne, immagini, paure, tremolii, e deliri silenti nel chiostro del mio ventre. Scusami se attacco cosi’ bruscamente, ma stavo per esplodere e avevo bisogno di dire tutto in meno tem-po possibile. Non amo quando mi salgono le lacrime agli occhi. L’unica volta che ho pianto è stato d’una lacrima fi ssa quando persi la mia verginità e m’accorsi che la goduria, la gioia adulta non era sovraesistente come quella infantile, ma conteneva in sé la perce-zione di un eccesso. Nel bambino - vedo la mia cuginetta Alice - tutto è eccesso, ogni elemento che la circonda è per lei il luogo nel quale infi larsi e perdersi. Si dice che i bambini hanno più fantasia degli adulti. Questo non è assolutamente vero. L’unica diff erenza è che il bambino non sembra peoccuparsi della coscienza. Fu solo quando vidi questo passaggio, quando subi’ questa iniziazione al

Milice è una contrada ove ’l veglio de la Montagna solea diMorare anticaMente. or vi conterò l’afare, secondo che Messer Marco intese da più uoMini. lo veglio è chiaMato in loro lingua aloodin. egli avea fatto fare tra due Montagne in una valle lo piú bello giardino e ’l piú grande del Mondo. Quivi avea tutti frutti (e) li piú begli palagi del Mondo, tutti dipinti ad oro, a bestie, a uccelli; Quivi era condotti: per tale venía acQua a per tale Mèle e per tale vino; Quivi era donzelli e donzelle, li piú begli del Mondo, che Meglio sapeano cantare e sonare e ballare. e facea lo veglio credere a costoro che Quello era lo paradiso. e perciò ’l fece, perché MalcoMetto disse che chi andasse in paradiso, avrebbe di belle feMine tante Quanto volesse, e Quivi troverebbe fiuMi di latte, di vino e di Mèle. e perciò ’l fece siMile a Quello ch’avea detto MalcoMetto; e li saracini di Quella contrada credeano veraMente che Quello fosse lo paradiso. e in Questo giardino non intrava se none colui cu’ e’ volea fare assesin[o]. a la ’ntrata del giardino ave’ uno castello sí forte, che non teMea niuno uoMo del Mondo. lo veglio tenea in sua corte tutti giovani di 12 anni, li Quali li paressero da diventare prodi uoMini. Quando lo veglio ne facea Mettere nel giardino a 4, a 10, a 20, egli gli facea dare oppio a bere, e Quelli dorMía bene 3 dí; e faceali portare nel giardino e là entro gli facea isvegliare. Quando li giovani si svegliavano e si trovavano là entro e vedeano tutte Queste cose, veraMente credeano essere in paradiso. e Queste donzelle seMpre stavano co loro in canti e in grandi solazzi; e aveano sí Quello che voleano, che Mai per loro volere non sarebboro partiti da Quello giardino. e ’l veglio tiene bella corte e ricca e fa credere a Quegli di Quella Montagna che cosí sia coM’è detto.

e Quando elli ne vuole Mandare niuno di Quegli giovani ine uno luogo, li fa dare beveraggio che dorMono, e fagli recare fuori del giardino in su lo suo palagio. Quando coloro si svegliono (e) truovansi Quivi, Molto si Meravigliano, e sono Molto tristi, ché si truovano fuo-ri del paradiso. egli se ne vanno incontanente dinanzi al veglio, credendo che sia uno grande profeta, inginocchiandosi; e egli diMand[a] onde vegnono. rispondono: «del paradiso»; e contagli tutto Quello che vi truovano entro e ànno grande voglia di tornarvi. e Quando lo veglio vuole fare uccide-re alcuna persona, fa tòrre Quello che sia lo piú vigoroso, e fagli uccidire cui egli vuole. e coloro lo fanno volontieri, per ritornare al paradiso; se scaMpano, ritornano a loro signore; se è preso, vuole Morire, credendo ritornare al paradiso. e Quando lo veglio vuole fare uccidere neuno uoMo, egli lo prende e dice: «va’ fà cotale cosa; e Questo ti fo perché ti voglio fare tornare al paradiso». e li assesini vanno e fannolo Molto volontieri. e in Questa Maniera non caMpa niuno uoMo dinanzi al veglio de la Montagna a cu’elli lo vuole fare; e sí vi dico che piú re li fanno trebuto per Quella paura.

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L E T T E R A V I ( p r i m a p a r t e ) - F E U I L L E T O N - S A L O T T I A S S O C I A L I

piacere, che versai l’unica lacrima che mi fece colare un po’ di ma-scara sulla guacia, e colla quale detersi quella sensazione d’essermi distaccata da me per sempre, strappato il velato imeneo. Quindi so quanto costa e sia difficile una lacrima, so il dolore che ci vuo-le per farla sgorgare, e quando sento che lentamente inumidisce il bordo della mia palbebra, anziché erutare manifestando il mio dolore, con un colpo di ciglia asciugo quella traccia, reingoio il do-lore, mando giù, digerisco la cosa con convulsive contrazioni per le quali passa ogni pensiero che sia valido non solo per l’intelletto ma per tutto il corpo. Dopodiché digerito e lavorato dagli enzimi, il dolore, cosi’ consumato e trasforato, è diventato un duro e inerte peso che chiede d’essere infine espulso. E ora che il dolore è stato digerito è possibile evitare il pianto e limitarsi a defecarlo, il dolo-re, lasciarlo cadere da noi, come un frutto troppo maturo si stacca da un ramo. Ma oggi mi sembra di annoiarti, ma ci sono tutte quelle storie con Joseph. Io non riesco più a stargli dietro, fosse per lui bisognerebbe ristabilire l’ordine sacerdotale degli antichi, e ridirezionare l’ordine sociale alla legge sacrificale, che dice che un gruppo per essere omogeneo ha bisogno di una vittima, di un esteriore, stranio, diverso, a cui fare la pelle. E Joseph dice che que-sto, volenti o nolenti noi comunque lo perpetriamo, ogni impero

ha i suoi barbari alle porte, ogni impero le sue vittime immolate nei più svariati altari della patria e la memoria. Quello che dice è che questa legge non viene più riconosciuta, e che l’uomo crede di aver abolito o di voler abolire la violenza dalla società per mezzo di costituzioni e carte dei diritti. Ma questi discorsi mi deprimo-no molto. Il sociale è cosi’ poco interessante che mi chiedo come abbia fatto a passare tutto quel tempo con Joseph, sarà perchè in effetti a sentirlo parlare non hai l’impressione di pensare al sociale, ma gli avvenimenti storici sono la cartina di tornasole di forze più possenti che la volontà e velleità umane, e l’agone politico sembra non essere altro che il risultato della caduta dell’uomo, della sua perdità e oblio del silente mormorio che insufla le nostre menti, lo Spirito Santo. E non si parlava che di queste cose. Entrava il suo caro amico Léon infuriato come fosse appena ritrornato da un corso intensivo di disgusto per il « borghese », e borbottava, « Il borghese, ossia, in un’accezione moderna e più generale possibile, l’uomo che non fa alcun uso della facoltà di pensiero e vive o sem-bra vivere senza esser stato sollecitato, una volta soltanto, dal biso-gno di comprendre quoi que ce soit », poi sbattendo il giornale sul tavolo del salotto sbottava sull’ignominia e l’idiozia che caratteriz-za i discorsi della stampa, « Dans l’Écho de Paris, article incroyable

de FrédéricMasson qu’on pourrait croire écrit par un greluchon furieux de n’avoir pas hérité d’une vieille gueuse!! », e se poi, a tar-da notte, dopo che Joseph e Léon hanno già dato vita ad ogni sorta di impropero contro la canaglia, e esaltato lo spirito grandioso del profetismo biliare e della metafisica politica, entra Max, sfondan-do una porta aperta con la sua fronte d’acciaio, anche Joseph e Léon si tacciono, e rimangono sbigottiti da quella specie di psi-copompo che li avrebbe portati a vedere di colpo che il loro tanto pregato Dio, somigliava di più a qualcosa di sempre evanescente e spezzato come l’Io Proprietario che non la loro fede. Léon e Joseph la finivano immancabilmente a cazzotti, rovesciando quel mio servizio da té (a cui tengo tanto perchè fu la cara Zia Genoveffa - superba orafa nella famiglia - che me li aveva donati alla fine del mio noviziato) e con Max che, guardandoli come si osservano due zotici dibattere al bistro’, si rincantuciava tra se e se stesso, e tiran-do fuori un taquino e una mattita dalla tasca interna della giub-ba sfilacciata, cominciava a redigere la sua strage delle illusioni:

I L POEMA DELL ’HASHISHI L g U S T O D E L L ’ I N F I N I T O

Coloro che sanno osservare se stessi e che mantengono la memoria delle loro impressioni, co-loro che hanno saputo, come Hoffmann, costruire il loro barometro spirituale, hanno potuto delle volte notare, nell’osservazione dei loro pensieri, delle belle stagioni, felici giornate, dei

deliziosi minuti. Ci sono giorni in cui l’uomo si sveglia con una genio giovane e vigoroso. Le sue pal-pebre appena scaricate dal sonno che le siggillava, il mondo esteriore di offre a lui con un rilievo pos-sente, una nettezza di contorni, una richezza di colori ammirabili. Il mondo morale apre le sue vaste prospettive, piena di chierezze nuove. L’uomo gratificato da questa beatitudine, sfortunatamente rare e passeggere, si sente allo stesso tempo più artista e più giusto, più nobile, per dirla in una sola parola. Ma cio’ che vi è di eccezionale in questo stato singolare in questo stato eccezzionale dello spirito e dei sensi, che posso senza esagerazione chiamare paradisiaco, se lo comparo alle pesanti tenebre de l’esistenza comune e giornaliera, cio’ che non è stato creato da qualche causa ben visibile e facile da definire. E forse il risultato d’una buona igiene e di un regime saggio? Tale è la prima spiegazione che si offre allo spirito; ma noi siamo obbligati a riconoscere che spesso questa meraviglia, questa specie di prodigio, si produce come se fosse l’effetto di una potenza superiore e invisibile, esteriore all’uomo, dopo un peridio in cui costui ha fatto abuso delle sue facoltà fisiche. Potremmo dire che si tratta del-la ricompensa della preghiera assidua e degli ardori spirituali? E’ sicuro che un’elevazione costante del desiderio, una tensione delle forze spirituali verso il cielo, sarebbe il regime più idoneo a creare questa salute morale, tanto eclatante e gloriosa; ma in virtù di quale legge assurda essa si manifesta delle volte dopo delle colpevoli orgie de l’immaginazione, dopo un’abuso sofistico della ragione, che è a suo uso onesta e raggionevole quello che le torri di dislocazione sono alla sana ginnastica? Per questo preferisco considerare questa condizione anormale dello spirito come una vera grazia, come uno specchio magico in cui l’uomo è invitato a vedersi in bellezza, ossia come dovrebbe e potrebbe essere; una specie di eccitazione angelica, un richiamo all’ordine su un forma lodevole. Allo stesso modo una certa scuola spiritualistica, che ha i suoi rappresentanti in Inghilterra e in America, con-sidera i fenomeni socranaturali, come le apparizioni di fantasmi, delle anime dei morti, ecc., come delle manifestazioni della volontà divina, attenta a risvegliare nella mente dell’uomo il ricordo delle realtà invisibili. D’altronde questo stato incantato e singolare, in cui tutte le forze si equilibrano, in cui l’immaginazione, anche se meravigliosamente possente, non trascina con sé il senso morale in pericolose avventure, in cui una sensibilità squisita non è più torturata dai nervi malati, questi con-siglieri ordinari del crimine o della disperazione, questo stato meraviglioso, dico, non ha dei sintomi premonitori. E’ tanto imprevisto quanto un fantasma. E’ una sorta di ossessione, ma ossessione intermittente, da cui noi dovremmo trarre, se fossimo saggi, la certezza d’un’esistenza migliore e la speranza di raggiungerla attraverso l’esercizio quotidiano della nostra volontà. Quest’acutezza del pensiero, quest’entusiasmo dei sensi e della mente, hanno dovuto, in tutti i tempi, sembrare all’uomo come il primo dei beni; ecco perchè, non considerando che la voluttà immediata, ha, senza paura di violare le leggi della sua costituzione, cercato nella scienza fisica, nella farmaceutica, nei più volgari liquori, nei profumi più sottili, in ogni clima e tempo, i mezzi di fuggire, non fosse che per qualche ora, il suo abitacolo di fango, e, come dice l’autore di Lazare “d’emporter le paradis d’un seul coup”. Ahimé! i vizi dell’uomo, tanto pieni di orrore come si suppone, contengono la prova (quand’anche non fosse la loro infinita espansione!) del suo gusto dell’infinito; solamente, è un gusto che si sbaglia spesso di cammino. Si potrebbe prendere in un senso metaforico il proverbio volgare: Tutte le stra-de portano a Roma, e applicarlo al mondo morale; tutto conduce alla ricompensa o al castigo, due forme dell’eternità. Lo spirito umano rigurgita di passioni; ne ha da rivendere, per servirmi di una locuzione triviale; ma questo spirito triste, in cui la depravazione naturale è grande quanto la sua at-titudine immediata, quasi paradossale, alla carità e alle virtù le più ardue, è fecondo in paradossi che gli permettono di utilizzare per il male il troppo-pieno di questa passione straripante. Non crede mai di vendersi in blocco. Dimentica, nella sua infatuazione, che si delibera a uno più fine e forte di lui, e che lo Spirito del Male, anche quando non gli si concede che un capello, non tarda a portar via tutta la testa. Questo signore visibile della natura visibile (parlo dell’uomo) ha dunque voluto creare il pa-radiso con la farmacia, con le bevande fermentate, simile a un maniaco che rimpiazzerebbe dei mo-bili solidi e des giardini veri con delle scenografie dipinte sulla tela e montate su un telaio. E’ in que-sta depravazione del senso dell’infinito che giace, secondo me, la ragione di tutti gli eccessi colpevoli, dall’ubriacchezza solitaria e concentrata del littérateur, che, obbligato a cercare nell’oppio un sollievo a un dolore fisico, e avendo cosi’ scoperto una fonte di gioie morbose, ne ha fatto poco a poco la sua unica igiene e come il sole della sua vita spirituale, fino all’ubriacchezza la più ripugnante delle periferie, che, il cervello pieno di fiamma e gloria, scorrazza ridicola nelle immondizie della strada.

Milice è una contrada ove ’l veglio de la Montagna solea diMorare anticaMente. or vi conterò l’afare, secondo che Messer Marco intese da più uoMini. lo veglio è chiaMato in loro lingua aloodin. egli avea fatto fare tra due Montagne in una valle lo piú bello giardino e ’l piú grande del Mondo. Quivi avea tutti frutti (e) li piú begli palagi del Mondo, tutti dipinti ad oro, a bestie, a uccelli; Quivi era condotti: per tale venía acQua a per tale Mèle e per tale vino; Quivi era donzelli e donzelle, li piú begli del Mondo, che Meglio sapeano cantare e sonare e ballare. e facea lo veglio credere a costoro che Quello era lo paradiso. e perciò ’l fece, perché MalcoMetto disse che chi andasse in paradiso, avrebbe di belle feMine tante Quanto volesse, e Quivi troverebbe fiuMi di latte, di vino e di Mèle. e perciò ’l fece siMile a Quello ch’avea detto MalcoMetto; e li saracini di Quella contrada credeano veraMente che Quello fosse lo paradiso. e in Questo giardino non intrava se none colui cu’ e’ volea fare assesin[o]. a la ’ntrata del giardino ave’ uno castello sí forte, che non teMea niuno uoMo del Mondo. lo veglio tenea in sua corte tutti giovani di 12 anni, li Quali li paressero da diventare prodi uoMini. Quando lo veglio ne facea Mettere nel giardino a 4, a 10, a 20, egli gli facea dare oppio a bere, e Quelli dorMía bene 3 dí; e faceali portare nel giardino e là entro gli facea isvegliare. Quando li giovani si svegliavano e si trovavano là entro e vedeano tutte Queste cose, veraMente credeano essere in paradiso. e Queste donzelle seMpre stavano co loro in canti e in grandi solazzi; e aveano sí Quello che voleano, che Mai per loro volere non sarebboro partiti da Quello giardino. e ’l veglio tiene bella corte e ricca e fa credere a Quegli di Quella Montagna che cosí sia coM’è detto.

e Quando elli ne vuole Mandare niuno di Quegli giovani ine uno luogo, li fa dare beveraggio che dorMono, e fagli recare fuori del giardino in su lo suo palagio. Quando coloro si svegliono (e) truovansi Quivi, Molto si Meravigliano, e sono Molto tristi, ché si truovano fuo-ri del paradiso. egli se ne vanno incontanente dinanzi al veglio, credendo che sia uno grande profeta, inginocchiandosi; e egli diMand[a] onde vegnono. rispondono: «del paradiso»; e contagli tutto Quello che vi truovano entro e ànno grande voglia di tornarvi. e Quando lo veglio vuole fare uccide-re alcuna persona, fa tòrre Quello che sia lo piú vigoroso, e fagli uccidire cui egli vuole. e coloro lo fanno volontieri, per ritornare al paradiso; se scaMpano, ritornano a loro signore; se è preso, vuole Morire, credendo ritornare al paradiso. e Quando lo veglio vuole fare uccidere neuno uoMo, egli lo prende e dice: «va’ fà cotale cosa; e Questo ti fo perché ti voglio fare tornare al paradiso». e li assesini vanno e fannolo Molto volontieri. e in Questa Maniera non caMpa niuno uoMo dinanzi al veglio de la Montagna a cu’elli lo vuole fare; e sí vi dico che piú re li fanno trebuto per Quella paura.

I L V IZ IO DELL A SOCIETàEI V IZ I DEL SOL ITARIO

Appare chiaro che nel computo dei desideri della Società, il vi-zio è una piaga da estinguere. Il

vizio isola, chi lavora al suo vizio non lavorerà per gli altri, ma non lo farà che per se stesso. Per questo motivo i profe-tismi morali hanno sempre condanna-to, il gioco, le donne, la masturbazione, il vino, sono giochi che isolano colui che li compie. Quando qualcuno gode, la Società collassa, per questo l’econo-mia è fatta di sussulti, non perchè vi sia “la crisi” quasi si trattasse di un imprev-visto o una sorta di miarcolo diabolico, ma perchè i sobbalzi erotici della for-za lavoro, han bisogno di un lusso per agghindare il desiderio, che non lascia scampo ad alcun surplus, di cui anzi si ciba con una foga eguale a quella dell’eccittato di fronte a cio’ che l’eccita. L’unico vizio che la Società ammette è il vi-zio societario. Bisogna fare, fare cose, ma tutti insieme e ognuno in vece dell’altro. Cosi’ la Società fà barricata e massa a sé, e ogni tanto dai tavolini fi-nemente ricamati di allberghi di lusso al centro, si vedono rotolare le testoline di quei solitari depravati e criminali, passati sotto il regime di rieducazione sociale. Il delitto del castigo. Perchè la società è una società per bene. Ha appreso a distogliere il naso dalle sue mondezze. L’uomo ha da sempre ucciso per sopravvivere, ma fino ad un certo momento sembra essersene ricordato. Poi sono apparsi gli strilloni e i ban-ditori e hanno coperto l’uccisione da cui si genera il lusso, con la pubblicità. L’inutilità del godimento. Questo è cio’ che la società non potrà mai gradire. Il soitario, per la Società, è un tarlo insa-ziabile che mina alla base il castelletto di legna e fumi con la quale lei sta paro-diando una leggitimità. E se non fosse il solitario a essere illegittimo, ma invece la Società? Il mondano, le cose, i fatti accaduti, le memorie personali, i souve-nir d’un cassetto, tutti questi sentimenti sublimi come delle ricette che insegna-no le maniere di comportarsi per essere qualcosa nella Società, sono solo l’eva-nescenza d’un delirio commercializza-

to, di sentimenti usa e getta. Il senti-mento non ha anime, e invece la Società chiederà sempre che la tua anima sputi del sentimento: esprimi te stesso, è l’ora-colo incrinato della Società, non è più il caso di conoscersi, le parole basteranno a dare la sembianza d’un se stessi, anche se dietro non v’è nessuno. La sembian-za. La Società sembra - sempre agli oc-chi del solitario che la scruta da lontano come chi su un balconcino ombreggiato vedesse in lontananza un nugolo di mo-sche roteanti su un cadavere - non tanto un teatro di marionette, ma un’acquario in cui galleggiano simulacri, personae. Il solitario pensa d’essere il solo vero, l’unico sopravvissuto in mezzo ai cada-veri. Egli si ritrova cosi’ a dover giocare

con la morte. Ecco il vizio su-premo. Il soli-tario fà l’amore, quasi col desi-derio necrofilo dell’assente; il solitario gioca

e scommette ma non si interessa affatto della vincita o della perdita, al bancone egli è devoto ed è pronto a scommetter-ci la testa; con la droga egli sperimenta degli stati d’asfissia che propulsano il suo corpo in overdosi fatali; il solitario sembra non fare che tutto in funzione della sua testa messa in gioco. Questo è il modo in cui la società lo circuisce. Giacché il solitario è solo per il fatto che gli altri pretendano d’essere insieme. Egli è il colpevole per antonomasia, in lui tutti i vizi che la Società non è capace di meritarsi, trovano un’incarnazione. Egli sarà punito dalla Società, che nel castigo e nella mania di correzzione e raddrizzamento ha trovato il suo di vi-zio, celare la violenza col borotalco del-le buone maniere e del politicaly correct. Cosi’ i drogati o altri viziosi non finisco-no in carceri o gattabuie, ma in ‘centri di rieducazione’, in cui vengono applicate in forme massive i metodi di coercizio-ne e sociabilità che una società col vizio del volgere gli occhi da cio’ che masti-ca, puo’ permettersi di fargli pagare.

M A S T U R B A R S I A I U T A A S T A R D E S T I .

E I A C U L A R E S T A N C A .

Page 4: WOM - ANNO II - NUMERO 1

COLLABORAZIONISTI: William S. Burroughs, The Soft Machine. Charles Baudelaire, Les Paradis Artificiels. Roberto Calasso, L’ardore.

George E. Vaillant, psichiatra della Public Health Service, specialista in forza al Lexington K. Y., ha detto: “La probabilità che si verifichi un’astinenza significativa dopo un periodo prolungato di prigio-nia coatta seguito da un periodo prolungato di su-pervisione coatta è 15 volte più alta della probabilità che si verifichi dopo un periodo di ospedalizzazio-ne volontaria”. Aggiunge che delinquenza, tossico-dipendenza, famiglie distrutte e bassifondi sono con ogni probabilità fattori interdipendenti. In America è diffusa l’opinione che le autorità stiano facendo la cosa giusta, opinione che gli interessati fanno di tutto per incoraggiare. Perchè si debba pre-stare loro ascolto quando cio’ che dicono non dimo-stra né buon senso né buone intenzioni è difficile da capire. Se gli organi governativi non sono riusci-ti a risolvvere il problema dei narcotici e nelleno a porlo in modo correttto, gli enti non governativi non hanno fatto di meglio. Recentemente sono sor-ti centri dii cura dove l’unico trattamento che rice-ve il paziente sono le preghiere. Un simile ispirato approccio quasi religioso alla malattia metabolica è imprudente. E’ logico quanto prescrivere una cura di preghiere per guarire i pazienti affetti da malaria. A New York i medici sono stati autorizzati da qual-che tempo a prescrivere metadone agli eroinomani che, grazie al trattamento, perdono il desiderio di eroina. Nell’arco di cinque anni sperano poi di di-minuire le dosi di metadone. Il metadone è un op-piaceo più forte della morfina e capace di dare al-trettanta dipendenza. Dire che un eroinomane è stato disintossicato dall’eroina grazie all’impiego di metadone equivale a dire che un alcolista è stato di-sintossicato dal whisky con il gin. Se il tossicomane perde il desiderio di eroina cio’ avviene perchè il dosaggio di metadone è più forte dell’eroina tagliata che acquista dallo spacciatore. Droga è un termine generico per definire tutte le sostanze derivate dall’oppio che danno assuefazione, incluse le droghe sintetiche: morfina, eroina, dilaudid, codeina, dio-codeina, diidrocodeina, demerold, metadone e pal-fium, per nominarne solo alcune. Esistono anche derivati e preparati oppiacei che non danno assue-fazione. La papaverina che si trova nell’oppio allo stato grezzo non dà assuefazione. L’apomorfina de-rivata dalla morfina non dà assuefazione. Tuttavia entrambe le sostanze sono classificate come narco-tici secondo lo Harrison Narcotics Act. Non solo il Congresso divide con una sua legge il mondo in gentiluomini e criminali, ma pretende anche di mo-dificare l’azione fisiologica delle sostanze narcoti-che. Qualsiasi droga provoca dipendenza. Non fa grande differenza se iniettata, sniffata o presa per bocca. Il risultato è sempre lo stesso: dipendenza. Il drogato funziona con la roba. Dipende dalla dose come un sommozzatore dall’ossigeno. Quando non puo’ più avere la roba soffre sintomi di astinenza atroci: lacrimazioni e bruciore agli occhi, qualche linea di febbre, vampate calde e fredde, crampi alle gambe e allo stomaco, diarrea, insonnia, prostrazio-ne e in alcuni casi di morte per collasso cardiocirco-latorio e shock. I sintomi di astinenza si distinguo-no da queli di altre sindromi di analoga gravità perchè recedono immediatamente in seguito all’as-sunzione di una quantità adeguata di oppiacei. I sintomi di astinenza raggiungono l’apice il quarto giorno e in seguito scompaiono lentamente in un arco di tempo che va dalle tre alle sei settimane. Gli ultimi stadi sono contrassegnati da un profonda de-pressione. Non si sa ancora esattamente quali siano i meccanismi precisi della dipendenza. Il dottor Isbell ha avanzato l’ipotesi che la droga agisca sui recettori delle cellule e cio’ spiegherebbe l’effetto an-tidolorifico e l’assuefazione. Certamente spiega perchè la roba allevia il dolore. Il fatto cheallevi il dolore dà assuefazione e tutti i preparati a base di morfina finora analizzati si sono dimostrati capaci di dare assuefazione proprio in relazione alla loro efficacia antidolorifica. Qualsiasi preparato che alle-via un dolore acuto offre un sollievo proporzionato ai sintomi di astinenza. Una morfina che non desse assuefazione sarebbe una moderna pietra filosofale, tuttavia la ricerca del Lexington attualmente è orientata in questa direzione sterile. Quando l’agen-te agisce sui recettori delle cellule viene rimosso, il corpo passa attraverso un’angosciosa fase di ricon-versione al metabolismo normale caratterizzata dai sintomi di astinenza già descritti. La domanda “che tipo di persona diventa tossicomane” ha già avuto una risposta dal Public Health Department: “Chiunque assuma per un periodo abbastanza lun-go sostanze che procurano dipendenza”. Il tempo necessario a creare dipendenza varia a seconda del-la sensibilità individuale e della forza del preparato assunto. Di solito chiunque si inietti quotidiana-mente 0,0648 g di morfina per un mese proverà un notevole malessere quando le iniezioni verranno sospese. Sono sufficienti da quattro a sei mesi di uso per dare una dipendenza completa. La dipendenza è una malattia che si contrae perché l’offerta di dro-ga è molto grande. Nel complesso diventano tossi-comani coloro che hanno acccesso alla droga. In Iran, dove l’oppio veniva venduto liberamente nei negozi, c’erano tre milioni di tossicomani. Non esi-

ste una personalità pretossicomane cosi’ come non c’è una personalità premalarica, malgrado tutte le insulsaggini psichiatriche che si sentono. (Tra l’altro è mia opinione che nove su diciannove psichiatri dovrebbero fare i veterinari e i loro libri dovrebbero essere mandati al macero). Per dirla terra terra, quasi tutti apprezzano la droga. Avendo fatto l’espe-rienza di questo piacere l’organismo umano tende a ricercarlo all’infinito. La malattia del tossicodipen-dente è la roba. Bussate a una porta qualunque. Chiunque risponda, dategli quattro dosi da 30 mg della Medicina di Dio al giorno per sei mesi ed ecco che si ritroverà con le cosidetta “personalità del tos-sicomane”... un vecchio tossico che vende franco-bolli di beneficenza natalizi in North Clark Street, il “Prete”, lo chiamavamo, con gli occhi tristi e furtivi come quelli d’un pesce morto che sembrano vedere qualcosa che gli altri non vedono. La cosa che guar-da è la roba. La personalità del tossicomane puo’ essere riassunta in una sola frase: il tossicodipenden-te ha bisogno di roba. Farà di tutto per ottenerla, esattamente come voi fareste di tutto per trovare un po’ d’acqua se foste assetati. Vedete, la droga è la personalità; un uomo triste e grigio non puo’ essere altro che droga camera ammobiliata una strada squallida stanzetta nel sottotetto queste scale/ tosse/ il “Prete” che cerca di salire aggrappandosi alla rin-ghiera bagno giallo pannelli di legno perdita nel gabinetto curvo sotto il lavandino di nuovo nella stanza adesso a sciogliere ombra grigia su un muro lontano ero io una volta mister. Io mi sono drogato per quasi quindici anni durante i quali ho provato a disintossicarmi con dieci metodi diversi. Sono stato al Lexington e ho provato la terapia a riduzione della dose, a Cincinnati il giorno dopo essere stato dimesso con il mio doppiopetto da banchiere e il “Wall Street Journal” sotto il braccio: “Mia moglie è...” “Capisco signore. Vuole il formato famiglia da

due once?” “Bé, si’, credo di si’”. ho provato cure che prevedevano una fase di astinenza rapida e una di astinenza prolungata, cortisone, tranquillanti, anti-staminici e una lunga cura del sonno. Ho sempre fatto una ricaduta alla prima occasione. Perchè i tossicomani si sottopongono volontariamente a una terapia e poi ricadono nel vizio? Credo che a un li-vello biologico profondo quasi tutti vorrebbero es-sere curati. La droga è morte e il tuo corpo lo sa. Io ricominciavo perchè, finché non mi sono sottopo-sto al trattamento con l’apomorfina, non ero mai fi-siologicamente guarito. L’apomorfina è l’unica so-stanza che conosco capace di sradicare la “personalità tossicomane”, il mio vecchio amico Opium Jones. Ci siamo frequentati parecchio a Tan-geri nel 1957, mi innietavo 970 mg di metadone ogni ora, il che equivale quasi a 2 g di morfina che è un sacco di Medicina di Dio. Non mi cambiavo mai i vestiti. A Jones piace insaporire i vestiti nell’aria stantia di una camera ammobiliata finché non si ca-pisce subito, dal cappello sul tavolo, dalla giacca ap-pesa alla sedia, che lui abita li’. Non facevo mai il bagno. Al vecchio Jones non piace la sensazione dell’acqua sulla pelle. Passavo intere giornate a fis-sarmi la punta delle scarpe comunicando con Jones.Poi un giorno ho capito che lui non era un vero amico, che in effetti i nostri interessi divergevano. Cosi’ ho preso un aereo per Londra e sono andato a trovare il dottor Dent carbone di legno nel focolare scottish terrier tazza di tè. Mi ha parlato della tera-pia e l’indomani sono entrato nella sua clinica pri-vata. Era una stanza dalla tappezzeria con le rose al terzo piano di un edificio di quattro in Cromwell Road. Avevo un’infermiera per il giorno e una per la notte e mi facevano un’iniezione di 3, 24 mg di apo-morfina ogni due ore giorno e notte. Il dottor Dent mi spiego’ che avrei potuto avere la morfina, se ne avessi avuto bisogno, ma non più di 16,2 mg per volta per le prime ventiquattro ore e dopo 8,1 mg: un dodicesimo di quel che mi facevo, un bel taglio poi il giorno successivo. Ogni tossicodipendente ha i suoi sintomi, qualcosa che più lo fa soffrire quando gli tolgono la roba. Per me era la sensazione della lenta e dolorosa morte di Mr. Jones. Sentite i vetera-ni del Lexington parlare dei loro sintomi: “Per me la cosa peggiore è vomitare”. “Io non vomito mai. Sono le vampate fredde sulla pelle che mi fanno di-ventare matto”. “Io starnutisco in continuazione”. “Io mi sento sepolto nel vecchio cadavere grigio di Mr. Jones. Non voglio vedere nessuno al mondo. Non c’è niente che vorrei eccetto resuscitare Me. Jo-nes”. Il terzo giorno una tazza di tè all’alba calmo miracolo dell’apomorfina. Stavo imparando a vivere senza Jones leggevo i giornali scrivevo lettere in ge-nere non riesco a scrivere una lettera per un mese e invece eccomi li’ a scriverne una il terzo giorno e a desiderare di fare quattro chiacchere con il dottor Dent che non è per niente Jones. L’apomorfina ha guarito il mio sintomo specifico. Sette giorni dopo essere entrato in clinica ho ricevuto la mia ultima

dose di 8,1 mg. Tre giiorni dopo venivo dimesso. Sono tornato a Tangeri dove la droga era disponibi-le a tutte le ore. Non ho dovuto usare la forza di vo-lontà qualsiasi cosa essa fosse. Non ne avevo più voglia e basta. La terapia con l’apomorfina mi aveva dato uno sguardo lungo e calmo su tutti i giorni passati e uno sguardo lungo e calmo su Mr. Jones li’ in piedi nel suo trasandato vestito nero e con il fel-tro grigio aria stantia camere ammobiliate carne freddi occhi sottomarini. Cosi’ l’ho bollito nell’aci-do cloridico. L’unico modo di ripulirlo capite strati su strati di quell’odore di roba grigia in camere am-mobiliate. L’apomorfina si ottiene facendo bollire la morfina con l’acido cloridrico ma ha un’azione fisio-logica molto diversa. La morfina deprime i centri corticali, l’apomorfina stimola i centri sottocorticali e i centri preposti al vomito. 5,4 mg di apomorfina iniettata induce il vomito nel giro di pochi minuti e per anni questa sostanza è stata usata come emetico nei casi di avvelenamento. Quando il dottor Dent comincio’ ad applicare la terapia a base di apomor-fina, quarant’anni fa, i suoi pazienti erano tutti alco-listi. Metteva una bottiglia di whisky accanto al letto e invitava il paziente a bere quanto ne desiderava. Ma a ogni sorso gli faceva un’iniziezione di apo-morfina. Nel giro di pochi giorni il paziente svilup-pava una tale avversione per l’alcol da chiedere che gli portassero via la bottiglia. Dapprima il dottor Dent penso’ che cio’ accadesse a causa di un condi-zionamento avversativo provocato dall’associazione di alcol e apomorfina, sostanza che spesso induce il vomito. Scopri’ invece che alcuni pazienti non pro-vavano nausea quando gli veniva iniettata l’apo-morfina, poiché le reazioni variano considerevol-mente da individuo a individuo. Cio’ nonostante quei pazienti provavano un disgusto analogo per l’alcol e smettevano volontariamente di bere dopo alcuni giorni di trattamento. Concluse che il disgu-

sto provato dai pazienti per l’alcol dipendeva dal fatto che non ne avessero più bisogno e che l’apo-morfina agisce sui centri sottocorticali regolando il metabolismo in modo che il corpo non abbia più bisogno del sedativo a cui si è abituato. Da allora sottolineo’ il fatto che l’apomorfina non è una tera-pia avversativa. L’apomorfina è un regolatore del me-tabolismo ed è l’unica sostanza conosciuta che agi-sca in questo modo normalizzando le disfunzioni metaboliche. La terapia con i relativi dosaggi è det-tagliatamente descritta nel libro di Dent Anxiety And Its Treatment pubblicato a Londra da Sheffing-ton. Chiunque intenda somministrare l’apomorfina dovrebbe consultarlo. Per l’efficacia del trattamento è necessaria una somministrazione in dosi e tempi adeguati. Se l’apomorfina viene iniettata il dosaggio è di 3, 24 mg ogni due ore, giorno e notte per i primi quattro giorni. In alcuni pazienti, più sensibili di altri, questo dosaggio puo’ provocare nausea acces-siva. Poiché la sostanza agisce sulla regolazione del metabolismo e non per un condizionamento avver-sativo, quando possibile è preferibile evitare nausea e vomito. Se assunta per via sublinguale puo’ essere somministrata fino a 6,48 mg ogni ora. In questo modo diventa facile contenere la nausea o eliminar-la del tutto e la terapia puo’ essere conclusa con suc-cesso senza alcun fenomeno di vomito. Perchè il trattamento abbia successo, la concentrazione di apo-morfina nel sistema deve raggiungere un certo livello. In America ho conosciuto medici che somministra-vano due iniezioni di apomorfina al giorno. Inutile. E’ importante ricordare che tutte le sostanze oppia-cee e sedative annullano l’azione dell’apomorfina. Percio’, in caso di somministrazione di oppiacei, necessaria soltanto nei casi di gravi forme di dipen-denza, è indispensabile continuare la somministra-zione di apomorfina per almeno ventiquattro ore dopo l’ultima dose di oppiacei. Quanto a sedativi, tranquillanti e sonniferi, essi non devono essere as-solutamente somministrati. E’ vero che sottoporrre alla terapia cinquantamila tossicomani sarebbe co-stoso, ma il governo sta già spendendo milioni di dollari in programmi di cura e controllo che non funzionano. Se il programma vverrà illustrato in maniera adeguata molti tossicomani vi si sottopor-ranno volontariamente. Chi si sottopene volonta-riamente ha maggiori possibilità di successo e an-drà cosi’ a infoltire le file di chi potrà testimoniare del successo della terapia. Se al tossicodipendente si spiega che riceverà la droga, in caso di necessità, sarà molto più disponibile a sottoporsi al trattamen-to. La tintura d’oppio o una sostanza coma la dio-codeina per via orale sono da preferire alle iniezio-ni. L’assunzine sublinguale di apomorfina ridurrebbe il fabbisogno personale e diminuirebbe gli episodi di nausea. Se si ascolta la musica in cuffia si prova un notevole sollievo durante la sindrome di astinenza e pertanto si dovrebbe poterla ascoltare.La terapia dura da cinque a dieci giorni in base al livello di dipendenza. Devono seguire venti giorni

di riposo in ospedale. Alla fine del mese bisogna di-mettere il paziente dopo avergli prescritto la som-ministrazione di apomorfina per via orale in caso di ricaduta. L’apomorfina non dà alcuna forma di as-suefazione e non è mai stato riportato nessun caso di dipendenza. E’ un regolatore del metabolismo, non un sedativo. Una volta conclusa l’opera di rego-lamentazione metabolica se ne interrompe l’assun-zione. L’apomorfina non provoca lo “sballo”, e nes-suno ne ricava piacere. Come un bravo poliziotto, svolge il suo lavoro e se ne va. Il fatto che non sia una droga sostitutiva che procura dipendenza è di fondamentale importanza. In tutte le terapie basate sulla riduzione della dose, il tossicomane sa che gli vengono somministrati narcotici e teme il momen-to in cui gli verranno negati. Nella terapia con l’apo-morfina il tossicomane sa di stare meglio senza morfina. Trovo che qualsiasi forma di cosiddetta psicoterapia sia fortemente controindicata. I tossi-codipendenti non dovrebbero mai fare la domanda: “Perchè hai cominciato a fare uso di narcotici?”. Ai fini della terapia è irrilevante esattamente come lo sarebbe, ai fini della guarigione dalla malaria, do-mandare al paziente perchè si sia recato in una zona malarica. L’apomorfina si è rivelata utile nel tratta-mento di altre forme di dipendenza e intossicazione cronica: da barbiturici, cloralio, anfetamine. Negli Stati Uniti ci sono migliaia di persone assuefatte ai barbiturici e il trattamento per questa forma di di-pendenza è ancora più lungo e difficile di quello per l’eroina. Le crisi da astinenza da barbiturici devono essere affrontate lentamente e sotto costante super-visione. Altrimenti il tossicomane è soggetto ad at-tacchi convulsivi che possono danneggiarlo in modo grave. I consumatori di barbiturici trattati con l’apomorfina possono smettere di assumere barbiturici immediatamente senza convulsioni o altri sintomi seri. In genere soffrono di una grave forma di insonnia durante la crisi da astinenza e possono passare settimane prima che il ciclo del sonno si normalizzi. Trattati con l’apomorfina dor-mono subito regolarmente. I consumatori di anfeta-mine invece cadono in un sonno cosi’ profondo, quando smettono di assumere la droga, che non li si riesce nemmeno a svegliare per nutrirli. Trattati con l’apomorfina dormono in un modo regolare e sve-gliarli diventa facile. Cio’ ci riporta ancora una volta all’unicità dell’apomorfina, il cui valore consiste nell’essere un normalizzatore del metabolismo, uti-lizzabile percio’ in casi diversi da quelli della tossi-codipendenza. Lo svizzero dottor Feldman ha os-servato che in casi di eccesso di colesterolo nel sangue l’apommorfina ha eliminato il problema. Il dottor Xavier Coore di Parigi mi ha raccontato re-centemente di trovare l’apomorfina di estrema utili-tà in molti casi. La prescrive per l’ansia, l’afflizione, il nervosismo, l’insonnia, in sostanza per tutte le condizioni in genere trattate con tranquillanti e bar-biturici. E’ certo una sostanza molto più sicura poi-ché non crea dipendenza. Se assumete apomorfina per un grave problema emotivo sarete in grado di affrontare il problema, invece di evitarlo. L’apomor-fina ha normalizzato il vostro metabolismo, sempre messo a dura prova da ogni turba emotiva, e a que-sto punto potete affrontare il problema con calma e lucidità. L’apomorfina è una sostanza antiansia. L’ho visto accadere ad altre persone e con una dose di apomorfina ho sperimentato personalmente uno straordinario sollievo dall’ansia causata dalla me-scalina, mentre i tranquillanti si erano rivelati inef-ficaci. Un gran numero di tossicomani si è sottopo-sto, dietro mio consiglio, alla terapia con l’apomorfina. Tutti hanno convenuto che è l’unico trattamento efficace nonché il meno doloroso. Tut-tavia la maggior parte dei medici americani ne ignora completamente le possibilità di impiego nel-la cura delle tossicomanie. Il Merx Index la defini-sce “un pericoloso depressivo”. In realtà esistono poche sostanze meno pericolose dell’apomorfina, che è controindicata soltanto nei casi particolari in cui bisogna evitare il vomito. Negli Stati Uniti l’apo-morfina figura nell’elenco dei narcotici e rispetto alla prescrizione e all’impiego è soggetta alle stesse regolamentazioni cui sono soggette la morfina e l’e-roina. In Francia e in Inghilterra non figura nell’e-lenco delle droghe pericolose. E’ necessaria la pre-scrizione medica, e questa è ripetibile. E’ difficile non arrivare allla conclusione che negli Stati Uniti si sia fatto un deliberato tentativo di fuorviare i medi-ci minimizzando i pregi della terapia con l’apomor-fina. Non si è prodotta nessuna variazione della for-mula e la formula non è mai stata sintetizzata. Con la sintesi si potrebbe eliminare l’effetto collaterale del vomito e l’apomorfina sviluppata potrebbe po-tenziare di dieci o anche cinquanta volte la sua azio-ne regolatrice. Queste sostanze potrebbero soppri-mere dal pianeta cio’ che chiamiamo ansia. Poiché i sistemi monopolistici e gerchici sono sostanzial-mente radicati nell’ansia, non c’è da meravigliarsi se la diffusione della terapia con l’apomorfina e la sin-stesi della sua formula siano state messicciamente constrastrate in alcune prevedibili regioni della macchina morbida.

LA GALERA E’ LA MIGLIORE RICETTA

PER I TOSSICODIPENDENTI DICONO I MEDICI